Torino e il Natale: breve storia della festa più attesa dell’anno, tra dolci, affetti e censure

Arriva sempre, il Natale, arriva baldanzoso e ormai in costante anticipo sui nostri piani.

Sono passata dal centro in questi giorni, frettolosa come la folla torinese riversa per le vie, mi sono lasciata trasportare dalla corrente degli acquisti, dentro e fuori i negozi, ingurgitata dalla fiumana sorridente e sregolata. In via Roma c’era un chiosco di caldarroste, il profumo inebriava il vociare festoso, ho sorriso guardando l’uomo che quasi scompariva sotto la giacca voluminosa, ho desiderato una piccola e calda tregua da sbucciare, ma non si può arrestare il passo nella ressa, chi si ferma è perduto.

Il Natale è arrivato anche per i torinesi, per chi era già preparato e per chi invece è già in ritardo, il Natale è giunto per chi lo aspettava dall’anno scorso e per chi invece non vede l’ora che finisca.
Dopo aver annaspato nella corrente delle compere, armata di pacchetti e pacchettini, finalmente sono riuscita a rifugiarmi al Torino, ho ordinato un caffè con panna e ho osservato i miei vicini sconosciuti. L’interno elegante dello storico bar cittadino risplende delle decorazioni natalizie, palline rubiconde e brillantate si inerpicano sul mancorrente della scala interna, complici le ghirlande che si allungano come edere sinuose. Scambio un rapido sorriso con i tavolini a fianco, non ci conosciamo ma condividiamo questo prezioso momento dell’anno, un caloroso sospiro di pausa dalla quotidianità e per un attimo gli ostacoli ci paiono superabili. Mentre affondo il cucchiaino nella panna mi accorgo che ormai fuori è sera, le luminarie natalizie si accendono all’improvviso, e l’aria si tinge di colori al neon. Il Natale è arrivato anche a Torino. Le installazioni artistiche fanno ormai parte del paesaggio, le vetrine sono incorniciate da decorazioni sfavillanti, esse riluccicano negli occhi delle fanciulle e incupiscono gli sventurati accompagnatori, che temono di dover entrare nell’ennesimo negozio.
In piazza Vittorio troneggia l’appuntito albero della discordia, l’abete “i-tec” non sconfinfera l’intera cittadinanza, ma comunque fa festa e tutti, per un motivo o per un altro, lo utilizziamo come sfondo per il “selfie” di quest’anno. Anche stavolta la nostra bella città non si fa cogliere impreparata, e invita i suoi torinesi a partecipare a feste ed eventi, consiglia spettacoli, film e mostre, propone attività da svolgere insieme o in solitaria, affinché il periodo di vacanza non deluda nessuno. Il mio caffè è ormai finito, la panna sul fondo della tazzina mi impedisce di giocare a fare l’indovina. È ormai tempo di andare, cari concittadini, bisogna tornare a casa, prima che arrivino i nostri cari, e nascondere i regali appena acquistati negli armadi, per poi posizionarli sotto l’albero a tempo debito.
Mi rituffo nella bolgia in festa e penso:

Arriva sempre, per fortuna, il Natale. Arriva, e noi lo dobbiamo solo accogliere. C’è chi faceva il conto alla rovescia già da Ferragosto. I “social” pullulano di vignette e immagini inneggianti l’imminente festa che si passa “con i tuoi”. Eccolo dunque il giorno tanto atteso dai bambini, ma anche dai più grandi, quel giorno che la Coca-Cola ha tinto di rosso araldico e che assicura abbuffate spropositate in compagnia di amici e familiari. C’è chi lo ama particolarmente questo Natale e chi – come me – fa più la parte del Grinch e bofonchia e guarda di sottecchi chi invece eccede nell’ilarità. In ogni caso nessuno può esimersi dal lieto evento: tra il 24 e il 25 dicembre le case si faranno più calde per l’affetto dei parenti e le luci rimarranno accese a lungo, il buio della notte sarà giusto sufficiente per fa sì che Babbo Natale distribuisca i regali a tutti i bimbi buoni. Eppure abbiamo rischiato, cari lettori, che questa celebrazione venisse se non censurata, quanto meno livellata verso un grado basso d’importanza e svuotata della sua componente essenziale: l’augurio del “Buon Natale”. Ribadisco, mi sento il Grinch in questo periodo dell’anno, le persone che mi stanno accanto lo possono confermare, tuttavia anche se preferisco altre festività, ho trovato doveroso schierarmi dalla parte del termine “Natale”, perché si sa, le parole non sono mai “solo” parole. Esse nascondono significati e principi, esplicano i dettami morali che rendono l’uomo “cosa bella”, parafrasando Menandro. E se fatico ad abituarmi al tran-tran familiare del 24 e del 25 dicembre, non posso accettare che i miei giovani studenti crescano in una società che impedisca loro di conoscere a fondo le proprie tradizioni, che non li educhi al confronto e alla condivisione e che, al contrario, subdolamente li inganni, in nome di una omologazione priva di diritti e identità.
Per fortuna il provvedimento a cui mi riferisco non è stato approvato, ma il solo fatto che se ne sia parlato seriamente mi rende guardinga.
Ecco, cari lettori, perché mi soffermo su questo argomento, per difendere il Natale, per farne comprendere la bellezza e la complessità e, soprattutto, per sottolineare che se censuriamo quella che è la celebrazione degli affetti per eccellenza, allora come possiamo pretendere di educare i più giovani ad essere dei buoni cittadini?
“Quando comunichiamo possiamo inconsciamente finire per ricadere nell’uso di forme note di linguaggio che ritraggono chiunque si discosti da uno standard privilegiato come fosse in svantaggio o qualcosa di “altro””. Questo si legge nel documento a uso interno “Linee guida della Commissione europea per la comunicazione inclusiva”; parole più che giuste e condivisibili, fino a quando il principio non diventa ossessione e l’inclusione non trasmuta in censura.

Credo sia arrivato il momento di smettere di seguire il flusso consumistico e incessante di questo sistema che non ci lascia il tempo di pensare, credo sia il caso di fermarci e osservare la piega che il mondo sta prendendo, credo che quest’anno sarebbe cosa “buona e giusta” chiedere a Babbo Natale di distribuire un po’ di buon senso.
All’interno della suddetta indicazione vi sono diversi esempi di atteggiamenti “politicamente corretti” da adottare per non ferire la sensibilità di questi famigerati “altri”. Si legge, ad esempio, di non utilizzare il termine “colonizzazione”, poiché impregnato di “connotazioni negative”, oppure si sconsiglia di chiamare i nascituri con nomi riconducibili ad una religione specifica, come “Maria” o “Giovanni”.Da tali suggerimenti possiamo evincere allarmanti soluzioni: anziché perdere tempo a spiegare e contestualizzare il fenomeno del Colonialismo, presto cancelleremo tale capitolo dai libri di storia, perché ormai il nostro editore è il Signor Buonismo; allo stesso modo chiameremo i nostri pargoli “Sharon”, “Chantal”, “Bryan” e “Kevin”, così li salveremo dall’oscurantismo religioso, sacrificandoli alla Grande Madre Patria della Cultura Filoamericana. Sempre in tale guida si legge che sarebbe non opportuno utilizzare espressioni come “Buon Natale”, poiché i “non cristiani” potrebbero risentirsene, e dunque si invitano i gentili lettori a emulare l’atteggiamento anglosassone del “season’s greetings”, ossia portare “auguri di stagione”. Questo ultimo appunto seguirebbe la disposizione degli atti ufficiali europei che considera a tutti gli effetti la parola “Natale” sconveniente. La pochezza intellettuale di tali provvedimenti si commenta da sola e non tiene conto delle origini di tale celebrazione relegata alla cristianità, le quali affondano nel paganesimo più ancestrale e negli usi e costumi dell’Antica Roma, punto di riferimento indiscutibile per la nostra civiltà occidentale. Tutta questa smodata attenzione alla sensibilità altrui mi fa venire in mente quando il Concilio di Trento, nel 1564, giudicò “scandalosi” i nudi di Michelangelo nella Cappella Sistina, condannando poi di riflesso il povero Daniele da Volterra a passare alla storia come “il Braghettone”. Esempio eccessivamente datato? Eccone un altro: 2016, a seguito della visita presso la Capitale italiana del presidente iraniano Hassan Rouhani, diversi nudi romani all’interno dei musei Capitolini (Roma) vengono nascosti dietro nivee scatole di cartone. Non voglio proporvi – per il momento- una rabbiosa storia della censura della cultura, rischierei di scivolare nell’utilizzo di espressioni non adeguate al periodo: dopo tutto è Natale, dobbiamo sforzarci di essere più buoni. E superiori a certe scempiaggini.

Quello che mi piacerebbe fare è, se me lo permettete, raccontarvi qualcosa di più riguardo a questa festività dibattuta e bistrattata, tanto antica quanto complessa, le cui simbologie si sovrappongono nel tempo, eppure sopravvivono, nella meravigliosa banalità dei gesti che tutt’oggi ancora compiamo, in questo preciso momento dell’anno.Non vi è una tradizione autorevole circa la data dell’istituzione del Natale, anche se si ritiene che le origini della festa vadano ricercate nell’antica Roma, quando, a partire dal III secolo, si celebrava, proprio il 25 dicembre, il natale del “Sole invitto”. In un secondo momento, i cristiani sovrappongono al culto pagano la nascita del “vero sole”, Cristo. In meno di un secolo, tale tradizione si diffonde in tutta la cristianità ed è adottata anche nelle Chiese Orientali. Al Natale è collegato il ciclo dell’anno liturgico, comprendente il periodo di preparazione, l’Avvento, il tempo effettivo del Natale – dal 24 dicembre al 5 gennaio – e, infine, l’Epifania, che va dal 6 al 13 gennaio. La festa di Natale si prolunga, secondo il rito cristiano, per otto giorni, quest’ultimo – il 1 gennaio – prende il nome di “Festum sanctae Dei Genetricis Mariae in octava Domini”. A livello popolare sopravvivono usanze e simbologie assai antiche, precedenti e annesse alle celebrazioni romane, legate al culto del solstizio d’inverno, quali il ceppo, l’accensione di fuochi e falò, l’addobbare un albero, generalmente un abete – il famigerato Albero di Natale – lo scambio di auguri e regali, soprattutto rivolti ai più piccoli e la costruzione del presepe, usanza tipica dell’Europa centro-settentrionale.
Va da sé, l’importantissimo compito di rendere felici i bambini è affidato a Sanctus Nicolaus, che parte da Bari e arriva in tutto il Mondo, disseminando gioia e risate bonarie. L’azione del donare affonda le radici nella celebrazione romana dei Saturnalia, ma si rifà anche all’episodio dei Magi, che portarono come presente a Gesù oro, incenso e mirra; non di meno il dogma cristiano stabilisce nel dare e nel ricevere doni il principio strutturale di quel preciso avvenimento, la nascita di Cristo, ricorrente ma unico: i Magi e il genere umano ricevono il dono di Dio mediante la rinnovata partecipazione dell’uomo alla vita divina.
Una vera e propria documentazione riguardo al Natale non c’è, ma quel che è certo è la natura magica di tale periodo. Le feste di Natale durano 13 giorni, decorso che deriva dall’intervallo che si crea affiancando i metodi di misurazione del tempo utilizzati dagli antichi: i cicli lunari e quelli solari. Tali calendarizzazioni hanno diversa durata e differiscono proprio di circa 13 giorni. Si crea così un tempo magico, in cui il mondo dei vivi e quello dei defunti si toccano. Tale momento si collega al 21 dicembre, il giorno più breve dell’anno, individuato dagli antichi come Solstizio d’Inverno.

In un periodo evolutivo in cui il genere umano è accomunato da una visione mistica e ritualistica del mondo, non stupisce che quasi tutti i popoli festeggiassero il solstizio con cerimonie il cui elemento centrale era il fuoco. Un fuoco che divampa nella notte più lunga dell’anno, illuminado gli alberi spogli e la terra arida, fiamme che sconfiggono la paura delle tenebre.
Roghi propiziatori che diventano luce, luce che diventa l’ancestrale simbologia della rinascita, la transizione tra il buio e la morte del vecchio anno e l’inizio della nuova stagione, segnato dall’incessante allungarsi dei giorni, fino al culminare nel Solstizio d’Estate (21 giugno).
Oggi, il “ritorno alla luce” non è più costituito dall’ardere di grossi ceppi, ma dall’accensione delle luminarie per le vie delle città, nonché dalle piccole e numerose lampadine che contribuiscono ad abbellire il nostro albero di Natale, elemento tradizionale derivante dal culto degli alberi, tipico dei popoli del Nord Europa, mescolatosi con i rituali dei falò e dei grossi ceppi.
Tali usanze vanno a confluire, con il passare del tempo, nelle feste pagane che i romani celebrano in onore di Saturno, i “Saturnalia”. Durante il periodo imperiale tali festività si svolgono tra il 17 e il 23 dicembre, sette giorni in cui si interrompono i lavori nei campi e persino schiavi e contadini possono godere di un periodo di riposo dalle fatiche quotidiane. I nobili invece si cimentano in banchetti pantagruelici, occasioni per far visita a parenti e amici e per scambiarsi l’augurio “ Saturnalia”, accompagnato da regali simbolici detti “strenne”.
Non è il rigore e la compostezza che caratterizza questi convivi, come dimostra l’iniziativa di Gaio Fannio Strabone, il quale nel 161 a.C. propone la “Lex Fannia”, con cui è fissato un limite di spesa (100 assi) per allestire tali banchetti.

 

Seppur per un breve periodo, durante i festeggiamenti l’ordine sociale viene sovvertito, costituendo una sorta di “mondo alla rovescia”; è eletto un “princeps”, inizialmente una figura caricaturale della classe nobile, su cui poi prevale la connotazione religiosa. Ed ecco che tale individuo, che indossa una maschera buffa e un vestito rosso, è la personificazione di Saturno, divinità infera, preposta alla custodia delle anime dei defunti ma anche protettore delle campagne e dei raccolti. I romani credono che in tale periodo le divinità del sottosuolo vaghino per la terra arida e secca, era quindi necessario offrire loro doni e organizzare festeggiamenti per indurli a ritornare nell’Aldilà e favorire la ricomparsa della stagione estiva.
È sempre in epoca romana che il 25 dicembre inizia a delinearsi come giorno peculiare, ma vediamo come mai e perché.
È il caso di dirlo, “diamo a Cesare quel che è di Cesare”. È proprio il celebre stratega Giulio Cesare che, non pago di aver “tratto il dado”, di aver oltrepassato il Rubicone e dato il via alla seconda guerra civile, decide, nel I secolo a.C. di riformare il calendario. Il compito viene affidato, grazie al suggerimento della bellissima Cleopatra, a Sosigene di Alessandria, celebre astronomo egizio. Viene così stabilito il “calendario giuliano” secondo il quale il solstizio d’inverno, detto “bruma”, cade proprio il 25 dicembre, giornata dedicata alla festa del “Natalis Solis Invicti”, celebrazione associata alla rinascita di Apollo, dio del sole.Il tempo passa e Roma in duecento anni diventa un Impero. L’Oriente entra in contatto con l’Occidente, nuove tradizioni e religioni si mescolano con quelle originali, e tra gli dei che riscuotono larga eco vi è Mitra, particolare divinità solare, la cui celebrazione avviene il 25 dicembre.
Il mitraismo è un’antica religione ellenistica, basata sulla venerazione di Mithras, di derivazione persiana e zoroastriana. Piace ai romani la concezione misteriosofica del culto, basata sull’idea dell’esistenza dell’anima e sulla sua possibilità di pervenire attraverso le sfere planetarie all’“aeternitas”. La commemorazione del dio Mitra si sovrappone e si mescola alle festività precedenti, portando sorvolabili differenze a livello di organizzazione di culto ma non modifica la simbologia alla base dell’avvenimento, che rimane legata alla rinascita del Sole nel giorno più breve dell’anno. Successivamente assistiamo alla diffusione del Cristianesimo. Come sappiamo, le vecchie abitudini sono dure a cancellarsi, così i Cristiani utilizzano il saggio stratagemma di sovrapporre le proprie usanze a quelle antecedenti: ed ecco che da una parte, là dove vi erano i templi eretti in onore delle divinità ora sorgono grandiose chiese dedicate al Dio Unico, dall’altra vengono sanciti legami indissolubili tra antico e odierno, tra pagano e cristiano, costituendo una matassa di tradizioni e vicende indistricabili.

Non c’è da stupirsi che il piccolo Gesù, la luce che porta alla verità e scaccia l’ignoranza del politeismo, nasca proprio in questo giorno, quando la Natura si prepara a fiorire nuovamente e il sole pare “ri-nascere”. Le Sacre Scritture, tuttavia, non forniscono indicazioni troppo precise a proposito della nascita del Redentore, nonostante ciò, durante il pontificato di Giulio I, viene stabilito che la nascita di Cristo avviene proprio il 25 dicembre; Papa Leone Magno, un secolo dopo, riconferma tale ricorrenza; nel 529 Giustiniano dichiara ufficialmente tale giornata festività dell’Impero.
Anche da un punto di vista artistico tale informazione viene presa per buona, come dimostra il primo presepe, risalente al 1223 e inscenante la prodigiosa nascita: la rappresentazione è ambientata nella notte di Natale, all’interno di una grotta, precisamente presso il Santuario di Greggio (nel Lazio). Ad oggi tale ricorrenza è accettata dalle Chiese Occidentali e dalla maggior parte delle Chiese Ortodosse. Ed eccoci arrivati al termine di questa breve storia del Natale. Una festa antica, ancestrale, potente, volta alla celebrazione della Luce, della Rinascita, segnata dalla convivialità e dallo scambio di doni, da sempre occasione di condivisione e vicinanza per tutti gli uomini. Dite, cari burocrati, cosa c’è di non inclusivo in tale ricorrenza? E chi potrebbe offendere, di preciso, questa giornata, durante la quale si sta vicini ad amici e parenti e si aspetta insieme il risveglio della natura? Festività e tradizioni non sono solo frammenti di carta evidenziata sul calendario, ma occasioni per meditare sui significati, spesso dimenticati, che motivano tali ricorrenze. Ancora una volta, è attraverso lo studio e la conoscenza che si ottengono il rispetto e l’accettazione degli individui e delle diverse culture che contraddistinguono i popoli.
Come possiamo pretendere di convivere fianco a fianco senza accettare reciprocamente le diversità che ci rendono unici?
Così ha commentato il cardinale Pietro Parolin la scampata censura del Natale: “la tendenza purtroppo è quella di omologare tutto, non sapendo rispettare le giuste differenze, alla fine si rischia di distruggere la persona”. Ma vi ho ho già rubato troppo tempo, gentili lettori, è ora che vi lasci andare a festeggiare con i vostri cari. Buon Natale, dunque e che “Dio ci benedica tutti quanti!” (Dickens, “Christmas Carol”).

Alessia Cagnotto

 

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