L’arte di Giovanni Fattori, un percorso lungo quarant’anni tra i campi di battaglia e i paesaggi della sua Maremma

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Sino al 20 marzo prossimo, nelle sale della GAM

Due autoritratti, l’uno, del 1854, conservato a Pitti, quello di un ragazzo non ancora trentenne che approda alla maturità artistica, grande massa di capelli corvini, elegante giubba marrone, pennelli e tavolozza nella mano, soprattutto gli occhi scuri e imperiosi che trafiggono chi guarda; l’altro, quarant’anni dopo, proprietà dell’Istituto Matteucci di Viareggio, la tela sul cavalletto, altri lavori alle spalle, la grande e disordinata giubba chiara e il berretto scuro in testa, i grandi baffoni bianchi e lo sguardo tranquillo e disincantato di vecchio signore che ha attraversato una vita. Tra le due tele, oltre una sessantina di opere nella mostra “Fattori. Capolavori e aperture sul ‘900” (sino al 20 marzo prossimo, forse una delle più belle esposizioni viste in città negli ultimi anni, assolutamente da non perdere) con cui la GAM torna a dare il benvenuto ad un pubblico numeroso, non più rarefatto, seppur co

n ogni cautela, dai timori della pandemia.

“Una mostra raffinata e intensa”, l’ha definita il direttore Riccardo Passoni, altresì “ambiziosa”, dovuta all’organizzazione della GAM Torino – Fondazione Torino Musei e di 24 Ore Cultura – Gruppo 24 Ore in collaborazione con l’Istituto Matteucci e il Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno e alla ricerca attenta e mai facile, quasi ardimentosa, delle due curatrici, Virginia Bertone, Conservatore Capo della GAM, e Silvestra Bietoletti, Storica dell’arte e specialista di pittura toscana dell’Ottocento (affiancate da un Comitato scientifico composto da Cristina Acidini, Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca), la ricerca di opere preziose che non appartengono soltanto a Musei ma pure al collezionismo privato giustamente geloso dei propri tesori. E una ricerca che ha voluto abbracciare, a completare l’arco espositivo, alcune opere emblematiche di allievi di Fattori e di artisti influenzati dalla sua pittura – una pittura per cui si sono spesi i nomi antichi di Giotto e di Masaccio, di Paolo Uccello e di Piero della Francesca -, da Plinio Nomellini a Oscar Ghiglia, da Modigliani (“Ragazza rossa”) a Carlo Carrà con i suoi capanni deposti sulla riva del mare, del 1927, a Giorgio Morandi con il suo “Paesaggio”, datato 1942.

Un percorso ospitato per la prima volta, nei suoi 158 anni di storia, nelle sale della Galleria torinese, entro nove tappe, con tele di grandi proporzioni come con minuscoli gioielli e una interessante selezione di acqueforti, tutti a raccogliere i temi del maestro ottocentesco, dalle grandi e importanti battaglie risorgimentali ai ritratti, dai soggetti legati alla vita dei campi e al paesaggio rurale, trattati nell’espressione più umanamente sensibile della fatica e della rispettosa solennità: un arco cronologico quarantennale a partire dalla sperimentazione “macchiaiola” e dalle importanti opere degli anni Sessanta e Settanta per giungere alla produzione dell’età matura, dove lo sguardo innovatore dell’artista si spinge verso quei panorami artistici e quelle aperture sul Novecento su cui giustamente il titolo della mostra lascia cadere tutta l’importanza.

Tra gli anni e le opere risorgimentali spicca – con “Garibaldi a Palermo”, del periodo 1860/62 – “Campo italiano alla battaglia di Magenta” del 1862, una sorta di passaggio tra le regole accademiche e la tecnica definita “macchiaiola”, una grande tela di oltre 2 metri per 3,50, con cui l’artista aveva vinto il concorso indetto dal Governo Provvisorio toscano di Bettino Ricasoli (se ne andò con il denaro vinto sui luoghi della battaglia, per confrontarsi sino all’ultimo con gli elementi del “vero”), quattro lavori a ricordare altrettanti momenti salienti della Seconda Campagna (gli altri, Curtatone Palestro e San Martino), tra le truppe franco-piemontesi e quelle austriache, oltre seimila vittime lasciate sul terreno. Le distruzioni, le sofferenze, la guerra e la vittoria viste non nel loro momento di gloria, ma l’obiettivo, mentre ancora i fumi delle ultime cannonate scuotono in lontananza la cittadina lombarda, mentre uomini per cui nulla rimane da fare giacciono sul terreno, posto ad inquadrare nei tanti particolari il ritorno dei soldati feriti, distesi sul carro e affidati alle cure delle suore infermiere. Altri capolavori tra queste opere di carattere militare: “Il muro bianco (In vedetta)”, del 1872, i tre militari posti sotto un sole troppo luminoso a ridosso di quel muro osservato di sghembo, in tutta la loro solitudine, unici elementi a rompere la geometria della perfetta composizione; “Militari e cavalli in pianura”, “Posta militare al campo” (1874) e “La lettera al campo” (1873/75), un’unica presenza umana, il piacevole intervallo della lettura dopo il combattimento, i due cavalli, le tende sullo sfondo. La guerra vista dal basso e opere di rara immediatezza, di descrizione perfetta delle situazioni, dei sentimenti della truppa.

“Quasi una sorta di affettuosa identificazione con la propria indole, che permise fino all’ultimo a Fattori di ricercare maniere innovative per rappresentare la sua idea del ‘vero’”, sottolineano le curatrici. A ribadire lo sguardo di Fattori – era nato a Livorno nel settembre del 1825, gli studi abbandonati con le elementari, un fratello, Rinaldo, più vecchio di quindici anni, che instaurerà con lui un rapporto quasi da padre a figlio, un’innata predisposizione per il disegno, l’Accademia fiorentina e la frequentazione del Caffè Michelangiolo, rifugio e trincea dei Macchiaioli, in compagnia del critico Diego Martelli, l’incancellabile desiderio d’autonomia artistica, la morte a Firenze nell’agosto del 1908 – verso un mondo povero e semplice, lontano da ogni traccia di facili raggiungimenti, il rapporto con la campagna, con la sua amata Maremma, è stretto, intimo. Lo dimostrano, a tratteggiare una nuova poetica e a costruire forti emozioni in chi guarda, le tante presenze degli animali (“Bovi bianchi al carro”, 1868), l’animazione dei panorami e dei mercati, il lavoro degli uomini (il viso scavato dei butteri) e delle donne (“Le macchiaiole” del 1866). Non soltanto sulle tele: ma anche nei disegni preparatori, nelle incisioni-acqueforti cui è dedicata l’ultima sezione, la settima dell’intero percorso espositivo, materiale appartenente agli anni a cavallo del Novecento e tutto raccolto nel Museo di Fattori a Livorno. Visioni quali il Lungarno alle Cascine basterebbero a descrivere la grandezza di un poeta.


Nell’attraversare le sale, ancora il ritratto della moglie Settimia Vannucci o quello della “Signora Martelli a Castiglioncello” (!867/70, il personaggio femminile immerso tra gli alberi di un’estate toscana), “Gotine rosse” del 1882 (un profilo bellissimo, un semplice muro a fare da sfondo, la carnagione rosea), assicurato alla GAM da Vittorio Viale nel 1930 dopo aver fatto parte delle collezioni fiorentine di Giovanni Malesci: un’opera che riafferma degli stretti rapporti di Fattori con il capoluogo piemontese, iniziati nel 1863 allorché il pittore inviò alla Promotrice di Belle Arti torinese “Ambulanza militare”, appuntamento ripetuto sino al 1902, ancora alla Promotrice come alle Esposizioni Nazionali. Un’attenzione e un successo che coinvolsero anche vari estimatori, tra cui Marco Calderini, brillante allievo di Antonio Fontanesi e autorevole animatore della scena culturale cittadina, come i collezionisti privati, quali Riccardo Gualino, che acquistò il “Ritratto della seconda moglie”, conservato a Pitti e oggi presente in mostra.

Elio Rabbione

Nelle immagini:

“Soldati francesi del ’59”, 1859 ca., olio su tavola, 15,5 x 32 cm, Istituto Matteucci, Viareggio;

“In vedetta”, 1872, olio su tela, Fondazione Progetto Marzotto, Trissino;

“Pastura maremmana (Cavalli al pascolo”, 1872 ca., olio su tela, Istituto Matteucci, Viareggio;

“Autoritratto”, 1894, olio su tela, Istituto Matteucci, Viareggio

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