ERNESTO MASINA
L’Orto Fascista
Romanzo
PIETRO MACCHIONE EDITORE
In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.
XLIII
Alle undici meno un quarto uno sbraitante Sturmbannführer entrò nella casa – prigione, accolto dalle due SS che erano di guardia. Le sue urla svegliarono anche gli altri quattro militari che stavano dormendo al piano superiore e che, dopo qualche minuto, giunsero, rivestiti in qualche modo, davanti al loro Comandante. Questi continuava, urlando, ad impartire ordini. La porta della cantina fu spalancata e tutte le sei SS si precipitarono, urlando a loro volta, nello scantinato. I poveri prigionieri furono fatti alzare, spintonati su per le scale e, quindi, fuori dalla porta che dava sulla strada: terrorizzati e certi di essere condotti al luogo ove sarebbero stati fucilati.
Ma la porta si chiuse alle loro spalle senza che nessuna delle SS fosse uscita. Dopo qualche momento di intontimento capirono di essere in strada tremanti, al freddo, affamati, assetati, ma liberi. Quando furono sicuri che le SS non avrebbero sparato su di loro, si diressero verso il centro del paese. I più giovani si misero a correre, urlando, lungo il corso principale. Le prime finestre si aprirono, nelle stanze le luci si accesero e, pian piano, tutto il paese si accorse della loro liberazione.
Solo don Pompeo, che si era avviato con gli altri, ritornò sui suoi passi ed andò a battere, con violenza, al portoncino della casa. Gli aprì lo Sturmbannfürher in persona, con occhi spiritati mentre un filo di bava gli scendeva dalle labbra. Il Parroco, in modo concitato ma comprensibile, spiegò che il Fausto, rimasto nella cantina, doveva essere prelevato e portato in ospedale. Quattro SS scesero e ritornarono trasportandolo a braccia. Stavano per adagiarlo sul piano della strada quando il Parroco si avvicinò alla vettura, con la quale era giunto lo Sturmbannfürher, aprì la portiera posteriore ed indicò il sedile sul quale il ferito, che continuava a lamentarsi ed a piagnucolare, venne disteso. Salì anche don Pompeo e, rivoltosi all’ufficiale tedesco, gli urlò: “Ospedale. Subito!”
L’autista si rivolse al suo Comandante e, avuta tacita approvazione, si mise al volante e partì alla volta del- l’ospedale.
Il Silestrini, il sagrestano, stava facendo all’amore con la moglie, come tutti i sabati sera con la data dispari. Un tacito accordo che andava bene a lei perché non la impegnava troppo di frequente, ma che serviva ad alimentar- le ancora la speranza di conoscere cosa potesse essere un orgasmo – “una cosa meravigliosa” le aveva detto la sua migliore amica con la quale era in confidenza – che non aveva mai raggiunto. Bene per lui che, a 62 anni, desiderava, per piacere e per curiosità questa pratica. La curi sità di verificare le sue capacità sessuali bimensilmente: era per lui come timbrare il cartellino.Incuriosito dalle urla che arrivavano dal Crusal sino a casa sua, interruppe il rapporto. Si rivestì velocemente, raggiunse il luogo da dove provenivano gli schiamazzi e, avuta la buona notizia, si precipitò al campanile della chiesa ove iniziò un vero concerto di campane.
Intanto quasi tutte le case si erano svuotate; uomini, donne e bambini correvano vociando da una parte all’al- tra attorno ai liberati. Nella piazzetta davanti al municipio fu acceso un grande falò. Il Ducoli aprì il bar, offrendo a chi entrava nel locale bicchierini di grappa, versandone abbondantemente anche per sé. Le sedie del bar furono portate intorno al fuoco ed offerte agli ex detenuti.
Persino il Podestà, dopo aver mandato a verificare che non vi fossero in giro tedeschi e militi della Muti, venne a congratularsi per lo scampato pericolo. Qualcuno portò bottiglie e bicchieri, pane e salame che vennero offerti agli affamati. Ristorati, questi cominciarono a raccontare quanto avevano sopportato in quasi 24 ore di prigionia, soffermandosi, con particolari agghiaccianti, su quanto era toccato al Fausto, solo dopo che i genitori del loro collega di sofferenze avevano lasciato i festeggia- menti per correre in ospedale.
Arrivato al nosocomio il Parroco aveva chiamato due infermieri che erano corsi con una barella dove avevano adagiato il povero Fausto portandolo in infermeria. Il giovane medico di turno, che mai aveva visto nulla di così raccapricciante, non sapeva bene cosa fare. Fausto perdeva ancora sangue dalle ferite al viso ed alle gambe e sembra- va privo di conoscenza. Don Pompeo ordinò che venisse immediatamente chiamato il professor Parola, il primario chirurgo dell’ospedale che abitava in una bella villa vicina. Nel frattempo medico e infermieri avevano denudato il corpo del ferito tagliando a pezzi i vestiti che indossava, onde evitare pericolose torsioni a gambe e braccia. Il Fausto aveva, per fortuna solo nella parte anteriore del corpo, lesioni ed ecchimosi che interessavano praticamente tutta la superficie della pelle. Il volto, alla luce delle lampade, apparve a don Pompeo ancora più deva- stato di quanto sembrasse nella penombra dello scanti- nato ove erano stati tenuti. Le ossa e le cartilagini delle ginocchia sembravano distrutte ed i tendini strappati. Il professore, arrivato in pochi minuti, si chinò sul povero corpo e lo esaminò a lungo e con scrupolo. Non mosse gli arti inferiori in attesa di una radiografia, auscultò cuore e polmoni e si assicurò che non vi fossero fratture al cranio. Con aria grave si avvicinò al prete e ai genitori di Fausto e, con quella sua voce calda e col tono rassicurante che per tanti malati valeva più di una medicina, disse: “Intervenire chirurgicamente ora è impossibile. Secondo me il paziente non potrebbe sopportare un’anestesia. Rischiamo di farcelo morire sotto i ferri. Ha perso molto sangue ed è in un gravissimo stato di shock. Procediamo con delle trasfusioni e rimandiamo l’intervento a doma- ni. Cerchiamo di tenerlo sedato. Ce la farà!” Poi, rivolto ai soli genitori continuò: “Vi sconsiglio di vederlo questa sera. Non è un bello spettacolo: con il viso così gonfio e con le ferite che sanguinano sembra molto più grave di quello che in effetti è. Fatevi coraggio e pazientate sino a domani mattina.”
Si iniziò a disinfettare le ferite ed a lavare il sangue coagulato. La pulizia rivelò altre macchie bluastre dove i violenti colpi non erano riusciti a lacerare la pelle. Sem- brava che nessuna parte del corpo fosse stata risparmiata da un’azione di precisa e sistematica violenza. Chi l’ave- va eseguita era sicuramente un allenato professionista.
In paese erano arrivati anche molti abitanti delle frazioni vicine attirati dal suono festante delle campane e dalla luce del falò che illuminava l’oscurità della notte. Qua cuno, che non era a conoscenza dell’arresto dei 18, pensava che fosse finita la guerra ed i tedeschi se ne fosse- ro andati. Altri che fosse scoppiata la rivoluzione e che la popolazione avesse avuto la meglio sui crucchi. Tutti, comunque, furono felici per lo scampato pericolo ed approfittarono dell’assenza dei tedeschi, che erano rimasti chiusi o nell’albergo Fumo o nella casa del Salvetti, intonarono chi “Bandiera Rossa”, chi il “Va’ pensiero”, chi, chissà perché, il “Garibaldi fu ferito”. La gran festa finì solo all’alba con il Ducoli che contava 18 bottiglie di grappa vuote, decine di bottiglie di vino, altrettanto vuote, agli angoli delle strade e almeno cin- quanta ubriachi che dormivano, russando beatamente, appoggiati ai muri delle case.
Alle sette del mattino successivo il prof. Parola entrando in ospedale fu bloccato dalla Cia “Pastera”.
La Cia era una donna di poco più di quarant’anni, magra scheletrica che viveva con due sorelle minori, una delle quali afflitta da un grosso gozzo – cosa abituale in quei tempi e in quelle zone ove l’alimentazione era priva di sufficienti valori nutrizionali – nella vecchia casa di fami- glia. Il soprannome derivava dal fatto che i suoi genitori, dopo una breve parentesi passata da emigranti in America, ove avevano fatto una discreta fortuna, rientra- ti in paese avevano aperto un piccolo laboratorio ove producevano pasta fresca e, soprattutto, dei “casunsei” che erano conosciuti in tutta la valle per la loro bontà. Una specie di ravioli il cui contenuto è fatto da un elaborato miscuglio di erbe alpine e carne di maiale. Veramente si sussurrava che la carne usata per i ripieni fosse quella dei gatti che loro allevavano in grande quantità o che catturavano, con spiccata abilità, tra quelli dei vicini.
Era una donna dal carattere di ferro. Come si diceva allo- ra: una donna con gli attributi. Dopo aver frequentato le prime tre classi elementari era stata mandata dai genito- ri, che non avevano tempo e voglia di occuparsi di lei, presso le suore del paese ove la bambina era stata avvia- ta, con grandi risultati, all’arte del ricamo. A diciotto anni era riuscita, nonostante la giovane età e la totale inesperienza, a lavorare presso un ospedale da campo nelle retrovie del fronte della Grande Guerra.
Rifiutata dai medici per la giovane età li aveva, dopo lunghe insistenze, convinti dicendo che se al fronte andava- no i “ragazzi del 99”, lei, che aveva la stessa età, poteva essere impiegata ad assisterli. Senza preamboli disse al Parola: “So che il Fausto Domeneghini ha riportato delle brutte ferite che potrebbero lasciargli il viso devastato. La prego, signor professore, lasci che sia io a ricucirlo per tentare di salvare il salvabile.” Il professore rimase basito a tale proposta.
Conosceva la Cia per fama sapendo che la moglie le aveva affidato il restauro di vecchi arazzi che, dopo il suo intervento, erano ritornati come nuovi. Sapeva anche della sua esperienza fatta nell’ospedale militare, ma come pensare che la donna potesse entrare, come un normale medico o un infermiere specializzato, in sala operatoria? D’altra par- te, il suo staff di chirurghi era limato all’osso e l’interven- to al viso, per non prolungare troppo l’anestesia al Do- meneghini, avrebbe dovuto essere compiuto mentre lui operava i ginocchi. Si consigliò con i suoi colleghi, chiese l’autorizzazione ai genitori di Fabio e, dopo lunga medita- zione, diede l’autorizzazione all’intervento di Cia. Quando le ferite furono rimarginate e il gonfiore spari- to, il Parola si compiacque con sé stesso per aver accetta- to la collaborazione della donna. Il risultato era inimmaginabile tanto che il Fausto, quando ritornò guarito a casa, fu battezzato “Il merletto”.
XLIV
La giornata successiva fu ricca di avvenimenti significativi. L’operazione alle ginocchia di Fausto, che dopo le nume- rose trasfusioni praticategli aveva dato segni di una notevole ripresa, era stata più semplice del previsto. I lega- menti non erano stati offesi in modo serio. Rimosso un menisco ridotto a pezzettini e ricostruita la parte molle, l’intervento era terminato in modo soddisfacente.
Tutta l’equipe medica aveva avuto agio di seguire il la- voro della Cia. Con una pazienza da certosino e con una perizia incredibile aveva preso con una pinzetta le parti di carne lacerate, le aveva rimesse nella primitiva posizione e quindi le aveva cucite l’una all’altra con microscopica precisione. Mai un tentennamento, mai una necessità di rivedere l’operato. Ma soprattutto mai un momento di nervosismo e di repulsione verso la terribile visione del viso di Fausto.
Don Mandelli era giunto a Breno con il treno delle 8,20. Si era recato direttamente alla casa del Parroco ed aveva trovato don Pompeo che si era alzato da poco, dopo la interminabile nottata, e stava facendo colazione. Il Parroco aveva intenzione di recarsi in ospedale ma l’ar- rivo del Segretario del Vescovo lo bloccò. Incaricò l’Elvira di andare a raccogliere notizie, pregandola di fargliele avere al più presto: “Che siano buone, mi raccomando!”
Versò una tazza di quello che ci si ostinava a chiamare caffè al collega di Brescia e, il più sbrigativamente possibile, gli raccontò quanto era avvenuto la sera precedente. Non accennò al suo intervento né a quanto aveva raccontato ai tedeschi: lo avrebbe fatto direttamente al Vescovo. Intanto don Arlocchi aveva organizzato tutto perché la messa delle 10 fosse solenne, con la presenza del coro e delle associazioni cattoliche. Don Pompeo offrì al Mandelli di celebrarla quale rappresentante del Vescovo, ma il sacerdote rifiutò dicendosi comunque felice se avesse potuto concelebrarla. La chiesa era stracolma. In prima fila i 17 prigionieri con le loro famiglie e, circondati affettuosamente da tutti, i genitori del Fausto finalmente sorridenti dopo le buone notizie che il Parola aveva loro comunicato personalmente. Giunti all’omelia, don Pompeo salì sul pulpito e guardò il suo gregge, visibilmente commosso.
“Il nostro primo atto doveroso” iniziò, “è di rivolgere a Dio una preghiera di ringraziamento. Diciotto di noi erano in pericolo di vita e lui li ha salvati. Diciotto innocenti che non avevano commesso alcun atto riprovevole stavano per essere puniti duramente. Dio, che sempre dall’alto sorveglia il suo popolo non lo ha permesso. Sia gloria a Dio! Lui ha guidato la mente di qualcuno che, indegnamente, ha portato la sua parola a chi aveva in mano la sorte dei nostri compaesani e li ha fatti ragiona- re. Solo il nostro caro Fausto ha conosciuto la durezza degli aguzzini. Preghiamo perché possa rimettersi al più presto. Ai suoi genitori, che sono un poco più sereni dopo le buone notizie che giungono dall’ospedale, l’ab- braccio di tutta la comunità ed il mio personale. Voglio pubblicamente ringraziare il nostro caro coadiutore don Arlocchi che, con presenza di spirito e con la grande fede che è in lui, ha immediatamente reagito al mio arresto compiendo l’atto che doveva essere compiuto. Informare immediatamente il nostro amato Vescovo che oggi ha voluto partecipare alla nostra gioia inviandoci il suo Segretario particolare. Ed a lui, perché lo porti a sua Eminenza, il nostro grazie. Grazie don Mandelli!
Abbiamo un grande Vescovo. Un uomo che non ha esitato a mettersi in gioco, con grande coraggio e abnega- zione, per salvare le sue pecorelle. Il coraggio di affronta- re il Comando tedesco esigendo grazia per chi era stato derubato della propria libertà e della propria dignità di uomo. Fra pochi giorni festeggeremo Santa Lucia. Preghiamola perché possa aprire gli occhi a tutti i governanti del mondo, affinché cessino le guerre, le lotte tra un popolo e l’altro, tra un gruppo di uomini e un altro che magari parlano la stessa lingua.
Ed ora lasciatemi ringraziare personalmente Dio. In que- ste ultime terribili ore mi sono accorto di non essere sta- to un buon pastore per voi. Ho trascurato di lenire le vostre sofferenze, le vostre solitudini. Di ascoltare, come dovrebbe fare un padre, le vostre parole, le vostre richie- ste. Rispondere ai vostri dubbi con l’esempio che, sempre, un buon pastore dovrebbe dare. Non ne ero capace. Non ne avevo la forza. Ve ne chiedo perdono. Ma vi assi- curo che quanto ho vissuto mi ha rafforzato. Nonostante quello a cui sono stato costretto ad assistere ho riscoperto, al di là del male, l’umanità degli uomini, la gioia del perdono che è l’unica strada che ci può condurre a Dio. Vi prego di aiutarmi e di sorreggermi nel cammino che sto per intraprendere. Avrò bisogno del vostro aiuto e della vostra comprensione perché anch’io sono solo un pover’uomo. Sia lodato Gesù Cristo”.Vi fu un lungo minuto di silenzio. Poi, forse per la prima volta in una chiesa, scoppiò un lungo e caloroso applauso.
XLV
L o Sturmbannführer, più imbestialito che mai, era partito, insieme al suo autista, per Brescia. Le sei SS, che
si era portato a Breno, vennero sistemate su uno di quei carrelli usati per le verifiche delle rotaie. Agganciato a un treno merci, che portava materiale delle ferriere Tassara, il carrello con il suo carico erano partiti per Brescia. Giunto nei pressi di Costa Volpino il capotreno, che si era segretamente accordato con un gruppo di partigiani, fermò il convoglio simulando un guasto.
Presi alla sprovvista, i militi vennero disarmati dai parti- giani che li avevano accerchiati. Sei mitra, sei machine- pistole, due mitragliatrici leggere ed una valanga di proiettili cambiarono proprietario. Fu identificata la SS che aveva torturato Fausto e che aveva ancora nella tasca dei pantaloni il tirapugni sporco del suo sangue, che l’uomo conservava quasi come un trofeo. Fu fatto spogliare rimanendo in mutande e maglietta. Gli fu legata una corda in vita e l’altro capo agganciato al carrello. Il treno fu rifatto partire ad andatura lenta e l’SS fu costretta a correre, a piedi scalzi, sulle appuntite pietre della massicciata. Quando i piedi diventarono delle masse informi e sanguinolente e l’uomo stava per svenire, il treno si fermò, permettendo ai suoi compagni di riprenderlo a bordo. Lo Sturmbannführer, giunto a Brescia, si recò direttamente al suo comando ove gli fu comunicata la revoca di tutti gli incarichi che gli erano stati affidati e l’ordine di prepararsi a partire per la sua nuova destinazione: il fronte nord-occidentale.“Uomini indegni come Lei” furono le ultime parole che udì dal suo superiore diretto, “sono il grande problema per l’invincibile Armata tedesca! Spero che al fronte si potrà riscattare con una morte onorevole”. Il superiore non fu buon profeta. Un’ora dopo lo Sturmbannführer fu trovato nella sua stanza impiccato.
XLVI
Fausto si svegliò dall’anestesia nel tardo pomeriggio. Aveva una forte nausea e si sentiva a pezzi. Le facce sorridenti dei suoi genitori e di don Pompeo gli portarono un po’ di sollievo. Con la bocca ancora impastata e con la pelle del viso che gli tirava tutta, farfugliò un “Salve” chiedendo poi cosa gli fosse capitato. Evidentemente, e per fortuna, lo shock gli aveva cancellato, almeno momentaneamente, i ricordi. Don Pompeo fu poco preciso per non disturbare il feri- to. Gli parlò dell’arresto, di qualche pugno che gli era stato somministrato e, soprattutto, della liberazione e dello smacco che i tedeschi avevano subito. Gli racco- mandò di stare calmo e di riposare. “Ci sarà tutto il tempo per raccontarci nei particolari quello che è successo” disse – e qualcuno dovrà anche parlarti della tua faccia – pensò.
(continua…)
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