“L’orto fascista” Romanzo / 6

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XVIII

Pensò a lungo come affrontare quella che poteva considerare, visto quello che era accaduto, la… “donna dei suoi sogni”. Davanti allo specchio dell’anta dell’armadio in camera, e in assenza di Bernd, mimò una serie di approcci. Ma tutti gli sembrarono puerili e ridicoli. In fin dei conti lui era un uomo d’armi e da duro doveva comportarsi. L’avrebbe affrontata proponendole un incontro nella sua camera e che andasse come andasse. Presa questa decisione uscì baldanzosamente dalla stanza andando quasi a scontrarsi con Benedetta che nella stanza stava per entra- re. Provvidenza divina! Ancora caricato dalla decisione presa, le disse sussurrando, ma con fermezza: “Vuoi fare, come dite, sesso con io?” Lei, tutta rossa, lo guardò meravigliata negli occhi: “Sì” sussurrò, pentendosi subito per l’eccessiva disponibilità dimostrata, lusingata dalla richiesta dell’uomo. “Quando?” disse lui. “Forse domani sera?” chiese lei, appagata dal fatto che le fosse stata data la possibilità di scegliere. “Molto bene” disse lui. “Ore 21 e metà, se per te bene”. Senza attendere risposta Franz girò sui tacchi e si allontanò verso le scale. – E’ fatta – pensò. – Speriamo bene! –

XIX

La mattina seguente Benedetta non andò, come tutti i giovedì, a lavorare in albergo. Un giorno alla settimana la sostituiva Ornella, la figlia minore dei proprietari. Si alzò comunque molto presto, dopo una notte agitata. Aveva sognato, quando era riuscita a prendere sonno, situazioni strane ed allucinanti. – Che sia la mia coscienza che si rivolta per la decisione che ho preso? – pensò e, subito dopo, – Come troverò il corag- gio alla prossima confessione di raccontare le mie colpe? – Ma ciò che le stava capitando era troppo intrigante per lasciarsi invischiare in preoccupazioni e tentennamenti. In fin dei conti aveva sopportato, a volte con vera sofferenza, anni ed anni di castità rifiutando tutte le occasioni che le si erano presentate. – Il buon Dio capirà – concluse. – A suo tempo penserò come affrontare il confessore… – Per prima cosa si lavò i capelli, cercando, mentre lenta- mente si asciugavano, di dare loro una piega passabile. Aveva ancora in casa il vecchio strumento che sua mam- ma usava per arricciarli quando lei era ancora bambina. Una specie di forbice che al posto delle lame aveva due pezzi di ferro tondeggianti. Scaldati sul fuoco, intorno a loro venivano avvolte ciocche di capelli. I ferri venivano poi girati sino a raggiungerne la radice. L’importante era riuscire a raggiungere la giusta temperatura. Se era troppo bassa non serviva a nulla, se troppo alta poteva strinare i capelli cambiandone il colore. Quando fu soddisfatta della piega presa ed aver assestato qualche sforbiciata alle ciocche ribelli, prese dall’armadio i tre vestiti che possedeva e li stese sul letto. Solo uno non presentava i segni dell’età e qualche lisatura. Quindi solo quello avrebbe potuto indossare per l’incontro. Per fortuna l’abito, di un lieve colore celeste, era anche quello che le stava meglio e più si adattava alla sua carnagione rosea. Il grosso problema fu quello della biancheria intima. Era tutta in uno stato pietoso. L’unica soluzione sarebbe stata quella di acquistarne della nuova ma, a parte che in quei giorni era in grosse ristrettezze finanziarie avvicinandosi il giorno del pagamento dell’affitto, andare dalla merciaia per acquistare biancheria intima significava ammettere che ne aveva bisogno per presentarsi ad un uomo. Proprio con quella pettegola dell’Antonietta che l’avrebbe raccontato a mezzo paese, pensò.
– Sotto il vestito non metterò niente – si disse. – Così non ci saranno intralci e i preamboli si consumeranno più velocemente. –
Infatti quello che più temeva era il momento in cui si sarebbe presentata al tedesco, che, magari, la avrebbe attesa con la luce accesa.
Nei dodici anni che aveva passato con l’Angiolino non si era mai fatta vedere, in piena luce, del tutto nuda. Quando il suo sposo, e succedeva spesso, non usciva per andare al bar, voleva dire che aveva voglia di fare all’amore. E allora, senza dire neppure una parola, dopo aver rigovernato la cucina, andava in camera da letto, si metteva sotto le lenzuola in posizione di attesa. L’Angiolino, come quasi tutti gli uomini, d’altra parte, non si preoccupava se e quanto piacere procurasse alla moglie e se questa simulasse o meno un orgasmo. Come un fatto prettamente naturale, scaricava, con un grugnito anima- lesco, il suo desiderio. Un frettoloso bacio della buona notte e si girava dall’altra parte. Dopo pochi minuti si addormentava russando.

Benedetta non aveva mai preteso o cercato qualche soluzione che la appagasse in qualche modo e non la facesse sentire un semplice oggetto. Non ci aveva neanche mai pensato. Le era stato insegnato che le donne esistevano per servire, appagare i mariti e dar loro dei figli. “Rice- vere” il marito e lasciare che soddisfacesse le proprie voglie faceva parte dei suo compiti.
Per tutta la giornata non uscì di casa. Continuava a fare lavoretti inutili mentre il nervosismo le montava addosso. Cercava di non pensare alla sera ma ricadeva sempre sullo stesso pensiero. Forse, anche per rilassarsi avrebbe potuto recitare un rosario. Ma non poteva chiedere alla Madonna che facesse andare bene il compiersi di un peccato. Le sembrava un controsenso. Dopo aver cenato con un pezzo di pane e un po’ di for- maggio – non aveva assolutamente appetito – si sciacquò più volte la bocca. – Mi bacerà? – si chiese pensando anche se non fosse il caso di lavarla con acqua e sapone. Poi decise che, uscendo di casa per andare all’appunta- mento, avrebbe masticato un paio di foglie della pianta di menta che aveva sul davanzale, per essere sicura di avere un alito fresco. Sorrise tra sé: questa era veramente una buona idea. Quando il campanile suonò i rintocchi delle 21 e 15, e stava per iniziare il coprifuoco, uscì di casa avvolgendosi intorno alla testa e alle spalle uno scialle nero, per cercare di nascondersi ad eventuali occhi indiscreti e per ripararsi da una pioggerellina gelida che aveva cominciato a cadere. Non tremava ma non riusciva a governare bene le proprie membra, tanto era il nervosismo che l’aveva presa. Aveva deciso di non passare per la strada principale per raggiungere l’albergo. Aveva preso la stradina che costeggiava il retro della villa De Michelis, poi a sinistra verso il lavatoio. Salì i cinque scalini che portavano alla piazza ma non la attraversò. Girò davanti alla casa dei fratelli Silestrini, passò davanti alla latteria e quindi, raggiunta la casa dei Romelli, sempre costeggiando il lato sud della piazza, dopo pochi passi entrò nel portone che portava al retro dell’albergo Fumo verso i campi da bocce.
Da qui tutto fu più semplice. La strada all’interno del- l’albergo la conosceva a memoria, tante erano le volte che ne aveva percorso scale e corridoi. Il buio non le creava alcun impedimento.
Iniziò a salire le scale quando il campanile suonò la mezza. Giunta al primo pianerottolo fu presa da un at- tacco di panico. Non riusciva quasi più a respirare e sudava abbondantemente. Si sedette sugli scalini cercando di riacquistare la calma. Piano piano ci riuscì, ma ancora non era sicura che le gambe la reggessero. Con lo scialle umido si asciugò il sudore dal viso. Annusò le ascelle per accertarsi che queste non mandassero odore. Si tolse le scarpe per compiere la stessa ispezione. Quindi riprese la salita a piedi nudi. I muscoli delle gambe, sep- pure un po’ contratti, adesso rispondevano bene.

 

XX

Il Russì aveva prelevato due candelotti avvolti nella tela cerata dal gabbiotto degli attrezzi dell’Orto Fascista senza accorgersi della presenza del terzo che era uscito dall’involucro. Li aveva nascosti sotto il tabarro e si era avviato verso la Piazza Mercato con molta circospezione. Improvvisa- mente da una porticina era sbucata una donna con la testa e le spalle avvolte in un lungo scialle. Per non ess re visto si nascose nell’ombra di un portone. – Qualcuna che va a vegliare qualche malato – aveva pensato. La sera era fredda e quella pioggerellina gli dava fastidio e qualche preoccupazione. Temeva che le micce soffrisse- ro l’umidità e potessero non bruciare bene. Continuò verso la piazza e si fermò nella zona d’ombra del lavatoio. Avrebbe atteso che tutte le ante delle fine- stre che davano sulla piazza venissero chiuse. Luce non ne sarebbe filtrata, essendo tutte mascherate per rispettare l’oscuramento.

XXI

Franz occupava l’ultima stanza a destra del corridoio che si affacciava sulla piazza. Il corridoio le sembrò interminabile, ma si accorse che ad ogni passo diventava più sicura di sé, come se camminare la ricaricasse. La porta della stanza era socchiusa e la luce che proveniva, probabilmente dalla abat-jour del comodino, illuminava una striscia del corridoio, quasi fosse un raggio di quel “fanal” nella traduzione di “Lili Marleen”, la struggente canzone d’amore e di guerra che in quel tempo era sulla bocca di tutti. Quel ricordo fece pensare a Benedetta che forse il suo non sarebbe stato un gesto pretta- mente fisico ma quasi un atto di carità verso quell’uomo da tanto, troppo tempo lontano da casa, a una età nella quale gli affetti, la tenerezza e la presenza dei famigliari, e soprattutto di una donna, assumono una grande importanza. Sentì che quello che stava per fare non era del tutto male e che rifiutarsi avrebbe voluto dire negare a Franz conforto ed aiuto.

XXII

Ripassò il piano che si era preparato. Sistemati i due candelotti di dinamite sotto la parte posteriore della vetturetta, avrebbe dato fuoco alle micce e sarebbe corso, il più velocemente possibile, nell’androne che portava al fienile dove l’Isaia, il macellaio, teneva le bestie di notte prima di macellarle all’alba. Nel fienile avrebbe passato la notte in quanto era troppo rischioso cercare di raggiungere la propria baita fuori paese. La mattina avrebbe deciso il da farsi.

(Continua…)

 

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