Carcere e sovraffollamento in Piemonte; tra realtà e princìpi

A cura di Carmen Bonsignore / L’inizio della pandemia, con il connesso pericolo di diffusione del virus, aveva fatto salire alla ribalta delle cronache, nei primi mesi dello scorso anno, un problema poco noto ai non addetti ai lavori e molto spesso sottovalutato, quello del sovraffollamento carcerario.

Si tratta di questione che non solo incide sulle modalità di esecuzione della pena, rendendole il più delle volte contrastanti con la dignità della persona, ma che viola anche principi fondamentali della nostra Costituzione e della normativa sovranazionale, in particolare dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (Cedu).

Secondo il dettato costituzionale (art. 27, terzo comma, Cost.) “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In sintonia con la norma citata, l’art. 3 CEDU, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
I principi sottesi alle disposizioni richiamate, sono due: quello di umanità della pena e della sua funzione rieducativa.

Il compito di predisporre tutte le condizioni per il perseguimento della finalità della pena spetta allo Stato, il quale dovrà garantire, tra l’altro, che all’interno degli istituti penitenziari tutti i detenuti abbiano spazi adeguati, accesso alle cure mediche, possano seguire percorsi psicologici personalizzati, studiare e lavorare.
Non sempre, però, la realtà aderisce ai principi e le difficoltà sono generalizzate. In più occasioni l’Italia è stata sanzionata dalla Corte EDU, la quale ha rilevato che il sovraffollamento carcerario è un problema sistemico e strutturale, che svilisce la funzione della pena. La Corte EDU ha, conseguentemente, previsto la necessità di introdurre nell’ordinamento italiano rimedi preventivi e compensativi, funzionali alla risoluzione del problema.
Il legislatore ha, pertanto, introdotto l’art. 35 ter della legge sull’ordinamento penitenziario, che consente ai detenuti che ritengano violato il loro diritto ad uno spazio adeguato, quale strumentale alla funzione rieducativa della pena, di rivolgere al Magistrato di Sorveglianza una richiesta risarcitoria, che potrà essere soddisfatta anche tramite uno sconto di pena.
Il cuore della questione non è, però, di spazi da usufruire, per quanto il tema sia aperto e su di esso si sia pronunciata di recente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 6551/2021, depositata il 19.02.2021), ma di incidenza numerica sulle possibilità di recupero.

Se le persone ristrette superano la ordinaria capienza, non solo avranno ciascuno meno spazio a disposizione, ma potranno anche usufruire in misura inferiore al necessario dei servizi medici, psicologici, dell’opera di educatori, dell’accesso a serie misure di recupero e rieducazione.
A ciò si aggiunga che trattamenti non corrispondenti al senso di umanità, incidono fortemente su personalità già fragili, accrescendo esponenzialmente le probabilità di suicidio all’interno degli istituti di pena.
La situazione colpisce indifferentemente le carceri, al di là della collocazione geografica. Con maggiore intensità gli istituti di pena più grandi, rispetto a quelli di minori dimensioni.
Secondo i dati emergenti dall’allegato al V Dossier delle criticità e logistiche strutturali delle carceri piemontesi, ad esempio, al 28.12.2020 il Carcere Lo Russo e Cotugno ospitava al 29 febbraio un numero di detenuti superiore del 122% rispetto alla capienza ordinaria. In sovraffollamento anche il Carcere di Verbania e quello di Vercelli, mentre virtuosi risultano l’Istituto di pena di Saluzzo, occupato al 75%, e quello di Fossano al 90%.

Preoccupanti anche i numeri di suicidi in carcere, che, secondo la stima fornita dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, nel ventennio 2000-2020 si sono attestati intorno ad una media del 40% delle morti complessive.
Molto è sicuramente stato fatto e confortante risulta la presenza, ormai quasi capillare, sul territorio nazionale del “Garante dei detenuti”. Figura istituzionale che, in totale autonomia, svolge attività di diversa natura, finalizzate a promuovere la reale garanzia dei diritti fondamentali delle persone private della libertà, con un focus centrale al tema del lavoro, quale elemento rieducativo e risocializzante fondamentale.
Tanto, però, deve ancora essere fatto, affinchè la prospettiva costituzionale e sovranazionale possa davvero essere traguardata.
Il primo passo, sicuramente, un cambio di visione, che renda la realtà più sincronica ai principi e consenta di perseguire la certezza del diritto e non la certezza del carcere, facendo degli istituti di pena non luoghi desocializzanti, ma risocializzanti, quando, nel caso concreto, nessun’altra misura alternativa venga ritenuta idonea allo scopo.

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