Per chi non lo ricordasse, “En attendant Godot” è una bellissima commedia di Samuel Beckett i cui protagonisti, due vagabondi (Estragon e Vladimir), aspettano invano, sotto un albero, in una strada di campagna, un certo Godot, senza sapere chi sia veramente. Il nome è emblematico: God, in inglese Dio, dot, punto. L’atmosfera è reale, ma atemporale, dove spazio e tempo non hanno ragione d’essere.
Bene, se oggi il buon Samuel volesse riscrivere la commedia, potrebbe ambientarla in Italia, con due altri vagabondi (Conte e Gualtieri) che, da mesi, discutono di un fantomatico “Recovery fund”, di cui aspettano con ansia l’arrivo ma che dimostrano di non conoscere.
Vediamo perché, uscendo dalla metafora ed affrontando la dura realtà in cui siamo immersi.
Il Recovery fund (detto anche Next generation EU) consiste in fondi erogati dall’UE per la ripresa dei Paesi al fine di sostenere e potenziare l’economia del continente dopo i “buchi” creati dalla pandemia. Il pacchetto complessivo è fatto di due parti: quello composto dal bilancio pluriennale Ue dal 2021 al 2027 e quello del Recovery fund vero e proprio.
Secondo il progetto, il bilancio UE dovrà avere nei sette anni un volume pari a 1.074 miliardi di euro, da finanziare prevalentemente attraverso i contributi netti degli Stati membri dell’Unione. Il piano per la ripresa economica invece è pari a 750 miliardi di euro, di cui 390 miliardi verranno erogati sotto forma di sovvenzioni (che quindi non dovranno essere rimborsate dai Paesi destinatari) mentre 360 miliardi di euro verranno distribuiti sotto forma di crediti.
L’idea alla base del pacchetto non è solo quella di favorire il ritorno alla crescita economica dopo la crisi dovuta all’impatto della pandemia, ma anche quello di preparare i Paesi membri ad affrontare al meglio il futuro: difesa del clima, digitalizzazione, produttività, equità e stabilità macroeconomica, sanità, sostenibilità ambientale.
A questo scopo i singoli Paesi dovranno presentare dei piani di riforma in cui esporranno come utilizzare gli aiuti. I governi dovranno inviare alla Commissione europea i “Piani di ripresa e di resilienza” entro fine aprile 2021. Una volta presentato alla Commissione europea il Piano, Bruxelles avrà a disposizione fino a 8 settimane per esaminare e proporre al Consiglio Ecofin l’approvazione del Piano. L’Ecofin dovrà approvare quindi il piano a maggioranza qualificata entro 4 settimane. Dalla presentazione formale del piano potrebbero quindi passare mesi per l’approvazione che poi darà la possibilità di accedere subito al 10% del finanziamento globale. Fatti i conti, se tutto andrà liscio senza veti e rinvii, l’iter terminerà ad agosto, in piena estate…
La quota spettante all’Italia è imponente: al nostro Paese potranno essere erogati 81 miliardi in sovvenzioni e 127 miliardi in crediti. Il 70% è destinato a progetti 2021-2022, il resto è riferito agli impegni relativi al 2023. Per la prima volta è prevista una forma di condivisione del debito. La Commissione europea a tale scopo può emettere titoli comuni sui mercati finanziari. Gli Stati membri non devono erogare soldi, ma solo formalizzare una garanzia (ad esempio la Germania è garante per circa 200 miliardi di euro). Il debito complessivo di 750 miliardi di euro dovrà essere ripagato dall’Ue entro la fine del 2058, ma si inizierà a farlo a partire dal 2028, ricorrendo alle fonti “ordinarie” di finanziamento dell’UE: maggiori contributi nazionali degli Stati membri, una riduzione dei rispettivi bilanci oppure attraverso nuove entrate fiscali (ad esempio la “plastic tax” o la tassazione dei giganti del Web).
Bellissimo, un quadretto idilliaco, tutti i problemi sono risolti, abbiamo 208 miliardi di euro a disposizione, evviva, già cominciano furibonde discussioni e liti tra ministri per accaparrarsi la quota principale da destinare al proprio ministero da esibire come uno scalpo ai cittadini in vista delle elezioni…
Peccato, però, che tutto questo avvenga come descritto da Beckett: chiacchiere in attesa di qualcuno che non si conosce e chissà se arriverà…
Alcune riflessioni si impongono.
LA PRIMA: i soldi NON SONO DISPONIBILI! L’Italia potrà mettere le mani sul malloppo solo presentando i “compiti a casa”, cioè programmi seri, articolati, documentati, dimostrando di destinare i capitali ad opere effettivamente utili e capaci di generare ripresa. Niente provvedimenti ”a pioggia”, niente bonus, niente ristori, niente “mancette elettorali”. E qui casca l’asino: al momento non c’è una riga pronta, mentre Portogallo e Francia hanno già depositato il materiale!
Inoltre al momento manca una direttiva precisa che individui esattamente i settori da finanziare. La visione dei 208 miliardi ha scatenato gli appetiti di amministratori nazionali e locali, presidenti di enti più o meno inutili alla ricerca di quattro soldi per pavoneggiarsi. Qualche esempio?
Il ministro Di Maio propone di rifare il piazzale di marmo della Farnesina; la Pisano lancia l’idea di una Amazon all’italiana, Provenzano vuole un “acquario green” a Taranto. E ancora, la “Costellazione satellitare” per l’osservazione della Terra e il lancio di piccoli satelliti per il “monitoraggio dello spazio extra-atmosferico”.
Una lista di 557 progetti, ancora provvisoria, che da sola vale oltre 670 miliardi: più del triplo dei 208 miliardi che l’Italia potrà ottenere da Bruxelles.
La Francia ha presentato il suo piano di investimenti “France Relance” da 100 miliardi, di cui 40 finanziati dall’Europa, con un mese di anticipo. Le misure previste sono in tutto 70, divise in tre macro aree (transizione ecologica, competitività delle imprese e promozione dell’occupazione).
LA SECONDA: i fondi per l’Italia per 127 miliardi sono “a debito”, sia pure ad un tasso di interesse minimo: il che significa che in ogni caso contribuiranno (purtroppo) ad aumentare il livello del nostro indebitamento pubblico.
E allora, invece di stare sotto un albero aspettando Godot, Conte e Gualtieri farebbero bene a prendere il toro per le corna deliberando di seguire l’unica strada percorribile: emettere TITOLI IRREDIMIBILI (cioè senza obbligo di rimborso, pagando solo una rendita perpetua ai possessori).
Raccoglierebbero decine di miliardi di euro (si pensi che Intesa San Paolo ha emesso due tranche a fine agosto ottenendo richieste per oltre 6 miliardi; ed è una banca, non uno stato!), non incrementerebbero il debito (anzi lo ridurrebbero, se usassero lo strumento per rimborsare i BTP in scadenza nei prossimi mesi!) e, last but not least, potrebbero finalmente dedicare ingenti capitali “a fondo perduto” a beneficio del sistema produttivo.
Possibile che un’idea così semplice ed efficace non sia nemmeno messa in discussione in uno dei tanti consigli dei Ministri?
Adesso o mai più…
Gianluigi De Marchi
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