La responsabilità di un uomo dentro un viaggio nella notte

Per la rassegna “Summer Plays” al Carignano “Locke”, regista e interprete Filippo Dini

 

È dalla scrittura cinematografica di Steven Knight – per il film che aveva a protagonista un grandioso Tom Hardy anche in veste di regista, ricordiamolo anche per la sceneggiatura di La promessa dell’assassino di Cronenberg – che nasce l’Ivan Locke che Filippo Dini sta in questi giorni portando per la rassegna “Summer Plays” al Carignano (produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Franco Parenti, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia), uno di quei film – anno 2013, girato in otto notti consecutive, ogni notte le riprese dell’intero film, al montaggio affidate le parti migliori – difficili ma capaci di entrare nel ristretto terreno dei cult, veri campioni di assolo interpretativi, esempi inseguiti di raffinatezza registica.

Certo Dini non ha dalla sua la calibrata bellezza del montaggio né le piccole imprese della fotografia e nemmeno il soffoco, la componente claustrofobica del luogo recitativo: ma incrocia con convinzione e con atmosfere e climi da thriller sempre tesi, giusti, quasi fossero una lunga snervante cavalcata, i 75’ del dramma. Locke si trasporta in palcoscenico senza alcuna fatica, diventa una convincente opera a sé, con leggi proprie, ricostruisce racconto ed emozioni e pensieri solidamente impiantati tra le lame dei fari o le intermittenti luci di sosta di Pasquale Mari, lungo il nastro stradale disegnato da Laura Benzi.

Locke è un uomo di successo, ha il proprio lavoro, una casa e una famiglia che adora, il giorno successivo sarà uno dei più fortunati della sua vita, per la mattina seguente è stabilita “la più grande colata di calcestruzzo dell’edilizia urbana forse europea” e lui è “il più bravo capocantiere dell’Inghilterra”, deve assolutamente correre a casa perché là lo aspettano una moglie e l’entusiasmo dei figli e una partita da applaudire insieme. E un paio di birre ghiacciate. Si sfila gli stivali con cui ogni giorno lavora nel cantiere, sale in macchina e di lì innesta una lunga serie di telefonate: da queste abbiamo lo sviluppo della vicenda, dal loro stretto succedersi, dal prolungarsi, dalle interferenze, dalla rabbia e dalle apprensioni, dagli incidenti e i ritardi a poche ore dall’evento, dalle voci che dicono e raccontano, che si inseguono, che in una sorta di gorgo, in un esempio di linguaggio teatrale quantomai libero e viscerale, s’avvicinano o s’allontanano sempre più dal protagonista. Ma la vita di Locke cambia, coscientemente, doverosamente. Un cambiamento che lo porta a intraprendere un viaggio diverso, un viaggio che ha anche il compito di guardare all’interno dell’uomo, di renderlo responsabile, di spingerlo a perdere tutto e a guadagnare tutto. A ricostruire.

Un cambio di rotta, un’inversione, un altro orizzonte a cui avvicinarsi, “un grande inno al coraggio” lo definisce Dini, “alla sua espressione più potente e più arcaica: il coraggio di abbandonare la propria vita, le proprie certezze, i successi personali, i propri affetti”, una cognizione del dolore che punti verso quella responsabilità che ci accompagna, tutti nessuno escluso, verso il nostro miglioramento. Locke impartisce ancora ordini perché lui vuole che quella colata sia un vero capolavoro, senza intoppi o difetti, accetta il licenziamento, lancia invettive e pugni chiusi contro un dio e ed un padre che un giorno lo ha abbandonato (e lui non ripeterà quello stesso errore), chiama la moglie per confessarle che sette mesi prima l’ha tradita con un’altra donna, neppure lui sa spiegarsi come sia successo, forse la colpa sta soltanto in due bottiglie di vino, una donna non bella e non più giovane che quella notte stessa partorirà, lascia che i figli gli raccontino della partita (le telefonate più umanamente belle): alla fine, arrivando nei pressi dell’ospedale, un’ultima telefonata, quella nuova madre gli fa ascoltare il vagito di un bambino che è appena venuto alla luce. Al centro del palcoscenico, con il suo volante in mano, Filippo Dini interpreta e dirige lo spettacolo, è vulnerabile e combattivo al tempo stesso, intesse un passato e un faticoso presente, guarda coraggiosamente avanti, raccoglie momenti, a tratti attimi impercettibili, ed emozioni dal proprio personaggio, e la ribellione sempre in primo piano, e dalla fitta ragnatela delle voci di quanti “lo circondano”.

 

Elio Rabbione

 

Le foto dello spettacolo sono di Noemi Ardesi

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