Ciò con cui siamo chiamati a raffrontarci in questo determinato periodo storico, come individui e come società, la pandemia, può essere delineato come un evento a portata traumatica collettiva.
Ognuno di noi, infatti, può rinvenire tra i propri vissuti interiori la paura della morte, propria o dei propri cari, il senso di precarietà e di incertezza sul futuro, dovuti allo spettro della recessione economica, la percezione costante del pericolo collegata allo stato di emergenza; siamo sottoposti ad uno stress continuativo, al quale contribuiscono significativamente e concretamente anche la sottrazione della nostra autonomia, le limitazioni alla nostra libertà e la deprivazione sociale.
Il trauma generalmente viene inteso come un avvenimento che supera le nostre capacità di significarlo e di reagire ad esso, qualcosa che impegna le nostre difese in maniera eccessiva e che irrompe bloccando il flusso regolare del nostro essere nel mondo; ciò che può essere messo in discussione è, in questi casi, il senso di continuità del nostro Sé, cioè la sensazione di essere sempre noi stessi al di là dello scorrere del tempo e dell’avvicendarsi di differenti contesti, si tratta quindi di una caratteristica fondamentale del Sé, sulla quale poggia la nostra stessa identità e la nostra esistenza.La pandemia, con tutto ciò che essa implica, porta però anche con sé delle peculiarità rispetto ad altri eventi a valenza traumatica collettiva, come ad esempio la guerra, e rispetto all’esperienza che facciamo di essa; infatti la minaccia di cui si fa portatrice è invisibile, il nemico non può essere riconosciuto e affrontato direttamente ma può celarsi dietro chiunque, quindi chiunque può essere, di fatto, il nostro nemico; inoltre lo stato di emergenza non può essere delimitato, la sua durata è indefinita, la minaccia è quindi impercettibile e perenne. Questi presupposti di per sé pongono sotto forte tensione il nostro funzionamento mentale, mettendo a dura prova il nostro assetto psicologico. La vulnerabilità umana diventa la protagonista, a scapito del senso di controllo e dell’illusione di onnipotenza che caratterizzano peculiarmente l’uomo contemporaneo, provocando una ferita narcisistica che ci impone di misurarci con il limite e ci consegna incertezza, smarrimento e frustrazione. Ad un livello più profondo, ciò con cui dobbiamo confrontarci nel nostro vissuto psicologico è l’angoscia di morte, il senso della caducità intrinseca alla condizione umana, che il pericolo imminente e invisibile del virus ci presenta davanti agli occhi con prepotenza, senza darci la possibilità di ignorarla; angoscia di morte che è abitualmente rimossa dagli individui in condizioni di “normalità”, per favorire un assestamento psichico ottimale. Ciò che accade è che l’ansia e la paura scaturenti da tale situazione intrapsichica possono andare incontro a varie strategie difensive, come ad esempio: negazione, scissione, evitamento, intellettualizzazione, rimozione, con conseguenze più o meno funzionali ed adattive, in base alla loro modalità di utilizzo e al perdurare di esse nel tempo, due condizioni in base alle quali può strutturarsi il trauma.
Nel tempo però, necessitiamo alla base di un’elaborazione psicologica più complessa ed efficace, che implica un lavoro mentale più articolato ed impegnativo. In generale potremmo dire che è necessario andare oltre la posizione schizo-paranoide della psiche ed accedere a quella depressiva, all’interno della quale è possibile il superamento dei meccanismi di difesa arcaici e il rinvenimento dell’”altro da sé”, in una posizione più evoluta, attraversando e compiendo cioè la fase dell’elaborazione del lutto. Elaborazione del lutto innanzitutto per i nostri morti, che ci è stata significativamente e concretamente impedita nell’impossibilità di dar luogo al rito dei funerali, ma, simbolicamente, elaborazione del lutto per ciò che era, in tutti i vari ambiti possibili del mondo che è stato colto dalla pandemia, cioè dal punto di vista sociale, culturale, economico, relazionale. Il punto fondamentale da cui partire è l’accettazione della perdita, e questo passaggio non può e non deve essere evitato, perché è la base necessaria per una rinascita e una ripartenza possibili, che siano individuali e collettive. Vi è nell’integrazione degli aspetti psichici e della realtà più sgradevoli e dolorosi la possibilità intrinseca dell’evoluzione, aspetti che nel momento in cui vengono rifiutati, non ci permettono, invece, di venire a patti con essi. Soltanto tale posizione della mente può prepararci ad affrontare il “nuovo”, può consentirci di procedere tangibilmente ed utilizzare quelle che possono rivelarsi delle effettive opportunità di crescita, mantenendo una prospettiva aperta rispetto alle differenti possibilità insite nel nostro futuro più o meno prossimo; la nostra disposizione deve quindi e innanzitutto assumere in sé stessa il cambiamento e farsi carico dell’imprevedibilità che in questo momento ci viene imposta ma che di per sé è una dimensione intrinseca alla condizione umana, con cui dobbiamo costantemente misurarci. Può venirci in aiuto, a tal proposito, un’attitudine di cui parla Bion (1967) : la “capacità negativa” , che è una condizione che dovrebbe far propria l’analista rispetto alla tecnica analitica, ma che in generale riguarda la capacità di stare nell’incertezza, che comporta anche il tollerare la rinuncia ad una soluzione salvifica, ad un’inquadratura definitiva e razionale e quindi all’illusione di dominio e di controllo, accettando il dubbio, la problematicità e lo smarrimento, ma rimanendo, nel contempo, nel processo della conoscenza, con la consapevolezza dei suoi limiti e delle sue contraddizioni, permettendo così il mantenimento di un funzionamento psichico vitale, nel voler comprendere e reagire. Tale auspicabile iter può tuttavia non venire proprio intrapreso o può interrompersi in più fasi, generando disturbi d’ansia e depressivi, o amplificando i disturbi già presenti. Bollas (2018) mette in evidenza, come nella Seconda Guerra Mondiale la capacità di percepire la perdita fu alterata e si tramutò in uno stato di “malinconia misconosciuta” e inconscia, il lutto irrisolto finì quindi per trasformarsi in disperazione, disorientamento e rabbia, anche se apparentemente sembrava non esserci alcun contatto con il dolore per la perdita di alcun che; soluzione esemplificativa della tipologia di individui “normopatici”, di cui tratta l’autore.
Dalla prospettiva di non bloccare la processualità insita nel vissuto psichico sollecitato dalla pandemia, e rinunciando ad un’idealizzazione del passato e del futuro come immagini statiche nelle quali si cristallizzano gli aspetti proiettati dei nostri desideri non ancorati all’esperienza che siamo chiamati a vivere nel presente, potremmo prendere ispirazione per recuperare l’opportunità di pensare e ri-pensare al nostro futuro pur non potendolo programmare in maniera abituale; eppure, come abbiamo visto, le limitazioni da un certo punto di vista possono essere viste come delle opportunità, infatti se da una parte l’isolamento forzato e la deprivazione sociale portano con sé sicuramente un aumento del malessere psicologico, dall’altra, la frenata negli impegni lavorativi e sociali e l’interruzione del comportamento consumistico, rappresentano anche una dilatazione temporale che ci conduce a doverci confrontare con delle dimensioni intrapsichiche, a favorire processi mentali introspettivi e trasformativi, riprendendo delle questioni e tematiche rimaste sullo sfondo, perché troppo occupati e inghiottiti dalla frenesia delle occupazioni quotidiane, per permetterne lo sviluppo. In effetti gli accadimenti esterni di tipo traumatico stimolano la riattivazione di conflitti intrapsichici, complessi irrisolti e aree del Sé dissociate che riappaiono nell’esperienza individuale cercando una nuova occasione per essere riconosciute ed analizzate. Questo tanto atteso ricominciare sembra quindi poter prendere forma a partire da un confronto con se stessi che può diventare l’occasione per ristabilire finalmente le proprie priorità, nell’ottica di una resilienza che non si realizza soltanto nella forma di una resistenza agli eventi, ma in un mutamento interiore conseguente all’aver affrontato una situazione in prima persona ed individuabile proprio in una modifica della nostra autoconsapevolezza; e questo processo può mettersi in moto e compiersi solo come esito di una nostra scelta, sapendo anche che non sarà un percorso privo di ostacoli e di turbamento, ma forse davvero soltanto ciò che ci scuote nel profondo e che ci mette alla prova fino ai nostri limiti, può generare trasformazione.
Nel realizzare il percorso delineato, un posto importante deve essere riservato all’altro, transitando da una visione individualista e narcisistica ad una collettivistica e di partecipazione. Creando dei ponti tra noi e l’altro , infatti, riscoprendoci uniti e simili, possiamo provare a dividere questo fardello troppo gravoso da portare in solitudine; il cambiamento non accade da soli, e, come individui, siamo naturalmente interdipendenti ed è questa caratteristica che adesso può venirci in aiuto, senza scadere in forme moralistiche e decontestualizzare di solidarietà, ma connettendoci nel presente, nel nostro ambiente relazionale più prossimo, anche attraverso connessioni digitali, se sono quelle di cui possiamo adesso servirci per mantenere vivo il legame con l’altro. A tal proposito, dice Bion: “e così il catalizzatore che fa emergere l’esperienza emotiva è il legame tra un essere umano e l’altro. È da questa esperienza emotiva che poi prenderà il via un processo di pensiero o una scarica. Senza i legami non ci sarebbe nessuna esperienza emotiva. E senza di essa nessuno sviluppo del pensiero. Essi sono quindi la pietra delle fondamenta senza la quale non ci sarebbe nessun edificio”. Quale circostanza migliore di questa, quindi, per scoprire o riscoprire l’imprescindibilità dei legami? In quanto esseri umani le relazioni sono ciò che ci costituisce in quanto tali, ed è soltanto all’interno di relazioni che possiamo r-esistere e ri-conoscerci, ri-identificarci e ri-stabilire la continuità del sé messa in pericolo dalla pandemia. In definitiva, ognuno di noi può decidere se e come costruire un senso, dare significato alla condizione che stiamo vivendo e riconnettere il proprio vissuto attuale con la propria storia passata e futura, come parte integrante di un tessuto relazionale in cui rispecchiarsi, ritrovando in questo modo noi stessi e gli altri attraverso il tempo.
Antonella Basile
psicologa clinica