Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato
È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.
L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”.
Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.
Torino Liberty
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Articolo 8. La Venaria Reale ha ospitato il Liberty: Mucha e Grasset
“Chi a ved Turin e nen la Venaria, a ved la mare e nen la fija”.
La reggia di Venaria ha ospitato nella Sala dei Paggi la mostra “Art Nouveau. Il trionfo della bellezza”. La mostra è a cura di Katy Spurrel e Valerio Teraroli, in collaborazione con Arthemisia. L’esposizione vuole rendere omaggio allo spirito rivoluzionario dell’Art Nouveau, che scalza la tradizione e le regole accademiche e stravolge architettura, pittura, arredamento, scultura, musica e ogni altro aspetto della vita e dell’arte, traendo ispirazione dalla natura e proponendo un’immagine nuova della figura femminile. L’esposizione propone un percorso alla scoperta di questo movimento artistico e filosofico che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento fino allo scoppiare del primo conflitto mondiale. Un corpus di 200 opere che testimoniano la straordinaria fioritura artistica che ha cambiato il gusto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Sono presenti in mostra manifesti, dipinti, mobili, ceramiche che illustrano come da una parte l’Art Nouveau rompa con il passato, rifiutando il realismo e il pensiero scientifico, e dall’altra come tale corrente sia andata alla ricerca di mondi onirici e visionari restituiti poi attraverso l’eleganza decorativa di linee dolci e sinuose. Tra gli autori in mostra ci sono due tra le più importanti personalità della corrente dell’Art Nouveau: Eugène Grasset e Alfons Mucha.
Eugène Grasset, nato a Losanna nel maggio 1845, dall’ebanista e scultore Joseph Grasset, frequenta inizialmente le scuole nella città natale. In seguito lavora presso la bottega del padre e prosegue gli studi di architettura al Politecnico di Zurigo. Dopo un periodo di viaggi che lo portano anche in Egitto, torna a Losanna, e si dedica alla scultura e alla pittura. Qualche anno dopo decide di trasferirsi a Parigi, dove affina la sua modalità artistica che unisce tecniche xilografiche e litografiche, preferendo una composizione più formale, colori sfumati, tenui e pallidi. Le sue opere aprono le porte a una moltitudine di artisti, tra i quali Alfons Mucha.
Figlio di un usciere del tribunale e della seconda moglie di quest’ultimo, Alfons Mucha nasce a Ivancice il 24 luglio del 1860. Fin da adolescente dimostra interesse e abilità nel disegno e nel 1879 entra nel laboratorio di pittura di Kautsky-Brioschi-Burghardt, che produce scenari teatrali e sipari. Nel 1882 incontra il suo primo mecenate, il conte Eduar Khuen-Belasi, che gli finanza gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera e un viaggio a Parigi, città in cui Mucha rimane per i successivi diciassette anni. Improvvisamente, nel 1889 il conte smette di sostenere gli studi del giovane, che si ritrova quindi a dover cercare in fretta un lavoro: inizia come illustratore e collabora con importanti riviste e case editrici francesi. Ottiene il suo primo vero successo nel 1894, quando si ritrova a disegnare un manifesto per Sara Bernhardt, in occasione dello spettacolo Gismonda di Victorien Sardou. È l’inizio di una fortunata e duratura collaborazione che lo decreta come uno degli autori più ricercati di arte applicata, manifesti pubblicitari e illustrazioni.
Nel 1897 Mucha inaugura la sua prima mostra personale, alla Galerie de la Bodinière di Parigi e negli anni successivi continua a collezionare successi, e incontra personalità che lo vogliono come collaboratore. La fortuna lo segue fino al giorno della morte, avvenuta a Praga nel 1939. In quello stesso anno la rivista parigina di grafica “Arts e Metiers” dedica un numero alla commemorazione dell’artista. Mucha ha il merito di aver costruito un universo iconico immortale, le donne che compaiono sulle sue locandine sono diventate icone dell’Art Nouveau, con i loro sorrisi delicati e la loro bellezza disarmante. Possiamo dunque dire che è stato proprio Mucha a trasformare la pubblicità in arte, un grandissimo artista grazie al quale ancora oggi guardiamo con nostalgia e ammirazione i manifesti di inizio Novecento.
Alessia Cagnotto
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