Quando i matti escono fuori

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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10. Quando i matti escono fuori
Negli ultimi anni al manicomio di Collegno c’erano solo pazienti anziani, quelli che erano arrivati lì giovanissimi e lì avevano vissuto per cinquant’anni, quelli che erano più spaventati da quella inaspettata e pesante libertà, nettamente in contrasto  con la prospettiva di spirare tra le mura di Collegno, luoghi che ormai avevano imparato a conoscere bene. C’erano invece pazienti che non ebbero troppa paura di uscire all’aria aperta, come Oreste, il classico matto buono del villaggio, che viveva sotto il ponte di via XXV aprile a Cavoretto, insieme al cane Gary Cooper. L’uomo si rivolgeva alle suore per un rasoio e qualche abito pulito, e il problema dei soldi lo risolveva andando a chiedere l’elemosina nei negozi della zona, alcuni commercianti gli offrivano volentieri un po’ di cibo e un bicchierino. Oreste era arrivato a Cavoretto quando chiusero il manicomio di Collegno, si presentò alla cittadinanza con un sacchetto dorato di caffè messo in testa come la mitria di un vescovo, vestito con colori sgargianti: gli abitanti del posto lo accettarono con un misto di pena e di affetto. Quando si ammalava c’era sempre qualche donna che gli portava delle medicine, altri gli regalavano dei vestiti vecchi, un po’ tutti lo aiutavano a tirare avanti. Coloro che gli lasciavano dei soldi gli raccomandavano di non berseli subito, perché faceva male bere tanto, ma Oreste non era poi così convinto, e subito andava a spendere l’elemosina in un bar. Per sdebitarsi, in inverno spazzava la neve dai marciapiedi e durante l’autunno le foglie secche e in generale cercava di tenere pulito quanto poteva. Ogni tanto gridava e improvvisava dei discorsi complicati in cui bofonchiava di ponti da costruire, denari da elargire e in mezzo ci metteva delle parole inventate. C’erano dei momenti in cui si arrabbiava nei confronti di non si sa che cosa e imprecava contro il niente, forse verso un destino che non era stato poi tanto buono con lui. Gli venne regalata una bicicletta e lui subito la gettò nel fiume, perché ci teneva davvero tanto a quel gentile pensiero e così nessuno avrebbe mai potuto rubargliela. Un Natale aveva deciso di rendere grazie a qualcuno in particolare e così iniziò a strimpellare una vecchia chitarra, rivolto verso un angolo buio della chiesa in cui non c’era nulla: il dio dei matti forse non si mostra facilmente come il dio dei normali. Oreste morì nel 2009, vecchio e stanco, in ospedale, aveva lasciato tutto nel suo giaciglio sotto il ponte, in modo che Gary Cooper potesse farci la guardia.

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 Lucia era un’artista, scriveva poesie e dipingeva, sosteneva di essere la Madonna e di essere la fidanzata di Dio. Adorava irrompere in chiesa e disturbare le funzioni, soprattutto i matrimoni. Una volta aveva spiegato che le pareva di essere circondata da diavoli e che le volessero tutti male, perciò dipingeva, perché non sapeva parlare. Diceva che l’arte l’aveva salvata, che le bastava quello e l’affetto di poche persone per vivere e stare in piedi. Vito indossava un cappello scuro a tesa larga e suonava la tromba sotto i portici della Certosa di Collegno, in genere si cimentava nell’Aida di Verdi e per quello era impazzito, perché non riusciva a fare gli acuti con la tromba. Vito era anche un grafomane, scriveva frasi e aforismi sui muri, tra i tanti uno aveva colpito nel segno: “Elettricità, no”.  Anche Jimmy, un vecchio marinaio, aveva conosciuto l’ebrezza dell’elettroshock, ma lui preferiva non parlarne. A Torino, tra i matti più conosciuti, c’era Zeus, acronimo di Zanetti Edoardo Unico Signore. Zeus si aggirava per le vie della città avvolto in una lunga tunica e con dei sandali ai piedi, aveva una fascetta di cotone legata in testa, la barba incolta e i capelli lunghi fin sulle spalle. Non era cattivo, né un violento, entrava nei negozi tentando di provare giacche che non avrebbe mai comprato, mangiava goloso coni gelato al gusto pistacchio, si impegnava a vendere sciarpe della Juventus davanti allo Stadio Comunale, o al Balôn, la gente lo scansava perché in effetti la tunica emanava un odore difficile da sopportare per più di qualche minuto. Al suo fianco c’era Maria, una donna più anziana di lui, con i capelli dal colore indefinito, che gli camminava davanti illuminandogli la strada con un cero acceso, e intanto che andava avanti gridava: “Zeus ti vede!” Ecco l’autore di quelle innumerevoli scritte affiancate ai disegni del triangolo con l’occhio disegnato all’interno. Zeus veniva da Collegno, sosteneva che, dopo l’elettroshock, il suo cervello fosse diventato elettrico e lui, di conseguenza, un Dio elettrico. Era molto dispiaciuto di non poter fare più miracoli, perché era stanco, non più giovane e un po’ acciaccato, ma soprattutto non poteva più fare affidamento sul nettare che gli permetteva le azioni miracolose e divine: sosteneva infatti che dal proprio liquido seminale scaturivano i suoi divini poteri, ma, con il tempo, anche quell’umore così potente si era indebolito. Un giorno si fece stampare dei bigliettini con scritto sopra: 

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DIO
PER QUALSIASI PROBLEMA TELEFONATEMI
ALLO 011.00.00.00

(In caso d’assenza vi risponderà la segreteria elettromeccanica del Paradiso).
Quando si sentì prossimo alla dipartita, Zeus disse di essere favorevole alla cremazione, poiché chi viene seppellito viene mangiato dai vermi e dà loro la propria anima, “così i vermi diventano sempre più intelligenti”.

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L’ultimo paziente dimesso da Collegno fu un operaio di sessantadue anni, l’uomo oltrepassò i cancelli il 4 giugno 1998 e dopo di lui la struttura venne ufficialmente chiusa. Qualcuno, però era rimasto dentro, e proprio non voleva andar via. Era Roberto Contartese, ex insegnante genovese di lettere e filosofia al liceo, ultimo di cinque figli, ricoverato lì da vent’anni. Roberto era stato rinchiuso a Collegno perché viveva in attesa della fine del mondo e di una guerra atomica che avrebbe distrutto tutto. Lo avevano trovato in una casa di campagna, nascosto tra il materasso e la rete, per evitare le radiazioni. Era rimasto lì immobile per giorni, senza bere né mangiare, in attesa dell’inevitabile Apocalisse. Roberto venne internato, il dottor Annibale Crosignani lo curò e parve guarito. Con il dottore, Roberto aveva instaurato un rapporto di fiducia e perfino di “rispetto intellettuale”; dal canto suo il medico gli permetteva anche di tenere delle lezioni all’interno della struttura e lo aveva in gran conto. Quando gli dissero che poteva tornare a casa, Roberto andò in crisi nuovamente, questa volta il delirio riguardava la paura dell’avvelenamento.  Quando Collegno chiuse, gli proposero un bell’appartamentino a Grugliasco, ma lui rifiutò categoricamente, così l’unica soluzione trovata dal dottor Giorgio Tribbioli fu quella di riadattargli l’ex appartamento di don Gilardi, il cappellano, all’interno dello stesso manicomio. Contartese si trasferì nel suo nuovo piccolo antro con i suoi libri e i suoi autori preferiti: San Tommaso, Kant, Shopenauer, Campanella, Moro, Bacone, Freud e Jung. Si portò dietro anche alcuni volumi di poesia e narrativa, che leggeva ogni tanto tra una sigaretta e l’altra, (ne fumava ottanta al giorno). Non ci fu storia, non uscì vivo da Collegno, lo trovarono morto lì, per un male del corpo e non della mente, a sessantanove anni. L’ultima anima di Collegno se n’era andata via in sordina, come tantissime altre che nel tempo erano spirate silenziose tra le mura del manicomio. Chissà quanti di quei fantasmi sono ancora lì, come i tristi spettri di via Giulio, che ancora non si capacitano di aver sofferto tanto. Chissà se noi normali potremmo mai comprendere la folle tragedia che i matti hanno vissuto, per colpa nostra, per la nostra paura del diverso e di essere scoperti noi stessi come diversi. Chissà quando avremo il coraggio di guardarci così da vicino per scoprire che a una certa distanza, nessuno è normale.

 

Alessia Cagnotto

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