Giorno della Memoria, il dovere di non voltare lo sguardo altrove

di Marco Travaglini

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Così recita l’articolo 1 della Legge 20 luglio 2000, n. 211 che ha istituito il “Giorno della Memoria”. Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato e le truppe sovietiche, giunte nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia, abbatterono i cancelli del campo di sterminio, liberando circa 7.650 prigionieri. Ad Auschwitz, circa due settimane prima, i nazisti si erano precipitosamente ritirati, portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono lungo il percorso.

L’orrore dei campi della morte

In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi nel profondo est polacco, come quelli di Chełmno e di Bełżec, ma questi, essendo di sterminio e non di concentramento, come Treblinka e Sobibòr, erano vere e proprie fabbriche di morte dove i deportati venivano immediatamente uccisi nelle camere a gas. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente, per la prima volta, al mondo l’orrore del genocidio nazista. Solo ad Auschwitz, furono deportate più di un milione e trecentomila persone. Novecentomila furono uccise subito al loro arrivo e altre duecentomila morirono a causa di malattie, fame e stenti. I soldati sovietici si trovarono di fronte non solo i pochi sopravvissuti ridotti a pelle e ossa, ma, durante l’ispezione del campo, rinvennero le prime tracce dell’orrore consumato all’insaputa del mondo intero: tra i vari resti, quasi otto tonnellate di capelli umani. Lì, nel sud della Polonia, a partire dalla metà del 1940, funzionò il più grande campo di sterminio di quella sofisticata “macchina” tedesca denominata “soluzione finale del problema ebraico”.

Sette milioni di morti

Auschwitz era una vera e propria metropoli della morte, composta da diversi campi come Birkenau e Monowitz, estesa per chilometri. C’erano camere a gas e forni crematori, ma anche baracche dove i prigionieri lavoravano e soffrivano prima di venire avviati alla morte. Gli ebrei arrivavano in treni merci e, fatti scendere sulla cosiddetta “Judenrampe” (la rampa dei giudei), subivano un’immediata selezione, che li portava quasi tutti direttamente alle “docce”, come i nazisti chiamavano le camere a gas.I morti nei campi di sterminio, ai quali vanno aggiunti anche le centinaia di migliaia di ebrei uccisi nelle città e nei villaggi di Polonia, Ucraina, Bielorussia, Russia, nei ghetti come quello di Varsavia e altri ancorafurono più di 7 milioni. Oltre che nei campi di sterminio più a est, gran parte delle vittime dei nazisti trovò la morte nei lager di Auschwitz-Birkenau, Dachau, Flossemburg, Dora-Mittelbau, Neuengamme, Ravensbruck, Mauthausen, Buchenwald, Terezin.

La deportazione italiana

Dei deportati italiani, almeno 8.600 furono gli ebrei e circa 30 mila i partigiani, gli antifascisti e i lavoratori (questi ultimi arrestati in gran parte dopo gli scioperi del marzo 1944). Ci furono, poi, centinaia di migliaia di soldati e ufficiali del disciolto esercito italiano che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, lasciati senza ordini, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere verso l’ex alleato tedesco, diventarono degli sbandati. Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori e, quindi, giustiziabili se resistenti (in molti casi, soldati e ufficiali vennero trucidati, come a Cefalonia). Deportati nei lager, furono classificati come internati militari (Imi), non riconoscendoli come prigionieri di guerra, per poterli “schiavizzare” senza controlli, ignorando la Convezione di Ginevra sui Prigionieri del 1929. Oltre 600 mila, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, pur sollecitati ad aderire alla Repubblica di Salò e al regine nazista, rimasero fedeli al giuramento alla Patria e scelsero di resistere, pronunciando un orgoglioso e dignitoso “No” al fascismo. I militari detenuti presso le carceri di Peschiera del Garda furono i primi deportati italiani e giunsero a Dachau il 22 settembre 1943. Poi conobbero la tragedia dei lager nazisti gli ebrei, gli antifascisti condannati al carcere o al confino, gli altri militari arrestati sui diversi fronti di guerra.

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I campi di concentramento in Italia

Nell’Italia del Nord furono creati dei campi di transito dove gli arrestati (partigiani, antifascisti, ebrei) sostavano per un breve periodo, in attesa dei convogli che li avrebbero trasportati nei grandi lager del Reich e dei territori occupati. Uno era situato a Fossoli di Carpi, presso Modena. Fu smantellato nell’estate del 1944 e sostituito da un altro campo di transito situato più a nord, a Bolzano. Un altro si trovava a Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo. Anche in Italia venne istituito un campo di sterminio: la Risiera di San Sabba, a Trieste, dal 20 ottobre 1943 fino al 29 aprile 1945.

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L’attualità e il bisogno della memoria

In questi giorni la senatrice a vita Liliana Segre, espulsa dalla scuola quando aveva otto anni per la sola colpa di essere ebrea. e sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz e Ravensbrück, parlando agli studenti ha sottolineato l’importanza della memoria ” in tempi in cui si dimentica facilmente quello che è successo“. E ha aggiunto: “Anch’io sono stata una clandestina nella terra di nessuno, io lo so cosa vuol dire essere respinti quando le frontiere sono chiuse. Quando si ergono muri. Io lo so cosa vuol dire quando si nega l’asilo. Io sono una che le ha provate queste cose. Sono stata una richiedente asilo. Mi disse l’ufficiale svizzero che non era vero che in Italia c’era la guerra e ci rimandò indietro“. Un invito esplicito a riflettere su ieri e oggi, su memoria e futuro.

Primo Levi: “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l’ infezione serpeggia”

Quest’anno si celebra il centenario della nascita di Primo Levi. Fino dal tempo di detenzione nel campo di sterminio di Auschwitz, l’autore di “Se questo è un uomo ” e “La tregua” avvertì l’esigenza di raccontare la sua esperienza in quel girone  infernale e, subito dopo il ritorno, provò l’impulso di farne partecipi tutti, forse anche per liberarsi di un peso insopportabile da sostenere. Scrisse, in “Se questo è un uomo”: “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:considerate se questo è un uomo che lavora nel fango,che non conosce pace,che lotta per mezzo pane,che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna,senza capelli e senza nome,senza più forza di ricordare,vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno.Meditate che questo è stato:vi comando queste parole.Scolpitele nel vostro cuore stando in casa, andando per via,coricandovi, alzandovi;ripetetele ai vostri figli“. Parole di rara potenza e umanità, che fanno riflettere, che obbligano a pensare. Con grande lucidità ci ha lasciato anche questo frammento di un ragionamento profondo, tremendamente attuale, incredibilmente inquietante. “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero é nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa  premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”.

 

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