L’omaggio a Bertolucci, i ragazzi e la solitudine, ancora la famiglia con i suoi problemi

Dal pomeriggio di lunedì, scorrono prima di ogni proiezione sugli schermi del TFF36 immagini dei film di Bernardo Bertolucci, tra il rosso di Novecento e il bianco e nero delle prime prove. Un montaggio preparato velocemente, un omaggio dovuto (che avrà la sua giornata domenica prossima, quando al Massimo 3 verranno proiettati Novecento, Il conformista e Io ballo da sola). Lui dice: “Come vorrei vedere oggi un film di Bergman in 3D, come vorrei vedere oggi un film di Fellini in 3D, come vorrei vedere il mio prossimo film in 3D. Credo che quella rivoluzione tecnologica che oggi vediamo operare nel cinema sia un tappeto volante su cui bisogna saltarci sopra”. Ha detto Emanuela Martini: “Un visionario, un intellettuale, soprattutto un sognatore. Bernardo Bertolucci, dopo la rivoluzione, ha fatto il cinema come non immaginavamo più di farlo: più grande della vita, e per questo capace di restituirci tutta la vita, e la Storia, e la memoria, e il futuro, nelle loro profondità”. E ogni volta scatta forte l’applauso. Ciao Bernardo.

 

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Intanto l’Ufficio Stampa del festival consegna le prime cifre, le prime affluenze. Nel primo weekend (venerdì 23 – domenica 25), oltre all’aumento degli accrediti rispetto allo scorso anno, si registra anche un aumento di biglietti venduti, passando dai 15.459 della passata edizione ai 16.174 di oggi. Una leggera flessione al contrario per gli abbonamenti, siamo passati ai 603 odierni contro i 667 del 2017, mentre gli incassi complessivi nei tre giorni ammontano a 164 mila euro a fronte dei duemila in più precedenti.

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Forse il più bel film visto finora al festival è The guilty del regista danese Gustav Möller, 85’ serrati, di quelli che senti di dover ammirare fotogramma dopo fotogramma, non una sbavatura, una tensione fatta di voci concitate e di brevi silenzi, di domande e dell’attesa delle risposte che a volte non arrivano immediate

L’attore protagonista si chiama Jakob Cedergren, c’è da sperare che la giuria si ricordi sia di lui che del film. L’uomo è incollato ad un tavolo e ad uno schermo, auricolare e microfono sempre in funzione, telefonate in cerca di aiuto, anche stupide a tratti o di drogati colpevolizzati e mandati al diavolo. Confinato al pronto intervento telefonico, per un’indagine interna, si saprà, un collega coinvolto: riceve la chiamata di una donna che sostiene di essere stata rapita, che forse è sotto il terrore di un’arma, accusa il proprio compagno. Tutto accade in tempo reale, sotto le luci fredde di un’unica stanza, la macchina da presa fatta di primissimi piani che tirano fuori emozioni, rabbie, timori, solitudini, voglia di riscatto, in una dura descrizione come raramente ricordiamo di avere visto sullo schermo, in una lotta ad ogni secondo tra realtà e apparenza, in uno spasmo che corre diritto verso la sequenza finale. Un thriller ma certo non soltanto, una sequenza di immagini esatte, di emozioni autentiche, capaci di far provare allo spettatore una perfetta, lenta immedesimazione. Sul terreno della debolezza corre al contrario Angelo, produzione Austria/Lussemburgo firmata da Markus Schleinzer (alla sua opera seconda), che ha coinvolto pure la nostra Alba Rohrwacher, 111’ suddivisi in tre capitoli, tediose immagini a camera fissa e tediosa la vicenda di cui non sentivamo davvero la necessità. Che è quella di Angelo Soliman, personaggio del Settecento viennese, storicamente qui adattato alle leggi del cinema, strappato al continente africano all’età di sette anni, nato forse nel Camerun o forse in Nigeria, venduto a una duchessa, battezzato e istruito, paggio alla corte di principi, promosso al rango di “Moro principesco”, conoscitore di ben cinque lingue, viaggiatore, chiamato a far parte di delegazioni impegnate in diverse corti, amico di musicisti (Mozart che si ricordò di lui per uno dei personaggi del Flauto Magico e Haydn), iniziato alla Loggia massonica nella capitale austriaca. Un matrimonio segreto gli negò in seguito la protezione del suo principe e alla morte, nel 1796, l’imperatore Giuseppe II volle che il suo corpo venisse scuoiato e impagliato, posto in una teca e mostrato al pubblico, tra animali e oggetti del vecchio continente: sino al giorno (i moti del ’48) in cui la collezione imperiale sistemata nella biblioteca dell’Hofburg venne spazzata via da una granata e dall’incendio che ne seguì. Il film ci rende tutto questo in maniera sbiadita, in un anonimato che non fa altro che elencare dei fatti, senza alcuna emozione, poveramente, quadro dopo quadro, e non sono certo sufficienti l’ambientazione (dove concorrono peraltro incomprensibili apporti di oggi) e i costumi o le bellurie della fotografia a farcelo accettare a cuor leggero. Se il tema del lavoro ha trovato al festival il proprio giusto spazio, attualissimo, anche la famiglia con le disgregazioni che si formano all’interno, con l’assenza di questo o quel genitore, con i figli spinti a crescere troppo in fretta occupa più di un titolo. Tematiche più che simili le abbiamo già saggiate nei giorni scorsi, anche qui applausi e pollici versi si confondono, per qualche tentativo riuscito davvero malaccio ti chiedi che cosa abbia spinto i selezionatori a metterlo in concorso. Tra i cattivi, Nervous translation della giovane regista filippina Shireen Seno, storia di una bambina di otto anni, perennemente chiusa in casa, una madre impegnatissima con il lavoro e per nulla affettiva, un padre assente che comunica con la figlia attraverso nastri registrati che puntualmente le invia. La piccola, oltre a crescersene tutta sola, è obbligata a impiegare il proprio tempo: e la regista registra ogni dettaglio dei suoi giochi, della preparazione e della cottura di cibi in una piccola cucina in miniatura, per tanti interminabili minuti, sicura delle proprie scelte, dei tempi impiegati, del vuoto quotidiano di cui si vuole dare testimonianza ma che bisticcia tremendamente con le leggi della sintesi e del montaggio. Non si approda a nulla. Con buona fuga dello spettatore. Mentre una gran bella maturità si apprezza nell’adolescenziale All these small moments dell’americana Melissa Miller, dove l’impacciato Howie deve combattere contro le debolezze di due genitori che sono lì lì per dividersi, contro le ansie di un fratello minore che forse vorrebbe crescere più di lui, contro i primi desideri per una ragazza, pure lei affettivamente male in arnese più grande di lui e incontrata per caso una mattina in autobus, contro i sinceri sentimenti di una compagna di scuola, triste e bullizzata. Howie, sconquassato fuori e dentro di sé, tira dritto per la sua strada, vivendo giorno dopo giorno quanto più può, trincerandosi nella calma e mettendo ordine con il prevalere dei veri sentimenti. La regista, alla sua opera prima, quei piccoli momenti ce li lascia gustare tutti, con intelligenza, con un’osservazione intima e costante, con i tanti particolari colti al volo che costruiscono il film, con gusto e con ironia. Speciale il giovane protagonista Brendan Meyer, tutto vero, dalla testa alle scarpe.

 

Elio Rabbione

 

 

 

Nelle foto grandi: Jakob Cedergren è l’ottimo interprete di “The Guilty” del danese Gustav Möller; una scena del deludente “Angelo” dell’austriaco Markus Schleinzer; “All these small moments” dell’americana Melissa Miller, altro film applaudito in questi giorni al Torino Film Festival

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