Leri Cavour, le estati di Camillo Benso

4 /  Oggi non voglio raccontare una storia, ma dipingere un quadro. Il cielo è turchese, la luce che si spande nell’aria è quella del mattino, si appoggia, timida, sulle cose del mondo, levigandone i contorni. Al centro della tela vi è una villa a pianta quadrata, suddivisa su due piani, ha pareti sobrie e bianche, eleganti nella loro austerità. Semplici bassorilievi decorano le finestre ed il portone principale, su tutto dominano i toni del bianco, dell’azzurro e del grigio; con educato contrasto si delineano le linee marroni e terra d’ombra del legno delle finestre e del portone principale. La villa è in procinto di svegliarsi, le imposte al piano superiore aperte per metà rappresentano un metaforico sgranchirsi dopo il riposo della notte. Tutto intorno vi è un gran fracasso di persone, contadini già stanchi si mescolano a qualche figura ben vestita, mentre un distinto cane da caccia insegue un gruppo di galline, un giovinetto porge dei fiori alla sua bella. Si sta eseguendo un quadro manierista, ricolmo di infiniti dettagli, uno in particolare va messo in risalto: nell’angolo in basso a sinistra, vicino all’anziana contadina che spia i giovani innamorati, il prete del paese sta discutendo con un signore dall’aria raffinata e dai lineamenti leggermente rotondi come i piccoli occhiali che indossa. Quello che si è delineato è un esercizio di pura fantasia, se avesse un titolo potremmo proporre: “Visione idealizzata di una giornata di Camillo Benso, Conte di Cavour, durante l’estate a Leri”. Sappiamo infatti che il grande statista piemontese, amava trascorrere più tempo possibile presso questo borgo, una sua tenuta estiva a cui egli era molto affezionato. Si dice che qui abbia scritto ben ottantatre lettere documentate.

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Ci troviamo nel vercellese, in una frazione di Trino, in una piccolissima borgata dalla storia antica e travagliata. I primi ad interessarsi alla zona furono i monaci Cistercensi, che, nell’XI secolo, bonificarono il territorio per adattarlo alla coltura del riso. La nascita del paesino è strettamente legata al Principato di Lucedio, di lì per nulla distante, e al Monastero di San Genuario, di cui era una grangia satellite. Il Monastero acquistò i terreni nel 1179 e ne trasse grandi benefici. Con il passare del tempo la borgata crebbe di importanza e di dimensioni, fino a quando, all’inizio dell’800, il territorio venne acquistato da Napoleone Bonaparte, che però non lo visitò mai di persona. In seguito la zona venne concessa al Principe Camillo Borghese, che lo vendette a Michele Benso di Cavour, padre di Camillo. Grazie agli interventi della famiglia Cavour il borgo cambiò completamente aspetto, trasformandosi in una sorta di azienda agricola, Camillo stesso progettò dei macchinari per l’epoca avanzati e moderni, volti sia al lavoro nei campi, sia a migliorare il sistema di irrigazione. Oggi, chi si avventura a perlustrare il territorio di Leri non trova alcuna facilità nell’immaginare l’operosità ed il fermento che all’epoca caratterizzava questa zona. Quando mi metto in macchina, con due amici, per raggiungere la borgata i colori attorno a me sono intensi, in netto contrasto gli uni con gli altri. Non sono io questa volta a guidare e decido di distrarmi guardando il paesaggio in continua trasformazione al di là del finestrino: penso alle vecchie pellicole in cui le scene erano tutte accelerate e i protagonisti si muovevano a scatti. Usciamo dalla via principale ed imbocchiamo una stradina sterrata e non capiamo nemmeno di essere arrivati a destinazione. Siamo scivolati in una atmosfera di onirico silenzio, la moltitudine di cascine e strutture a due piani sembrano essersi addormentate in seguito a chissà quale incantesimo; tutto sta riposando e nel sonno invecchia senza accorgersene.

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Estraggo la mia reflex ed inizio l’esplorazione: le crepe delle pareti sembrano rughe, gli oggetti di legno sono ingrigiti, in generale tutto pare sbiadito. Il paese di Trino visse fino agli anni ’60, poi iniziò a spopolarsi con lentezza inarrestabile. Si sparse la voce, in quel periodo, che sarebbe stata costruita una seconda centrale nucleare, in una zona troppo vicina perché gli abitanti dell’epoca potessero accettarla; fu questa, forse, la ragione principale della migrazione, e così, piano piano, qualcuno iniziò ad andar via, fino a quando rimase solo ciò che non poteva spostarsi. Negli anni ’80 ci fu un piccolo ripopolamento, alcune famiglie degli operai dell’Enel si trasferirono nelle vecchie cascine, ma fu una breve resurrezione di appena dieci anni. Negli anni ’90 qualcuno propose di costruire lì un Museo Nazionale dell’Agricoltura, ma le parole si persero nel vento, come l’ipotesi, del 2011, di iniziare i lavori di restauro per recuperare la tenuta della Famiglia Cavour, in occasione dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia. È malinconicamente romantica la sensazione che provo, osservando oggetti dimenticati, traccia silenziosa del vissuto di qualcuno, mi colpiscono uno stendibiancheria e degli adesivi appiccicati al muro ad altezza di bambino. Tutte le strutture sono prive di mobilia, le finestre e le imposte e le porte sono state scardinate e appoggiate ai muri, l’unico edificio chiuso ermeticamente è la chiesa. Ci aggiriamo tra quei colossi assopiti, il loro respiro calmo passa attraverso i battenti scarni, levigando con delicatezza la loro pelle di cemento e pietra, fino al momento in cui ci ritroviamo in uno spiazzo quadrato, che circonda un edificio, abbastanza ben conservato, dalla pianta quadrata e che si alza su due piani.

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È il cuore, un tempo pulsante, di Leri, villa Cavour. Entrare dell’edificio è difficoltoso, poiché tutto attorno sono cresciute delle siepi spinose, abitate da una moltitudine di api indaffarate: è complicato, ma non impossibile. Una volta varcata la soglia entriamo in un grande salone affrescato, i decori sono sulle tinte del blu e dell’oro, sulla parete che sta di fronte a me e in quella alla mia sinistra sono stati dipinti dei finti caminetti, il muro che sta alla mia destra è squarciato da due grandi finestre rettangolari. I segni delle intemperie sono visibili, ma pare che il tempo abbia voluto essere meno intransigente con questo edificio. La villa è abbastanza grande, priva di arredamento interno, ogni sala è dominata da una tinta differente, penso che se si frantumasse potrebbe trasformarsi in un ipnotico enorme caleidoscopio. Giriamo con calma, venendo meno alla tabella di marcia; scatto molte fotografie tentando di catturare le sfumature di colore, ad ogni passo rifletto sul fatto che ogni cosa, lì, è pregna di Storia. Abbiamo appena finito di visitare tutte le stanze, quando il cambiamento di luce mi avvisa che è ora di andare. Anche qui ci sono stati avvistamenti di spiriti e fantasmi, ed è il momento di lasciare spazio a loro, i degni abitanti di quei sogni lontani che i giganti di pietra ancora stanno vagheggiando.

Alessia Cagnotto

 

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