Intervista di Laura Goria
In tempo di attentati può sembrare un’utopia…eppure chissà… che un vento di pace non possa arrivare proprio dalle donne dell’Islam che parlano di democrazia e fratellanza. La giornalista e scrittrice Luciana Capretti ha incontrato alcune esponenti del femminismo islamico nel mondo occidentale e in “La jihad delle donne” (Salerno editrice) ha raccontato la loro battaglia per l’emancipazione e un mondo migliore. Il testo ha avuto anche il viatico di Papa Francesco che ha definito importanti libri come questo…e una foto testimonia l’evento.
Una parte del mondo femminile musulmano che vive in Occidente stia conducendo una battaglia rivoluzionaria. Sono donne che reinterpretano il Corano e lo fanno anche meglio degli uomini, guidano la preghiera, aprono moschee, celebrano matrimoni, sono teologhe, storiche ed attiviste che lottano per superare secoli di discriminazioni. E’la mappa di un nuovo Islam; per ora minoritario, ma ha gettato i suoi semi.
Siamo abituati ad associare la Jihad con il terrorismo; quella delle donne invece cos’è?
«Jihad al femminile non ha assolutamente l’accezione con cui la conosciamo, di violenza, uccisione degli infedeli. Significa invece “sfida personale” e nei confronti del mondo. In che senso lo spiega Sherin Khankan, prima “imamah”danese che vive a Copenaghen dove ha fondato la sua moschea. Sostiene che devono dimostrare al mondo che l’Islam è un’altra cosa rispetto a quello che si pensa; e lo fanno con il loro messaggio di pace, eguaglianza e giustizia. Perché, dicono, l’ Islam è questo e non il fondamentalismo. Lo dimostrano rileggendo il Corano».
La lingua araba contempla più significati per ogni parola: la loro rilettura del Corano quanto è rivoluzionaria?
«Per 14 secoli è stato tradotto, interpretato e diffuso solo dagli uomini e si è sempre sentita solo la loro voce. Così queste donne sono ripartite da lì e lo hanno ristudiato. Ne emerge un Islam democratico, perché, dicono, se il principio fondamentale del Corano è che uomo e donna sono uguali, allora lo è tutto il genere umano: di ogni razza, colore e orientamento sessuale. Dunque sottolineano, quella di cui parla il testo sacro è democrazia».
Chi sono, dove e come vivono?
«Sono donne che per motivi di studio o emigrazione si sono trasferite dai paesi musulmani di origine in Occidente. Portatrici di una cultura che si scontrava con quella del paese di accoglienza inizialmente hanno vissuto una “dissonanza cognitiva” e si sono trovate ad un bivio. Rifiutare l’Islam, come hanno fatto le femministe negazioniste, oppure accoglierlo in modo diverso. Così hanno ripreso in mano il Corano. Vivono in Europa e Nord America, dove questa nuova cultura è nata. Alcune sono più famose, come Sherin Khankan o Rabeya Müller a Colonia; rilasciano interviste e diffondono il loro verbo. Però a loro volta anno generato un movimento. Se non c’è Khankan a guidare la preghiera del venerdì, altre imamah meno famose la sostituiscono».
Sostiene che l’occidente ha scoperto l’Islam dopo l’11 settembre e in modo cruento; ma che le prime femministe islamiche hanno avuto un ruolo già a fine 800/inizi 900, quale?
«La loro prima battaglia è stata in Egitto, con la giornalista Malak Hifni Nasif che usava la penna; mentre l’attivista Huda Sha’rawi, che parlava 3 lingue e sapeva muoversi in contesti internazionali, creò un movimento femminista. Poi altre si sono ispirate a loro; ma sono state soffocate perché vivevano in paesi a predominanza musulmana».
Oggi alcune di loro sono occidentali convertite all’Islam: curioso che donne nate in società in cui c’è parità di genere, abbraccino una fede tanto patriarcale….
«Dicono che non è così patriarcale e che risponde al loro bisogno di fede più di ogni altra. Per esempio Amina Wadud, prima imamah afro-americana, nata metodista in Maryland, ha approfondito tutte le religioni. Infine è approdata alla fede musulmana, che però, dice, deve stare al passo coi tempi. Sostiene che, pur mantenendo i principi fondamentali del Corano, vanno attuati dei cambiamenti. Per esempio è prescritto che il marito mantenga la moglie; ma rispetto all’Islam di Maometto oggi ci sono mamme single con figli e che lavorano, e non per questo sono meno musulmane, allora la prescrizione sul matrimonio deve essere modificata».
Quanto faticano per fare accettare questi cambiamenti agli imam e ai fedeli?
«E’ dura anche con l’occidente, perché vige l’idea della donna musulmana assoggettata. Se ci pensiamo bene, noi non abbiamo sacerdotesse; invece loro stanno facendo proprio questo. Sebbene minoritarie e disseminate qui e là nel mondo, dicono che non importa chi conduce la preghiera: chiunque possa far conoscere il Corano è giusto che lo faccia, uomo, donna o bambino che sia».
Nell’America di Trump come sono viste?
«Lì c’è in atto una crociata contro tutto l’Islam e le donne col velo sono più identificabili: alcune sono state aggredite e le loro moschee bruciate»
E in Europa dove il terrorismo di matrice islamica continua a fare stragi?
«Va meglio. Ci sono addirittura i primi esempi di imamah gay che a Marsiglia hanno aperto una loro moschea. Mentre a Berlino il 16 giugno aprirà la prima moschea inclusiva diretta da una donna. Ci vuole tempo, ma ci sono i segnali».
In che modo possono incidere nei paesi musulmani dove le donne non contano, sono spose bambine, soggette a mutilazioni genitali e lapidate con facilità? Difficile pensare a una loro ribellione.
«Certo è difficile. Ma si punta sull’istruzione insegnando che c’è un altro mondo. Come fa l’imamah Ani Zonneveld, che vive in California, con la sua organizzazione “Muslims for Progressive Values”: promuove un’azione capillare attraverso imam liberali che vanno nei villaggi più remoti di Africa e Asia e diffondono il nuovo messaggio».
E per quanto riguarda le derive del fondamentalismo islamico in Europa?
«Il problema alla base di tutte le società odierne è la ricerca di un senso d’identità: molti giovani lo trovano nella Jihad del Califfato. Per questo in Germania le femministe stanno lavorando per la de-radicalizzazione: scrivono libri scolastici sul Corano rivisitato, propongono un Islam democratico e di pace, forniscono un modello positivo in cui riconoscersi. Certo c’è ancora molto da fare ed occorre anche la collaborazione dello Stato».
Lei ha intervistato molte femministe islamiche: cosa l’ha colpita di più?
«Ognuna ha un tratto diverso, ma in comune hanno l’assoluta convinzione che cambieranno le cose, l’incredibile entusiasmo e l’ottimismo. Sostengono che oggi Internet ci rende una sorta di villaggio globale, le notizie corrono e raggiungeranno le donne che cominceranno a ribellarsi. Ne è più che convinta la regista pakistana Sharmeen Obaid Chinoi che nei suoi documentari racconta la situazione delle donne nel suo paese, poi li porta in giro per il mondo e vince Oscar. Il Pakistan ne esce svergognato e, com’è successo, rivede le leggi che le riguardano».
Come vede il futuro e le vittorie della jihad femminile?
«E’ il risultato di un innesto culturale e generazionale. Il discorso è portato avanti soprattutto dalle nuove generazioni. Magari noi non vedremo la loro piena realizzazione, ma forse i nostri figli si».
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