21 milioni di persone vittime di lavoro forzato nel mondo, la maggior parte donne, 1,5 milioni nei soli paesi occidentali, per un giro di affari illegali di 150 miliardi di dollari all’anno
Il Centro Internazionale di Formazione – ILO di Torino è stato sede per la presentazione – prima volta in Italia – della ricerca del Fra, Agenzia Europea per i diritti fondamentali, sullo sfruttamento grave dell’attività lavorativa a danno di chi si sposta all’interno dell’Ue o di chi vi fa ingresso: 28 paesi membri interessati, 21 con interviste “sul campo”, 616 esperti coinvolti (43 per l’Italia), 217 casi di studio, 24 gruppi di discussione.
Così il presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Mauro Laus, intervenuto al convegno “Si può chiamare lavoro? Sfruttamento e nuove schiavitù nell’Unione Europea”.“Chi amministra la cosa pubblica ha facoltà, nella sua autonomia, di spostare in alto l’asticella e riscrivere le regole per i propri fornitori, stabilendo di non affidare servizi al di sotto di una certa soglia. La stessa Regione Piemonte, per prima, può decidere di metterci la faccia e forzare il sistema della contrattazione laddove si accorga che proprio il sistema presenta dei limiti”.
Il Comitato regionale dei Diritti Umani – organizzatore dell’evento ha fatto da apripista su un fenomeno sociale così preoccupante, come ha spiegato il suo componente Luciano Scagliotti, moderatore del dibattito. E da Torino parte la “fase 2” dell’indagine dalla quale emerge, secondo l’autore del rapporto Albin Dearing, che “un intervistato su cinque registra un caso di sfruttamento almeno due volte a settimana, dove per sfruttamento intendiamo la deviazione da normali condizioni lavorative che ha impatto sulla dignità umana. Ci sono fattori di rischio legati al quadro normativo di alcuni paesi, alla situazione personale della vittima, che spesso non parla la lingua e non conosce i suoi diritti, aumentando così lo stato di assoggettamento”.
Numeri preoccupanti sono emersi anche dalla relazione di Miriam Boudraa del programma protezione sociale di CIF – ILO, 21 milioni di persone vittime di lavoro forzato nel mondo, la maggior parte donne, 1,5 milioni nei soli paesi occidentali, per un giro di affari illegali di 150 miliardi di dollari all’anno. Il caporalato e lo sfruttamento non sono fenomeni da cui l’Italia è esclusa, si pensi alle cronache dell’ultima estate sulla raccolta dei pomodori in Puglia o la vicenda della vendemmia nelle vigne di Canelli, raccontata dal giornalista de La Stampa Riccardo Coletti: “Lavoratori stranieri pagati cinque euro, con contratti per tre giorni dove invece se ne lavorano venticinque, undici ore al giorno con solo mezz’ora di pausa”.
A chiusura dell’incontro, le riflessioni di Laus e del sottosegretario al Lavoro, Luigi Bobba. “A differenza di numerosi Paesi europei ed extraeuropei, dove si è scelto di fissare con legge una paga-base minima garantita a tutti i lavoratori, qui da noi – ha spiegato il presidente dell’assemblea piemontese – anche dopo il Jobs Act, la contrattazione collettiva è rimasta l’unica sede in cui si quantificano gli importi legali per ogni categoria e in cui si scrivono le regole con le quali si condiziona il mercato. Ma poi non è infrequente che di quelle regole e di quegli importi si chieda conto, con sdegno, alle imprese, quando esse, con la mera applicazione, ne rivelano i pesanti limiti a carico dei lavoratori. In Italia esistono contratti collettivi di lavoro, firmati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, che quantificano il salario minimo anche a meno di 4 euro l’ora. Con buona ragione, possiamo ritenere che essi siano stati giudicati congrui e dunque dignitosi da chi li ha sottoscritti, imponendone poi l’utilizzo. I contratti collettivi di lavoro orientano l’andamento del mercato privato, ma soprattutto gli appalti pubblici nell’indizione delle gare. Tengo a dire che quei contratti sono la bussola, non il vangelo. La Regione può decidere o meno di metterci la faccia, ma nessuno può permettersi di nasconderla: si può scegliere di invocare l’autorevolezza dei tavoli di contrattazione di fronte a chi si lagna delle regole e dei salari oppure si possono scavalcare i tavoli e aprire nuove strade. La terza via è quell’ipocrisia non più sostenibile dove la distanza tra lavoro legale, sommerso e caporalato si misura in centesimi di euro”.
“Siamo in presenza di fenomeni che sembravano essere storia dei secoli passati e invece sono tornati attuali sotto la spinta dell’emigrazione – ha infine concluso Bobba – il Governo sta per mettere in atto un piano d’azione nazionale contro lo sfruttamento, con misure e strategie pluriennali su prevenzione e contrasto. In particolare stiamo lavorando su due emendamenti: confisca penale obbligatoria e responsabilità oggettiva di chi si avvale del contributo di caporali. Lo sforzo che è stato fatto dal Fra e dal Comitato Diritti Umani non è un tema per ricercatori, ma un tema che ha molto a che fare con il nostro vivere civile e uno stimolo di riflessione per le istituzioni”.
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