“Leggere il giardino”
Il parco nell’Ottocento ospitò anche l’elefante Fritz
Da sabato 9 aprile
Progettato sul modello francese nel 1740 da Michel Bénard, direttore dei “Reali Giardini”, che riuscì perfettamente ad elaborare il pensiero juvarriano di “spazio aulico dinamicamente collegato con l’ambiente venatorio circostante”, il giardino della Palazzina di Caccia di Stupinigi aprirà eccezionalmente i cancelli al pubblico, da aprile ad ottobre, una volta al mese, il sabato mattina, dalle 10,30 alle 12,30. Muniti di caschetto di protezione, i visitatori potranno addentrarsi nei giardini, dal cortile d’onore al padiglione centrale e al giardino di levante, alla scoperta delle evoluzioni del parco interno alla Palazzina. Attraverso mappe e documenti storici le passeggiate ripercorreranno le fasi e gli stili del giardino, dal gusto alla francese del Settecento all’evoluzione del gusto romantico, fino ad arrivare al giardino Novecentesco risalente al periodo delle villeggiature della regina Margherita. L’iniziativa, titolata “Leggere il giardino” e promossa dalla “Fondazione Ordine Mauriziano” (ente governativo dedicato alla conservazione e valorizzazione della “Residenza Sabauda per la Caccia e le Feste” edificata a partire dal 1729 su progetto di Filippo Juvarra) prenderà il via sabato prossimo 9 aprile. Per proseguire il 21 maggio, il 18 giugno, il 17 settembre e l’8 ottobre. La Palazzina di Caccia di Stupinigi, con il suo parco, rappresenta un sistema integrato tra l’attività venatoria e il loisir della corte. Occupa una superficie di circa dieci ettari lungo l’asse longitudinale che attraversa Stupinigi in direzione nord-sud: arrivando da Torino si trovano i grandi prati semicircolari che introducono ai parterres fino al cortile d’onore, con una serie di viali trasversali a collegare le scuderie e i diversi appartamenti reali. Nella concezione progettuale dell’architetto messinese Filippo Juvarra, l’area verde era strettamente connessa alle linee, straordinariamente innovative per il tempo, della Palazzina di Caccia. Nel 1740 iniziarono i lavori, per terminare verso la fine del secolo, sotto la direzione dell’Architetto Reale Tommaso Prunotto e portati avanti da Ludovico Bo e dal Direttore dei Reali Giardini Michel Bénard che seppero elaborare e mantenere l’idea originaria juvarriana di simmetria e prospettiva. Durante l’occupazione napoleonica, il giardino subì una prima trasformazione: vennero eliminati i sostegni in ferro e legno delle “gallerie verdi” come anche i vasi di fiori e alcuni parterres furono trasformati in “bosquet” con la messa a dimora di alberi anche di alto fusto. Reimpiantati nel tempo, oggi rimangono comunque ancora visibili i filari di carpini. Nell’Ottocento, intorno alla metà del secolo, il giardino venne rimaneggiato per adeguarsi al nuovo gusto inglese e sotto la direzione di architetti e paesaggisti del tempo come Melano, Roda e Scalarandis si introducono nuovi elementi paesaggistici come il laghetto con l’isolotto, la capanna dell’eremitaggio, un labirinto di bossi e il “casino cinese”, il giardino di fiori nell’area di levante che ospitava il luogo di ricreazione dell’elefante Fritz, inviato nel 1827 dal vicerè d’Egitto Mohamed Alì come omaggio a Carlo Felice che ricambiò con 50 pecore merinos. Triste storia quella dell’elefante Fritz. Accolto come un’autentica star di fama internazionale, il pachiderma per venticinque anni rappresentò una grandissima attrattiva per i torinesi e fu il primo animale ad essere immortalato su un dagherrotipo, oltreché in vari dipinti ed incisioni e perfino nelle pagine di scrittori e poeti. Senonché nel 1852 accadde l’irreparabile. Il nuovo guardiano (succeduto al primo) lo colpì involontariamente con un tridente ferendolo alla proboscide. Il che non piacque affatto a Fritz che, dopo averlo lanciato in alto, lo schiacciò inesorabilmente al suolo. Gesto di stizza che per l’ormai anziano Fritz, ritenuto da allora “animale pericoloso”, indusse le autorità a sopprimerlo mediante asfissia con ossido di carbonio. Tassidermizzato, Fritz è oggi conservato nel “Museo Regionale di Scienze Naturali” di Torino.
g.m.
Per info: Palazzina di Caccia di Stupinigi, piazza Principe Amedeo 7, Nichelino (Torino); tel. 011/6200634 o www.ordinemauriziano.it
Obbligatoria la prenotazione: costo del biglietto 13 euro, comprendente la visita guidata e l’ingresso a prezzo ridotto in palazzina.
Un’altra l’avevo adocchiata in una libreria nei pressi della Baščaršija, al numero 8 di Vladislava Skarica ma, stupidamente, non la comprai. Gli ottanta marchi del prezzo ( quasi quaranta euro) mi avevano frenato. Che errore! Trovarla oggi non è solo difficile ma quasi impossibile. La Sarajevo Survival Guide, scritta trent’anni fa, tra l’aprile del 1992 e la primavera del 1993 dal collettivo di FAMA composto da Miroslav Prstojević, Željko Puljić, Maja Razović, Aleksandra Wagner e Bora Ćosić, è diventata un oggetto di culto. Su Amazon si trova, usata, a centosettanta euro e nuova (rarissima) a cifre stratosferiche. Questo libro di novanticinque pagine in formato quasi tascabile era una guida per la sopravvivenza a Sarajevo durante la guerra. Edita nel 1993 dagli stessi autori in serbo-croato venne distribuita l’anno successivo, tradotta in inglese, dalla casa editrice Workman Publishing di New York. Un libro originale, intelligente, denso di amara ironia balcanica che descriveva e cercava di far comprendere come fosse possibile organizzarsi la vita durante l’assedio più lungo della storia moderna che iniziò proprio trent’anni fa, il 5 di aprile del 1992. Un viaggio nella quotidianità di una città senza trasporti, acqua ed elettricità, senza cibo e telefoni, con i negozi dalle serrande abbassate e dagli scaffali tristemente vuoti, dove le informazioni erano scarsissime. Uno scenario duro, estremo, dov’era quasi impossibile vivere, sospesi come si era tra mille stenti e pericoli che obbligavano a inventarsi ogni stratagemma utile per tirare avanti e sopravvivere.
La guida segnalava anche i souvenir : “il più gettonato è la scheggia di mortaio. Si possono trovare ovunque: nelle strade, nelle piazze, sui balconi, all’interno delle abitazioni. I proiettili hanno un prezzo inferiore. Se non si hanno soldi si possono barattare con un buono alimentare”. Anche i regali mostravano una scala di valori radicalmente diversa: ”una bottiglia di acqua pulita, una candela, un pezzo di sapone, shampoo, aglio, cipolla, un secchio di carbone, qualche tronco di legno. Le scarpe di pelle di serpente sono eccellenti per correre da un incrocio all’altro ed evitare i colpi dei cecchini”. Per non parlare, del riscaldamento durante i quattro rigidi inverni di guerra a Sarajevo. Il clima della capitale bosniaca è tipicamente quello di montagna e la temperatura arriva fino a venticinque gradi sotto zero. Per dormire s’indossava qualunque indumento, calze spesse e berretti di lana. Gli alberi dei viali furono tagliati e bruciati e dopo di loro i mobili e, qualche volta ma non sempre, i libri. Nonostante i disagi, c’era parecchia ironia in giro. Ci fu chi disse: “ Lo scorso inverno ha dimostrato che i libri di Ilich Vladimir Lenin bruciano molto bene, dimostrando il calore delle idee del socialismo”. Nell’inverno del 1993, oltre a non esserci elettricità in quasi tutta la città, era un’impresa trovare gas per il riscaldamento. “Il problema è che se il gas veniva aperto quando nessuno se lo aspettava, arrivava anche a esplodere in alcune case e appartamenti, provocando gravi ustioni ad alcuni abitanti di Sarajevo. Così, in un ospedale di Sarajevo, un infermiere, che si stava congelando alla reception, sperava che il gas venisse aperto per potersi riscaldare. Poco dopo vide un gruppo di persone che entravano in ospedale. Erano sporchi di fuliggine e dalle loro spalle e vestiti usciva fumo. Appena li vide, l’infermiere esclama con gioia: E’ arrivato il gas!!”. Agli inizi d’aprile di dieci anni fa, vent’anni dopo l’inizio delle ostilità, il gruppo formato dai giovani artisti sarajevesi conosciuti a livello internazionale per aver prodotto la famosa guida ha presentò il progetto per il museo dell’assedio di Sarajevo ( sottotitolato, l’arte di vivere 1992-1996), promosso dalla municipalità di Sarajevo e da un consorzio promotore dell’idea. Centinaia di testimonianze vennero raccolte rappresentando la memoria di donne e uomini, anziani e bambini che resistettero al più lungo assedio della storia moderna, dal 5 aprile del 1992 al 29 febbraio del 1996. Accanto a materiale video, documenti e fotografie colpivano le raccolte di oggetti di fortuna costruiti durante la guerra.
al 1872, anno di istituzione del Corpo degli Alpini. Alla cerimonia solenne – che ha visto lo schieramento di tutti i reparti della Brigata con le proprie Bandiere di Guerra – hanno partecipato il Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, il Comandante delle Truppe Alpine – Generale Ignazio Gamba – e il Comandante della Taurinense, Generale Nicola Piasente, il Presidente dell’Associazione Nazionale Alpini Sebastiano Favero, oltre a numerose autorità civili, militari e religiose.
Curata da Ilario Manfredini, la rassegna ricrea la favolosa stagione artistica intrapresa da Domenico Della Rovere e dalla sua nobile famiglia in Piemonte. Nato a Vinovo nel 1442, figlio del conte Giovanni di Vinovo e dalla contessa Anna del Pozzo, studiò teologia all’Università di Torino. La storia dei Della Rovere di Vinovo si intreccia strettamente con quella di Francesco Della Rovere, futuro papa Sisto IV. Nato da una famiglia savonese, benestante ma non blasonata, famoso teologo e abituale frequentatore della corte papale a Roma, Francesco Della Rovere conobbe i fratelli vinovesi Domenico e Cristoforo Della Rovere durante una visita a Chieri presentandosi perfino come membro della loro famiglia pur non avendo un titolo nobiliare. Avevano lo stesso cognome ma non erano congiunti anche se forse tra i due rami della famiglia esiste davvero una lontana parentela. I “Della Rovere” sono infatti originari di Savona dai quali nasceranno varie famiglie tra cui i Della Rovere di Urbino. I tre Della Rovere divennero amici e un tal giorno Domenico e Cristoforo si trasferirono a Roma proprio sotto la protezione di Francesco che qualche anno dopo diventerà papa Sisto IV. A Vinovo Domenico trascorse brevi periodi della sua vita ma fu comunque l’artefice del castello che verrà eretto alla fine del Quattrocento. Alla morte del fratello Cristoforo divenne cardinale e poi vescovo di Torino nel 1482.
In mostra sono esposte miniature, dipinti, documenti e riproduzioni antiche provenienti da diversi musei e biblioteche in cui si mettono in rilievo anche le fasi del restauro rinascimentale della dimora e del parco. Tra i dipinti in vetrina nelle sale del castello spiccano tre tavolette di Gandolfino da Roreto, una serie di ritratti in cui compaiono personaggi illustri conosciuti da Domenico Della Rovere, come Carlo VIII di Francia e Carlo II di Savoia, detto il Buono, in un quadro realizzato dal chivassese Defendente Ferrari.
Il maniero rinascimentale sarà sede nel Settecento di una prestigiosa manifattura di porcellane e in seguito accoglierà il collegio della Regia Università degli studi di Torino. Nel 1693 con la morte, senza eredi, dell’ultimo discendente Carlo terminò il ramo vinovese dei Della Rovere e la proprietà fu assegnata al conte Carlo Francesco Delle Lanze, figlio del duca di Savoia Carlo Emanuele II. Oggi il castello, patrimonio del Comune di Vinovo, ospita la biblioteca e in alcune sale vengono organizzate mostre e iniziative culturali.

Anche Torino pagò in quel periodo un prezzo di sangue elevatissimo. Fra il 1975 e il 1982, per attentati terroristici, in città furono uccise 22 persone e oltre 70 furono gli invalidati per tentato omicidio. Nel solo 1979, il capoluogo piemontese pianse ben 5 omicidi, tutti ad opera di Prima Linea: da Giuseppe Lorusso (agente di custodia a “Le Nuove”), al giovane diciannovenne (studente all’Istituto “Carlo Grassi” ) Emanuele Iurilli, ucciso accidentalmente in uno scontro a fuoco fra le Forze dell’Ordine e terroristi di Prima Linea in un bar di via Millio, al vigile urbano Bartolomeo Mana (assassinato a Druento durante un assalto alla locale Cassa di Risparmio), fino a Carmine Civitate, proprietario del “Bar dell’Angelo” di piazza Stampalia, anche lui rimasto a terra durante uno scontro a fuoco fra polizia e terroristi e a Carlo Ghiglieno, dirigente Fiat, ucciso in via Petrarca mentre si recava in ufficio. Ma bisogna arrivare e soffermarci all’11 dicembre del 1979, quarantatre anni fa, per addentrarci nel capitolo forse più teatralmente eclatante, vergognosamente firmato ancora una volta in città da Prima Linea. E’ un martedì. Nell’aria si respira già il clima festoso dell’imminente Natale. In via Ventimiglia, nella sede della “SAA-Scuola di Amministrazione Aziendale” (la prima business school italiana, fondata negli anni Cinquanta e specializzata nella formazione manageriale) sono le 15 del pomeriggio e si fa normale lezione nelle varie aule, quando la “normalità” viene bruscamente interrotta dall’irruzione di un commando di terroristi appartenenti a Prima Linea. Loden. Eskimo. Da sotto spuntano fucili, pistole e perfino un kalashnikov. In poco più di mezz’ora, la lettura di un delirante comunicato contro la “scuola dei padroni” e la selezione di dieci “nemici di classe”, 5 studenti del Master e 5 docenti, portati a dimostrazione in corridoio, legati, imbavagliati e brutalmente gambizzati. Ventidue colpi di pistola. Sono la loro firma e l’immagine cruenta della mattanza compiuta. Nel corridoio un fiume di sangue.
