STORIA- Pagina 9

Prorogata la mostra “Palazzo Lascaris e i suoi abitanti”

La mostra storica e artistica intitolata “Palazzo Lascaris e i suoi abitanti”, allestita nelle sale del piano terreno di via Alfieri 15, è stata prorogata al 3 gennaio 2025. Orario di apertura: dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 (festivi e 16 agosto esclusi). Ingresso gratuito.

In questi mesi (la mostra è stata inaugurata il 25 marzo) centinaia di persone hanno apprezzato le ricerche storiche e gli approfondimenti legati ai quattrocento anni di vita di uno dei più sontuosi e meno noti palazzi barocchi del centro di Torino, trasformato nel tempo da residenza aristocratica in sede di uffici. La mostra ha la curatela del direttore della Fondazione Cavour di Santena Marco Fasano ed è stata allestita grazie ai numerosi prestiti di oggetti e documenti forniti dalla Camera di Commercio di Torino. Ai visitatori viene dato in omaggio il catalogo.

Il presidente Davide Nicco e l’intero Ufficio di presidenza del Consiglio regionale, che si è insediato lo scorso 22 luglio, ha deciso di prorogarne l’apertura per permettere ai nuovi consiglieri di conoscere la storia del palazzo che li ospiterà per i prossimi cinque anni ed anche per riaprire le visite alle scolaresche: al link http://www.cr.piemonte.it/prenotazionevisite/scuole/scegli-data le classi possono prenotare la visita gratuita il giovedì o il venerdì mattina tra il 26 settembre e il 20 dicembre 2024.

Peñarol, il Piemonte d’Uruguay. Storie di calcio e di emigrazione

Il nome deriva da Pinerolo e lo si deve a Giovan Battista Crosa che nel 1765 arrivò a Montevideo e fondò – insieme ad altri conterranei – il quartiere che , storpiando il nome del comune situato allo sbocco in pianura della Val Chisone, nel tempo, è diventato il “barrio” Peñarol

Nel 2016 a Montevideo il Club Atletico Peñarol ha festeggiato l’inaugurazione del suo nuovo stadio: 43.000 posti a sedere, attrezzato, moderno e con un area-museo dedicata alla storia  del club più prestigioso dell’Uruguay. D’ora in poi l’Estadio Campeón del Siglo celebrerà le gesta dei calciatori i maglia giallo-nera, ricordando il legame tra questa  squadra, tra le più vincenti del sudamerica, e il Piemonte.

Il nome Peñarol , infatti, deriva da Pinerolo e lo si deve a Giovan Battista Crosa che nel 1765 arrivò a Montevideo e fondò- insieme ad altri conterranei – il quartiere che , storpiando il nome del comune situato allo sbocco in pianura della Val Chisone, nel tempo, è diventato il “barrio” Peñarol. Una storia che è diventata uno spettacolo teatrale, grazie al testo curato da Renzo Sicco e Darwin Pastorin che,  grazie ad Assemblea Teatro, anima le scene con il progetto ”Peñarol, il Piemonte d’Uruguay:storie di calcio e di emigrazione”. Pinerolo, Peñarol: due nomi identici che in due lati del mondo in continenti lontani raccontano di emigrazione, povertà, lavoro, rinascita ..e calcio! Bella storia, quella del club che assume i colori sociali giallo e nero, ispirati a quelli delle barriere delle strade ferrate, essendo molti dei suoi fondatori dei “musi neri”, macchinisti delle ferrovie uruguaiane, per lo più italiani. Un legame profondo, segnato dalle storie d’emigrazione dalle terre piemontesi verso il “nuovo mondo”, dove la passione per il calcio si confonde con la storia in una città, capitale d’Uruguay, dove nelle vene della metà dei tre milioni di abitanti, scorre sangue italiano. I pinerolesi, come tanti altri abitanti delle valli e della pianura, andavano a Genova per imbarcarsi, spesso senza conoscere l’effettiva destinazione, stipati in terza classe, a rischio di finire morti affogati quando i piroscafi cedevano alla rabbia dell’oceano, per cercare fortuna nelle “meriche”.

La passione per i “fotbaleur” , nel caso, ha fatto il resto.  Così, quello che nel 1891 era stato fondato a Montevideo come “Central Uruguay Railway Cricket Club” (CURCC), squadra di fùtbol della capitale uruguaiana,  nel 1913, cambia nome in “Club Atletico Peñarol”. In breve, questa “instituciòn deportiva” diventò presto la miglior squadra del Sudamerica, complice il ciclo del grande Uruguay che tra il 1930 ed il 1950 vinse due edizioni dei Mondiali. Quando la finale della Coppa del mondo venne giocata in Brasile, nella storica data del 16 luglio 1950, quando la “Celeste” nazionale uruguagia  sconfisse 2 a 1 la Seleção dei padroni di casa, sprofondando nella disperazione il Maracanà, il Peñarol aveva già conquistato 17 campionati d’Uruguay e forniva alla nazionale giocatori del calibro di Obdulio Varela e Juan Alberto Schiaffino, che poi venne a giocare in Italia, nel Milan. Nel biennio 1960-61 il Peñarol salì in vetta al mondo del pallone, vincendo due Coppe Libertadores (la Champions sudamericana) e una Coppa Intercontinentale. Così i “carboneros” entrarono nella storia del calcio. Nel 1966 arrivò la doppietta: Libertadores e Intercontinentale. Doppietta replicata sedici anni dopo, nel 1982. Nel frattempo arrivano altri 32 titoli nazionali, l’ultimo nel 2012-13.

Un palmares di successi impressionante, al punto da far sì che la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (IFFHS) nominasse il Peñarol “Club del XX° secolo del Sud America”. Ma non tutto si può ridurre ai dati numerici. La passione, la voglia di riscatto sociale, l’incrollabile fede nei colori del “Pinerolo d’Uruguay” , nel tempo, ha rappresentato un fenomeno davvero importante, legatoa  doppio filo con l’Italia. Nei primi grandi calciatori aurinegros ( gialloneri , per via del colore delle maglie) erano evidenti le tracce di italianità: le più grandi leggende del club erano figli o nipoti di italiani. Basta pensare alle prime due stelle, Lorenzo Mazzucco e Josè Piendibene Ferrari, entrambi avevano i genitori italiani. E poi Juan Alberto Schiaffino ( così scrisse di lui Eduardo Galeano: “con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio”),il centrocampista Rafael Sansone, il difensore Ernesto Mascheroni , l’istriano di nascita Ernesto Vidal, centrocampista che aveva “tre patrie ma solo una gli regalò il tetto del mondo”, il portiere Roque Maspoli e tanti altri. Una storia di scatti, rincorse e calci al pallone che continua, sull’asse della memoria che unisce i due lati del mondo, da Pinerolo al “barrio” Peñarol.

Marco Travaglini

Chi era davvero Enrico Mattei?

 

“Nel luglio del 1987, dopo un colloquio con Mario Ronchi alla cascina Albaredo di Bascapè, raggiungo il breve prato della notte del 27 ottobre.

C’è una lapide sul terreno, in memoria di Mattei, Bertuzzi, McHale. All’intorno, tanti alberi e una fitta siepe. In un angolo, un cancello bianco, chiuso. Di quando in quando il silenzio è rotto dal rombo di un aereo che passa basso scendendo su Linate”. Con queste parole Italo Pietra concludeva il suo libro ‘Mattei La pecora nera’ il libro dedicato ad Enrico Mattei, uno dei più geniali ed autorevoli figli dell’Italia del Novecento, partito dalle Marche come operaio e giunto alla presidenza dell’Eni, la sua creatura, dopo aver salvato l’Agip dalla liquidazione cui era condannata alla fine della seconda guerra mondiale, considerata un inutile residuato del regime fascista. La sua vita ebbe termine, come tutti sanno, il 27 ottobre del 1962 mentre rientrava da una due giorni in Sicilia, di cui molto di è detto e scritto. Il Morane-Saulnier mentre era in fase di avvicinamento a Linate cadde e con lui morirono il pilota Irnerio Bertuzzi, asso dell’aviazione della Repubblica Sociale ed il giornalista americano William McHale, della testata Time-Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Il testo di Italo Pietra, già comandante partigiano nell’Oltrerpo Pavese e direttore de ‘Il Giorno’, quotidiano voluto da Mattei, dal 1960 al 1972 è una delle pietre miliari, anche se datato, dei lavori a lui dedicati. L’aereo cadde in territorio del comune di Bascapè, piccolo centro della Provincia di Pavia incuneato tra i territori di quelle di Milano e di Lodi.

Qui si trova l’area commemorativa dei 3 scomparsi in quello che all’epoca venne classificato come un incidente ma che oggi la caparbia tenacia di un magistrato, l’ex procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, può ragionevolmente fare ritenere un attentato. Il magistrato ha riassunto i risultati degli anni di lunghe indagini e ricostruzioni giudiziarie in un testo che vale davvero la pena di leggere: ‘Il caso Mattei. Le prove dell’omicidio del presidente dell’Eni dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità’. Oggi, anche a distanza di oltre trent’anni dalla descrizione che diede Italo Pietra l’area di Bascapè non è molto dissimile. Al suo esterno dei cartelli posti ‘a ricordo del fondatore di Eni nel luogo in cui perse la vita’ spiegano sinteticamente chi era e all’interno una lapide, offuscata dal tempo, ricorda i tre scomparsi nel tragico incidente. Chissà se verrà data una ripulita il prossimo anno, visto che sono ormai sessanta gli anni dell’evento. Il luogo, posto in campagna, sembra quasi immerso in un silenzio irreale, quasi angoscioso, quasi a perpetuo ricordo di  quanto accadde quella notte. Ma chi era veramente Enrico Mattei ?  Un Uomo che vedeva molto al di là del tempo in cui viveva, che sapeva creare lavoro ed assicurare al lavoro italiano energia a buon mercato, un Uomo che capiva i tempi, che capiva che il mondo stava cambiando, che sicuramente non si faceva troppi scrupoli per arrivare agli obiettivi che si prefissava, ma che sognava un’Italia aperta al mondo. Forse la definizione sentita in un bar di Bascapè è quella che gli si cuce maggiormente addosso: “Era un grande italiano, un patriota, un partigiano’. E la sua opera andrebbe studiata maggiormente nelle scuole perché è comunque un pezzo di storia dell’Italia odierna.

Massimo Iaretti

I 300 uomini dello Chaberton

Sospesi a 3130 metri di altitudine, nel silenzio più totale, i 300 uomini della 515esima batteria dello Chaberton ascoltano via radio le parole di Mussolini provenienti dal balcone di piazza Venezia a Roma: “…la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna..”.

Era il 10 giugno 1940. La guerra con i francesi si avvicina, sono attimi di grande tensione e incertezza. Al forte Chaberton, fra il valico del Monginevro e il Colle del Sestriere, tra l’alta Val Susa e la valle di Briancon, a strapiombo sui paesi di Cesana e Claviere, la guarnigione è comandata dal giovane capitano Spartaco Bevilacqua mentre sul versante opposto i mortai francesi sono pronti ad aprire il fuoco per distruggere l’odiato Chaberton. Fa freddo lassù e la nebbia è fitta. I primi giorni trascorrono in una relativa calma interrotta solo da scariche di fucileria e di armi automatiche. I cannoni del forte aprirono il fuoco alcune volte verso obiettivi militari francesi ma con scarso successo. Nella notte tra il 13 e il 14 giugno suonò l’allarme per l’arrivo di alcuni aerei nemici che sorvolarono il forte e raggiunsero Torino che verrà pesantemente bombardata. Nei giorni successivi il nostro presidio militare assistette a duelli di artiglieria a distanza tra il forte italiano Jafferau, sopra Bardonecchia e il forte francese de l’Olive. Niente di più, l’artiglieria francese, per il momento, ignorò lo Chaberton e si concentrò contro la fanteria italiana in valle. Ma il 21 giugno fu una giornata drammatica: un inferno di fuoco si scatenò ai 3130 metri del monte Chaberton. L’imponente figura della montagna fu teatro di una delle tante battaglie della II Guerra mondiale. I francesi decisero di fare sul serio: l’ordine impartito ai comandi militari fu di demolire lo Chaberton. I mortai francesi cominciarono a martellare la vetta distruggendo sei delle otto torri del forte e la stessa teleferica, nove uomini dello Chaberton morirono sotto le bombe, una cinquantina tra ustionati e feriti, di cui alcuni gravi e notevoli furono i danni alle strutture.
Ci fu poca gloria per il forte alpino più alto e più famoso d’Europa costruito a fine Ottocento, ai tempi di Umberto I, proprio per la sua notevole importanza strategica, una fortificazione nota come la batteria dello Chaberton. Costituiva una grave minaccia per il fondovalle e in particolare per la conca di Briancon e quindi i francesi non vedevano l’ora di metterlo fuori uso. Ma restò sempre una postazione militare di assoluta rilevanza a tal punto che lo stesso De Gaulle nel 1947 pretese e ottenne la vecchia fortezza. In quel momento il monte Chaberton passò alla Francia, nel territorio del comune di Nevache. Le rovine della batteria sono visitabili ma bisogna pur sempre arrivare fino in vetta dove è possibile osservare non solo i resti delle torri ma anche le gallerie sotto il forte che si snodano per centinaia di metri nelle viscere della montagna. È quindi necessario attrezzarsi in maniera adeguata e informarsi bene prima di partire. Il monte è diventato una classica meta per escursionisti e scialpinisti. Il forte è raggiungibile a piedi o in mountain bike percorrendo la vecchia strada militare da Fenils (frazione di Cesana) o, a piedi, partendo dal paese di Claviere. Non solo vediamo chiaramente il monte salendo in auto in alta Valle di Susa, lassù ad oltre tremila metri, con quella cima dentellata dalle torri della fortezza ma, ogni volta che lo guardiamo, ci domandiamo a cosa serviva e se è servito a qualcosa a quell’altitudine il forte Chaberton. Per saperne di più si può leggere il sempre attuale libro “Distruggete lo Chaberton!” scritto dal colonnello di artiglieria Edoardo Castellano, edizioni Il Capitello, Torino. Un vecchio libro assai utile per scoprire i segreti militari dello Chaberton nel quale la tragica giornata del 21 giugno 1940 è documentata nei minimi particolari dall’autore, ufficiale di artiglieria e gran conoscitore della montagna. Un volume che ci parla di cannoni, di traiettorie, di mortai, di guerra, di sangue e soprattutto di 300 valorosi soldati e del loro forte.
 Filippo Re

Quaglieni presenta “Matteotti” a Bardonecchia

Mercoledì 14 agosto alle ore 17,30 nel Foyer del Palazzo delle Feste di Bardonecchia (piazza Valle Stretta 1) verrà presentato il libro che lo storico Pier  Franco Quaglieni ha curato, dotandolo di un suo importante  saggio storico che sta facendo molto discutere, su Giacomo Matteotti nel centenario del suo assassinio (1924 – 2024), edizioni Pedrini. Oltre al suddetto saggio dal titolo “Matteotti fra contemporaneità e storia”, la pubblicazione contiene il discorso di Matteotti alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 in cui egli denunciava i brogli perpetrati dai fascisti per vincere le elezioni dell’aprile 1924;  un inedito di Mario Soldati, il saggio che Piero Gobetti scrisse e pubblicò con la sua Casa Editrice all’indomani del delitto commesso il 10 giugno e scoperto il 16 agosto 1924, ed un ricco apparato iconografico sulla vita di Matteotti. Il saggio  di  Quaglieni è un lavoro fortemente innovativo su Matteotti, che propone una lettura storiografica lontana dalle banalizzazioni che hanno caratterizzato lo studio della figura politica di Matteotti nel passato. Interverrà Edoardo Massimo Fiammotto. Ingresso libero. L’iniziativa rientra nel calendario delle manifestazioni estive promosse dal Comune di Bardonecchia.

Marsala, il destriero di Giuseppe Garibaldi

L’isola di Caprera fa parte dell’arcipelago di La Maddalena a nord-est della Sardegna, al largo della costa Smeralda. L’isola, abitata da poche decine di persone (la maggior parte degli abitanti risiede nel borgo di Stagnali) è raggiungibile grazie a un ponte che la collega all’Isola Maddalena, e fa parte integrante da più di vent’anni dell’area protetta dell’Arcipelago della Maddalena. Caprera è famosa per essere stata il buen retiro di Giuseppe Garibaldi che giunse per la prima volta sull’isola il 25 settembre del 1849. Tra varie peripezie vi tornò spesso e vi visse a lungo fino alla morte. L’eroe dei due mondi si spense nel tardo pomeriggio del 2 giugno 1882 e nella sua casa l’orologio fu fermato mentre i fogli di un grande calendario non vennero più staccati segnando per sempre l’ora e il giorno della sua morte.

Le spoglie di Giuseppe Garibaldi riposano da allora in un’area dell’isola che prende il nome di compendio Garibaldino. Lì, nel piccolo cimitero di famiglia, il sepolcro del comandante dei Mille si trova sotto un grande masso di granito con delle grosse maniglie sui lati. A poca distanza dalla sua sepoltura c’è anche un cippo abbandonato, coperto dai rovi, dove si può leggere a malapena l’incisione voluta dallo stesso eroe: “Qui giace la Marsala che portò Garibaldi in Palermo, nel 1860. Morta il 5 settembre del 1876 all’età di 30 anni”. Marsala era l’inseparabile cavalla bianca di Garibaldi. Aveva 14 anni quando gli venne regalata dal marchese Sebastiano Giacalone Angileri che, raggiunto Garibaldi e i suoi Mille sulla spiaggia di Marsala, tenendola per le briglie, disse: “Generale, questo è un dono per voi”.

E così, in sella alla sua adorata cavalla, Garibaldi entrò a Palermo il 27 maggio 1860. E con lei affrontò l’intera campagna militare nel regno delle Due Sicilie, affezionandosi a tal punto da portarla con sé il 9 novembre 1860, quando salpò per Caprera. Sull’isola, la cavalla, rimase con lui fino alla morte, nel 1876, quando aveva ormai trent’anni, età avanzatissima per questi quadrupedi. Lo storico Giuseppe Marcenaro, nel suo libro Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie, citandone la storia, scrive che a Marsala in via Cammareri Scurti una lapide collocata nel maggio del 2004 su iniziativa del Centro Internazionale di studi Risorgimentali Garibaldini ricorda il giorno del “regalo”. Recita, l’epigrafe: “Sebastiano Giacalone a Giuseppe Garibaldi donò l’anonima bianca giumenta che ribattezzata Marsala uscì da questo portone e corse le vie della gloria a Calatafimi, a Teano, a Caprera con l’invitto Generale unificatore della patria italiana”. Così, come Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno, Asturcone, il destriero di Giulio Cesare o Marengo, il piccolo stallone arabo di Napoleone, anche Marsala è giusto che abbia il suo posto nella storia.

Marco Travaglini

 

Torino e le sue mummie: il Museo egizio

 

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticci ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

4. Torino e le sue mummie: il Museo Egizio

Con oltre 850.000 visitatori all’anno, il Museo Egizio è un inopinabile punto di riferimento nel panorama culturale e scientifico, non solo del territorio ma anche a livello internazionale.
Al di là della sua notorietà, il primato museale è quello di essere il primo museo del mondo interamente dedicato alla civiltà nilotica.
La collezione affonda le sue radici nel lontano Seicento, quando Carlo Emanuele I di Savoia entra in possesso della Mensa isiaca, una minuziosa tavoletta in bronzo di epoca romana, nota anche come Tavola bembina” – perché originariamente di proprietà del Cardinal Bembo- preziosamente intarsiata in bronzo e metalli, raffigurante figure e geroglifici a imitazione di quelli egizi.
Il reperto suscita grande interesse tra gli studiosi dellepoca, che iniziano ad appassionarsi a quella parte di mondo, dove in effetti si sviluppano le prime civiltà che tuttoggi studiamo con fascinazione e meticolosità. Accade così che tra il 1759 e il 1762, Vitaliano Donati venga incaricato di recarsi in Egitto per effettuare una serie di scavi, da cui emergono diversi reperti di straordinaria bellezza, tuttavia sarà necessario attendere le campagne napoleoniche prima che la moda dellegittologiadilaghi in Europa, soprattutto grazie alle scoperte di Bernardino Drovetti, collezionista piemontese, allora diplomatico al servizio della Francia, a cui si deve la raccolta di ben 8.000 reperti.
Nonostante tale motivazione pare comunque strano che proprio qui, ai piedi delle Alpi, sorga una raccolta così ampia, da essere seconda solo al Museo del Cairo, tutta dedicata a quellesotica cultura sabbiosa e vetusta, non di meno ormai il Museo si presenta come uno dei principali centri nevralgici torinesi, indissolubilmente legato alla cittadinanza e, anzi, luogo misterioso che ben si addice a sottolineare un certo carattere occulto della Torino esoterica.
Il Museo infatti, oltre alla fama intellettuale indiscussa, si circonda di diverse leggende che lo rendono unicoanche sotto altre ottiche: vi ricordate, cari lettori, che cosa è avvenuto nellormai lontano 2000? In quellanno si registrano innumerevoli casi di bambini colpiti da malessere e intossicazioni proprio durante la visita allEgizio, i medici non trovano subito una spiegazione e lasciano così il tempo ai superstiziosi di gridare alla maledizione del faraone; poco dopo viene in effetti fuori che la colpa è delle mummie, o meglio, delle loro teche, pulite con un particolare solvente che danneggia il benessere del pubblico.
Vi è inoltre la questione dei triangoli magici, quello Bianco e quello Nero, i cui influssi positivi e negativi si riversano silenziosi e costanti sui cittadini, ecco, proprio allinterno delledificio pare vi siano molti oggetti dalle forti influenze energetiche, sia benevole che malevole, anche se gli esperti del settore ci tranquillizzano ricordandoci che il bene abbonda e la maggior parte dei reperti incriminati sono in realtà legati alla Magia Bianca.
Tiriamo quindi subito un sospiro di sollievo, senza tuttavia abbassare del tutto la guardia, dopotutto non è poco lo spazio occupato dal papiro definito Libro dei Morti, una delle attrazioni principalidellesposizione che, con i suoi 864 cm di lunghezza, occupa unintera parete! Si tratta di un diuturno reperto risalente al 332-320 a. C. e contenente vere e proprie istruzioni per guidare le anime nellaldilà; le sepolture egizie sono solite avere un oggetto simile nel corredo del defunto, ma quello conservato a Torino è il più dettagliato e completo mai stato ritrovato.


E voi, in che sfera dinfluenza lo inserireste, in quella Bianca o in quella Nera?
A connettere il Museo alla città, vi è poi una delle molte versioni del mito della fondazione dellantica Augusta Taurinorum: un giovane principe egizio, Pa Rahotep, costretto ad abbandonare il proprio paese dorigine ed a intraprendere un lungo viaggio, che prima lo porta sulle coste della Liguria, ed infine lo vede approdare in Piemonte dove, sulle sponde di un fiume il Po, secondo la storia- fonda una città che denomina Eridania -il fiume Po, per secoli, è noto come Eridano-. Una volta insediatosi, Pa Rahotep introduce il culto del dio Api, raffigurato con le sembianze di un Toro. Da qui la derivazione del nome della città.
Trovo sempre affascinanti, cari lettori, questi aspetti mitici e leggendari, ma è bene occuparsi anche di altri assunti, decisamente più quantificabili anche se meno intriganti.
Torniamo allepoca ottocentesca, precisamente nel 1824, quando re Carlo Felice acquista la collezione Drovetti, e, dopo averla unita a quella di Donati, dona vita al primo museo in nuce dedicato alla civiltà egizia.
La prima esposizione ha sede presso il Collegio dei Nobili, edificio costruito su progetto di Michelangelo Garove (dal 1679), tuttavia, nel corso del secolo, grazie agli interventi, di Giuseppe Maria Talucchi e Alessandro Mazzucchetti, lo spazio viene ampliato e adeguato alle nuove necessità, finché, a seguito degli importanti rinnovamenti, nel 1832, il Museo apre finalmente al pubblico.
Secondo il gusto del periodo, i reperti dellantico Egitto sono mescolaticon articoli romani, preromani e preistorici, ed è inoltre presente una sezione di storia naturale.
Nel tempo la collezione singrandisce, comportando diversi cambi di sede, dallAccademia delle Scienze, al Regio Museo di Antichità fino alla sede attuale, in via Accademia delle Scienze.
Di determinante importanza sono stati gli scavi archeologici di Ernesto Schiaparelli e di Giulio Farina, i quali, tra il 1903 e il 1937, portano a Torino circa 30.000 referti. Nel 1924 lo stesso Vittorio Emanuele III di Savoia solca i corridoi dellesposizione, attraversando per primo la nuova ala del Museo, denominata Ala Schiapparelli, nella quale sono visionabili oggetti provenienti da Assiut e Gebelein.
Tra gli anni 30 e gli anni 80 del Novecento si predispongono ulteriori ristrutturazioni e adattamenti, tra cui linstallazione della Pinacoteca e la sistemazione dellAla Schiaparelli; di particolare rilevanza è stata, allepoca, lopera di ricomposizione del tempietto rupestre di Ellesiya, donato dal Governo Egiziano in riconoscimento dellaiuto italiano nel salvataggio dei templi nubiani minacciati dalle acque della diga di Assuan. Per il trasferimento a Torino la struttura viene tagliata in 66 blocchi e poi ricostruita ed inaugurata il 4 settembre 1970.
A partire dagli anni 80 lattenzione si pone sulla costruzione di nuovi spazi espositivi sotterranei, dedicati ai ritrovamenti di Assiut, Qau el-Kebir e Gebelein, nonché allampia sala del piano terra destinata ad accogliere le testimonianze dellEtà Predinastica e dellAntico Regno.
Un altro anno da ricordare è senzaltro il 2006, (Giochi Olimpici Invernali di Torino), quando lo statuario è riallestito dallo scenografo Dante Ferretti; lintervento rifunzionalizza gli ambienti allintero percorso museale, ora articolato su cinque piani espositivi, muta inoltre notevolmente anche la generale atmosfera, ora assai suggestiva e teatrale, costituita da unilluminazione impattante e altamente immersiva. La riapertura del 2015 segna il nuovo approccio rivolto ai visitatori, decisamente meno faticosoe didatticodelloriginale, ma maggiormente apprezzato dal pubblico di massa, che allo sforzo intellettivo predilige lapprendimento stile TikTok.
Ancora qualche parola per chi fosse interessato al contenuto della raccolta e non solo ai selfienella Galleria dei Re.
Oltre al già citato Libro dei Morti, vi sono altri due papiri degni di nota: il papiro dello sciopero e il papiro erotico.

Il primo documenta uno tra i più antichi scioperi della storia, svoltosi durante il regno di Ramesse III, portato avanti dagli operai e dagli artigiani impegnati nella costruzione delle tombe reali di Luxor; il secondo invece, proveniente dal villaggio di Deir el-Medina, smorzalidea austera e monumentale che solitamente caratterizza lestetica dellarte egizia, mostrando al pubblico illustrazioni sinuose e figure curvilinee, ma soprattutto immagini esplicitamente erotiche, contrassegnate da tratti ironici ai limiti della comicità, senza mai perdere il tocco raffinato tipico dellOriente.
Oltre a testimoniare che chi non lavora, non fa lamore” – lo sciopero termina dopo alcuni mesi- i reperti dimostrano come la Cultura con la Cmaiuscola non abbia nulla a cui spartire con censura e bigottismo, aspetti esclusivi degli integralismi religiosi e dei regimi politici totalitari. Ce lo insegnavano già millecinquecento anni prima di Cristo, eppure luomo contemporaneo continua ad avere una testa durissima.
Oltre alla Tela di Gebelein, la più antica pittura su lino mai rinvenuta, raffigurante momenti di vita quotidiana e usanze dellepoca, consiglio di soffermarvi sulla tomba di Kha, una sorta di archistardellepoca, noto capo architetto, progettista della Necropoli Tebana. La sua bravura lo porta a lavorare per i grandi faraoni della XVIII dinastia, i suoi meriti sono riconosciuti pubblicamente, tanto da ottenere una tomba più piccola, ma uguale in tutto e per tutto a quella dei regnanti. Larchitetto viene sepolto insieme alla moglie Merit, il loro corredo funerario consta di circa 460 pezzi, tra cui anche una spettacolare parrucca rimasta ancora perfettamente intatta.
Dato che è secondo solo al Museo del Cairo, non credo sia il caso di continuare, in questa sede, con lelenco dei reperti visionabili allinterno dellesposizione torinese, vi invito quindi ad andare, cari lettori, a scoprire le meraviglie del Museo Egizio con i vostri occhi .
Spero, con questo mio scritto, di avervi un poincuriosito, perché non mi stancherò mai di sottolineare limportanza dei luoghi delle Muse, contenitori concreti della cultura, luoghi di testimonianza e bellezza, roccaforti dellunica, vera, insopprimibile libertà, quella intellettuale.

Alessia Cagnotto

 

Antichi legami tra Luzzogno e Casale Monferrato

 

Luzzogno fu la prima comunità a rendersi autonoma da Omegna nel 1312 ed erigendosi in parrocchia nel 1455 rappresentò per quattro secoli l’unità religiosa e civile della Valstrona. Nel 1756 nacque il comune libero di Luzzogno il quale, come gli altri della vallata, rimase distinto fino al 1926 quando fu riunito nel comune di Valstrona per decreto governativo. In passato gli uomini del piccolo borgo trovarono lavoro nelle cave di marmo, nelle miniere, in agricoltura e negli alpeggi, vera fonte economica del paese. Proficua fu l’emigrazione esterna oltre le Alpi verso la Germania, raggiunta a piedi in una settimana di viaggio attraverso il Lago Maggiore verso Bellinzona e seguendo il Ticino per fermarsi solitamente due anni. Meno proficua fu l’emigrazione interna verso la Lombardia e il Piemonte, effettuata nella stagione invernale dai concari e palai venditori di pale da riso, gioghi per buoi, cucchiai e mestoli ritornando a casa in primavera con piccoli guadagni. L’emigrazione fu interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale, creando grave danno economico per la comunità.

Miglior fortuna ebbe la nobile famiglia dei conti Gozzano, provenienti in passato dalla Val Vigezzo. Lasciarono Luzzogno alla metà del ‘500 per spostarsi a Brolo di Nonio (il paese dei gatti) sulle sponde del Lago d’Orta dove edificarono la loro bella casa nel Canton di Sopra a Nord della chiesa. Tramite  cinque matrimoni con membri dei conti Tarsis di Brolo, possedevano il 40% dei terreni del borgo, costruirono la nuova sacrestia e il porticato della chiesa sorretto da sette colonne. I Gozzano-Tarsis risiedevano nell’imponente palazzo di Brolo del XVII° secolo con i suoi loggiati, le decorazioni affrescate e giardini formali. Per costruire l’oratorio annesso al palazzo, dedicato alla Vergine dei sette dolori, ottennero la dispensa dal vescovo di Novara mons. Gilberto Borromeo. Nel 1650, le due  famiglie emigrarono a Madrid e ad Aranjuez dove fecero fortuna con attività commerciali e prestiti di denaro. Al rientro dalla Spagna, i Tarsis acquisirono il titolo di conti di Castel d’Agogna, segnando l’inizio di un nuovo radicamento nel novarese ed edificarono il palazzo neoclassico a Milano.
A Briga Novarese, i Gozzano acquistarono nel 1730 il palazzo e l’oratorio accanto alla parrocchia dal nobile Brusati ed ereditarono i beni della cappella della Beata Vergine Immacolata, denominata Madonna del Motto, ospitando il vescovo di Novara mons. Marco Aurelio Bertone nel 1761. Altre importanti discendenze furono create all’inizio del ‘600 dai Gozzano di Luzzogno con le famiglie Alessi e Bialetti, fondatori delle note aziende di casalinghi. La casa dei conti Gozzano fu ceduta nel 1709 al comune di Luzzogno, con instrumento rogato dal notaio Giovanni Albergante di Omegna, da Francesco Bernardino figlio del notaio casalese Antonio Gozzano e ultimo esponente della famiglia a lasciare la vallata, ricco proprietario di case e terreni a Casale, Cereseto e Moncalvo.
La casa è stata ristrutturata nel 1972 mantenendo l’architettura originale dove è  conservato, su una  parete del loggiato, un affresco del ‘500 di autore sconosciuto che riproduce i vizi e le virtù rappresentate da una doppia serie di figure allegoriche, restaurato da don Luigi Arioli padre rosminiano e professore d’arte a Stresa. Due importanti personaggi hanno dato risonanza a Luzzogno, mons. Carlo Antonio Gozzano oriundo nato a Casale nel 1640, arcidiacono della cattedrale casalese e vescovo di Acqui e mons. Raffaele De Giuli nato a Luzzogno nel 1884, arciprete di Domodossola e vescovo di Vallo di Lucania e Albenga. Anche la chiesa cattolica di Luzzogno ha il proprio santuario. Dedicato alla Madonna delle Grazie, detto della Colletta, è stato eretto come ex voto da un Gozzano nel ‘600 su un antico oratorio dove si svolge la famosa festa triennale in onore della regina protettrice della vallata.
Nella Valstrona esistono due tipi di costumi femminili simili, pittoreschi, tradizionali ed espressione di cultura montana. Nella alta vallata (Campello Monti e Forno) l’indumento si richiama ai modelli Walser della Valsesia,  composto da un vestito nero di lana, una camicia bianca ricamata con ampia apertura comoda per l’allattamento e due sottovesti, una bianca rifinita con pizzi e passamaneria e l’altra colorata più rustica, ricoperte da una pettorina ricamata fermata da due nastri colorati. Nella media vallata (Luzzogno, Massiola, Fornero e Sambughetto) il costume è composto da una gonna nera di lana pieghettata e uno scamiciato di stoffa bianca a maniche lunghe finemente ricamato ricoperto dal bustino aderente senza maniche, arricchito da motivi floreali con nastro colorato in vita. Le famiglie Gozzano, emigrate a metà ‘500 nel casalese, riuscirono ad ottenere tanta dignità e ricchezza tali da condizionare la Corte dell’epoca e furono definiti i banchieri dei Gonzaga, duchi di Mantova e Monferrato. L’accorta e coraggiosa politica patrimoniale permise loro di scalare diversi rami della nobiltà diventando signori, consignori, conti ed in seguito marchesi di San Giorgio, Treville, Odalengo Grande e Piccolo, Olmo Gentile (Asti) e Perletto (Cuneo), edificando diverse chiese e palazzi in Monferrato e a Torino.
I Gozzano erano proprietari di una fabbrica di orologi con fonderia annessa a Ginevra e gli importanti matrimoni con membri di una trentina di casate nobiliari piemontesi, liguri, savoiarde, austriache e balcaniche portarono ad aumentare il loro patrimonio, definito il più colossale di sempre del Monferrato. Ulteriore prestigio è rappresentato dalla parentela recentemente emersa sulla linea romana dei Gozzano di Agliè con la famiglia materna del principe Maurizio Gonzaga. Sappiamo però che in genealogia le persone che portano lo stesso nome non sempre discendono da un comune antenato. Nel 1995 il marchese Titus Gozani di Dusseldorf, ultimo esponente del ramo austriaco emigrato da San Giorgio Monferrato a metà ‘700, ritrovò le proprie origini a Luzzogno concludendo la ricerca iniziata a Casale dal padre marchese Leo Ferdinando nel 1963, luogo di incontro con i parenti conti Cavalli d’Olivola di Lucedio e con il nostro giornalista Idro Grignolio. Oggi le famiglie Gozzano risiedono in Piemonte, Lombardia, Liguria, Abruzzo, Lazio, Germania, Brasile (Itu e Sorocaba) e negli Usa (New York, Mass, Colorado e California). I loro antichi legami, che si erano interrotti, sono stati ricuciti dall’autore nel 2018 a Luzzogno.
Armano Luigi Gozzano

Badaluk, burnia, ramassin: incursioni saracene nel dialetto piemontese

Damaschin, burnia, badaluk, faudal… sono tante le parole piemontesi di origine araba, alcune delle quali si usano ancora oggi in varie parti del Piemonte.

In effetti, i contatti tra le due lingue risalgono a oltre 1200 anni fa quando i saraceni si insediarono per almeno un secolo tra torinese e cuneese.
Nel IX secolo i mori provenienti dal nord Africa sbarcarono in Spagna e raggiunsero le coste francesi, la Provenza e infine le montagne piemontesi su cui innalzarono torri di avvistamento e bastioni per difendersi, molti dei quali erano già esistenti e furono in seguito fortificati dagli arabi. Quante volte in montagna troviamo un’insegna turistica con la scritta “torre saracena” che in realtà non è proprio “saracena” ma preesistente all’arrivo degli arabi. E allora, aspettando i dolcissimi ramassin o dalmassin, le susine forse più buone e gustose, chiamate anche “damaschin” per evocare una millenaria origine siriana, passiamo brevemente in rassegna alcune parole arabe che sono penetrate con forza nel dialetto piemontese. Altri nomi di provenienza araba sono “cossa” (zucca) che deriva dalla parola araba “kusa” (zucchina), “badaluk”(sciocco) dall’arabo “mamaluk”, cioè i Mamelucchi, i soldati-schiavi dei sultani, “fàudal” (grembiule) dall’arabo “fodhal” (grembo), “burnia” (contenitore di vetro) dall’arabo “buri” e così via. Ma torniamo ai ramassin o “damaschin” o ancora “dalmassin” perché anche sulla frutta e in particolare sulla susina o prugna che sia, da oltre un millennio saraceni e crociati sono ai ferri corti, tanto per cambiare. É arrivata dalla Siria, da Damasco, grazie ai saraceni o stati i crociati a introdurla in Piemonte tra una crociata e l’altra in Terra Santa? Il dubbio permane. Comunque sia, la coltura veniva chiamata già allora “damaschin”, termine che risuona ancora oggi in alcune vallate del cuneese. Sembra infatti che il suo nome sia derivato dalla variante di “dalmassin” coltivato nella zona di Mondovì. Da Damasco la susina sarebbe stata importata in Piemonte dai crociati nel XII secolo mentre secondo altre fonti, più attendibili, furono i saraceni a portarla nelle nostre valli durante le scorrerie medioevali tra il IX e il X secolo. Da Bagnasco a Garessio, da Sampeyre a Mondovì sono infatti ancora molte le rievocazioni storiche che narrano l’epoca dei mori nella nostra regione. Il ramassin arrivò prima nelle campagne del saluzzese e del monregalese e poi in Val di Susa, Valli di Lanzo e nel chierese. Altrove il frutto è quasi sconosciuto e il suo nome evoca subito la dolcezza delle marmellate e delle crostate che lo vedono assoluto protagonista, una bontà tutta siro-piemontese.            Filippo Re

Il Bicerin, quando la storia è una delizia

Nel 1763, quando l’acquacedratario Giuseppe Dentis apre la sua piccola bottega nell’edificio di fronte all’ingresso del Santuario della Consolata, non sa di avere aperto il primo caffè  di concezione moderna in Europa. Ancora oggi è il famoso “Bicerin” che prende il nome dalla dolce bevanda proprio lì inventata.

Il locale all’epoca era arredato semplicemente, con tavole e panche di legno. Nel 1856, su progetto dell’architetto Carlo Promis, viene edificato l’attuale palazzo e in questa sede il caffè assume l’elegante forma che oggi possiamo apprezzare: le pareti vengono abbellite con boiseries di legno decorate da specchi e lampade e fanno la loro comparsa i caratteristici tavolini tondi di marmo bianco, il bancone di legno e marmo e le scaffalature per i vasi dei confetti. Alla fine dell’Ottocento viene posta esternamente la devanture in ferro, con le vetrinette ai lati, le colonnine e i capitelli in ghisa. In questo ambiente viene svolta l’attività di confetteria e di caffè-cioccolateria.

Tra gli ospiti illustri nella storia del locale: il conte di Cavour, Nietzsche, Giacomo Puccini, varie altezze reali. E più recentemente Giovanni Agnelli e Umberto Eco, solo per citare alcuni nomi

L’invenzione del bicerin è stata, senza alcun dubbio, la base del successo del locale e, più che invenzione, fu evoluzione della settecentesca bavareisa, una bevanda allora di gran moda che veniva servita in grossi bicchieri e che era fatta di caffè, cioccolato, latte e sciroppo. Il rituale del bicerin prevedeva all’inizio che i tre ingredienti fossero serviti separatamente, ma già nell’Ottocento vengono riuniti in un unico bicchiere e declinati in tre varianti: pur e fiur (simile all’odierno cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), ‘n poc ‘d tut (ovvero “un po’ di tutto”), con tutti e tre gli ingredienti. Quest’ultima formula fu quella di maggiore successo e finì per prevalere sulle altre, arrivando integra ed originale ai nostri giorni e prendendo il nome dai piccoli bicchieri senza manico in cui veniva servita (bicerin, appunto).

Dal 1910 al 1975 il locale è stato gestito dalla signora Ida Cavalli, con l’aiuto della sorella e della figlia Olga, nelle cui mani passò quando la madre si ritirò. Le signore Cavalli sono state molto amate e conosciute da tutta la città: più padrone di casa che ostesse, amorevolmente accudivano tutti gli intellettuali squattrinati che nel Caffè Al Bicerin cercavano riparo dai rigori del freddo.

Nel 1983 Maritè Costa ha raccolto l’eredità delle signore Cavalli, portando il locale al livello di notorietà internazionali a cui  è oggi conosciuto. Il suo è stato uno straordinario lavoro di vera archeologia del cioccolato e dei dolci torinesi: la sua ricerca e studio delle ricette originali, dei materiali di qualità e un vero ed autentico amore per la cioccolata e la pasticceria tradizionale piemontese, hanno fatto sì che questo piccolo caffè venisse conosciuto ed amato nel mondo intero.

 

Il segreto per assaporare al meglio il vero bicerin è non mescolarlo, lasciando che le sue varie componenti si fondano fra di loro direttamente sul palato, con le loro differenti densità, temperature e sapori.

www.bicerin.it