STORIA- Pagina 6

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso: Viva Jaquerio!

Domenica 14 settembre, ore 15 

Una visita immersiva alla scoperta di uno dei maggiori esponenti del gotico internazionale del Piemonte per i 650 anni dalla nascita

 

In occasione dei 650 anni dalla nascita di Giacomo Jaquerio, la Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso propone una speciale visita immersiva nella vita di uno dei maggiori esponenti del gotico internazionale del Piemonte che a Ranverso ha lasciato proprio la sua firma e il suo più grande capolavoro.

Nato nel 1375 circa a Torino da una famiglia con una lunga tradizione nella pratica della pittura, vive la prima parte della sua vita tra continui spostamenti fra Torino, Ginevra, Thonon-les-Bains ed altre località d’oltralpe, lavorando al servizio di Amedeo VIII di Savoia e ricevendo commesse da istituzioni religiose e da importanti casate nobiliari. Dal 1429 in poi abitò stabilmente a Torino. Della sua vasta produzione solo pochissime opere sono documentate. Il primo documento certo relativo a Jaquerio è la sua firma, scoperta solo nel 1914 sugli affreschi dell’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, databili intorno al 1410, epoca in cui l’artista doveva già essere a capo di un’ampia bottega. La Salita al Calvario è il suo capolavoro caratterizzato da toni marcatamente realistici di crudeltà e dolore che ne fanno un brano pittorico di grande tensione drammatica.

 

INFO

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso

Località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera Alta (TO)

Domenica 14 settembre, ore 15

Viva Jaquerio!

Costo visita: 5 euro, oltre il prezzo del biglietto

Biglietti: intero 5 euro, ridotto 4 euro

Hanno diritto alla riduzione: minori di 18 anni, over 65, gruppi min. 15 persone

Fino a 6 anni e possessori di Abbonamento Musei: biglietto ingresso gratuito

È indispensabile la prenotazione entro il giorno precedente.

Info e prenotazioni (dal mercoledì alla domenica):

011 6200603 ranverso@biglietteria.ordinemauriziano.it

www.ordinemauriziano.it

L’Europa minacciata. Perché è ancora importante il 12 settembre 1683?

Il 12 settembre 1683 ha un grande significato storico, soprattutto per l’Europa, in particolare per alcune nazioni centro-orientali.
Questa data segna la Battaglia di Vienna, uno degli eventi più decisivi nella storia europea. Fu combattuta tra l’esercito dell’Impero Ottomano e le forze europee riunite in un’alleanza di eserciti cristiani sotto la guida del re polacco Giovanni III Sobieski. L’assedio di Vienna faceva parte di un tentativo di espansione dell’Impero Ottomano in Europa centrale. Conquistata Vienna sarebbe toccato a Roma, la capitale della Cristianità? La vittoria dell’esercito cristiano, con l’intervento decisivo delle truppe del re polacco Giovanni Sobieski e dei suoi celebri ussari alati fermò l’avanzata ottomana in Europa segnando l’inizio del declino dell’Impero Ottomano nel nostro Continente. Perché è ancora importante questa data? La vittoria a Vienna ha contribuito a rafforzare l’idea che l’Europa dovesse difendersi ad ogni costo dagli attacchi e dalle influenze esterne. Attuale anche oggi. Nell’odierno e delicato contesto geopolitico, quel 12/9/1683 è anche simbolico per le questioni legate alla difesa dei confini europei e alla protezione dei nostri valori di democrazia e di libertà minacciati da grandi potenze con ambizioni espansionistiche imperiali, la Russia, la Cina e la stessa Turchia del sultano Erdogan che sogna di ricostituire una una sorta di Impero Ottomano in miniatura. Il 12 settembre 1683 non viene certo celebrato in pompa magna come il Giorno della Liberazione ma negli Stati coinvolti, come Austria, Ungheria e Polonia, viene ricordato come una parte essenziale della storia patria. In Polonia, per esempio, Sobieski è un eroe nazionale. È solo una riflessione ma quella data ha ancora oggi un preciso significato.                           Filippo Re
Nella foto, il re polacco Sobieski manda al Papa il messaggio della vittoria a Vienna, dipinto di Jan Matejko (1838-1893)

Ecomuseo Villaggio Leumann “Cruto, l’uomo che voleva illuminare il mondo”

Venerdì 12 settembre, alle ore 21, presso l’Ecomuseo Villaggio Leumann in corso Francia 349 a Collegno, si terrà lo spettacolo teatrale dal titolo “Cruto, la storia dell’uomo che voleva illuminare il mondo”, a cura della Borgatta’s Factory, a ingresso gratuito.

Dopo il successo dell’inaugurazione della LeumAPP a cura dell’Associazione Culturale Kòres presieduta da Alba Zanini, con il coordinamento di Carla Gütermann e Fabrizia Rossi, proseguono gli appuntamenti presso l’Ecomuseo del Villaggio Leumann a Collegno.

Lo spettacolo intitolato “Cruto, la storia dell’uomo che voleva illuminare il mondo” è  dedicato alla storia del pioniere dell’illuminazione elettrica nel nostro Paese, uno dei più  grandi inventori e fisici italiani, Alessandro Cruto (1847-1908), noto per aver realizzato una delle prime lampadine ad incandescenza funzionanti in Europa. Fondò un laboratorio ad Alpignano.
Proprio a Collegno nel 1884 l’industriale Napoleone Leumann scelse le lampadine Cruto per illuminare il suo cotonificio perché considerate durevoli, economiche e di ottima luce.
Questo evento si svolge nell’ambito del progetto V.O.C.A.L.E, Villaggi Operai Arte e Cultura al Leumann, progetto vincitore del bando “Ecosistemi culturali” di Fondazione CDP, ente no profit del Gruppo Cassa Prestiti e Depositi.
La storia di Alessandro Cruto, originario di Piossasco, che inventò il filamento di carbone della lampadina e illuminò la prima via d’Italia del suo paese, è  oggi quasi del tutto sconosciuta. Nonostante la diffusione del suo brevetto in tutto il mondo, le luci della ribalta furono per Edison che di fatto scrisse la storia che conosciamo.
La Borgatta’s Factory rappresenta un collettivo costituito da Alberto Borgatta, attore teatrale, storico, divulgatore, Luca Borgatta, regista e videomaker, e Silvano Borgatta, pianista e arrangiatore.

Mara Martellotta

11 settembre 1973, la morte del Cile democratico di Allende

 

C’è un altro 11 settembre oltre a quello delle torri gemelle del World Trade Center di New York, e non va dimenticato: quello del 1973. A Santiago del Cile, quel giorno, con un colpo di Stato, le forze armate guidate da Augusto Pinochet rovesciarono il governo di Unidad Popular del socialista Salvador Allende che morì durante l’assedio al palazzo presidenziale della Moneda. Le sue ultime parole, attraverso Radio Magallanes, furono per i lavoratori cileni: “Ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento grigio ed amaro in cui il tradimento vuole imporsi. Andate avanti sapendo che, molto presto, si apriranno grandi viali attraverso cui passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!”. La giunta militare instaurò un regime dittatoriale che restò al potere per 17 anni.

Il regime di Pinochet lasciò una dolorosa traccia di sangue con omicidi e deportazioni di massa: circa diecimila cileni torturati, moltissimi desaparecidos, centinaia di migliaia di persone costrette all’esilio. La distruzione delle istituzioni democratiche fu veloce e capillare. A tutto si sostituì il dominio militare. Quegli avvenimenti, come la storia si incaricherà di dimostrare, non lasciarono estranei gli Stati Uniti. “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”, ammise senza giri di parole Henry Kissinger, il potentissimo segretario di stato americano dell’era di Richard Nixon. L’appoggio americano ai golpisti rientrava in una più vasta strategia di contrasto, denominata operazione Condor, nei confronti dei paesi sudamericani indirizzati a una “deriva marxista”: Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay, Perù, Uruguay e, appunto, Cile. Gli avvenimenti cileni del settembre 1973, con la loro scia di sangue e terrore, ebbero una vasta eco in tutto il mondo e particolarmente in Italia. L’allora segretario del più grande partito comunista dell’Occidente, Enrico Berlinguer, ben sapendo quanto fosse diverso il Cile dall’Italia, ne trasse comunque spunti e suggestioni per un discorso di più ampia portata che portò all’elaborazione della teoria del compromesso storico. In un lungo saggio dal titolo Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile (pubblicato in tre parti su Rinascita, il settimanale del Pci, il 28 settembre e poi il 5 e 12 ottobre 1973), Berlinguer tratteggiò la strada che doveva portare all’intesa tra le tre componenti della storia popolare e sociale del Paese: la cattolica, la socialista e quella comunista.

Un progetto che finì, qualche anno dopo, con il rapimento e la morte di Aldo Moro. E’ passato poco più di mezzo secolo da quella che è stata, per la mia generazione e non solo, una ferita aperta. Siamo cresciuti in quegli anni ascoltando e cantando i motivi della Nueva Canción chilena, il movimento culturale e artistico che sostenne con forza il governo di Salvador Allende, allorché nel 1970 venne eletto presidente del Cile. Víctor Jara (dopo averlo ucciso allo stadio di Santiago, i militari cileni non solo proibirono la vendita dei suoi dischi, ma ordinarono la distruzione delle matrici), Violeta Parra, i Quilapayún, gli Inti-illimani sono stati i simboli della musica sudamericana di quel periodo. Così come le poesie di Pablo Neruda (che morì due settimane dopo il golpe in ospedale ), i testi e le melodie della musica andina hanno lasciato un segno profondo. L’attualità del loro messaggio resta inalterato. Sebbene la musica non cambi la storia, un verso e una frase possono lasciare un segno profondo nel cuore di tutti, aiutando in questo caso a non dimenticare quell’11 settembre del 1973, il popolo cileno e il presidente Salvador Allende.

Marco Travaglini

Un Figaro rossiniano

È doveroso accostarsi alla famosa cavatina del Barbiere di Siviglia, opera lirica composta inizialmente da Paisiello e successivamente oscurata dal successo mondiale di Gioachino Rossini per raccontare la storia originale di Gennaro Fardello, il coiffeur operativo a Casale Monferrato. L’entrata di Figaro nella seconda scena del primo atto dell’opera rossiniana rappresenta il factotum fortunato della città che vantava la propria popolarità del tuttofare di un tempo che non solo esercitava le proprie mansioni di barbiere ma acconciava parrucche, distribuiva consigli medici e speziali, eseguiva trattamenti odontoiatrici, ricercava giocatori di football per le squadre locali e favoriva incontri galanti tramite messaggi privati.
Tra i baritoni che hanno interpretato Figaro, tratto dalla commedia omonima francese del 1775, spicca il torinese Giuseppe Valdengo richiesto al Metropolitan di New York dal grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini. La fortuna del coiffeur, proveniente dalla scuola napoletana, ebbe inizio nel 1981 quando il maresciallo dell’Esercito e cognato Antonio Fardello lo contattò per sostituire il barbiere delle reclute ormai prossimo alla pensione. Giunto a Casale, Fardello fu alloggiato nel “casermone” Nino Bixio del XI battaglione di fanteria, il più antico della storia italiana fondato nel XVII secolo dal Ducato di Savoia come reggimento del Monferrato. Dal 1958 era sede del CAR, il centro addestramento reclute che ospitava annualmente circa 12000 militari.

Le affilate forbici di Fardello conobbero il pugile italo-malese Nino La Rocca classe 1959, arruolato nell’Esercito Italiano dopo ostacoli e lentezze giudiziarie risolte tramite l’interessamento del presidente Pertini che gli concesse la cittadinanza italiana nel 1983. Degli 80 incontri disputati il pugile vinse 74 volte, di cui 54 per KO con sole sei sconfitte, perdendo il titolo mondiale nel 1984 contro il texano Curry detto “il cobra”. Anche se non possedeva il pugno proibito, La Rocca  finalmente diventò campione europeo dei pesi welter nel 1989, definito il Cassius Clay italiano per la mobilità sul ring e per le doti di pugile innovativo. Fece scalpore il matrimonio di Nino La Rocca con la pornostar toscana Manuela Falorni, detta la “venere bianca”, separato da lei dopo una lunga battaglia giudiziaria. Incredibile la protesta del pugile che si incatenò davanti a Palazzo Chigi e al Quirinale, invocando un lavoro nel settore per essere stato respinto all’esame di insegnante federale. Nel 2014 gli fu concesso un vitalizio dallo Stato Italiano che gli permise di allenare giovani pugili.

Nella struttura militare soggiornarono Adriano Celentano, Gianni Morandi, Ivano Fossati e l’attuale ministro Matteo Salvini per svolgere il periodo di addestramento. Durante le festività natalizie venivano organizzati concerti per le reclute con alcuni cantanti in voga. Tra gli invitati, il Figaro casalese ricorda lo stile ironico e dissacrante di Donatella Rettore con i suoi 30 milioni di dischi venduti e Dino, pseudonimo di Eugenio Zambelli, scoperto da Teddy Reno e famoso per il suo disco “Te lo leggo negli occhi” del 1964. L’appalto ventennale del coiffeur Gennaro Fardello si concluse nel 1999 con la chiusura definitiva della caserma casalese, seguita nel 2004 dall’abolizione totale della leva militare obbligatoria in Italia. Da uno studio del Politecnico di Torino del 2008 e da una recente proposta parlamentare emerge la concreta possibilità di realizzare un nuovo carcere per la provincia di Alessandria nel contesto di ristrutturazione e valorizzazione della struttura abbandonata.
Armano Luigi Gozzano 

Vittorio Cavalleri, pittore torinese. Gli estatici colori di Luzzogno 

Vittorio Cavalleri (Torino 1860-Gerbido di Grugliasco 1938), artista nato da Gioacchino e Felicita Angelino dal portamento signorile e dal tratto cortese, si trasferiva a Luzzogno nella stagione estiva dalla regal Torino non per riposare ma per dipingere, trovando spunti pittoreschi nei paesaggi rurali e nelle scene campestri. Cassetta a tracolla e cavalletto sottobraccio, usciva incontro a madre natura, primogenita di Dio, impiegando il tempo in momenti di generosità e devozione con la sua arte piena di grazia, spontaneità e raffinatezza esecutiva.

L’ispirazione che il geniale pittore trasse da questo territorio costituisce l’orgoglio di Luzzogno, fiero di aver contribuito alla sua grandezza artistica. Una traccia importante del Cavalleri è costituita dall’Annunciazione, affresco del 1895 visibile sulla parete sinistra del Santuario della Madonna della Colletta dedicato alla Natività della Vergine, vincolo di fede e spiritualità per l’intera vallata edificato nel ‘600 da un componente della nobile famiglia Gozzano per ex voto suscepto.

L’affresco, alquanto originale, rappresenta la Vergine che riceve l’annuncio dell’Arcangelo Gabriele, in veste bianca con le ali ferme ed aperte con un giglio in mano. La Vergine, sorpresa, non è raccolta in preghiera come solitamente rappresentata ma è vestita con il tipico costume del paese, intenta a filare la lana con l’arcolaio (il Vindoûl) tra canestri, fusi e gomitoli.

L’apprezzato ritrattista e paesaggista torinese eseguì diverse opere durante il soggiorno nella piccola comunità montana, la “Pazzerella” (ai Laghìtt), l’ “Empirismo” (la Jeta), “Vecchio volpone” (l’Angilòn), “Idillio” (all’Alpe Ruscadlana), “Angelo custode” (la Mariin all’Alpe Ruscadlana), “Madre” nel campo dietro alla chiesa, “Il portico” di fronte alla chiesa, “San Rocco” quartiere sotto al circolo, “Il filo della vita” dalla valenza simbolica sull’emigrazione e “Il turbine”, il più famoso, attualmente esposto al Museo di San Francisco in California. I riconoscimenti e la notorietà giunsero dopo il trasferimento da Torino a Gerbido nella casa dell’allievo pittore paesaggista Mario Gachet nel 1885. Alcune opere furono premiate con medaglia d’oro ai Salons di Parigi nel 1894 mentre, durante un viaggio nella capitale francese, acquistò i migliori pastelli in commercio, introvabili in Italia. Altre opere furono esposte in Vaticano, alla Biennale di Venezia e alla Corte d’Inghilterra.

Nel 1892 fu premiato con medaglia d’argento dalla Società Promotrice di Genova durante le celebrazioni del quarto centenario della scoperta dell’America. Mantenne stretti rapporti con Torino esponendo al Circolo degli Artisti, alla GAM, alla Promotrice di Belle Arti, alla Sede della Stampa, alla Società degli Amici dell’Arte e nel 1908 alla quadriennale con il premio Bricherasio. Sue opere si trovano nelle chiese di Pietra Ligure e Frabosa Serro. Nel Santuario di Oropa eseguì due lunette, “La pace” e “La guerra”. Fu socio dell’Accademia Nazionale, Accademia di Brera e Accademia Albertina di Torino dove si diplomò e insegnò nei corsi serali. Inoltre fu proclamato “Maestro famoso” a livello internazionale.

Letterati ed artisti lo circondarono di grande affetto e stima definendolo “Il Pascoli della pittura” mentre fu descritto nelle opere principali dell’amico fedele Edmondo De Amicis. Nel 1963 il Circolo degli Artisti di Torino organizzò una grande mostra postuma a lui dedicata con 94 opere, “Vittorio Cavalleri nelle collezioni torinesi”. La capacità di rilevare psicologicamente i contorni umani dei personaggi, la luminosità e la freschezza delle dolci pennellate e l’uso della spatola creavano una festa di colori ai suoi dipinti di stampo naturalistico. Vittorio Cavalleri, unitamente a Giacomo Grosso e a Edoardo Calandra e Marco Calderini, fu tra gli illustri esponenti dell’arte pittorica torinese di fine ottocento.
Armano Luigi Gozzano

HIC sunt Viperae. Breve storia degli animali ai piedi delle Alpi

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso Sabato 6 settembre, dalle ore 15.30

 

Una visita tematica e una conferenza alla scoperta della fauna rappresentata negli affreschi

 

 

Maiali, capre, draghi e scorpioni: nella Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, dedicata al santo protettore degli animali, sono presenti affreschi che rappresentano anche la fauna. Dai maiali, che si trovano spesso nell’iconografia legata a Sant’Antonio per il largo uso che i monaci Antoniani facevano del grasso dei suini per la cura delle malattie cutanee legate al fuoco di Sant’Antonio, alle capre raffigurate nella processione di pastori e ancora scorpioni e draghi sui vessilli dei “carnefici” di Cristo a rappresentare il male.

L’appuntamento di sabato 6 settembre “HIC sunt Viperae” è una visita tematica seguita da una conferenza organizzata in collaborazione con Daniele Pesce, Ente di Gestione delle Aree Protette dei Parchi Reali, alla scoperta della fauna rappresentata negli affreschi e della sua simbologia.

 

INFO

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso

Località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera Alta (TO)

Sabato 6 settembre 2025, dalle ore 15.30 alla chiusura

HIC sunt Viperae

Costo: 7 euro + biglietto di ingresso

Biglietto di ingresso: intero 5 euro, ridotto 4 euro

Hanno diritto alla riduzione: minori di 18 anni, over 65, gruppi min. 15 persone

Fino a 6 anni e possessori di Abbonamento Musei: biglietto ingresso gratuito

Prenotazione obbligatoria entro il giorno precedente

Info e prenotazioni (dal mercoledì alla domenica):

011 6200603 ranverso@biglietteria.ordinemauriziano.it

www.ordinemauriziano.it

Per ritenere valida la prenotazione attendere una conferma

Collodi e l’invenzione di Pinocchio

Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini, nacque a Firenze il 24 novembre del 1826 e divenne celebre come autore del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Il padre Domenico era un cuoco e la madre, Angiolina Orzali, una domestica, entrambi a servizio dei marchesi Ginori. Angiolina era originaria di Collodi , frazione di Pescia, nel  pistoiese.

Fu proprio il nome del paese natale della madre ad ispirare a Carlo lo pseudonimo che lo rese famoso in tutto il mondo come autore di Pinocchio. A diciotto anni il giovane Lorenzini  entrò in contatto con il  mondo dei libri come commesso nella libreria Piatti a Firenze e un anno dopo, nel 1845, ottenne una dispensa ecclesiastica che gli permise di leggere l’Indice dei libri proibiti . La passione per la lettura lo indusse a cimentarsi con la scrittura e iniziò a redigere recensioni e articoli per La Rivista di Firenze.

Allo scoppio della Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, Lorenzini si arruolò volontario combattendo contro gli austriaci al fianco di altri studenti toscani a Curtatone e Montanara. Tornato a Firenze fondò una rivista satirica Il Lampione che subì ben presto la censura, cessando le pubblicazioni. La passione non venne meno, impegnandolo in un’intensa attività culturale nel campo dell’editoria e del giornalismo, dove si occupò di letteratura, musica e arte. Trentenne, nel 1856, durante la sua collaborazione con la rivista umoristica La Lente, iniziò a firmarsi con lo  pseudonimo di Collodi e a pubblicare i primi libri. Allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza non si tirò indietro, partecipandovi come soldato regolare piemontese nel Reggimento Cavalleggeri di Novara. Terminata la campagna militare fece ritorno a Firenze, occupandosi di critica teatrale. Invitato dal Ministero della Pubblica Istruzione a far parte della redazione di un dizionario di lingua parlata, il “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”, si impegnò con slancio e  passione in questa nuova impresa culturale. Il suo approccio al mondo delle favole iniziò all’alba dei cinquant’anni quando ricevette dall’editore Paggi il compito di tradurre le fiabe francesi più famose. Collodi non si limitò ad una pura e semplice opera di traduzione, effettuando anche l’adattamento dei testi integrandovi una morale. Un lavoro di grande interesse che venne poi pubblicato sotto il titolo I racconti delle fate. Nel 1877 apparve Giannettino, il primo di una lunga serie di testi per l’educazione dei più giovani che spaziavano dalla geografia alla grammatica e all’aritmetica .

Questa serie di libri faceva parte della Biblioteca Scolastica dell’editore Felice Paggi: un libro era venduto a due lire e, se era legato in tela con placca a oro, il prezzo saliva a tre. Sia questa serie che il successivo Minuzzolo anticiparono di fatto la nascita di Pinocchio. Il 7 luglio 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia Giornale per i bambini (praticamente l’archetipo dei periodici italiani per ragazzi) uscì la prima puntata de Le avventure di Pinocchio con il titolo Storia di un burattino. Due anni dopo, raccolte in volume e arricchite dalle illustrazioni di Enrico Mozzanti, le vicende del burattino che voleva diventare un bambino in carne e ossa vennero pubblicate quasi in contemporanea con la sua nomina a direttore del periodico che ne aveva anticipato il testo. Carlo Lorenzini, ormai per tutti Collodi, morì a Firenze nel 1890 dove riposa nel cimitero delle Porte Sante. Pinocchio, nonostante abbia compiuto il suo 140° compleanno, è ben vivo e vegeto: pubblicato in 187 edizioni, tradotto in 260 lingue o dialetti, protagonista di film, cartoni animati e sceneggiati, riprodotto in mille maniere. In molti hanno provato a catalogarne significati e morali per spiegarne l’incredibile longevità e freschezza. Per Italo Calvino Pinocchio è stato l’unico vero protagonista picaresco della letteratura italiana, proposto in forma fantastica; le sue avventure rocambolesche, a volte scanzonate, a tratti drammatiche, rimandano alla letteratura di genere che ebbe origine in Spagna con  Lazarillo de Tormes e il Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, l’opera che segnò la nascita del moderno romanzo europeo.

A noi che lo incontrammo da piccoli e che imparammo ad amarlo piace pensarlo all’Osteria del Gambero Rosso, seduto in compagnia del Gatto e della Volpe, mentre fugge con Lucignolo nel paese dei Balocchi e finisce per trasformarsi, dopo cinque mesi di cuccagna, in un asinello. Mastro Ciliegia, Geppetto, il Grillo Parlante, Mangiafuoco e la Fata Turchina lo accompagnano fin quando smette di essere un burattino e diventa un ragazzo in carne ed ossa. Pinocchio è ben più che un libro per bambini perché ci aiuta a non perdere il contatto con la fantasia, nutrendo la creatività. Come ricordava Gianni Rodari, non vi è nulla di più sbagliato che etichettare la fantasia come “roba da bambini”; al contrario, dovremmo accoglierla, svilupparla ed utilizzarla per conoscerci e vivere meglio.

Marco Travaglini

La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

Oltre Torino. Storie, miti, leggende del torinese dimenticato.

Torino e lacqua

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.

Il fil rouge di questa serie di articoli su Torino vuole essere lacqua. Lacqua in tutte le sue accezioni e con i suoi significati altri, lacqua come elemento essenziale per la sopravvivenza delpianeta e di tutto lecosistema ma anche come simbolo di purificazione e come immagine magico-esoterica.

1. Torino e i suoi fiumi

2. La Fontana dei Dodici Mesi tra mito e storia

3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia

4. La Fontana dellAiuola Balbo e il Risorgimento

5. La Fontana Nereide e lantichità ritrovata

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

7. La Fontana Luminosa di Italia 61 in ricordo dellUnità dItalia

8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

9. La Fontana Igloo: Mario Merz interpreta lacqua

10. Il Toret  piccolo, verde simbolo di Torino

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

Alla fine della classica vasca in centro, dopo essere riemersi dal bagno di folla di via Garibaldi, si arriva in uno dei luoghi piùdiscussi di Torino: Piazza Statuto.

Questa è una delle piazze più conosciute della città, lultima delle grandi aree risalenti al  periodo risorgimentale della capitale sabauda, ed è caratterizzata da eleganti portici che la percorrono lungo tutto il perimetro.

Ha una forma allungata e da essa si dipartono molte strade: via Luigi Cibrario, via San Donato, corso Francia, (che in epoca romana era il tratto iniziale della strada per le Gallie), e via Garibaldi, antico decumanus maximus  della colonia romana Julia Augusta Taurinorum, già conosciuta come via Dora Grossa.

Al tempo degli antichi romani tutta la parte occidentale del castrum del quadrilatero romano veniva usata come necropoli e molto probabilmente  anche come luogo di esecuzioni.

Allinterno della piazza, dedicato allimponente lavoro del traforo del Cenisio-Frejus, vi è il monumento realizzato da Luigi  Bellinel 1879 e solennemente inaugurato  il 26 ottobre dello stesso anno. Sullalta piramide sono poste grosse pietre provenienti dagli scavi del traforo, sulle quali si posano corpi di titani abbattuti in marmo chiaro e, proprio sulla sommità, il genio alato della scienza, con una stella a cinque punte sulla fronte, poi rimossa nel 2013. Lopera è unallegoria del trionfo della ragione sulla forza bruta, riflesso dello spirito positivista dellepoca in cui fu realizzato. Tuttavia nella tradizione popolare a questo significato originario se ne sovrappone un altro, quello secondo cui il monumento celebrerebbe  le sofferenze patite dai minatori per realizzare lopera.

Non è solo per la bellezza architettonica però che Piazza Statuto è ricercata, soprattutto dagli appassionati di magia e mistero, infatti, nel contesto delle leggende esoteriche, essa è nota come uno dei vertici del triangolo della magia nera. Lepicentro dellenergia maligna sarebbe individuato proprio là dove si erge il monumento al traforo, alla sommità del quale, per alcuni, non si troverebbe langelo della scienza, ma Lucifero in persona. Secondo altre ipotesi, invece, lepicentro coinciderebbe con lastrolabio del piccolo obelisco poco distante. In realtà lobelisco fu eretto nel 1808 su un punto geodetico, in ricordo di un calcolo trigonometrico del 1760 sulla lunghezza di una porzione di meridiano terrestre (il gradus taurinensis), eseguito insieme ad altri punti geografici nei comuni piemontesi di Rivoli, Andrate e Mondovì.

Il Diavolo quindi terrebbe le ali spiegate proprio sul vertice del triangolo nero, collegando Torino con Londra e San Francisco, due città altrettanto ricche di misteri e anche scenari di delitti efferati. La leggenda che vede collegate queste tre città è una delle più conosciute al mondo, eppure tra tutti i luoghi chiamati in causa, Torino rimane quello più interessante, in quanto unica cittàad essere divisa a metà: il capoluogo è infatti anche vertice del così detto triangolo bianco, che si formerebbe con Praga e Lione. Non crea meraviglia tra gli appassionati del settore che proprio qui siano venuti in visita personaggi come Nostradamus, Fulcanelli, e Paracelso e non sorprende unaltra delle numerosissime leggende, secondo cui tutti coloro che hanno poteri occulti e divinatori debbano recarsi a Torino per omaggiare il Grande Vecchio, personaggio assai misterioso che risiederebbe tra le colline torinesi.

Al centro della piazza, presso la fontana, vi è laccesso che conduce al sistema fognario, che qui ha il suo snodo principale. Anche questo preciso elemento favorì il crearsi di leggende e credenze che vogliono la piazza come fulcro della magia nera e come altra ipotesi per quel che riguarda lampio discorso sulle tre presunte grotte alchemiche che sarebbero presenti in città

Impossibile dunque rimanere indifferenti davanti alle infinite suggestioni di una città bellissima, malinconica e romantica, ricca di arte e di cultura, ma anche di misteri. 

È così che si passeggia per questa città, sempre sospesi tra luce e ombra, sempre distratti, mentre magari qualcuno ci osserva, tra la folla, da sotto le fognature oppure dallalto, con le ali spiegate e un sorriso ermetico scolpito sul volto.

 

Alessia Cagnotto

Vercelli tra risaie, arte e gastronomia

Il prezioso e singolare passaggio per il Piemonte.

E’ tra le città che Dante ha citato più spesso nella Divina Commedia ricordandola per la ricchezza del suo armonioso e suggestivo paesaggio, il Monte Rosa che la domina dall’alto, il “mare a quadretti” di risaie che orna i dintorni come un florido e umido tessuto, le ricchezze artistiche e architettoniche di coinvolgente bellezza.

Stiamo parlando di Vercelli, la porta di accesso al Piemonte dallavicina Lombardia, probabilmente celtica di origine,  Wehr-Celt il suo antico nome, deliziosa città densa di bellezze , di misurata e gentile atmosfera.

L’ho visitata di domenica, una gita in giornata da Torino per celebrare la fine del lockdown  e immergermi nuovamente in questa regione meravigliosa che è il Piemonte. La sensazione è stata di sospensione onirica, di una realtà d’altri tempi, forse per i suoi borghi silenziosi, per la sobrietà e l’eleganza che la caratterizzano, per la dovizia di tracce e  sigilli storici.

Oltre che per la sua piacevole frugalità Vercelli è nota per importanti impulsi sociali ed economici. L’appellativo di “citta delle 8 ore” le è stato conferito per il limite ad otto ore lavorativeche si concesse alle mondine sancito successivamente a  livello nazionale, è la capitale europea del riso, con una propria Borsa del Riso e  la Stazione Sperimentale di Risicoltura e delle Coltivazioni irrigue; viene inoltre gloriosamente chiamata “la città dei 7 scudetti” grazie alle conquiste sportive del Pro Vercelli tra il 1908 e il 1922.

Arrivando si intuisce subito che ci si addentra in un territorio unico e prezioso ma forse poco conosciuto e sottovalutato livello turistico cosa che credo si debba prontamente rettificare, Vercelli e i suoi dintorni sono certamente da visitare.

Come ci ha suggerito la guida ci dirigiamo subito a Piazza Cavour essenza del centro storico dalla forma a trapezio, luogo di incontri e del mercato bisettimanale, dedicata allo statista che fu uno dei maggiori promotori della risicoltura con la realizzazione di opere dedicate come il Canale Cavour e l’istituzione dell’Associazione Ovest-Sesia. Diversi sono i locali dove mangiare e godersi lo scenario urbano costituito dagli edifici più antichi della città, i portici e la leggendaria Torre dell’Angelo. Non lontano , a Via Foà, troviamo la Sinagoga, opera dell’architetto Giuseppe Locarni, una bellissima espressione di arte moresca in pietra arenaria decorata da merlature, torri e cupole a cipolla e la Chiesa di San Cristoforo, denominata la Cappella Sistina di Vercelli, che lascia senza fiato con i suoi meravigliosi dipinti del ‘500 di Gaudenzio Ferrari. A pochi passi Piazza di Palazzo Vecchio, conosciuta anche come Piazza dei Pesci per il mercato ittico che vi si teneva, ma soprattutto il “broletto” della città dove, nelMedioevo, si radunava il popolo.

Nella direzione opposta si trovano il Duomo dedicato al Patrono della città, Sant’Eusebio, che domina la verde e omonima piazza;più volte distrutto e ricostruito la struttura attuale è stata edificata tra il 1500 e il 1800,  l’importante campanile risale invece al XII secolo.   All’interno troviamo

un imponente crocifisso in legno e oro realizzato nell’anno mille e la cappella con le spoglie del santo. Uscendo dalla Cattedrale vale la pena di dare uno sguardo esterno al Castello Visconteo che fu residenza sabauda, alloggio militare, e attualmente tribunale e carcere.

A pochissimi passi spicca la Basilica di Sant’Andrea, meraviglioso esempio di architettura gotica e romanica completata nel 1227. Simbolo della città, ci meraviglia con la sua bellezza e maestosità; percorriamo il suo perimetro esterno e poi entriamo a visitare la chiesa e il pacifico chiostro. Uscendo troviamo il Salone Dugentesco ex ospedale militare che ospitava pellegrini e viandanti che percorrevano la via Francigena, di cui Vercelli è la decima tappa fino a Robbio; sul lato esterno si può leggere la targa con un passo della Divina Commedia dedicato alla città.

A   Vërsèj, in dialetto piemontese, diversi sono i musei da visitare: sicuramente la Casa-Museo Borgogna, seconda pinacoteca della regione, che vanta numerose opere d’arte collezionate da AntonioBorgogna appunto, viaggiatore e amante dell’arte, Il piccolo Museo dell’Opera del Duomo, il Museo Leone risalente ai primi del 1900 presso la Casa Alciati e il barocco Palazzo Langosco, cheospita una collezione varia: armi preistoriche, corredi di tombe egizie, vasi etruschi, mosaici medievali, porcellane, quadri di epoca moderna e il MAC – Museo Archeologico Civico L. Bruzzadove sono raccolti reperti archeologici “moderni” che ripercorrono il periodo dalle origini della città fino al Medioevo.Davvero interessante è l’Arca, un polo espositivo contemporaneoin vetro e acciaio collocato nella navata centrale della chiesa di San Marco.

Svariate sono le  visite che si potrebbero fare, anche nei dintorni, sostando più giorni.

Consigliato a più voci è il giro delle risaie in bici, soprattutto quando sono allagate in aprile e maggio, (sicuramente evitando l’estate piena per non godere della compagnia di numerose e fastidiose zanzare),  il Sacro Monte di Varallo, Valduggia e la chiesa di San Giorgio.

Un altro validissimo motivo per visitare questo luogo delizioso è l’arte culinaria. Fare un salto alla pasticceria Follis per comprare i bicciolani, i biscotti speziati, è una tappa obbligata come fare colazione o merenda alla Pasticceria Tarnuzzer per gustare la torta tartufata. Il piatto tipico di Vercelli è la Panissa, ma anche il risotto alla Gattinara, il vino che profuma di viola, è notevole! E ancora le patate masarai, la toma valsesiana e i fagioli rossi di Saluggia. Da bere? Dei buonissimi Gattinara, Bramaterra, Coste della Sesia ed Erbaluce.

Quando deciderete di visitare questa bellissima città e i suoi dintorni verificate gli orari di apertura e chiusura delle chiese, dei musei e delle attrazioni in genere, soprattutto nel weekend alcune di queste chiudono alle 12.

Per informazioni www.atlvalsesiavercelli.it

 

MARIA LA BARBERA