STORIA- Pagina 28

Fino al 12 luglio la mostra “Quando il tricolore si tinse di giallo”

L’istituto Credem ospita la mostra “Quando il tricolore si tinse di giallo. I campioni italiani al Tour de France” nella sede di Villa Frassati a Torino, dal 18 giugno al 12 luglio.

24 luglio 1949: Coppi festeggia il successo al Tour del France, accanto a lui Giannetto Cimurri
Martedì 18 giugno Credem aprirà la mostra “Quando il tricolore si tinse di giallo. I campioni italiani al Tour de France”, che avrà luogo fino al 12 luglio presso la sede dell’istituto di Villa Frassati in Corso Trento 2/A a Torino.
Nell’ambito della mostra, Credem intende celebrare le importanti gesta dei grandissimi del ciclismo italiano in terra francese attraverso biciclette, maglie gialle, cimeli e ricordi del Tour de France appartenuti allo storico massaggiatore Giannetto Cimurri (1905-2002), originario di Reggio Emilia.

Corridore mancato, massaggiatore nato, Cimurri era chiamato “mano santa”: guariva con le mani, ma anche con le parole, con la pazienza, con la saggezza. Da Bartali a Coppi, da Moser a Bugno, Cimurri è stato il massaggiatore della Nazionale di ciclismo per 34 anni, ha vissuto 74 campionati del mondo tra strada, pista e cross, 40 Giri d’Italia e 11 Tour de France, e ha partecipato a 8 Olimpiadi.
In mostra, oltre a rari cimeli storici, saranno presenti le biciclette di Coppi e di Bartali e un raffinato biciclo di fine ‘800 di pregiata produzione parigina, proveniente dalla collezione di biciclette storiche di Cimurri.
Più in dettaglio, l’iniziativa rientra tra le attività che il Gruppo Credem porta avanti da anni per valorizzare la storia, lo sport e la cultura dell’Italia e dei territori a favore della collettività ed è legata all’arrivo di tappa a Torino prevista per il 1° luglio della Grande Boucle (soprannome ufficiale del Tour de France). La mostra è allestita al piano terra degli eleganti spazi di Villa Frassati, realizzata nel 1916 dal celebre ingegnere ed architetto piemontese Giuseppe Momo (1875- 1940), presso cui è stata inaugurata la nuova sede Credem lo scorso anno a Torino. L’edificio è inoltre legato alla memoria di Piergiorgio Frassati (1901-1925), beatificato nel 1990 da Giovanni Paolo II.
L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla preziosa collaborazione della famiglia Cimurri, del Museo del Ghisallo e di Gianfranco Trevisan.
L’esposizione sarà visitabile ad ingresso libero dal lunedì al venerdì dalle 8:20 alle 13:20 e dalle 14:45 alle 15:45.
Per informazioni: spaziocredem@credem.it

Vicoforte: un pilone, un cacciatore, un grande Santuario

L’abbiamo visto tutti la mattina del 17 dicembre 2017 quando il portone del santuario si è aperto per ricevere la salma di Re Vittorio Emanuele III giunta da Alessandria d’Egitto mentre due giorni prima erano arrivate, da Montpellier, le spoglie della Regina Elena.
Da allora riposano in una cappella del famoso santuario di Vicoforte Mondovì, sulle colline del monregalese. Accanto a loro, nel santuario della Madonna, come viene anche chiamato l’edificio religioso, si trova la tomba del duca di Savoia Carlo Emanuele I a cui si deve la costruzione del tempio. Fu proprio la cerimonia della traslazione delle due salme a riaccendere le luci sulla grandiosità del santuario, costruito tra la fine del Cinquecento e i secoli successivi, che nelle intenzioni di Carlo Emanuele I avrebbe dovuto diventare il mausoleo di Casa Savoia, poi superato dalla basilica di Superga. In quei giorni i piemontesi riscoprirono la fama e la bellezza della grande chiesa di cui in genere si parla poco, si vede poco e che invece meriterebbe più attenzione. Il pilone votivo di cinque secoli fa è diventato un monumentale santuario, un capolavoro del barocco piemontese, con una straordinaria cupola ellittica, la più grande al mondo con questa particolare forma. Certamente non una “piccola chiesetta di campagna” come l’ha definita il giovane Emanuele Filiberto, per polemiche tutte interne alla famiglia. Al di là delle tombe di illustri personaggi è la storia stessa del santuario di Vicoforte, intrisa di leggenda, che affascina i visitatori che ancora oggi si recano da queste parti in pellegrinaggio. Tutto cominciò alla fine del Quattrocento attorno a un pilone con il ritratto della Madonna con il bambino: la presenza di un cacciatore, folle di pellegrini e tanta fede fanno da contorno alla vicenda. Si racconta che il titolare di una fornace costruì un pilone campestre con un affresco, opera di un pittore locale, che raffigurava la Madonna per avere il suo aiuto nella produzione di mattoni. Passarono molti decenni finché un giorno un cacciatore colpì per errore la sacra immagine nascosta dai rovi e dalla boscaglia, il cui corpo, secondo le voci popolari, cominciò a sanguinare. L’episodio miracoloso creò nella popolazione una devozione eccezionale. A quel tempo c’era molta povertà, si moriva facilmente di peste e di altre malattie e la gente dei paesi circostanti, venuta a conoscenza di quanto era accaduto, accorreva nei pressi del pilone per chiedere la protezione dal cielo. Da quel momento eventi insperati e prodigiosi cominciarono a moltiplicarsi. La peste risparmiò da un giorno all’altro la maggior parte dei cittadini della zona, meno persone si ammalarono e i decessi diminuirono. Un sacerdote di Vicoforte si interessò subito al caso e, per ringraziare la Madonna, fece costruire una cappella attorno al pilone che era stato abbandonato in un bosco.
La notizia dei miracoli si propagò rapidamente nelle valli, centinaia e poi migliaia di fedeli entusiasti raggiunsero in pellegrinaggio la nuova chiesetta fermandosi a pregare e a chiedere la grazia alla Madonna. Nacque un autentico movimento popolare di devozione che interessò comunità e confraternite provenienti da tutto il nord-ovest dell’Italia. Il pilone e la chiesetta divennero meta di pellegrinaggi. Anche la piccola Vico ne beneficiò in termini economici: l’afflusso di pellegrini sempre più numerosi, anche dall’estero, fu una vera benedizione per commercianti e bottegai e nuove strade furono tracciate nell’intero territorio per agevolare l’arrivo dei fedeli. Il pellegrino più illustre fu Carlo Emanuele I, duca di Savoia che, alla fine del Cinquecento, decise di edificare in quel luogo un grande tempio da dedicare alla Madonna di Vico con al centro il pilone in marmo, oggi ingrandito e abbellito, con l’immagine della Madonna. Anche la moglie del Duca, l’infanta Caterina Michela d’Asburgo, figlia di Filippo II, re di Spagna, e nipote di Carlo V, subì il fascino di ciò che stava accadendo e sparse la voce in gran parte dell’Europa. Carlo Emanuele I, che troneggia nel monumento davanti al santuario, morì prima della fine dei lavori e fu sepolto nella chiesa. La grandiosa cupola ellittica, alta 74 metri, verrà completata nel 1731. I lavori del santuario si bloccarono più volte e terminarono verso la fine dell’Ottocento quando vennero costruiti i campanili e le tre facciate. Il santuario di Vicoforte è aperto tutti i giorni dalle 8.00 alle 12.30 e dalle 14.30 alle 19.00.                    Filippo Re

Il tempo in cui Ho Chi Minh era cuoco a Milano

Il ristorante Antica Trattoria della Pesa è tra i più antichi di Milano, espressione della grande tradizione gastronomica lombarda, in particolare meneghina.

Antipasto misto di salumi e sottaceti, risotto alla milanese e al salto, pasta e fagioli, bolliti, cassoeula con polenta, ossobuco e cotoletta non sfigurano accanto a piatti più raffinati. Insomma, come dire la tradizione e la qualità a tavola. Situato nel punto dove nell’Ottocento le merci giungevano da fuori città per essere pesate per il pagamento del dazio, il locale si trova a Garibaldi, poco distante dall’omonima stazione, in uno dei quartieri più vivaci di Milano, al n.10 di Viale Pasubio.

Dove un tempo c’erano i cortili degli artigiani, attorniati dalla case di ringhiera, oggi s’incontrano gli ateliers di grandi artisti e le gallerie d’arte. L’Antica Trattoria della Pesa offre un atmosfera del tutto particolare, dagli arredi al pavimento in granigliato rosso e grigio, comune a quello di molte case milanesi di inizio secolo, per non parlare delle splendide stufe in maiolica che rimandano ai tempi in cui i locali venivano riscaldati a legna. Insomma, basta uno sguardo per cogliere quel calore che apparteneva esclusivamente ai ristoranti di un tempo, in cui spesso ci si ritrovava seduti ai lunghi tavoli del secolo della borghesia e dei cambiamenti con persone mai viste prima. All’esterno della trattoria si trova la vecchia pesa rettangolare in ferro che diede il nome al locale che all’epoca si trovava sulla linea di confine tra la città e le campagne circostanti. Ma c’è anche una curiosità, testimoniata da una lapide posta sulla facciata dell’ingresso. L’epigrafe ricorda che quella stessa casa fu frequentata da Ho Chi Minh negli anni ’30, durante le sue missioni internazionali “in difesa delle libertà dei popoli”. Ma l’epigrafe pare non sia esaustiva poiché la tradizione popolare vorrebbe che il futuro presidente vietnamita lavorasse come cuoco proprio in quella trattoria. La storia narra che nel giugno del 1931 Ho Chi Minh venne arrestato a Hong Kong dalla polizia britannica  per attività sovversiva e la Francia ne chiese l’estradizione. Per evitare la pressione diplomatica sul governatore della colonia inglese, i suoi amici diffusero la falsa notizia della sua morte. Scarcerato nel gennaio del 1933, riprese le sue missioni ai quattro angoli del mondo e per un certo periodo dimorò anche a Milano in una caratteristica casa popolare di ringhiera tra viale Pasubio e via Maroncelli ( prorpio nei pressi dell’Osteria della Pesa). Che Ho Chi Minh (in realtà uno pseudonimo poiché il vero nome anagrafico era Nguyen Tat Thanh)  non disdegnasse di darsi da fare tra i fornelli è cosa del tutto plausibile. Nel 1912, partito per gli Stati Uniti a bordo di una nave, lavorò come cuoco. A New York visse facendo il panettiere e altri mestieri legati alla cucina e nel 1915 a Londra , all’hotel Carlton, il rivoluzionario vietnamita divenne chef pasticciere sotto la guida del famoso cuoco Auguste Escoffier , universalmente conosciuto come il cuoco dei re,il re dei cuochi“). Non si sa se il tradizionale prodotto del sud-est asiatico, cioè il riso, amava cucinarlo alla milanese, con lo zafferano, o alla Pesa si limitava alla lista dei dolci. E’ certo che alcuni anni dopo il fondatore del movimento Viet Minh, la lega per l’indipendenza del Vietnam traghettò il suo paese verso l’indipendenza e nel 1945 venne acclamato presidente della Repubblica democratica del Vietnam, guidando successivamente il Vietnam del Nord durante la guerra fino al 1969, anno in cui morì a 79 anni.

Marco Travaglini

Graffiti. Il pugilato casalese metà ‘900

Gli anni ’50 riportarono alla ribalta uno sport nobile e popolare dimenticato a causa del secondo conflitto mondiale, la Boxe. 

Sulla scia internazionale del pugile di Borgo San Martino Erminio Spalla campione europeo dei pesi massimi, cantante lirico, scultore e attore cinematografico, diversi dilettanti monferrini intrapresero questa attività sportiva anche senza gli spazi di informazione dell’epoca. Il peso piuma Antonello Roccheri classe 1932, nonostante non fosse in possesso di misure eccezionali, era dotato di spirito combattivo, forza incredibile e grande coraggio. Il suo esordio avvenne a soli 14 anni durante i tornei cittadini ai quali partecipavano anche militari in servizio nelle nostre caserme. Non avendo uno sponsor ufficiale, le spese organizzative degli incontri e del materiale agonistico erano sostenute da Giovanni Pagliano, titolare con il figlio Carlo del negozio di arredamenti in via Paleologi a Casale Monferrato. I pomeriggi pugilistici avvenivano in diversi punti della città: piazza Mazzini, palestra Leardi, giardini pubblici, palestra dello stadio, mostra di San Giuseppe e in alcune feste patronali del territorio con grande partecipazione di pubblico.
I continui successi del pugile emergente lo proiettarono alle fasi finali piemontesi e nel 1948 fu contattato per la pubblicazione di una sua immagine dalla rivista illustrata “La Settimana Incom” dove lavoravano firme importanti come Indro Montanelli, rivista romana che vide il proprio declino a causa dell’avvento della TV. Il matrimonio del 1954 con Anna Capra di Murisengo segnò la fine della sua breve carriera pugilistica. Per salvaguardare l’economia familiare trovò occupazione come operaio nella fabbrica di amianto Eternit, tragico destino di tante persone casalesi. I pugili dilettanti del periodo postbellico favorirono la nascita dell’Associazione Sportiva Boxe Casale, fondata nel 1955 da un gruppo di appassionati. Nel 1959 il sodalizio prese il nome di Franger Frigor Casale Ring portando a livello nazionale ottimi pugili come Bruno Zorzan, Paolo Amisano, Umberto Simbola e nel 1965 fu mutuato in Casale Ring Lambretta Innocenti. Dopo il declino inevitabile degli anni d’oro del pugilato casalese, oggi vengono organizzati incontri di diverse arti marziali quali Lotta Libera e Greco-Romana, Kick Boxing, Shorinji Kempo, Karate, Judo e Boxe tradizionale maschile e femminile come associazioni sportive dilettantistiche.
Armano Luigi Gozzano

Guido Gozzano “genovese”

La Superba davvero fu importante per i suoi forti legami che aveva con Guido Gozzano, ma chi si è occupato di lui come poeta non ricorda che quei genovesi, amici e colleghi suoi, dell’età adulta. Il suo approdo marino quindi, non va considerato allo stesso modo che per quegli altri che, già adulti, dal Piemonte(via Alessandria-Novi Ligure-Ronco Scrivia) in treno raggiunsero  la Riviera e, curiosi, scesero magari a Principe (se proprio vogliamo nominare una stazione ferroviaria genovese), lasciando alle loro spalle il cielo grigio-livido che pesa su Torino per tanti giorni all’anno, ed erano più sensibili al fascino, che ancora oggi suscita in noi la vista del cielo terso che si stacca sul mare azzurro di Liguria, anche nella brutta stagione.

Segnale allora che azzurro è detto da Guido il color di lontananza(così nei versi intitolati «La più bella», che ripropongo nella pagina illustrata più volte pubblicata dall’editore Viglongo), e ricorderò che, per tutto il Rinascimento, anche la linea dell’orizzonte, dipinta sullosfondo di paesaggi e ritratti, era stata azzurra e proseguo senza altre dimore, poiché profondi erano i legami che univano a Genova Guido Gozzano!

A Genova il mazziniano poi deputato e commendatore Massimo Secondo Mautino (1816-1873) aveva sposato Rosina Origone (1829-1860), sua seconda moglie e madre di Diodata (1858-1947), oltre che nonna di Guido(1883-1916).  Fu là che Diodata, orfana di entrambi i genitori, visse con i nonni materni finché,diciannovenne, non fu portata ad Agliè dal padre di Guido, che, proprio a Genova, l’aveva impalmata e fusempre là che ella scelse, a padrino di battesimo per quelsuo figlio, Davide Castelli (1847-1931), un filodrammatico del teatro genovese (il cui profilo biografico incontriamo nel: Teatro popolare e dialettale: indagine enciclopedica sul teatro Piemontese, un fortunato libro di Domenico Seren Gay pubblicato nel 1977). Castelli che, per il teatro, scrisse in genovese alcune opere (destinate al successo perfino nei teatri subalpini), è tuttora ricordato come lo scopritore del talento di Gilberto Govi.

Ma allora, dal momento che aveva certamente a vedere con Castelli, perché non ricordare che a Genova la mamma di Guido aveva calcato per le prime volte la scena! E perché poi non pensare che, sempre su invito diCastelli, anche Guido proprio là avrebbe seguito i suoi passi? Ma c’è dell’altro, che fa credere che Castelli gli abbia reso facili altri incontri favorendolo in altri contatti che poi si rivelarono importanti per Guido. Infatti, a Genova, egli si approfondì nella fotografia, fotografiache certamente – come ho potuto provare – fu oggetto dei suoi primi interessi ad Agliè, grazie al francese Paul-Gaston-James Dosne (1855-1921), amico di famigliache, oltre ad essere ingegnere chimico di fama, era unfotografo, iscritto alla Société française de photographiefin dal 1897. Allora ricordiamo ancora che fu a Genova che Gozzano sentì forte il richiamo per il cinematografo, non tanto, perché ammirato delle foto delle soubrette le cui foto erano di facile accesso a Genova – come ha affermato qualcunoma perché era in contatto con lo studio fotografico Sciutto e Bosella.

Che contatti e incontri fossero stati favoriti dal padrino Castelli, noi non possiamo negarlo… Sappiamo che lavori fotografici di quei fotografi furono esposti a Torino, in una mostra fotografica (tra le prime realizzate nella capitale subalpina), e che, soli, furono oggetto di una segnalazione di Gozzano per la recensione, pubblicata nel 1914, che diventò famosa perché in essa definì la fotografia «L’arte nata da un raggio e dal veleno»! Eallora potrà non essere irrilevante ricordare che il nome di quei fotografi è legato al cinema genovese degli esordi!

Ma non solo questo, infatti a Genova viveva Mario Duboin (1879-1951), il cui nonno paterno era stato quel cav. (Carlo) Felice Amato (Giuseppe) Duboin (1796-1854) che sotto il suo nome tante pagine preziose per la storia del diritto sabaudo aveva raccolto in una ricca collana di volumi (ancora oggi di notevole interesse da parte degli storici). Mario, oltre che nipote di zia Diodata, era un ufficiale del Corpo Reale dei Carabinieri e nel 1908 aveva sposato la genovese Lina Maglio. AGenova nacquero i primi figli della coppia: Olga nel 1910, e Carlo nel 1912, quindi, se Umberto, Carlo e Ada videro la luce in altre città d’Italia (come capitava nelle famiglie dei dipendenti dello Stato costretti a spostarsi da una sede all’altra), gli ultimi due, Piero e Guido, furono, di nuovo, entrambi genovesi di nascita. Così è certo che la cartolina (con il villino Meleto fotografato da Celeste Scavini), che nell’estate del 1915 la zia Diodata glie l’aveva mandata a Cagliari, dove, all’inizio di giugno di quell’anno, era nato Umberto, il padre del mio amico Mario (omonimo nipote del precedente, che qui ringrazio, perché ha messo a mia disposizione quasi tutte le immagini per queste pagine).

E allora vediamoli,quei cugini “genovesi” di Guido (anche se Mario si sentì sempre torinese perché tra noi era nato) nel bel ritrattoda sposi, che qui si affianca a quello di “zietta Diodatacon il figlio Poeta, in una fotografia che, tra le ultime di lui, sempre fu molto cara a tutti, in casa Duboin…

Quindi, in ossequio al loro comune antenato, ricordiamo in ultimo la Genova romantica, che certamente fu cara ai nonni Mautino, e, da una raccolta di vedute della Città,pubblicata negli anni Ottanta dell’Ottocento, rimaniamo fermi sullo scorcio di San Lorenzo, perché quell’angolo di Genova certamente fu caro anche al nostro Gozzano, che lo frequentò fin dai suoi primi anni!

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Dedico queste pagine a Giovanni Abrate, mio vicino di banco degli ultimi anni di liceo, che, da sempre appassionato di fotografia e di cinema, dalla sua residenza in Florida, è intervenuto per migliorare l’apparenza del materiale iconografico che ora propongo).

Alla scoperta della chiesa dello Spirito Santo con il Touring club

Sabato 22 giugno i volontari del Touring Club Italiano aprono le porte della Chiesa dello Spirito Santo, gioiello architettonico e artistico situato nel cuore della città.

Dal 21 al 23 giugno la bellezza è per tutti grazie al Touring Club Italiano con Aperti per Voi Sotto le Stelle: una grande festa diffusa, in occasione dei 130 anni del TCI, con visite a luoghi aperti eccezionalmente per l’occasione, così da permettere a tutti di conoscere e ammirare piccoli e grandi tesori del nostro Paese. Chiese, Palazzi, Monumenti e aree archeologiche vedranno aperture straordinarie e serali per raccontare storie, svelare spazi normalmente non accessibili, riscoprire luoghi e dettagli in ambienti suggestivi, fino al tramonto…e aspettando le stelle.

 

A Torino, l’appuntamento è per sabato 22 giugno dalle 11.00 alle 21.00alla Chiesa dello Spirito Santo.

Durante la visita, i volontari Touring permetteranno a tutti di scoprire i tesori nascosti dietro le porte di questo gioiello architettonico nel cuore della città: partendo dal Crocifisso ligneo del Cinquecento – venerato per i suoi presunti miracoli – fino al gruppo ligneo raffigurante la Crocifissione, capolavoro dello scultore torinese Stefano Maria Clemente. Senza dimenticare la preziosa croce lignea processionale, opera di Pietro Piffetti, che rappresenta un’eccellenza delle maestranze settecentesche, in particolare dell’ebanisteria alla Corte Sabauda.

L’accesso a questa iniziativa è senza prenotazione, con donazione. Maggiori info alla pagina dedicata.

Chiesa dello Spirito Santo

Aperti per Voi Sotto le Stelle è frutto della ultradecennale esperienza del progetto Aperti per Voi del Touring Club Italiano che, dal 2005, si impegna a diffondere la consapevolezza che i patrimoni del nostro Paese siano un bene condiviso e che, quindi, sia compito di tutti prendersene cura. Proprio per questo, per partecipare alle iniziative del 21, 22 e 23 giugno è prevista una donazione libera a sostegno dei progetti del Touring Club Italiano, così da continuare a prenderci cura dell’Italia come bene comune.

Tutti i programmi di Aperti per Voi sotto le Stelle, le modalità di partecipazione e di prenotazione (dove prevista) sono su www.touringclub.it/sottolestelle

Il Duca d’Aosta: sei ore per trasportarlo

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La statua in bronzo fu  trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento

Il monumento è situato all’interno del Parco del Valentino, in asse con corso Raffaello e nel centro del piazzale nel quale confluiscono i viali Boiardo, Ceppi e Medaglie D’Oro. La statua che raffigura, sul cavallo ritto sulle zampe posteriori, il poco più che ventenne Amedeo di Savoia Duca d’Aosta durante la battaglia di Custoza, è posta su un dado di granito che poggia a sua volta su un basamento contornato da una fascia di coronamento in bronzo,rappresentante (in altorilievo) 17 figure tra cui numerosi personaggi celebri della dinastia sabauda. Ai gruppi di cavalieri si alternano vedute paesaggistiche come la Sacra di San Michele, il Monviso e Torino con il colle di Superga sullo sfondo.Sul fronte del basamento, poggiata sulla chioma di un albero al quale è appeso lo stemma reale di Spagna, un’aquila ad ali spiegate regge tra gli artigli lo scudo dei Savoia.Nato il 30 maggio 1845 da Vittorio Emanuele (il futuro re Vittorio Emanuele II) e da Maria Adelaide Arciduchessa d’Austria, Amedeo Ferdinando Maria Duca d’Aosta e principe ereditario di Sardegna, crebbe seguendo una rigida educazione militare.Nel 1866 gli venne affidato il comando della brigata Lombardia e partecipò alla battaglia di Custoza nella quale, nonostante fosse stato ferito da un proiettile di carabina, continuò a battersi distinguendosi così per il suo coraggio ed il suo valore.In seguito alla rivoluzione del 1868 e alla cacciata dei Borboni, in Spagna venne proclamata la monarchia costituzionale e nonostante la situazione risultasse molto difficile, Amedeo di Savoia accettò l’incarico così, il 16 novembre 1870, venne eletto Re di Spagna con il nome di Amedeo I di Spagna.Ma la situazione politica risultò ancora più instabile di come lui se la fosse prospettata e davanti a rivolte e congiure (nel 1872 sfuggì miracolosamente ad un attentato), nel 1873 abdicò rinunciando per sempre al trono.Tornato in Italia, venne nominato Tenente Generale e Ispettore Generale della Cavalleria; si spense il 18 gennaio 1890 a causa di una incurabile broncopolmonite.

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Signorilmente affabile con tutti, sempre pronto a prodigarsi per il bene della sua amata città, fu (anche durante il periodo della sua sovranità in Spagna) un personaggio molto popolare e ben voluto tanto che, neanche una settimana dopo la sua morte, la città di Torino costituì un comitato promotore per l’erezione di un monumento a lui dedicato, sotto la presidenza del conte Ernesto di Sambuy. Venne aperta una sottoscrizione internazionale alla quale, la stessa città di Torino, partecipò con la somma di L. 25.000 e in seguito, il 6 marzo 1891, venne bandito un concorso tra gliartisti italiani per stabilire chi sarebbe stato l’autore dell’imponente opera. Tra i ventinove bozzetti presentati ne furono scelti sei che vennero esposti nei locali della Società Promotrice di Belle Arti, in via della Zecca 25 ed in seguito, tra i sei artisti vincitori, venne bandito un nuovo e definitivo concorso che vide come vincitore (nel dicembre del 1892) Davide Calandra. La decisione, secondo le parole della Giuria, fu motivata “dal poetico fervore immaginoso della concezione, dall’eleganza decorativa dell’insieme, dalla plastica efficacia del gruppo equestre e dalla vivace risoluzione del difficile motivo della base“. Inizialmente l’ubicazione del monumento avrebbe dovuto essere, secondo la proposta del Comitato Esecutivo approvata dalla Città di Torino nella seduta del Consiglio Comunale dell’11 giugno 1894, il centro dell’incrocio dei corsi Duca di Genova e Vinzaglio, ma a causa delle dimensioni maestose del basamento si decise che fosse necessario uno spazio più ampio per ospitare l’opera. Dopo avere effettuato delle prove con un simulacro di grandezza naturale in tela e legname (costato alla Città la somma di L. 2480), si decise di collocarla nel Parco del Valentino sul prolungamento dell’asse di Corso Raffaello, presso l’ingresso principale dell’Esposizione Generale Italiana tenutasi del 1898: il 9 novembre 1899 il ConsiglioComunale approvò la scelta della Giunta di tale ubicazione.

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La statua in bronzo fu dunque trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento. Il monumento venne inaugurato il 7 maggio 1902, in occasione della Prima Esposizione Internazionale di Arte Decorativa e Moderna di Torino, durante la quale lo scultore fu anche premiato per aver inserito nell’opera elementi di “Art Noveau”. Nel corso dell’inaugurazione il conte Ernesto di Sambuy, a nome del Comitato, consegnò l’opera al Sindaco di Torino. Originariamente il monumento venne circondato da una cancellata in ferro dell’altezza di circa 130 centimetri, disegnata dallo stesso Calandra, che venne rimossa probabilmente a causa delle requisizioni belliche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 2004 il monumento è stato restaurato dalla Città di Torino. Per fare un piccolo accenno al Parco del Valentino, di cui certamente parleremo in modo più approfondito prossimamente, bisogna ricordare che ilmonumento ad Amedeo di Savoia è situato nell’area nella quale, fra Ottocento e Novecento, si tennero a Torino alcune tra le più importanti rassegne espositive internazionali. Nel 1949, proprio a fianco del monumento, sorse il complesso di Torino Esposizioni, un complesso fieristico progettato da Pier Luigi Nervi che, durante le Olimpiadi Invernali di Torino 2006, ha ospitato un impianto per l’hockey su ghiaccio dove sono state giocate circa la metà delle partite dei tornei maschili e femminili. Al termine delle Olimpiadi, la struttura è tornata all’originario uso abituale ripredisponendo un padiglione come palaghiaccio per i mesi invernali. Cari lettori anche questa ennesima passeggiata tra le “bellezze torinesi” termina qui. Mi auguro che il monumento equestre ad Amedeo di Savoia vi abbia incantato ed incuriosito proprio come ha fatto con me; nel frattempo io vi do appuntamento alla prossima settimana alla scoperta o meglio “riscoperta” della nostra città.

(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

La storia di Marcel Bich, l’uomo che semplificò la scrittura

Un giorno d’autunno mi decisi senza dare nulla per scontato a riempire la ‘lacuna del Carneade’ :

« che origine ha questa penna di plastica traslucida che tengo tra le mani, dotata di una piccola sferetta sulla punta, che mi permette di scrivere comodamente sul bancone di un ufficio postale, come sulla scrivania della mia abitazione, senza spargere macchie di inchiostro, che nella mia memoria individuale mi permette di risalire ai tempi delle scuole medie? » Googolare e vecchi annuari di storia. Venni a sapere che la penna a sfera fu realizzata grazie all’iniziativa di tale Marcel Bich, barone valdostano che vide la luce a Torino nel 1914 ai primi fuochi della Grande Guerra, i cui antenati nativi di Châtillon, ebbero il cognome originario di Valtournenche. Inizió a lavorare giovanissimo a Parigi dove la sua famiglia tra alterne vicende si trasferì, lì finì gli studi universitari, facendo tra molti mestieri anche il fattorino e il rappresentate di lampadine. Diede nome Bic a questo prodotto rivoluzionario,  omett endo la “h” finale del cognome, per motivi di semantica di marketing, commercializzandolo con successo in tutto il mondo e facendolo divenire comune come il tostapane e globale ante litteram. Caparbio e intraprendente, appassionato di vela ( partecipó a una Coppa America con l’armo France e lui skipper nonostante fu consigliato a far condurre la barca da velisti più esperti ) nel 1953 compró il brevetto dall’inventore ingegnere ebreo ungherese László József Bíró, tanto che anche da questo cognome nacque l’espressione gergale ‘penna biro’ e ancora oggi ci si esprime indifferentemente negli uffici e nei luoghi di lavoro con le locuzioni «passami la biro o passami la bic» per indicare quel tipo specifico di oggetto d’uso, reperibile ovunque, di pratico e pronto utilizzo. Nomen omen.  Il record di fatturato di 1750 miliardi di lire lo fece nel 1993. Attualmente Bic è un colosso mondiale con vendite in 160 paesi per 25 milioni di penne al giorno in tutti i continenti, in mercati sia sviluppati che emergenti. Ha 3,2 milioni di punti vendita e 9.700 dipendenti in giro per il mondo.  Produce anche anche il rasoio mono uso e l’accendino senza ricarica. Marcel Bich fu decisamente prolifico avendo ben undici figli. Diffidava dell’alta finanza, dei giornalisti e curiosamente dell’imprenditoria cui apparteneva. Prese la volta del cielo a Parigi nel 1994. Nel 2004, a dieci anni dalla sua morte, il Comune di Torino ha collocato una targa sul muro della casa di corso Re Umberto 60 in cui Marcel Bich nacque con la scritta ” semplificó la quotidianità della scrittura”.  Quando qualcuno voleva intervistarlo la sua fedele segretaria giapponese rispondeva « il barone lavora non ha tempo da perdere ». Una bella storia per Torino, per i torinesi e per l’umanità.

Aldo Colonna

Antenna 3: la recensione di Aldo Grasso e la storica serata del 1977

Sul sito viaperbusto15. it il video restaurato dell’epica trasmissione della serata inaugurale di Antenna 3 del 1977

Sul Corriere della Sera di giovedì 13 giugno scorso Aldo Grasso ha dedicato la sua prestigiosa rubrica “A fil di rete” al libro intitolato “Una fetta di sorriso” scritto da Cristiano Bussola, direttore del “Torinese”, e edito da Paola Caramella editrice, dedicato all’avventurosa storia di Antenna 3 Lombardia che, proprio negli anni Settanta, contribuì a cambiare il modo di fare televisione in Italia.

“È stata una piacevole sorpresa – commenta il nostro direttore Bussola – poter leggere un pezzo dedicato al mio libro scritto dalla penna arguta e celebre di Aldo Grasso, che ha evidenziato gli aspetti più importanti del testo e, quindi, la figura di Renzo Villa che, nel 1977, insieme a Enzo Tortora e attraverso una forma di azionariato popolare, diede vita alla prima televisione commerciale italiana”.

Fu Villa il primo a intuire che proprio gli sponsor, dai mobilieri, ai salumificio, alle case vinicole, ad Aiazzone certamente, dovevano costituire un tutt’uno con lo show”. Bussola nel libro ricorda come si debba, infatti, a Renzo Villa la nascita di programmi come “Il bingooo”, “La bustarella” “Dire, fare, baciare”” Bucce di banana”, “Il pomofiore” e “Non lo sapessi ma lo so”.

“Se da quella televisione di Legnano passarono molti comici destinati a diventare famosi, – scrive Aldo Grasso -come la coppia Massimo Boldi- Teo Teocoli, Walter Chiari, Riccardo & Gian, Giorgio Faletti, oggi di questo mondo ormai scomparso rimane comunque un testimone, Alessandro di Milia, che lavora ancora in un angolo dell’edificio ormai fatiscente e si dedica a un lavoro molto prezioso, riversare in digitale le vecchie cassette dei programmi, dando nuova vita ai nastri che conservano i primi passi di grandi comici e giornalisti come Enzo Tortora”.

MARA MARTELLOTTA

La moglie di Renzo Villa, Wally, ci racconta come è riuscita e recuperare grazie ad Alessandro Di Milia e Manuel Bencini, appassionato ricercatore, il video della serata inaugurale dell’emittente

Da anni, e soprattutto da quando, grazie al prezioso lavoro di Alessandro Di Milia e con il consenso della attuale proprietà dell’Emittente, abbiamo iniziato il salvataggio delle vecchie trasmissioni di Antenna3 Lombardia, il desiderio mio e degli aderenti all’Associazione Amici di Renzo Villa era quello di rivedere le immagini dell’inaugurazione (che si sviluppò per tre sere, 3-4-5-novembre 1977).

Queste serate erano state registrate su un ottimo supporto in uso all’epoca (due pollici) e, purtroppo, oggi sono pochissimi, nel mondo, coloro che sono in possesso di macchinari funzionanti atti a riversare nastri di questo formato. Fortuna ha voluto che qualche mese fa, entrassi in contatto con un vero “Indiana Jones delle registrazioni perdute” , Manuel Bencini, l’appassionato ricercatore, collezionista e restauratore che, oltre ad aver scovato, acquistato, restaurato e consegnata a me l’unica registrazione superstite di tutta la nastroteca di TeleAltoMilanese, ha fornito a Walter Veltroni il nastro del concerto di Lucio Dalla a NYC, su cui Veltroni stesso ha realizzato il suo documentario (il titolo Indiana Jones… gli è stato attribuito proprio da Veltroni).

Bencini ha contatti con una persona (Larry Odham) che sta negli U.S.A. (a Gray, in Tennessee, per la precisione) che è in grado di fare i riversamenti. Da qui parte l’operazione: 8 bobine (pesanti circa 8 Kg. l’una!) vengono spedite in America (alla Quad Tape Transfer) e, nel giro di un mesetto, ricevo un piccolo hard-disk contenente la registrazione integrale della prima serata (più di 4 ore ) e frammenti di mezzora circa sia della seconda che della terza serata.

Sempre Bencini effettua poi l’operazione di “finissaggio e restauro” dei filmati, togliendo disturbi audio e video (peraltro pochissimi, in quanto le bobine, chiuse per 46 anni in custodie a tenuta stagna e antincendio, si erano conservate benissimo!).

La prima delle tre serate di inaugurazione fu arricchita da un evento sportivo che fece molto scalpore, ai tempi. Il pugile Sandro Mazzinghi, a 39 anni, tornò sul ring dopo 7 anni dal suo ultimo incontro di boxe e questo avvenne quella sera, a Legnano, sul ring regolamentare allestito nello studio 1 di Antenna 3 Lombardia.

Enzo Tortora, oltre a tenere un piccolo discorso inaugurale e a brindare con un emozionato Renzo Villa nel breve prologo della serata , intervistò i due pugili prima e dopo l’incontro, intervenne nella telecronaca insieme al commentatore ufficiale e raccolse i commenti di alcuni spettatori-tifosi speciali che erano in sala (Cochi e Renato, Bruno Lauzi, ecc). Invece il compito di intervistare Nino Benvenuti, Sandro Lopopolo, Nereo Rocco e altri fu affidato a un ben documentato Lucio Flauto. Madrina dell’evento Loredana Berté.

La serata proseguì con i festeggiamenti per i 25 anni di Sorrisi e Canzoni (altro evento astutamente abbinato all’inaugurazione) con una sfilata di cantanti famosi introdotti da Ettore Andenna (tra cui Amanda Lear), con vari interventi di Lucio Flauto, l’esibizione di un ventriloquo famoso a livello internazionale, i saluti e gli auguri dei numerosi personaggi in platea e soprattutto con un Felice Musazzi in grande spolvero con l’interpretazione veramente spettacolare di un brano storico della Teresa.

Piace ricordare che queste trasmissioni rappresentano anche un viaggio nella comunicazione del passato e che, a volte, contengono frasi o riferimenti non “politicamente corretti” secondo i canoni attuali. Questo aspetto, che mi è stato fatto ben notare dalla giornalista Marta Cagnola di Radio24, si riferisce anche a modi a volte paternalistici e un po’ maschilisti nei confronti delle donne da parte dei presentatori, nell’uso di termini tipo “negher” (negro) nelle barzellette raccontate dai comici, ecc.

Molti aspetti della comunicazione televisiva di quegli anni verranno analizzati e studiati nel Progetto ATLas (Atlante delle televisioni private- Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale PRIN 2020) che è in corso di realizzazione da parte di quattro Università italiane, coordinate da un team dell’Università di Bologna con a capo il Prof. Luca Barra, Coordinatore del Corso di Laurea in Informazione, cultura e organizzazione dei media, insegnante di Storia della televisione e dei media digitali. In questo lavoro di ricerca ad alto livello, finanziata dal Ministero non poteva mancare Antenna 3 Lombardia e quello che ha rappresentato dalla fine degli anni 70 alla metà degli anni 80, nel campo televisivo.

Tornando al racconto dell’ultima perla aggiunta all’archivio di Antenna 3 Lombardia fin qui salvato, oggi, il frutto di questa ricerca, di questo lavoro di salvataggio di un evento, a modo suo storico, è fruibile sul sito viaperbusto15.it , insieme al documentario sulla storia dei primi nove anni Antenna 3 Lombardia e a molta altra documentazione video e fotografica. Naturalmente, il mio auspicio è che molti vadano a visitare il sito e non si accontentino di vedere i brevi video pubblicati sulla pagina Facebook TI RICORDI QUELLA SERA.

Anche i canali social che ricordano Sandro Mazzinghi e la storia dei Legnanesi hanno richiesto e pubblicheranno presto gli spezzoni che li riguardano.

Un altro piccolo ritrovamento è stato quello dei provini per diventare lettore del telegiornale di Antenna3 Lombardia (che era curato dalla redazione di Milano de Il Giorno). Questi provini furono trasmessi in diretta nei giorni precedenti l’inaugurazione vera e propria. Si può dire, pertanto, che è la più vecchia trasmissione presente nel nostro archivio…

Una curiosità: insieme alle bobine dell’inaugurazione ho fatto riversare la prima puntata di un programma per bambini, presentato da Renzo Villa e collegato all’UNICEF. La trasmissione si chiamava UNA FETTA DI SORRISO e, quella puntata, vide la partecipazione di Giulietta Masina (in qualità di Ambasciatrice UNICEF), oltre ad Enzo Tortora ed ai responsabili nazionali dell’UNICEF stesso.

La curiosità sta nel fatto che proprio a questa straordinaria partecipazione di Tortora fece riferimento, anni dopo, il pittore Margutti, per accusarlo di spaccio negli studi di Antenna3, causando al presentatore un’ulteriore aggravamento della sua posizione di accusato. Tutti ricordiamo che Tortora fu scagionato in pieno da ogni addebito. L’archivio dell’UNITA’ conserva ancora l’articolo di Vito Faenza dell’8 giugno 1985 con la cronaca della deposizione di Margutti e della reazione di Tortora raccolta dal giornalista. Nota a margine, per chi non ricordasse bene l’episodio: Margutti era già stato in precedenza condannato per calunnia.

Anche spezzoni di questa trasmissione e della seconda e terza serata di inaugurazione di Antenna 3 Lombardia verranno pubblicati sul sito www.viaperbusto15.it , che, già attualmente, è ricco di documenti video, di testo e fotografici

Per chi, invece, avesse il piacere di sfogliare delle pagine di carta per leggere l’autobiografia di Renzo Villa e la storia di Antenna 3 Lombardia raccontata direttamente da lui, ricordo i libri TI RICORDI QUELLA SERA? di Renzo e Roberta Villa e UNA FETTA DI SORRISO di Cristiano Bussola.

WALLY VILLA

Ivrea, il Castello dalle rosse torri torna a vivere

Il conto alla rovescia è scattato, c’è grande attesa in città, la riapertura del castello, simbolo di Ivrea, è sulla bocca di tutti gli eporediesi. Dopo quasi dieci anni di chiusura e di restauri, sono tutti pronti a tornare in possesso della dimora storica e a festeggiare il suo costruttore, il Conte Verde, Amedeo VI di Savoia (1334-1383) che lo volle fortemente ma non lo vide mai. Proprio quel Conte Verde che combatte eroicamente contro i turchi nel monumento di fronte al Municipio di Torino. Ma quando riaprirà i battenti? All’Ufficio eventi del Comune di Ivrea non si sbilanciano troppo e fanno capire che non c’è ancora una data precisa per l’apertura, forse entro un mese. Eh sì, il Conte Verde, quello straordinario personaggio chiamato così per il colore delle sue insegne e dell’abbigliamento che usava durante i tornei equestri. Interamente vestito di verde scuro, verde nell’armatura, verdi erano le protezioni del cavallo, bardate di verde erano le sue galee che solcavano i Dardanelli, verde era la tappezzeria delle camere, verdi gli arredi dei suoi palazzi e i vestiti dei suoi scudieri così come rosse erano le torri del castello di Ivrea, realizzate interamente in mattoni, come scrisse il Carducci in “Salve Piemonte”. L’anno è il 1358, nel Canavese i Signori di Valperga combattevano contro i Signori di San Martino, alleati dei Savoia.
Ivrea si sentiva minacciata, era indispensabile costruire una fortezza per difendere la cittadina. Bisognava fare in fretta, il Conte Verde coinvolse subito un migliaio di persone nella costruzione dell’edificio e fece venire manodopera qualificata da Ginevra, Milano e Vercelli. Ma ci volle molto tempo per costruirlo, i lavori iniziarono nel 1358 e si conclusero solo nel 1395. Amedeo di Savoia non fece in tempo ad ammirare il suo castello, morì quasi cinquantenne nel 1383 durante un’epidemia di peste. Eretto sull’altura che domina la città e la strada per la Valle d’Aosta doveva diventare il simbolo del dominio sabaudo e in particolare del Conte Verde su tutta quella zona del Canavese. Quattro imponenti torri circolari alte 34 metri fortificano la struttura, il fossato proteggeva le mura con merlature a coda di rondine, i soldati entravano dal ponte levatoio, da feritoie e caditoie si lanciavano frecce, pietre, pece o acqua bollente per mettere in fuga gli assedianti. Una delle torri, quella di nord-ovest, nel Seicento fece una brutta fine: fu distrutta parzialmente dall’esplosione, provocata da un fulmine, della polveriera. Le vittime furono una cinquantina e la torre crollò restando mozza come la si vede ancora oggi. Nel Quattrocento tornò la pace tra le dinastie in lotta tra loro e il castello divenne la residenza delle duchesse di Casa Savoia tra cui Jolanda di Francia, sorella del re di Francia Luigi XI e Beatrice del Portogallo, moglie del duca sabaudo Carlo II, che si dedicarono allo sviluppo delle arti e della cultura chiamando a corte pittori, poeti e musicisti. Ma la bella stagione durò poco e a causa delle guerre tra francesi e spagnoli nel XVI secolo il castello divenne un presidio militare. Con il trasferimento della capitale del Ducato da Chambéry a Torino nel 1563 iniziò la decadenza politica di Ivrea e del suo castello. L’interno del maniero fu sventrato del tutto quando fu trasformato in un carcere dal 1700 al 1970. Poi fu chiuso per il crollo di tegole e intonaci e le visite furono sospese. Nel 1994 lo Stato l’ha dato in concessione al Comune di Ivrea che lo ha acquisito definitivamente nel 2017. Le porte sono sbarrate da otto anni e da oltre 12 mesi è al centro di una ristrutturazione di ampia portata nell’ambito di un programma di valorizzazione del bene dal grande valore storico e artistico. La riapertura è attesa entro l’estate.
Filippo Re