

Uno dei luoghi più belli di Parigi è senz’altro Place des Vosges al Marais, nell’ XI arrondissement della ville lumière. Realizzata per volere di Enrico IV sul posto dell’antico Palais des Tournelles fatto distruggere nel 1559 da Caterina de’ Medici in seguito alla morte del marito, il re Enrico II, la piazza più antica della capitale francese venne inaugurata ufficialmente con il nome Place Royale nel 1612. In breve tempo diventò il posto più frequentato e alla moda di Francia, punto d’incontro di aristocratici e intellettuali. Dopo la Rivoluzione, nel 1799, prese il nome di Place des Vosges, in onore del dipartimento dei Vosgi che per primo versò le imposte al neonato Stato Repubblicano. Oltre alla sua bellezza architettonica esercita un fascino letterario. Nel marzo del 1924 i giovani coniugi Simenon vi si trasferirono al numero 21. Quell’abitazione ebbe un significato particolare nella toponomastica della letteratura di George Simenon. Non per caso era vicina a quel Boulevard Richard Lenoir dove lo scrittore collocò l’abitazione del commissario Maigret, e poco distante dalla Senna dove, quasi all’altezza dell’Ile de la Cité, si trova il Quai des Orfèvres che al numero 36 ospitava la polizia giudiziaria di Parigi. A Place des Vosges Simenon scrisse il suo primo degli oltre duecento romanzi popolari, siglati con più di venti pseudonimi. Anche il suo Maigret amava la zona del Marais: “un quartiere che conosceva bene tanto che gli sarebbe piaciuto andare ad abitare”. Per un breve periodo, a causa di alcuni lavori di ristrutturazione nella sua casa di boulevard Ginard-Lenoir, ci abitò e la descrizione di un risveglio mattutino in quell’appartamento svela le autobiografiche sensazioni dello scrittore belga: “In casa c’era un buon odore di caffè. Si sentivano gli uccelli e le fontane di place des Vosges. La gente andava al lavoro nel sole ancora fresco e leggero del mattino”. Al numero sei della stessa piazza c’è la maison parigina di Victor Hugo, la casa dove l’autore di Notre-Dame de Paris e de I Miserabili visse per più di sedici anni, dal 1832 al 1848. Fu tra quelle mura che Hugo scrisse i suoi più grandi capolavori. L’appartamento nell’elegante palazzo Rohan-Guéménée rappresenta oggi, insieme alla Maison de Balzac e al Museo della Vita Romantica, uno dei tre musei letterari di Parigi.
Marco Travaglini
L’asilo infantile di Malesco, in Valle Vigezzo, a ridosso del confine con la Svizzera, venne inaugurato nel 1853, ventisei anni dopo la “scuola per bambine”, ed entrambe le istituzioni educative trovarono alloggio per tutto l’800 nell’edificio dell’ex ospedale Trabucchi, nel centro storico del paese. Agli inizi del ‘900, agli albori del “secolo breve”, in ragione degli spazi angusti in cui erano costretti i piccoli frequentatori dell’asilo e delle scuole femminili, l’Amministrazione comunale maleschese progettò la costruzione di una nuova scuola, considerato l’aumento della popolazione scolastica. Così, con una delibera del 1907, venne scelta piazza Brié che, al tempo, era stata pensata già larga (105 metri per 45), contornata da un bel viale a doppia fila, utilizzata sul finire del secolo (nel 1896) per festeggiamenti dell’acqua potabile che, in paese, veniva distribuita alle otto fontane pubbliche, alle scuole e all’asilo. Un vanto per gli amministratori del più popoloso centro vigezzino, a quel tempo guidati dal sindaco Bartolomeo Trabucchi. L’edificio doveva comprendere al piano rialzato i locali dell’asilo, al primo piano tre spaziose aule per le scuole femminili e al secondo, sulla destra della scala, un piccolo appartamento privato per le suore, e dall’altro lato un’altra aula. L’edificio subì, nel tempo, ulteriori sistemazioni e aggiustamenti ma già negli anni ‘30, come si può desumere da testimonianze e foto d’epoca, le classi erano miste e gli insegnanti laici. In quel luogo – una scuola – attraversato, abitato e frequentato dai ragazzi in crescita si dovrebbe sperimentare lo stare insieme anche tra persone che non sono legate da un comune affetto, come nel caso della famiglia. La scuola è il luogo che fornisce contenuti di conoscenza, dove si sta con gli altri condividendo regole comuni. Ovunque, e – ovviamente – anche in quell’edificio di piazza Brié, a Malesco, quasi agli estremi dell’Italia di “mezzanotte”. Soprattutto in un asilo come quello che rappresentava il primo livello di un cammino dove, nel tempo, i bambini avrebbero incontrato le maestre che avrebbero spiegato loro i numeri, gli anni della storia, i luoghi della geografia. Si sarebbe scritto, più avanti, con il pennino e con l’inchiostro che stava nel calamaio, su ogni banco.
C’era, e lo si coglieva nei paesi di montagna come nelle città, una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva di imparare. L’istruzione era (lo è ancora) utile perché non discriminava e dava importanza a tutti, a partire dai più poveri. Come ha scritto Erri De Luca, “la scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però fra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori”. Ovunque, appunto. Anche a Malesco. Ma così non fu, in tempo di guerra. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la nascita della Repubblica fascista di Salò, l’occupazione nazista e l’avvio della lotta partigiana, le cantine di quelle scuole diventarono protagoniste, loro malgrado, di indicibili atrocità. Lì, nazisti tedeschi e fascisti italiani, rinchiusero e seviziarono i partigiani fatti prigionieri durante il rastrellamento del giugno 1944. L’impervia Val Grande (oggi parco nazionale e area wilderness più grande d’Italia) e le zone circostanti ospitavano diverse formazioni partigiane come la Valdossola, la Giovane Italia e la Battisti contro cui, in quell’inizio d’estate, si scatenò l’attacco di diverse migliaia di nazifascisti con l’appoggio di artiglieria e di aerei. Tedeschi e fascisti attaccarono in quasi cinquemila, bene armati ed equipaggiati; i partigiani che si difesero erano dieci volte di meno, male armati, peggio equipaggiati e privi di viveri. Per le formazioni partigiane e per la popolazione civile furono venti terribili giorni di spietata caccia all’uomo, fucilazioni, incendi e saccheggi. Le operazioni in montagna dell’Operazione Köeln – organizzata dal comando SS di Milano – terminarono il 22 giugno con l’eccidio dell’Alpe Casarolo, in alta Val Grande, dove morirono nove partigiani e due alpigiani. Poi in Val Grande le armi tacquero ma continuarono le fucilazioni dei partigiani catturati nei paesi ai piedi dei monti. Numerose vittime rimasero senza un nome e così anche molti dispersi, come nel caso di tanti giovani lombardi saliti in montagna per sfuggire ai bandi della Repubblica Sociale Italiana e non ancora censiti sui ruolini delle formazioni partigiane. Le vittime del rastrellamento – compresi molti alpigiani in zona per la monticazione estiva – furono circa trecento, la metà delle quali uccise dopo la cattura. Nelle cantine dell’asilo di Malesco, trasformato in prigione, transitarono decine e decine di partigiani, picchiati e torturati in interminabili “sedute” d’interrogatorio dai loro aguzzini. Molti di loro vennero poi tradotti nei luoghi di fucilazione, a Fondotoce di Verbania, Beura, Baveno. E nella frazione maleschese di Finero dove, nel piccolo cimitero, in quindici vennero messi al muro e fucilati il 23 giugno 1944. Oggi, a memoria di quella tragica vicenda, è stata posta una lapide sul muro della scuola e al centro della piazza (che ha cambiato il nome in piazza XV Martiri) dove, dalla fontana, l’acqua esce da quindici zampilli, tanti quanti i partigiani che persero la vita nel camposanto lungo la strada che scende per la Valle Cannobina.
Marco Travaglini
VALBUM è uno strumento originale pensato sia per chi già conosce il patrimonio culturale valdese, sia per chi ne è incuriosito e desidera saperne di più con una formula alla portata di tutti. È composto da 60 figurine con immagini storiche, rappresentazioni di quadri e stampe, informazioni, curiosità e contenuti audio speciali raggiungibili con QR code. Pur guardando al gioco e alla leggerezza, VALBUM restituisce la storicità adeguata grazie alla collaborazione con l’Ufficio Archivio Storico e Beni Culturali della Tavola Valdese ed è l’occasione per unire divulgazione storica, narrazione per immagini e contenuti extra e aspira ad essere un ponte tra generazioni.
di Marco Travaglini
Artista incredibilmente versatile, indimenticabile protagonista del teatro leggero italiano, nella sua lunga carriera di attore, comico, cantautore e ballerino si cimentò in moltissimi ruoli. In molti, tra i non più giovanissimi, lo ricorderanno protagonista di moltissimi spettacoli dalla rivista alla commedia musicale, dall’intrattenimento televisivo e radiofonico all’operetta e al teatro.
Non tutti sanno però che nacque “casualmente” a Torino il 27 aprile 1912, durante una tournée della compagnia di cui facevano parte i suoi genitori, il cantante di operetta Cesare Ranucci e la ballerina classica Paola Massa, artisti di opera comica che lavorarono anche con il grande Ettore Petrolini.
Il piccolo Renato passò così i primi giorni di vita in una cesta dietro le quinte dove i genitori, a turno, si prendevano cura di lui tra una scena e l’altra. Venne poi battezzato a Roma, nella basilica di San Pietro per volontà del padre “che volle confermare la sua romanità risalente a sette generazioni”.
Nascendo in una famiglia d’artisti fu normale che anche Renato sentisse il richiamo della scena e così, fin da piccolo, si ritrovò a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche e teatrali. A 10 anni entrò a far parte come soprano nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Grazie alla sua travolgente simpatia e a un innato talento fece tutta la trafila dalla gavetta al successo.
Suonò la batteria, ballava il tip-tap, si esibì come cantante, debuttò nel 1934 vestendo gli abiti di Sigismondo ne “Al Cavallino bianco” l’operetta più nota e popolare dopo la “Vedova Allegra”. L’esperienza lo portò a inventare un suo personaggio che lo rese riconoscibile al grande pubblico. La bassa statura e il fisico esile gli suggerirono la celebre, esilarante e surreale interpretazione del Corazziere.
Elaborò sketch e canzoni diventate pietre miliari della rivista, al fianco di attori e autori come Garinei e Giovannini. Con la sua compagnia teatrale mise in scena nel 1952 uno spettacolo — “Attanasio cavallo vanesio” — che ottenne un clamoroso successo, confermandolo tra i più amati beniamini del pubblico italiano. Un successo bissato con “Alvaro piuttosto corsaro”, “Tobia la candida spia”, “Un paio d’ali”, girando per i teatri di una Italia desiderosa di svago e divertimento.
Si cimentò nel cinema con i suoi personaggi senza tralasciare ruoli più impegnati come ne “Il cappotto” (tratto da un racconto di Gogol’) con la regia di Alberto Lattuada e “Policarpo ufficiale di scrittura”, diretto dal torinese Mario Soldati. Rascel fu anche protagonista di una grande e commovente interpretazione nei panni del mendicante cieco Bartimeo nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli.
Rascel scrisse anche molte canzoni, alcune delle quali riscossero un successo che varcò i confini nazionali entrando a far parte del nostro repertorio popolare come “Arrivederci Roma”, “Romantica” ( con la quale trionfò al Festival di Sanremo nel 1960), “Te voglio bene tanto tanto”, “E’ arrivata la bufera”. I ragazzini della mia generazione lo ricordano in televisione con la veste talare del protagonista de “I racconti di padre Brown”, sceneggiato prodotto e messo in onda dalla Rai nel 1970. Risale a quello stesso anno la sua ultima interpretazione in una commedia musicale di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente) dove Rascel ebbe l’onere di sostituire all’ultimo istante il famosissimo Domenico Modugno con un giovane Gigi Proietti, pressoché sconosciuto al pubblico.
Una carriera lunga e ricca che lo vide al tempo stesso innovatore e rappresentante autentico della storia nobilmente popolare della commedia italiana. Una vicenda umana e artistica che, ancora oggi, molti ricordano con affetto e riconoscenza.
Cosa sarebbe successo se uno dei componenti la comitiva del Grande Torino in quel lontano maggio del 1949, seguendo dei ‘segni’ non fosse salito a bordo dell’aereo, e con lui altri due compagni di squadra, e fosse tornato in Italia con un lungo e faticoso viaggio in auto via Francia ? Questo è il filo conduttore di ‘E se un angelo a Lisbona …’ libro scritto a quattro mani di Orazio Di Mauro, già autore di diverse pubblicazioni (ultima in ordine di tempo il giallo calcistico ‘Rosso diretto’) e Sergio Gabetto, figlio di Guglielmo, il calciatore del Toro caduto con la squadra a Superga, L’editore è Neos Edizioni.Abbiamo incontrato Sergio Gabetto alla Cremeria Dolcearea di Alessandro Ledda in via Mercadantea Torino per parlare della sua prima produzione letteraria. L’autore, nato nel 1947, laureato in matematica, ha insegnato negli istituti superiori ed è stato assistente universitario alla facoltà di Fisica a Torino. Ha, però, vissuto una parte notevole della sua vita lontano dalla città natale.
Gabetto, come è nato questo libro ?
Guardando dei vecchi ricordi dopo che ero tornato da Cuba. Qui, però, è necessario che faccia una precisazioni. Mi piaceva il mondo caraibico, avevo già vissuto un paio d’anni in Repubblica Dominicana e dal 1995 al 2020 ho vissuto a Cuba, dove mi sono sposato e ho avuto due figlie. E là con alcuni amici ho fondato il Toro Club Cuba. Il tifo la si fa al ritmo bailato. Al tempo del Covid con la mia famiglia sono tornato in Italia e ho seguito mio fratello sino a quando è mancato. Mio nipote mi diede un paio di scatoloni pieni di ricordi, così è nata l’idea di questo libro.
Che presenta una particolarità ….
Non volevo scrivere un qualcosa che riportasse dati, statistiche, risultati. Ne sono stati scritti tantissimi. Volevo che fosse un racconto di fantasia e avesse Lisbona sullo sfondo.
Ma c’è un fondo di verità ?
Mio padre, effettivamente, credeva nei segni, era abbastanza superstizioso.
In quanto tempo ha scritto il libro ?
Il libro è stato scritto a quattro mani con l’amico Orazio Di Mauro, che è tifoso del Torino, da gennaio a marzo circa, poi Neos ha provveduto a stamparlo ed era pronto prima del 75esimo anniversario della tragedia.
Il libro però non è stato l’unico modo per ricordare il Papà ?
Per celebrare questo anniversario ho voluto creare un oggetto da collezione: una bottiglia di quel Barbera che Giovanni Arpino legò a loro, ‘Il Vino del Barone’.
Che accoglienza ha avuto il libro ?
Buona. E ha anche vinto il primo premio alla Fiera del Libro di Orbassano. Adesso abbiamo anche in programma alcune presentazioni.
Che rapporto ha con suo Padre ?
Quando se n’è andato avevo solo venti mesi. Ne ho soltanto sentito parlare e ho ricevuto degli aneddoti e ricordi da mia mamma Anita e dai tifosi del Bar Vittoria che aveva con Ossol in via Roma, dove oggi c’è Zara. Quel far dove i tifosi chiamavano ‘Gabos’ con le iniziali di entrambi.
Cosa vuole dire essere Granata ?
E’ più di una fede, è un modo di vivere, l’interesse è che il giocatore abbia senso di appartenenza, che si impegni sul campo, che giochi e non vivacchi.
Il libro, che si legge velocemente, tanto è avvincente e pieno di significato si chiude con una riflessione di Guglielmo, bellissima: ‘Potrò giocare bene o male, vincere o perdere le partite, ma loro, soltanto loro rimarranno i granata che vincono sempre. Il Toro non perde mai”.
MASSIMO IARETTI
Una lunga storia accompagna ormai il grande mosaico che, realizzato tra il 1170 e il 1190 nella chiesa di San Salvatore – fondata alla fine del 300 d.C., ricostruita nei primi decenni dell’anno 1000, a tre navate con un tetto a capriate, per essere distrutta alla fine del Quattrocento e far posto all’attuale duomo voluto dal vescovo Domenico della Rovere e dovuto ad Amedeo da Settignano conosciuto meglio come Meo del Caprino -, venne alla luce, nel corso di lavori di manutenzione, nel 1909: scoperta documentata da testimonianze, descrizioni, fotografie. I frammenti, rimossi, furono in un primo momento ospitati presso l’antico Museo Civico per essere in seguito ricomposti a Palazzo Madama nell’allestimento inaugurato da Vittorio Viale nel 1934. Nel 1996, nuovi scavi nell’area portarono il mosaico a essere ricollocato sul fianco del duomo, in corrispondenza del presbiterio della basilica antica, in aperta visione grazie ad una piramide vetrata progettata dallo studio Gabetti e Isola. Con il presentarsi di problemi conservativi, dovuti in special modo a infiltrazioni d’acqua, il mosaico veniva ancora una volta rimosso. Oggi, dopo il restauro che ha avuto l’alta sorveglianza di Tiziana Sandri e che ha visto gli interventi contributivi della Consulta torinese e della Reale Mutua, il mosaico di San Salvatore ha trovato la propria definitiva sistemazione pavimentale, nell’allestimento di Massimo Venegoni (l’eccellente posizionamento centrale che ha dovuto fare i conti “con quanto preesistente nella sala”, nuove luci, la valorizzazione dei dettagli, il filmato che aiuta il visitatore a comprendere meglio storia e caratteristiche e tecniche), all’interno del Museo Diocesano di piazza San Giovanni.
L’arcivescovo Roberto Repole, durante la presentazione nei giorni scorsi dell’attuazione del progetto, ha sottolineato come “recuperare un patrimonio storico non sia soltanto un fatto che appartiene alla chiesa ma altresì alla città tutta”, senza dimenticare che il mosaico presbiteriale, dalle radici pagane, ha subito “un processo di inculturizzazione” da parte del cristianesimo, laddove le antiche narrazioni volgevano ad “un più alto valore simbolico, finalizzato a istruire e ad ammonire i fedeli.” Mario Turetta, Segretario generale del Ministero della Cultura e Direttore avocante dei Musei Reali di Torino, ribadisce che “la sua esposizione nel percorso di visita del Museo Diocesano, visibile anche dall’area archeologica della Basilica paleocristiana dalla quale proviene, va ad arricchire l’offerta culturale avviata due mesi fa in occasione del trecentesimo anniversario del Museo di Antichità, con l’apertura al pubblico dell’area archeologica annessa al Teatro Romano, parte integrante dei Musei Reali.”
All’insegna del proprio disegno in bianco e nero, il mosaico di San Salvatore si pone come non ultimo esempio di quella ricca serie di pavimenti musivi romanici che caratterizza l’Italia padana e il Piemonte in particolare, ricordando Acqui, Aosta, Asti, Casale Monferrato, Ivrea, Novara e Vercelli, pavimenti che riprendono tecniche di età romana e spesso l’utilizzo di materiali di quella stessa età. Qui abbiamo l’unione di due racconti che facevano parte dell’immaginario medievale, la mappa del mondo e la ruota della fortuna, una geografia del tempo ricavata ad esempio dai trattati enciclopedici di Isidoro di Siviglia e una morale che stigmatizzava la vanità delle glorie terrene. Nello splendore di quanto oggi si può ammirare, nonostante le tante parti ormai inesistenti, ecco il mondo allora conosciuto – Europa, Africa, Asia – circondato dal grande cerchio dell’Oceano con le sue acque e le sue onde, ai quattro angoli la collocazione dei dodici venti (questi in gran parte perduti) e all’interno animali (i leoni a significare l’Etiopia, l’elefante l’India, il bufalo con il giogo l’Europa, e ancora grifoni e due gru dalle lunghe gambe) e creature fantastiche, una sirena a doppia coda, ad alludere alle varie regioni della terra. Ecco al centro l’immagine della Fortuna, “una figura femminile avvolta in un manto che afferra i raggi della ruota e la fa girare, determinando il successo e la disgrazia degli uomini, rappresentati da un personaggio che sale, raggiunge il culmine della gloria e infine precipita, colpito dalla sventura. Un’iscrizione, parzialmente conservata, fungeva da introduzione e da monito a coloro che si accostavano alle figurazioni del pavimento, salendo dalla navata centrale della chiesa verso l’altare.”
Ancora una volta una testimonianza preziosa, una tappa di un percorso che dovrebbe aprirsi senza interruzioni – al riparo della sicurezza e crediamo soprattutto degli intoppi burocratici – all’interno della intera area archeologica, e che percorra le tre chiese – non soltanto San Salvatore ma le consorelle Santa Maria di Domno e San Giovanni Battista, riportate alla luce -, i resti di abitazioni romane e dell’antico palazzo vescovile, le arcate di un chiostro e il decumano che si vede alle spalle del teatro. Altresì un allestimento che è una traccia importante per un passato medievale relativamente avaro e “un occasione per pensare anche oggi, sulla scorta dei padri antichi, alla natura del destino che, come scrive Bernardo di Cluny nel 1150, ‘gira come una ruota… mutevole, variabile e sempre instabile’.”
Elio Rabbione