STORIA- Pagina 23

Place des Vosges, tra Victor Hugo e George Simenon

Uno dei luoghi più belli di Parigi è senz’altro Place des Vosges al Marais, nell’ XI arrondissement della ville lumière. Realizzata per volere di Enrico IV sul posto dell’antico Palais des Tournelles fatto distruggere nel 1559 da Caterina de’ Medici in seguito alla morte del marito, il re Enrico II, la piazza più antica della capitale francese venne inaugurata ufficialmente con il nome Place Royale nel 1612. In breve tempo diventò il posto più frequentato e alla moda di Francia, punto d’incontro di aristocratici e intellettuali. Dopo la Rivoluzione, nel 1799, prese il nome di Place des Vosges, in onore del dipartimento dei Vosgi che per primo versò le imposte al neonato Stato Repubblicano. Oltre alla sua bellezza architettonica esercita un fascino letterario. Nel marzo del 1924 i giovani coniugi Simenon vi si trasferirono al numero 21. Quell’abitazione ebbe un significato particolare nella toponomastica della letteratura di George Simenon. Non per caso era vicina a quel Boulevard Richard Lenoir dove lo scrittore collocò l’abitazione del commissario Maigret, e poco distante dalla Senna dove, quasi all’altezza dell’Ile de la Cité, si trova il Quai des Orfèvres che al numero 36 ospitava la polizia giudiziaria di Parigi. A Place des Vosges Simenon scrisse il suo primo degli oltre duecento romanzi popolari, siglati con più di venti pseudonimi. Anche il suo Maigret amava la zona del Marais: “un quartiere che conosceva bene tanto che gli sarebbe piaciuto andare ad abitare”. Per un breve periodo, a causa di alcuni lavori di ristrutturazione nella sua casa di boulevard Ginard-Lenoir, ci abitò e la descrizione di un risveglio mattutino in quell’appartamento svela le autobiografiche sensazioni dello scrittore belga: “In casa c’era un buon odore di caffè. Si sentivano gli uccelli e le fontane di place des Vosges. La gente andava al lavoro nel sole ancora fresco e leggero del mattino”. Al numero sei della stessa piazza c’è la maison parigina di Victor Hugo, la casa dove l’autore di Notre-Dame de Paris e de I Miserabili visse per più di sedici anni, dal 1832 al 1848. Fu tra quelle mura che Hugo scrisse i suoi più grandi capolavori. L’appartamento nell’elegante palazzo Rohan-Guéménée rappresenta oggi, insieme alla Maison de Balzac e al Museo della Vita Romantica, uno dei tre musei letterari di Parigi.

Marco Travaglini

Agliè, il castello miracolato

Agliè e il suo castello! Ma è quello di Rivombrosa? Mondo dei consumi che riduci ogni cosa a effimero stilema pur che la realtà che proponi si imponga, nessun rispetto della verità, della storia e anche in questo caso dell’autenticità di persone e luoghi. A voler affrontare la storia di un castello, ci si immerge appieno nelle vicende di vita del passato e andando all’indietro capita di vedere distrutte e ricostruite più volte realtà non solo castellane ma locali…..Così, davanti alla lanterna magica del passato, noi ci rassegnamo a verità che contraddicono i fatti noti e raccontato, ché il momento vuole:
nessun rispetto per la verità! Questa pagina propone un momento drammatico: quando il castello rischiò che l’invasore, inviperito per gli esiti degli ultimi eventi bellici, mettesse a sacco prima e anche a fuoco poi il Monumento più importante di Agliè….. allora sarà più interessante scoprire quanto ebbe a capitare……e questo scritto lo dice bene.
Carlo Alfonso Maria Burdet
L’antico maniero divenne proprietà di casa Savoia dal 1764. Dopo l’avvenuto di Napoleone che lo aveva adibito a ricovero e il parco ceduto ai privati per l’agricoltura, ritornò ai Savoia nel 1823. Dal 1849 fu ereditato da Ferdinando Savoia duca di Genova, dal figlio Tommaso duca di Savoia-Genova e dal nipote Filiberto Savoia duca di Pistoia, marito della duchessa Lydia di Arenberg. Filiberto, cugino del re Vittorio Emanuele III° di Savoia, fu generale della Brigata Brennero e generale di divisione in Africa Orientale.
Nel 1939 cedette il castello allo Stato Italiano per otto milioni di lire, poi adibito a museo dove sono esposte alcune opere di Luigi Canina, l’architetto casalese inserito in casa Borghese dal marchese di San Giorgio Evasio Gozzani, amministratore del principe Camillo e Paolina Bonaparte. Il poeta Guido Gozzano dedicò uno scritto al castello del borgo alladiese. Qui si ricorda un poeta contemporaneo di Guido, Flavio Eligio Maria Razzetti, figlio dell’avvocato torinese Napoleone e Rosa Ballor. Il padre compose un commento estetico alle Odi Barbare di Giosuè Carducci, ottenendo lusinghiera approvazione di Carducci stesso. Flavio Razzetti fu anche giornalista e inviato speciale per 26 volte negli USA, pittore, autore di commedie teatrali, romanziere e  pubblicista.
In un sonetto dedicato a Flavio Razzetti dal poeta dialettale torinese Giovanni Bono, il personaggio di Monsú Razet viene descritto come talentuoso, una figura fuori dal tempo, col suo giaccone frusto e le scarpe scalcagnate. Alla domenica pomeriggio, nel caffè Cannon d’Oro di Agliè, l’antico gioco di carte dei tarocchi permise a Razzetti di fare amicizia con la famiglia di Gozzano Domenico, sposatosi a Cuceglio con Vittoria Zanotto Contino, genitori di Giuseppina Gozzano (*1925) che ha generato la propria linea di New York. La cugina Walburga Bollendorf di Norimberga, detta Walga, moglie del neuropsichiatra Mario Gozzano, figlio del generale medico Francesco e nipote materno del principe e generale Don Maurizio Ferrante Gonzaga, fu protagonista durante la seconda guerra mondiale del salvataggio di Agliè, luogo d’origine dei Gozzano provenienti da Luzzogno.
 Prima implorando in ginocchio e poi opponendosi fermamente alla decisione del compatriota e comandante nazista di distruggere il borgo, salì sul balcone del castello e rischiando la propria vita sfidò il generale tedesco che rinunciò al bombardamento. Per sfuggire alla guerra, i coniugi si erano trasferiti da Pisa ad Agliè nella casa del padre. Oltre a Pisa, Mario fu docente a Cagliari, Napoli, Bologna e Roma ed era direttore della clinica neuropsichiatrica universitaria La Sapienza, dove al primo piano del prefabbricato è stata a lui intitolata l’aula Gozzano. Pubblicò diversi trattati sulle malattie nervose. Importante figura fu il fratello Matteo, sposato con Natalia Labroca, sorella del famoso musicista Mario direttore della Scala di Milano. Il loro figlio Francesco era accompagnatore del presidente Saragat negli anni ’60, inviato speciale nel mondo negli anni ’80 e ultimo direttore dell’Avanti all’epoca di tangentopoli.
Don Pasquale Sorgente, marito di Carlotta sorellastra di Mario, era allievo di pediatria con l’educatrice Maria Montessori a Roma.
Negli anni ’60, Mario e Walga fecero visita ai cugini di New York e San Paolo del Brasile a Itu e Sorocaba emigrati da Agliè ed ebbero quattro figli: Gabriella grafica pubblicitaria; Franco pittore; Renato regista, fotografo ed inventore dei mitici Bank Window-Light che hanno fatto epoca nella storia mondiale della fotografia di
moda, prodotti nella propria azienda lungo il Naviglio di Milano che prese il nome di Lucifero; Elisabetta detta Ingrid, neuropsichiatra infantile residente a Roma, ultima rappresentante dei Gozzano di Agliè della linea materna di Maurizio Gonzaga.
Armano Luigi Gozzano 

Malesco, giugno 1944 

L’asilo infantile di Malesco, in Valle Vigezzo, a ridosso del confine con la Svizzera, venne inaugurato nel 1853, ventisei anni dopo la “scuola per bambine”, ed entrambe le istituzioni educative trovarono alloggio per tutto l’800 nell’edificio dell’ex ospedale Trabucchi, nel centro storico del paese. Agli inizi del ‘900, agli albori del “secolo breve”, in ragione degli spazi angusti in cui erano costretti i piccoli frequentatori dell’asilo e delle scuole femminili, l’Amministrazione comunale maleschese progettò la costruzione di una nuova scuola, considerato l’aumento della popolazione scolastica. Così, con una delibera del 1907, venne scelta piazza Brié che, al tempo, era stata pensata già larga (105 metri per 45), contornata da un bel viale a doppia fila, utilizzata sul finire del secolo (nel 1896) per festeggiamenti dell’acqua potabile che, in paese, veniva distribuita alle otto fontane pubbliche, alle scuole e all’asilo. Un vanto per gli amministratori del più popoloso centro vigezzino, a quel tempo guidati dal sindaco Bartolomeo Trabucchi. L’edificio doveva comprendere al piano rialzato i locali dell’asilo, al primo piano tre spaziose aule per le scuole femminili e al secondo, sulla destra della scala, un piccolo appartamento privato per le suore, e dall’altro lato un’altra aula. L’edificio subì, nel tempo, ulteriori sistemazioni e aggiustamenti ma già negli anni ‘30, come si può desumere da testimonianze e foto d’epoca, le classi erano miste e gli insegnanti laici. In quel luogo – una scuola – attraversato, abitato e frequentato dai ragazzi in crescita si dovrebbe sperimentare lo stare insieme anche tra persone che non sono legate da un comune affetto, come nel caso della famiglia. La scuola è il luogo che fornisce contenuti di conoscenza, dove si sta con gli altri condividendo regole comuni. Ovunque, e – ovviamente – anche in quell’edificio di piazza Brié, a Malesco, quasi agli estremi dell’Italia di “mezzanotte”. Soprattutto in un asilo come quello che rappresentava il primo livello di un cammino dove, nel tempo, i bambini avrebbero incontrato le maestre che avrebbero spiegato loro i numeri, gli anni della storia, i luoghi della geografia. Si sarebbe scritto, più avanti, con il pennino e con l’inchiostro che stava nel calamaio, su ogni banco.

C’era, e lo si coglieva nei paesi di montagna come nelle città, una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva di imparare. L’istruzione era (lo è ancora) utile perché non discriminava e dava importanza a tutti, a partire dai più poveri. Come ha scritto Erri De Luca, “la scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però fra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori”. Ovunque, appunto. Anche a Malesco. Ma così non fu, in tempo di guerra. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la nascita della Repubblica fascista di Salò, l’occupazione nazista e l’avvio della lotta partigiana, le cantine di quelle scuole diventarono protagoniste, loro malgrado, di indicibili atrocità. Lì, nazisti tedeschi e fascisti italiani, rinchiusero e seviziarono i partigiani fatti prigionieri durante il rastrellamento del giugno 1944. L’impervia Val Grande (oggi parco nazionale e area wilderness più grande d’Italia) e le zone circostanti ospitavano diverse formazioni partigiane come la Valdossola, la Giovane Italia e la Battisti contro cui, in quell’inizio d’estate, si scatenò l’attacco di diverse migliaia di nazifascisti con l’appoggio di artiglieria e di aerei. Tedeschi e fascisti attaccarono in quasi cinquemila, bene armati ed equipaggiati; i partigiani che si difesero erano dieci volte di meno, male armati, peggio equipaggiati e privi di viveri. Per le formazioni partigiane e per la popolazione civile furono venti terribili giorni di spietata caccia all’uomo, fucilazioni, incendi e saccheggi. Le operazioni in montagna dell’Operazione Köeln – organizzata dal comando SS di Milano – terminarono il 22 giugno con l’eccidio dell’Alpe Casarolo, in alta Val Grande, dove morirono nove partigiani e due alpigiani. Poi in Val Grande le armi tacquero ma continuarono le fucilazioni dei partigiani catturati nei paesi ai piedi dei monti. Numerose vittime rimasero senza un nome e così anche molti dispersi, come nel caso di tanti giovani lombardi saliti in montagna per sfuggire ai bandi della Repubblica Sociale Italiana e non ancora censiti sui ruolini delle formazioni partigiane. Le vittime del rastrellamento – compresi molti alpigiani in zona per la monticazione estiva – furono circa trecento, la metà delle quali uccise dopo la cattura. Nelle cantine dell’asilo di Malesco, trasformato in prigione, transitarono decine e decine di partigiani, picchiati e torturati in interminabili “sedute” d’interrogatorio dai loro aguzzini. Molti di loro vennero poi tradotti nei luoghi di fucilazione, a Fondotoce di Verbania, Beura, Baveno. E nella frazione maleschese di Finero dove, nel piccolo cimitero, in quindici vennero messi al muro e fucilati il 23 giugno 1944. Oggi, a memoria di quella tragica vicenda, è stata posta una lapide sul muro della scuola e al centro della piazza (che ha cambiato il nome in piazza XV Martiri) dove, dalla fontana, l’acqua esce da quindici zampilli, tanti quanti i partigiani che persero la vita nel camposanto lungo la strada che scende per la Valle Cannobina.

Marco Travaglini

Non rullano più i Tamburi della Pioggia

Se n’è andato pochi giorni fa all’età di 88 anni Ismail Kadarè, scrittore e poeta albanese che denunciò la repressione della dittatura filosovietica e fu costretto all’esilio in Francia. Diversi suoi romanzi sono stati banditi dall’Albania: il più famoso è “Il generale dell’armata morta” pubblicato da Longanesi. Kadarè ha scritto anche storie e leggende dell’Albania nelle quali ha spesso criticato il regime comunista. Tra i romanzi che hanno contribuito alla fama di Kadarè ricordiamo La città di Pietra, Aprile spezzato, La Bambola, Il Palazzo dei sogni, Tre canti funebri per il Kosovo, I Tamburi della pioggia, edito da Longanesi, Tea, Corbaccio e Fabbri. E proprio su quest’ultimo vogliamo soffermarci, un grande romanzo storico. I Tamburi della Pioggia, una vicenda del Quattrocento, l’epopea del leggendario eroe Skanderbeg contro gli invasori turchi che combatterono in Albania una delle più lunghe e sanguinose guerre della storia. È la storia dell’Albania e del suo popolo: l’inizio del conflitto con l’impero ottomano, l’inizio di una lotta pluridecennale, ben 25 anni, la prima di 24 spedizioni dell’esercito del sultano contro il Paese delle aquile. Nel maggio del 1449 un immenso esercito turco pone l’assedio a Kruja, difesa da un piccolo presidio. Skanderbeg, il cui vero nome era Giorgio Castriota, mette al riparo sui monti i vecchi, parte delle donne e i bambini e con le sue forze resta al di fuori della cinta dell’assedio lanciando a più riprese e a sorpresa attacchi dall’esterno contro i turchi. Gli albanesi difesero strenuamente per 25 anni la propria libertà dalle ricorrenti invasioni della superpotenza ottomana. Decine di migliaia di soldati tentarono invano di scalare i bastioni ma dopo aver fatto di tutto per conquistare la cittadella di Kruja le forze turche furono obbligate a ritirarsi. Sul campo di battaglia rimase un quinto dei soldati ottomani. La cittadella di Kruja, capitale dell’Albania, sottoposta a un assedio fiaccante, diventò ben presto il simbolo della resistenza albanese. Di fronte alle sue mura il potente esercito turco è costretto a fermarsi, stroncato dal caldo torrido e indebolito dagli attacchi di Skanderbeg. L’autunno si avvicinava e il rimbombo dei “tamburi della pioggia” stava per segnare la fine di ogni speranza di vittoria. Kruja rifiuta di arrendersi. Gli assalti notturni di Skanderbeg terrorizzano i nemici. Basta il suo nome per far fuggire i turchi. La spedizione ottomana è un inferno. I tamburi della battaglia e della pioggia tormentano il comandante turco. I tamburi che annunciano la pioggia segnano la fine di un lungo cruento assedio. “Cominciò a piovere il 13 settembre, all’alba. In una parte dell’accampamento turco rullavano i tamburi della pioggia. Il loro campo appariva stranamente lugubre in quel mattino d’autunno. Eccolo, dunque, il più grande esercito del nostro tempo, il più temibile mostro della nostra epoca è ai nostri piedi, a inzupparsi di pioggia. Sembra che la prima stagione di guerra volga al termine. Altre ci attendono”.
Filippo Re      

“Valbum”, figurine per conoscere la storia valdese

Nell’anno del proprio quarantennale Radio RBE ha intrapreso molte iniziative con l’obiettivo di festeggiare questo importante anniversario – un traguardo certo non scontato per un’emittente comunitaria nata sull’onda lunga delle radio libere anni Settanta – tra queste segnalo la creazione del primo album di figurine dedicato agli 850 anni dalla nascita del movimento valdese: Valbum.

 

Radio RBE ha scelto di omaggiare così una storia con cui è legata a doppio filo; RBE, infatti, è acronimo di Radio Beckwith Evangelica e nasce nel 1984 come avventura pionieristica per creare un’emittente di impianto laico e aperto al mondo, ma con le radici affondate in un’identità evangelica e protestante, nel solco dell’impegno verso la cultura e la comunità tracciato da John Charles Beckwith nella prima metà dell’Ottocento.

VALBUM è uno strumento originale pensato sia per chi già conosce il patrimonio culturale valdese, sia per chi ne è incuriosito e desidera saperne di più con una formula alla portata di tutti. È composto da 60 figurine con immagini storiche, rappresentazioni di quadri e stampe, informazioni, curiosità e contenuti audio speciali raggiungibili con QR code. Pur guardando al gioco e alla leggerezza, VALBUM restituisce la storicità adeguata grazie alla collaborazione con l’Ufficio Archivio Storico e Beni Culturali della Tavola Valdese ed è l’occasione per unire divulgazione storica, narrazione per immagini e contenuti extra e aspira ad essere un ponte tra generazioni.

Renato Rascel, l’attore che nacque “per caso” a Torino

STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   

Il 2 gennaio del 1991, moriva dopo una lunga malattia Renato Rascel, nome d’arte di Renato Ranucci

di Marco Travaglini

Artista incredibilmente versatile, indimenticabile protagonista del teatro leggero italiano, nella sua lunga carriera di attore, comico, cantautore e ballerino si cimentò in moltissimi ruoli. In molti, tra i non più giovanissimi, lo ricorderanno protagonista di moltissimi spettacoli dalla rivista alla commedia musicale, dall’intrattenimento televisivo e radiofonico all’operetta e al teatro.

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La sigla della trasmissione tv I racconti di Padre Brown

Non tutti sanno però che nacque “casualmente” a Torino il 27 aprile 1912, durante una tournée della compagnia di cui facevano parte i suoi genitori, il cantante di operetta Cesare Ranucci e la ballerina classica Paola Massa, artisti di opera comica che lavorarono anche con il grande Ettore Petrolini.

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Il Corazziere del 1961

Il piccolo Renato passò così i primi giorni di vita in una cesta dietro le quinte dove i genitori, a turno, si prendevano cura di lui tra una scena e l’altra. Venne poi battezzato a Roma, nella basilica di San Pietro per volontà del padre “che volle confermare la sua romanità risalente a sette generazioni”.

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Una vecchia locandina

Nascendo in una famiglia d’artisti fu normale che anche Renato sentisse il richiamo della scena e così, fin da piccolo, si ritrovò a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche e teatrali. A 10 anni entrò a far parte come soprano nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Grazie alla sua travolgente simpatia e a un innato talento fece tutta la trafila dalla gavetta al successo.

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Le più belle canzoni

Suonò la batteria, ballava il tip-tap, si esibì come cantante, debuttò nel 1934 vestendo gli abiti di Sigismondo ne “Al Cavallino bianco” l’operetta più nota e popolare dopo la “Vedova Allegra”. L’esperienza lo portò a inventare un suo personaggio che lo rese riconoscibile al grande pubblico. La bassa statura e il fisico esile gli suggerirono la celebre, esilarante e surreale interpretazione del Corazziere.

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Rascel nelle vesti del Corazziere

Elaborò sketch e canzoni diventate pietre miliari della rivista, al fianco di attori e autori come Garinei e Giovannini. Con la sua compagnia teatrale mise in scena nel 1952 uno spettacolo — “Attanasio cavallo vanesio” — che ottenne un clamoroso successo, confermandolo tra i più amati beniamini del pubblico italiano. Un successo bissato con “Alvaro piuttosto corsaro”, “Tobia la candida spia”, “Un paio d’ali”, girando per i teatri di una Italia desiderosa di svago e divertimento.

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Rascel cantante

Si cimentò nel cinema con i suoi personaggi senza tralasciare ruoli più impegnati come ne “Il cappotto” (tratto da un racconto di Gogol’) con la regia di Alberto Lattuada e “Policarpo ufficiale di scrittura”, diretto dal torinese Mario Soldati. Rascel fu anche protagonista di una grande e commovente interpretazione nei panni del mendicante cieco Bartimeo nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli.

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Renato Rascel nei panni di Padre Brown

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Un primo piano di Renato Rascel

Rascel scrisse anche molte canzoni, alcune delle quali riscossero un successo che varcò i confini nazionali entrando a far parte del nostro repertorio popolare come “Arrivederci Roma”, “Romantica” ( con la quale trionfò al Festival di Sanremo nel 1960), “Te voglio bene tanto tanto”, “E’ arrivata la bufera”. I ragazzini della mia generazione lo ricordano in televisione con la veste talare del protagonista de “I racconti di padre Brown”, sceneggiato prodotto e messo in onda dalla Rai nel 1970. Risale a quello stesso anno la sua ultima interpretazione in una commedia musicale di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente) dove Rascel ebbe l’onere di sostituire all’ultimo istante il famosissimo Domenico Modugno con un giovane Gigi Proietti, pressoché sconosciuto al pubblico.

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Rascel con Giacobetti, Chiusano e la Mannucci del Quartetto Cetra nel 1970

Una carriera lunga e ricca che lo vide al tempo stesso innovatore e rappresentante autentico della storia nobilmente popolare della commedia italiana. Una vicenda umana e artistica che, ancora oggi, molti ricordano con affetto e riconoscenza.

Armi ottomane al Castello di Racconigi. I doni del sultano al re d’Italia

Quando la grande Storia passò per la Provincia Granda. Quel giorno il treno si fermò alla stazione di Racconigi. A quel tempo, tra ‘800 e ‘900, Racconigi era una fermata importante.
Arrivavano zar, sovrani e principi da ogni parte del mondo, ospiti dei Savoia nel castello sabaudo. Il 21 agosto del 1904 dal treno scesero degli uomini col turbante, tra lo stupore dei racconigesi che cinque anni dopo, nel 1909, avrebbero affollato la stazione e le vie del paese per dare il benvenuto ad un altro grande sovrano della storia, nientemeno che lo zar Nicola II in visita a re Vittorio Emanuele III. Ma cosa ci facevano i turchi a Racconigi? Inviati del sultano di Costantinopoli o spie al soldo di un regime sempre più vicino al tramonto?
Dal convoglio si fece avanti una delegazione diplomatica di alto livello guidata dall’ambasciatore turco Ghalib Bey e dal comandante delle guardie del sultano ottomano Abdulhamid II. I servitori scaricarono dal convoglio decine di casse contenenti i doni del sultano dell’Impero per Vittorio Emanuele III, re d’Italia. La reggia, in cui meno di un mese dopo nacque Umberto II di Savoia, l’erede al trono, si arricchì da un giorno all’altro di una straordinaria collezione di decine di armi antiche disposte su pannelli in modo da formare dei trofei d’armi.
Ma il grosso della donazione era costituito da ben 22 quintali di oggetti esposti su scaffali foderati in velluto rosso, al primo piano, accanto alla sala del biliardo, in un spazio chiamato la Sala delle armi turche, che oggi è la Galleria di Eolo. Ci sono armi da fuoco, diverse lance da cavalleria con la bandiera dell’esercito ottomano, un tridente di manifattura islamica e un antico roncone italiano preso durante le battaglie tra europei e turchi nel Quattrocento, pochi anni prima della caduta di Costantinopoli e dell’Impero bizantino nel 1453. Le armi antiche provengono dal Palazzo Yildiz di Istanbul e sono il segno di un lungo rapporto di amicizia e collaborazione tra il re e Abdulhamid II. Vittorio Emanuele III e Umberto II, l’erede al trono, trascorrevano a Racconigi i mesi estivi, lontano da impegni di corte. Gli scambi di regali furono frequenti e cominciarono ancora prima che Vittorio Emanuele diventasse re. Nel 1901 due grandi dipinti e una collezione di armi italiane erano partiti dal Quirinale alla volta della capitale turca mentre il sultano spedì in Italia alcune opere antiche della raccolta imperiale. A ben vedere, l’armeria-deposito del castello di Racconigi è forse l’ambiente più misterioso e intrigante di tutto il castello. Sono custoditi ben 22 quintali di armi tra fucili, archibugi, artiglierie, spade, asce, lance, revolver, armature, corazze, maglie d’acciaio, elmi in metallo e in stoffa consegnate dagli inviati del sultano ottomano a Vittorio Emanuele III nell’agosto del 1904.
Ogni oggetto fu sistemato in apposite vetrine in una sala attigua a quella del biliardo del Castello di Racconigi. A questo punto non stupirebbe se attorno al castello sabaudo o all’interno dello splendido parco aperto al pubblico trovassimo qualche spia turca travestita da turista. Speriamo che il “sultano” Erdogan, nostalgico delle glorie ottomane ed eccitato dai personaggi dell’Impero della Mezzaluna non sappia nulla e non si faccia avanti con la consueta aggressività per reclamare il “tesoro ottomano” nascosto nel deposito-armeria del maniero. Alcuni di questi oggetti sono esposti nell’ambito della mostra permanente “Storie dal mondo in Castello. Meraviglie da quattro continenti a Racconigi”. I pezzi più belli e pregiati sono un raro migfer (elmo) giannizzero del Cinquecento in seta, cotone, lino e rame dorato e soprattutto un’antica spada risalente al 1272 con iscrizione in arabo sulla lama. Altri cento oggetti, tra armi e manufatti, completano la raccolta dei prodotti artigianali extraeuropei presenti nell’esposizione. Tutti doni diplomatici, regali di ospiti illustri o ricordi di viaggio legati alla vita di Vittorio Emanuele III e di Umberto I. Un patrimonio rimasto finora nascosto nei depositi del Castello ma di grande rilievo per la storia della residenza sabauda. In vetrina si possono ammirare anche beni africani come un cofanetto egiziano donato alla regina Elena del Montenegro, uno scudo da parata etiope in seta e cuoio e una zanna d’avorio regalata a Umberto II insieme ad tanti altri oggetti provenienti da India e Persia, Sud America ed Estremo Oriente. La mostra, è aperta mercoledì, giovedì e venerdì con visite accompagnate alle 12.00 e alle 17.00. Sabato, domenica e festivi visite libere dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 19.00. Per informazioni: 0172 84005
Filippo Re
Nelle foto
il Castello di Racconigi, spada araba del 1272, elmi ottomani

“E se un angelo a Lisbona…”: Gabetto – Di Mauro, la leggenda del Grande Torino continua

Cosa sarebbe successo se uno dei componenti la comitiva del Grande Torino in quel lontano maggio del 1949, seguendo dei ‘segni’ non fosse salito a bordo dell’aereo, e con lui altri due compagni di squadra, e fosse tornato in Italia con un lungo e faticoso viaggio in auto via Francia ? Questo è il filo conduttore di ‘E se un angelo a Lisbona  …’ libro scritto a quattro mani di Orazio Di Mauro, già autore di diverse pubblicazioni (ultima in ordine di tempo il giallo calcistico ‘Rosso diretto’) e Sergio Gabetto, figlio di Guglielmo, il calciatore del Toro caduto con la squadra a Superga, L’editore è Neos Edizioni.Abbiamo incontrato Sergio Gabetto alla Cremeria Dolcearea di Alessandro Ledda in via Mercadantea Torino per parlare della sua prima produzione letteraria. L’autore, nato nel 1947, laureato in matematica, ha insegnato negli istituti superiori ed è stato assistente universitario alla facoltà di Fisica a Torino. Ha, però, vissuto una parte notevole della sua vita lontano dalla città natale.

Gabetto, come è nato questo libro ?

Guardando dei vecchi ricordi dopo che ero tornato da Cuba. Qui, però, è necessario che faccia una precisazioni. Mi piaceva il mondo caraibico, avevo già vissuto un paio d’anni in Repubblica Dominicana e dal 1995 al 2020 ho vissuto a Cuba, dove mi sono sposato e ho avuto due figlie. E là con alcuni amici ho fondato il Toro Club Cuba. Il tifo la si fa al ritmo bailato. Al tempo del Covid con la mia famiglia sono tornato in Italia e ho seguito mio fratello sino a quando è mancato. Mio nipote mi diede un paio di scatoloni pieni di ricordi, così è nata l’idea di questo libro.

Che presenta una particolarità ….

Non volevo scrivere un qualcosa che riportasse dati, statistiche, risultati. Ne sono stati scritti tantissimi. Volevo che fosse un racconto di fantasia e avesse Lisbona sullo sfondo.

Ma c’è un fondo di verità ?

Mio padre, effettivamente, credeva nei segni, era abbastanza superstizioso.

In quanto tempo ha scritto il libro ?

Il libro è stato scritto a quattro mani con l’amico Orazio Di Mauro, che è tifoso del Torino, da gennaio a marzo circa, poi Neos ha provveduto a stamparlo ed era pronto prima del 75esimo anniversario della tragedia.

Il libro però non è stato l’unico modo per ricordare il Papà ?

Per celebrare questo anniversario ho voluto creare un oggetto da collezione: una bottiglia di quel Barbera che Giovanni Arpino legò a loro, ‘Il Vino del Barone’.

Che accoglienza ha avuto il libro ?

Buona. E ha anche vinto il primo premio alla Fiera del Libro di Orbassano. Adesso abbiamo anche in programma alcune presentazioni.

Che rapporto ha con suo Padre ?

Quando se n’è andato avevo solo venti mesi. Ne ho soltanto sentito parlare e ho ricevuto degli aneddoti e ricordi da mia mamma Anita e dai tifosi del Bar Vittoria che aveva con Ossol in via Roma, dove oggi c’è Zara. Quel far dove i tifosi chiamavano ‘Gabos’ con le iniziali di entrambi.

Cosa vuole dire essere Granata ?

E’ più di una fede, è un modo di vivere, l’interesse è che il giocatore abbia senso di appartenenza, che si impegni sul campo, che giochi e non vivacchi.

Il libro, che si legge velocemente, tanto è avvincente e pieno di significato si chiude con una riflessione di Guglielmo, bellissima: ‘Potrò giocare bene o male, vincere o perdere le partite, ma loro, soltanto loro rimarranno i granata che vincono sempre. Il Toro non perde mai”.

MASSIMO IARETTI

Il mosaico medievale tra il mondo antico e la ruota della fortuna

Restauro e allestimento all’interno del Museo Diocesano

Una lunga storia accompagna ormai il grande mosaico che, realizzato tra il 1170 e il 1190 nella chiesa di San Salvatore – fondata alla fine del 300 d.C., ricostruita nei primi decenni dell’anno 1000, a tre navate con un tetto a capriate, per essere distrutta alla fine del Quattrocento e far posto all’attuale duomo voluto dal vescovo Domenico della Rovere e dovuto ad Amedeo da Settignano conosciuto meglio come Meo del Caprino -, venne alla luce, nel corso di lavori di manutenzione, nel 1909: scoperta documentata da testimonianze, descrizioni, fotografie. I frammenti, rimossi, furono in un primo momento ospitati presso l’antico Museo Civico per essere in seguito ricomposti a Palazzo Madama nell’allestimento inaugurato da Vittorio Viale nel 1934. Nel 1996, nuovi scavi nell’area portarono il mosaico a essere ricollocato sul fianco del duomo, in corrispondenza del presbiterio della basilica antica, in aperta visione grazie ad una piramide vetrata progettata dallo studio Gabetti e Isola. Con il presentarsi di problemi conservativi, dovuti in special modo a infiltrazioni d’acqua, il mosaico veniva ancora una volta rimosso. Oggi, dopo il restauro che ha avuto l’alta sorveglianza di Tiziana Sandri e che ha visto gli interventi contributivi della Consulta torinese e della Reale Mutua, il mosaico di San Salvatore ha trovato la propria definitiva sistemazione pavimentale, nell’allestimento di Massimo Venegoni (l’eccellente posizionamento centrale che ha dovuto fare i conti “con quanto preesistente nella sala”, nuove luci, la valorizzazione dei dettagli, il filmato che aiuta il visitatore a comprendere meglio storia e caratteristiche e tecniche), all’interno del Museo Diocesano di piazza San Giovanni.

L’arcivescovo Roberto Repole, durante la presentazione nei giorni scorsi dell’attuazione del progetto, ha sottolineato come “recuperare un patrimonio storico non sia soltanto un fatto che appartiene alla chiesa ma altresì alla città tutta”, senza dimenticare che il mosaico presbiteriale, dalle radici pagane, ha subito “un processo di inculturizzazione” da parte del cristianesimo, laddove le antiche narrazioni volgevano ad “un più alto valore simbolico, finalizzato a istruire e ad ammonire i fedeli.” Mario Turetta, Segretario generale del Ministero della Cultura e Direttore avocante dei Musei Reali di Torino, ribadisce che “la sua esposizione nel percorso di visita del Museo Diocesano, visibile anche dall’area archeologica della Basilica paleocristiana dalla quale proviene, va ad arricchire l’offerta culturale avviata due mesi fa in occasione del trecentesimo anniversario del Museo di Antichità, con l’apertura al pubblico dell’area archeologica annessa al Teatro Romano, parte integrante dei Musei Reali.”

All’insegna del proprio disegno in bianco e nero, il mosaico di San Salvatore si pone come non ultimo esempio di quella ricca serie di pavimenti musivi romanici che caratterizza l’Italia padana e il Piemonte in particolare, ricordando Acqui, Aosta, Asti, Casale Monferrato, Ivrea, Novara e Vercelli, pavimenti che riprendono tecniche di età romana e spesso l’utilizzo di materiali di quella stessa età. Qui abbiamo l’unione di due racconti che facevano parte dell’immaginario medievale, la mappa del mondo e la ruota della fortuna, una geografia del tempo ricavata ad esempio dai trattati enciclopedici di Isidoro di Siviglia e una morale che stigmatizzava la vanità delle glorie terrene. Nello splendore di quanto oggi si può ammirare, nonostante le tante parti ormai inesistenti, ecco il mondo allora conosciuto – Europa, Africa, Asia – circondato dal grande cerchio dell’Oceano con le sue acque e le sue onde, ai quattro angoli la collocazione dei dodici venti (questi in gran parte perduti) e all’interno animali (i leoni a significare l’Etiopia, l’elefante l’India, il bufalo con il giogo l’Europa, e ancora grifoni e due gru dalle lunghe gambe) e creature fantastiche, una sirena a doppia coda, ad alludere alle varie regioni della terra. Ecco al centro l’immagine della Fortuna, “una figura femminile avvolta in un manto che afferra i raggi della ruota e la fa girare, determinando il successo e la disgrazia degli uomini, rappresentati da un personaggio che sale, raggiunge il culmine della gloria e infine precipita, colpito dalla sventura. Un’iscrizione, parzialmente conservata, fungeva da introduzione e da monito a coloro che si accostavano alle figurazioni del pavimento, salendo dalla navata centrale della chiesa verso l’altare.”

Ancora una volta una testimonianza preziosa, una tappa di un percorso che dovrebbe aprirsi senza interruzioni – al riparo della sicurezza e crediamo soprattutto degli intoppi burocratici – all’interno della intera area archeologica, e che percorra le tre chiese – non soltanto San Salvatore ma le consorelle Santa Maria di Domno e San Giovanni Battista, riportate alla luce -, i resti di abitazioni romane e dell’antico palazzo vescovile, le arcate di un chiostro e il decumano che si vede alle spalle del teatro. Altresì un allestimento che è una traccia importante per un passato medievale relativamente avaro e “un occasione per pensare anche oggi, sulla scorta dei padri antichi, alla natura del destino che, come scrive Bernardo di Cluny nel 1150, ‘gira come una ruota… mutevole, variabile e sempre instabile’.”

Elio Rabbione

Candidina Bolognino di Agliè, un’amica per i Gozzano

Con la scomparsa delle cartoline che Gozzano aveva mandato dall’Oriente a Candidina Bolognino, si perdonoelementi anche utili a comprendere la formazione di Guido.

Un compito dello storico è il documentare il passato e, nel caso, loposso ancora fare, perché, da sempre, mi è consueto Agliè, dove ritrovo, oltre ai parenti nostri, i riflessi di qualche amicizia di famiglia e, tra queste, l’amica di mamma: Mary Prola col marito, dottor Roberto Bolognino! Sono persone che animano i nostri ricordi più lontani e, nella vivacità dei loro incontri, caratterizzati dal racconto del loro vissuto, che era sempre partecipato da tutti, costituiscono esempi, divenuti consueti anche a noi, di vita domestica, quando le loro presenze erano ancora usuali. Io, che ascoltavo gli adulti, in caso di necessità, richiedevo direttamente i chiarimenti che sentivo necessari

Il periodare facile ed il vociare faceto dei famigliari erano scanditi dal timbro baritonale della voce del Bolognino, un compagno di facoltà dell’avvocato Agnelli… che, col gradimento di tutti, raccontava della sua prima infanzia (per nulla inficiata dalla prematura scomparsa di quel suo padre medico, nato come Guido nel 1883). Egli ricordava le visite ad Agliè, e la zia Candidina che,presente Diodata Mautino, la madre di Gozzano, invitava lui,Roberto bambino, a recitare a memoria qualche brano poetico di GuidoAdulto, egli sarebbe stato un impiegato dell’INPS, ma rimanendo uno sportivo, diviso nella pratica tra il ciclismo, il nuoto e lo sci (quasi coll’approvazione postuma del Poeta di Agliè).

Quanto a luogo, noi riconosciamo un’abitazione storica dei Bolognino (sarà quella una delle due per cui, fin dal Seicento, essi furono esentati dalle tasse, per volere e grazia dei San Martino d’Agliè?). Quella in questione è un bel palazzo sei-settecentescodai lineamenti sobri, con un’ala a doppio porticato sovrapposto, il quale fa da sfondo alla signora Gozzano, ritratta con una nipote del marito, in una fotografia del 1940!

Fi qua tutto bene, ma, allora, chi era e che cosa faceva ad Agliè la zia di Bolognino?

Si diceva che, giovanissima, Tota Candidina avesse avuto un incidente in bicicletta e che, rimasta azzoppata, si muovesseaiutandosi col bastone, che fosse un’insegnante e che preparasse i ragazzi agli esami di licenza

Battezzata Candida (Giuseppa Silvia) (Agliè, 1879-1953), era la figlia maggiore dell’esattore Giuseppe Bolognino e di sua moglie,la saviglianese Felicita Vineis (un nome che sembra tratto dal campionario poetico di Guido)! La coppia aveva avuto altri tre figli: Luigi (1880-1882), Eugenio, (Agliè, 1883 – Torino, 1918), il futuro medico chirurgo padre del dottor Roberto, e la più giovane,Claudia (San Giorgio Canavese,1889 – Torino, 1941) che andòsposa a Francesco Ciurnelli da Perugia.

Candidina aveva lo stesso nome della sua nonna paterna.

Luisa Candida Quintina Pezza che era stata battezzata a Vico Canavese, dov’era nata, perché era una figlia del notaio di Agliè Francesco Zaverio Pezza (Torino, 1772 – Agliè, 1851) che, essendo anche avvocato, fu giudice di prima istanza e, sposo di Paolina del conte Vittorio Bosco di Ruffino, ebbe alcuni figli, nati nelle sedi che egli occupò, nel progredire della sua carriera.Candida Pezza aveva poi sposato il chirurgo Giovanni Battista Bolognino di Agliè.

Ad Agliè, Zaverio Pezza era stato il padrino di battesimo diMassimo Secondo Zaverio Mautino (Agliè, 1816-1873), il cui padre, misuratore Massimo Felice Mautino era morto prima che egli nascesse, pertanto l’avv. Pezza fu una figura maschile diriferimento per il commendator Mautino, il nonno di Guido Gozzano. Per questo motivo (e anche perché i fratelli Bolognino erano vicini in età ai figli di Diodata) le famiglie Bolognino e Gozzano furono sempre in buona amicizia.

Su Candidina Bolognino dice il necrologio, pubblicato sul bollettino parrocchiale di Agliè in data 6 gennaio 1954: «Bolognino Candida d’anni 74. Non era laureata, ma era chiamata professoressa per i molti alunni che ha preparato con felici esiti ad un Diploma. Molto conosciuta nel campo letterario anche per la sua amicizia col poeta Guido Gozzano. I giornali di Torino e la R.A.I. la ricordano come l’amica e confidente di Guido Gozzano. Buona e praticante cristiana, chiuse gli occhi alla terra nella semplicità francescana».

Si trattava di una zia nubile, più giovane di pochi mesi di Erina Gozzano, la sorella maggiore del poeta, che a sua volta era la sorella del medico Eugenio, come Guido Gozzano nato nel 1883, il quale aveva avuto una figlia, nata in Friuli, dov’egli era statomedico condotto, e del nostro torinese dottor Roberto!

Si sono immaginate tante storie sul nostro Poeta e, senza tener conto della malattia, che tanto pesò sulla sua vita, si è fantasticatotanto sulle donne che egli poté frequentare ma probabilmente, se si fosse indagato meglio, senza dar retta troppo retta a suo fratello Renato, la veri storica, e non i suoi ipotetici «pallidi amori», avrebbe detto meglio...

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Ricordando l’amicizia tra le nostre mamme, dedico queste paginea Daniela Bolognino

che qui ringrazio soprattutto per il prezioso ritratto della sua prozia).