ACCADDE OGGI


Una sera Goran volle a tutti i costi portarmi a cena all’Inat Kuca. Diceva che non si poteva immaginare quant’è bella e accogliente Sarajevo senza passare almeno una serata bevendo birra Sarajevsko e scoprendo le delizie della cucina bosniaca. Quindi, cosa poteva offrire di meglio la città di quel ristorante che i sarajevesi considerano una vera e propria istituzione? L’atmosfera di questa costruzione in stile turco affacciata sulla Miljacka con un superbo dehors sul fiume, è sempre speciale. Il menù propone piatti tipici della tradizione bosniaca, non facili da trovare negli altri ristoranti del centro della città. Anche a tavola Sarajevo esprime quel suo carattere orgogliosamente meticcio, multiculturale nonostante tutto, influenzato tanto dalle tradizioni ottomane e balcaniche quanto da quelle mitteleuropee e mediterranee. Del resto non può essere diversamente per una città il cui nome trae origine dal turco antico “saraj”, cioè il palazzo ma anche luogo d’incontro e scambio. Se spesso ci sedevamo davanti a un chiosco della Bascarsija, rimpinzandoci di birra, Ćevápčići e burek, secondo il tradizionale rito del fast food balcanico, quella sera cenammo su tavoli di legno antico, con tovaglie ricamate e una infinità di proposte interessanti a base di zuppe, carni, verdure e legumi. Intendiamoci: a me è sempre piaciuto pranzare nel locale spartano di Zeljko o nei chioschi affollati e vocianti delle vie attorno al bazar. Vado matto per i Ćevápčići, quelle deliziose polpette un poco allungate di carne di agnello arricchita di spezie e cipolla e cucinate sulla brace. E il burek? Quella specie di torta salata dalla sfoglia sottile ripiena di carne (o verdure e formaggio, nella versione vegetariana) e cotta ricoprendola interamente con le braci ardenti, è gustosissima. All’Inat Kuca, volendo, ci sono gli stessi cibi della cucina povera bosniaca. Ero tentato di restare sul già sperimentato ma Goran insisteva perché assaggiassi il bosanski lonac (“bosnian pot” sul menù in inglese, ovvero pentola bosniaca),piatto molto saporito che consiste di verdure assortire, carne, pomodoro e spezie, fatte cuocere a lungo in casseruola. E poi una particolarissima pita fatta di sottilissima pasta fillo arrotolata ripiena di carne o verdure.
Preparata dentro a dei grandi tegami rotondi chiusi con un coperchio e infilati sotto una coltre di brace ardente. Ci venne servita caldissima con kíselo mlijèko , lo yogurt casalingo, spalmato sullo stesso piatto. Goran non si tirava mai indietro quando sedeva a tavola. Si divorò anche un piatto di súdžukice, gustosa salsiccia arrostita sempre sulla pietra. Per giustificarsi mi disse che si trattava di una mala pórcija, la porzione piccola (tanto per darvi un’idea erano tre salsicce) e non una ben più robusta e impegnativa vèlika pórcija, cioè la porzione grande da cinque salsicce. Che dovevo dirgli? Salute, Goran. E complimenti per il tuo stomaco di ferro. Io ero sazio e non riuscivo a mandar giù più niente. Lo convinsi a rinunciare (anche se dall’espressione del suo volto direi che lo fece a malincuore) ai dolci. Terminammo con una bella tazza di bósanska kafa, il caffè bosniaco non filtrato, preparato e servito nelle caffettiere in rame e un giro di rákija, la grappa nazionale ( in ragione del distillato di frutta fermentata cambia il nome e quella era la dúnjevača, uno straordinario e profumato liquore di mela cotogna. Goran raccontò la storia dell’originale nome di quella casa che da tempo ospitava il ristorante. Mi disse che attorno al XIX secolo si trovava sulla riva opposta del fiume quando ne venne disposto l’abbattimento da parte delle autorità austroungariche per fare posto alla biblioteca nazionale, l’imponente Vijećnica. Il proprietario non intendeva ragioni e, pressato dalle autorità dell’Impero viennese, si intestardì fino a sfidarle, pretendendo che la abitazione venisse trasferita, pietra su pietra, dall’altro lato del fiume. Pensava che la cosa fosse impossibile e invece il suo capriccio venne esaudito in poco tempo e nel breve di due anni venne costruito al suo posto l’imponente edificio. Così oggi l’Inat Kuca, la casa del Dispetto, sorge sulla sponda opposta della Miljacka proprio di fronte all’imponente mole della biblioteca che, dopo il rogo provocato dalle granate dei nazionalisti serbi il 25 agosto del 1992, è stata ristrutturata e oggi ospita il municipio. Pagato l’onestissimo conto, uscimmo e ci incamminammo verso la Bascarsija, alzando lo sguardo sui minareti che parevano voler fare il solletico a un cielo notturno ricamato da milioni di stelle. C’era in giro ancora parecchia gente per le vie attorno alla moschea del Bey , la Begova Dzamija, uno dei più notevoli monumenti turchi in Europa. Era un buon segno, a riprova che l’anima della città, nonostante il dolore e le rovine di quel fine secolo di conflitti e violenze, era viva.
Marco Travaglini
Giorgio Ferraris, maestro elementare in pensione, da tanti anni sindaco di Ormea in alta Val Tanaro, al confine con la Liguria, autore di libri importanti sugli alpini al fronte russo tra il 1942 e il 1943 (Alpini dal Tanaro al Don, In prima linea a Nowo Postojalowka, Le ultime tradotte per la Russia), ha pubblicato per l’editore Araba Fenice un interessante profilo dell’ufficiale delle penne nere Mario Odasso. Nato a Garessio il 7 dicembre del 1898, Odasso prese parte come giovane ufficiale di complemento al primo conflitto mondiale e ricoprì un ruolo di grande rilevanza su tutti i fronti dove vennero impegnate le truppe alpine nella Seconda Guerra mondiale. Con il grado di maggiore comandò il Battaglione Intra, inviato in Albania con la Cuneense dopo il fallito tentativo di occupazione della Grecia. In quella circostanza condusse personalmente una delle poche operazioni militari dell’esercito italiano coronate da successo di quella guerra, prima dell’intervento delle truppe germaniche. Il comando del Battaglione degli alpini Intra fu un esperienza importante considerato che rappresentava, nella storia delle penne nere, il più antico corpo di fanteria da montagna attivo nel mondo, quasi una leggenda. Costituitosi nel 1908 con il nome di Pallanza, assunse un anno più tardi la denominazione che lo rese famoso tra gli alpini. La nappina che distingueva questi alpini era verde e il loro motto era tutto un programma: “O u roump o u moeur !”, “O rompo, o muoio”. Odasso, promosso tenente colonnello, prese successivamente parte alla campagna di Russia come Capo dell’Ufficio Operazioni del Corpo d’Armata Alpino e, all’inizio della ritirata, svolse una delicata e fortunosa missione speciale. Nominato Capo di Stato Maggiore del Corpo Alpino, dopo aver organizzato il rientro in patria dei soldati italiani sopravvissuti alla disastrosa ritirata, venne gravemente ferito da un bombardamento aereo russo e i postumi della ferita lo costrinsero al ritiro dalla vita militare, conclusa con il grado di generale. A guerra finita, il Battaglione Intra, a quel tempo inquadrato nel 4° Reggimento Alpini della Divisione Taurinense, non venne più ricostituito, restando così nei ricordi di coloro che ne fecero parte, in pace come in guerra. Va sottolineato che al rientro in Italia, nella sua casa a Intra, Mario Odasso non solo non aderì alla Repubblica di Salò ma avviò i contatti con il Cln clandestino di Verbania e con le formazioni della Resistenza, preparando la calata al piano dei partigiani e assumendo il comando della piazza militare verbanese. Quando si costituì la prima amministrazione comunale di Verbania dopo la Liberazione fu chiamato dal sindaco socialista Andreani a far parte della giunta in qualità di vicesindaco, incarico che ricoprì fino alla primavera del 1946. Il libro di Giorgio Ferraris, arricchito da una importante documentazione fotografica sulla campagna greco-albanese del Battaglione Intra, ricostruisce la vita di questo alpino di poche parole e di forte tempra, apprezzato e rispettato dai suoi uomini, che seppe fare scelte importanti a testa alta, dimostrando grandi capacità militari e una forte umanità. Ferraris mette in rilievo, infine i valori che hanno ispirato la vita di quest’uomo tutto d’un pezzo: l’onestà e lo spirito di libertà.
Marco Travaglini
L’Automotoclub Storico Italiano, nella sua continua opera di tutela e valorizzazione del patrimonio motoristico italiano, ha acceso i riflettori sulla lunga storia della tranvia Sassi-Superga, nota anche come Dentiera, che collega la Città della Mole alla collina dove si erge la basilica di Superga. La linea venne inaugurata come funicolare a vapore 140 anni fa, il 27 aprile 1884 e nel 1934 subì l’aggiornamento tecnico utilizzato ancora ai giorni nostri, a novanta anni di distanza. Si tratta della cremagliera di tipo Scrub senza fune e con trazione elettrica. Ad oggi rimane l’unico esempio italiano di tramvia a cremagliera e uno dei pochi rimasti al mondo. La linea, a binario unico con scartamento di 1435 mm, è lunga poco più di tre chilometri, affronta un dislivello di 425 metri e una pendenza massima di 21 gradi.
Per celebrare questo particolare primato, ASI ha rilasciato la prima certificazione di storicità per un convoglio tranviario elettrico, quello in funzione sulla Sassi Superga, formato dalla matrice D2-D3 SNOS del 1934 e dai rimorchi D11-D12-D13-D14 del 1884.
Le rispettive targhe oro sono state consegnate dal Presidente ASi Alberto Scuro e dalla Commissione ASI Rotabili Ferroviari, Gabriele Savi, Michele Fontani e Alberto Sgarbi, al Presidente dell’Associazione Torinese Tram Storici Roberto Carbursano, al termine di un evento organizzato sabato 30 novembre scorso alla stazione di Sassi, durante il quale sono intervenuti la Presidente del Consiglio Comunale di Torino, Maria Grazia Grippo, l’Assessore regionale Andrea Tronzano e il presidente GTT Antonio Fenoglio.
Nell’occasione è stato offerto un road tour sulle rotaie della città a bordo di due affascinanti tram della collezione curata dall’Associazione Torinese Tram Storici, il ‘2598’ del 1933, e il ‘312’ del 1935.
La Sassi Superga è stata la prima funicolare italiana a vapore ad adottare il sistema Agudio, che consisteva in un cavo d’acciaio che, scorrendo accanto al binario, azionava due grandi pulegge a lato del convoglio che, a loro volta, muovevano gli ingranaggi sulla cremagliera centrale. Un motore a azione azionava l’argano. Il sistema venne aggiornato nel 1934 con la cremagliera tipo Scrub senza fune e con trazione elettrica. Le motrici in uso dal 1934 sono la D1 a due assi e le D2 e D3 a carrelli, quattro assi. La colorazione esterna riprende i colori storici di ATM ( Azienda Torinese Mobilità, oggi GTT Gruppo Torinese Trasporti). Il rosso crema adornato dal filetto giallo blu dell’araldica torinese, abbandonati nel 1927 per imposizione ministeriale furono riproposti in quanto la linea Sassi-Superga non è una normale tranvia urbana. Ad eccezione del periodo della seconda guerra mondiale, quando le vetture furono ricolorate in beige, la D2 e la D3 sono tra i pochi tram a non aver mai cambiato livrea. Durante i loro novanta anni di onorato servizio, le motrici D2 e D3 hanno percorso oltre un milione e mezzo di chilometri, accompagnando milioni di persone fino alla base della Basilica di Superga.
I quattro motori TIBB-GTDM permettono al tram di spingere fino a due rimorchi, per un totale di 210 passeggeri. L’interno del tram è completamente in legno lucidato, cosiccome lo sono le porte. I sedili sono formati da panche dallo schienale reclinabile. Solo nella zona rivolta a valle ci sono una paratia e una porta scorrevole a dividere la zona passeggeri dalla parte ristretta del tram. L’orientamento del tram è fisso, sebbene sia bidirezionale. Il lato rivolto a monte si riconosce per la presenza delle condutture dell’aria. I finestrini sono ampi, panoramici e possono scomparire all’interno della fiancata del tram.
Nel 1934, in occasione del rinnovo del parco veicoli, l’ATM decise di recuperare i vagoni a quattro assi, due aperti estivi D13, D14 e due invernali chiusi D11 e D12, e di riutilizzarli sulla linea nuova, previa aggiunta di una ruota dentata che ingranasse sulla cremagliera per garantire la frenatura. Questi vagoni, fino all’immediato secondo dopoguerra, accompagnavano i passeggeri a partire da piazza Castello fino a Superga. Nel tratto tra piazza Castello e Sassi, le rimorchiate venivano agganciate al tram a vapore della linea Torino Brusasco, chiusa poi nel 1949, e da esso trainate fino alla stazione Sassi dove, con motrici di servizio, venivano portate sulla linea per Superga e unite alla motrice.
Sono state restaurate da un’officina specializzata nel 2000 e malgrado non siano praticamente mai cambiate nel corso dei decenni, solo pochi dettagli lasciano intendere la loro effettiva età.
Mara Martellotta
CARTOLINE DA TORINO
Il nome ufficiale è Casa Scaccabarozzi, ma è conosciuta dai torinesi come Fetta di polenta, la curiosa abitazione sita nel quartiere Vanchiglia, all’angolo tra corso San Maurizio e via Giulia di Barolo. Fu progettata da Alessandro Antonelli (Francesca Scaccabarozzi, era la nobildonna che divenne sua moglie). I due abitarono nell’edificio per pochi anni, anche per dimostrare che una casa così curiosa poteva essere realmente solida e abitata. L’ origine del suo soprannome è dovuta alla pianta trapezoidale dell’edificio, con uno dei prospetti laterali di appena cinquantaquattro centimetri. Il quartiere Vanchiglia nacque verso il 1840 per volere della Società Costruttori di Vanchiglia, con la collaborazione dell’architetto Antonelli, che in seguito realizzò la Mole Antonelliana e anche altri edifici residenziali nel quartiere. Quale compenso per i lavori gli fu donato anche il terreno sull’angolo sinistro di Via dei Macelli, coincidente con l’attuale via Giulia di Barolo. Poiché l’area èera di piccole dimensioni, per sfida decise di costruire un edificio con un appartamento per ciascun piano, nonostante il minimo l’esiguo spazio, recuperando in altezza ciò che non poteva in larghezza. La scommessa fu vinta e l’Antonelli donò l’edificio alla moglie.
Apertura straordinaria, in anteprima, venerdì 22 novembre dalle 19.30 alle 23.30, per la mostra, che rimarrà aperta ai Musei Reali fino al 23 marzo prossimo
A Cleopatra, Regina d’Egitto, donna di grande potere e fascino, i Musei Reali dedicano una mostra dossier che si inserisce nell’ambito delle celebrazioni dei 300 anni del Museo d’Antichità (1724-2024). Cleopatra, le cui vicende hanno ispirato molti scrittori come Shakespeare, Gautier e Bernard Show, oltre ad artisti, musicisti e registi, i Musei Reali di Torino dedica un’esposizione dossier curata da Anna Maria Bava ed Elisa Panero, che si avventura nella vicenda storica e nella leggenda attraverso un profilo del personaggio e del suo tempo, la nascita del mito e la fascinazione esercitata dallo stesso nel corso dei secoli. Il percorso espositivo è suddiviso in 5 aree tematiche e riporta al centro degli studi l’enigmatica “Testa di fanciulla” di Cleopatra, in marmo bianco, risalente alla metà del primo secolo a.C., del Museo di Antichità, che nella capigliatura e nei tratti mostrano caratteristiche che rimandano all’iconografia nota di Cleopatra VII, a cui si affiancano manufatti archeologici e sculture antiche provenienti dal Patrimonio dei Musei Reali e da collezioni pubbliche e private poste in dialogo con opere pittoriche e grafiche, oltre a documenti cinematografici che hanno visto protagonista la celebre Regina d’Egitto nel corso dei secoli. La mostra si apre con un inquadramento storico del periodo nel quale ha vissuto e regnato Cleopatra VII (51-30 a.C.), ultima Regina della dinastia Tolemaica, in un Egitto ormai ellenizzato in virtù delle azioni di Alessandro Magno, iniziate nel IV secolo a.C.
L’Egitto era ormai un Paese d’avanguardia, inserito nel Mediterraneo, luogo d’incontro di diverse civiltà e tradizioni, connotato da un forte rispetto per le tradizioni dell’Egitto faraonico e, nello stesso tempo, dall’adesione alla koinè culturale ellenistica.
La sezione “Cleopatra, la Regina che sfidò Roma” si focalizza sulla figura di Cleopatra e sul suo operato politico, in relazione ai protagonisti del suo tempo rappresentati dalla testa di Giulio Cesare, da Tusculum dei Musei Reali, considerato il ritratto più veritiero dell’Imperatore, e con quelli di Marco Antonio e Ottaviano Augusto, in prestito dalla Sopraintendenza del Molise e dei Musei Capitolini. L’analisi si concentra su Cleopatra come donna di potere, a capo di una nazione che vive un importante sviluppo economico grazie anche alla riforma monetale voluta dalla stessa Regina.
La mostra prosegue con l’origine del mito di Cleopatra, nato con la Regina ancora in vita, e sviluppatosi negli anni successivi, attraverso l’assimilazione della sua figura a quella della dea Iside. Nel corso del Rinascimento l’immagine di Cleopatra inizia ad avere una certa fortuna nell’arte occidentale, come mostra una raffinata incisione di Marco Antonio Raimondi, della Galleria Sabauda. Nata dalla collaborazione tra l’artista bolognese e Raffaello. Nel Seicento e Settecento la sovrana è protagonista di molte opere, nelle quali è spesso rappresentata nel momento della morte, come nei dipinti di Giovanni Giacomo Sementi, provenienti dalle raccolte viennesi del Principe Eugenio di Savoia Soissons, e ora conservata nella Galleria Sabauda, di Giovanni Lanfranco (circa 1630), delle gallerie nazionali di Palazzo Barberini e Galleria Corsini, e di Guido Cagnacci (1660-1662) della Pinacoteca di Brera. La pittrice Elisabetta Sirani, in un dipinto di collezione privata modenese, ritrae la sovrana mentre mostra il prezioso orecchino di perle che scioglierà in una coppa di aceto per poi consumare la costosissima bevanda alludendo all’episodio che sarebbe avvenuto nel sontuoso banchetto, al cospetto di Marco Antonio, nella tela di Francesco Fontebasso (1750), in prestito da Palazzo Madama di Torino.
Nell’Ottocento l’interpretazione del tema in chiave esoterica, darà vita a composizioni di vita orientaleggiante, come nel curioso dipinto di Anatolio Scifoni (1869), proveniente dalla raccolta di Palazzo Reale, e trasmette l’atmosfera sospesa e misteriosa dell’incontro tra Cleopatra e una magari.
L’esposizione si chiude con una sezione dedicata alla fortuna “pop” della Regina, con dischi, fumetti, giochi da tavolo e trasposizione della vita di Cleopatra su grande schermo, evocata attraverso locandine, fotografie e spezzoni di film, dall’epoca del cinema muto all’interpretazione di Elizabeth Taylor nella pellicola di Joseph Mankiewicz (1963), fino alla commedia “Asterix e Obelix – missione Cleopatra” con Monica Bellucci.
La mostra è visitabile dal 23 novembre 2024 al 23 marzo 2025, con orario dalle 9 alle 19 presso i Musei Reali.
Telefono: 011 19560449 – email: info.torino@coopculture.it
Mara Martellotta
Martedì 19 novembre 2024, alle ore 17.00, presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli ( via Cesare Battisti,4 – Torino) la Sezione ANPI Eusebio Giambone di Torino presenta il documentario La grande estate partigiana ( Estate 1944: dalla formazione delle prime bande alle Repubbliche Partigiane. La storia di un’Italia che sceglie di resistere ). Realizzato dal regista Marzio Bartolucci, in collaborazione con gli autori Arianna Giannini Tomà e Andrea Pozzetta, il progetto è frutto della produzione di Lutea e dell’Associazione DomoMetraggi, con fotografia e montaggio a cura di Pixelpro Videoproduzioni. Il documentario offre uno sguardo approfondito sull’estate del 1944, un periodo cruciale nella storia dell’Italia, caratterizzato dall’emergere di numerose zone libere nel Centro-Nord, occupate dalle formazioni partigiane. Attraverso un mosaico di testimonianze, filmati d’epoca e fotografie, insieme a interviste a ricercatori e storici come Antonella Braga, Mirco Carrattieri, Chiara Colombini , Santo Peli e Andrea Pozzetta, il film ricostruisce una delle fasi cruciali della lotta di Liberazione mettendo in luce l’esperienza delle zone libere, vere e proprie anticipazioni di una democrazia che si affermerà con la sconfitta del nazifascismo ottant’anni fa. Alla presentazione del documentario saranno presenti il regista Marzio Bartolucci e gli autori, la giornalista Arianna Giannini Tomà e Andrea Pozzetta, responsabile scientifico del Centro di documentazione della Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce.