Quarantacinque studenti di Torino e provincia tra i 125 vincitori nella 39° edizione. Parteciperanno ai viaggi studio nei luoghi della memoria quando le condizioni generali lo consentiranno
Si è conclusa la 39° edizione del Progetto di storia contemporanea, indetto dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale.
Gli studenti premiati sono 125, appartenenti a 22 Istituti scolastici e a 3 Centri di formazione delle province piemontesi, sulla base di una graduatoria redatta dalla Commissione di valutazione, composta da membri degli Istituti storici della Resistenza piemontesi.
Quarantacinque studenti di sette istituti superiori di torino e provincia risultano tra i vincitori. Dieci sono dell’IIS “Bodoni Paravia” di Torino ( con due gruppi coordinai dalle prof. Simona Scintu e Cristina Filippelli) e altrettanti sono del Liceo “Volta” di Torino ( con entrambi i gruppi coordinati dal prof. Luca Vincenzo Sorella). Gli altri gruppi da cinque studenti vincitori sono dell’IIS “Majorana” ( coordinatrice la prof. Alessandra Celati), l’IIS “Curie-Levi” di Collegno (prof. Augusto Cosentino), l’IIS “Natta” di Rivoli (prof.ssa Ester Scaglia), Liceo “Gramsci” di Ivrea ( prof. Dario Romeo) e l’ISS “Bosso Monti” di Torino (coordinatrice la prof. Federica Viscusi).
Le scuole secondarie e gli enti di formazione professionale partecipanti al concorso sono stati 54, con un totale di 950 studenti suddivisi in 190 gruppi da 5 componenti ciascuno. Si è registrato un lieve aumento degli iscritti (+ 4,2%) rispetto alla precedente edizione.
Le valutazioni espresse dalla Commissione di storici hanno evidenziato la qualità e l’originalità dei lavori proposti che, anche in questa edizione, si sono concentrati su tre temi di ricerca: lo sport e la storia del ‘900 (traccia scelta dal 40,2% dei partecipanti); la caduta del Muro di Berlino 30 anni dopo (preferita dal 57% degli studenti); I 50 anni della Regione Piemonte (indicata dal 2,8 % dei giovani).
Il Piemonte, oltre a essere stata la prima regione d’Italia a stabilire, con un’apposita e specifica legge – quarantaquattro anni fa, nel 1976 – l’istituzione di un Comitato per la difesa e l’affermazione dei valori della Resistenza e della Costituzione, è stata anche tra le prime realtà a promuovere progetti di studio sulla storia contemporanea, coinvolgendo – a partire dal 1981- decine di migliaia di studenti medi piemontesi e organizzando centinaia di viaggi nei luoghi della memoria. Per il momento gli studenti vincitori, accompagnati dai loro docenti, non potranno partecipare ai viaggi studio che avrebbero dovuto svolgersi entro la fine di questo anno scolastico. Le ragioni sono a tutti ben note, motivate dall’attuale emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus Covid-19 e dai conseguenti provvedimenti di distanziamento sociale e di restrizione della libera circolazione, adottati dalle autorità nazionali e regionali, ai quali si affianca la chiusura delle scuole.
“Il Consiglio regionale, consapevole dell’importanza dei viaggi nei luoghi della memoria storica per l’indubbio rilievo di esperienze collettive, condivise, importanti sotto il profilo dei valori educativi e didattici – hanno dichiarato il Presidente del Consiglio Stefano Allasia e il Vice Presidente Mauro Salizzoni – si impegna a individuare e riproporre i viaggi studio appena le condizioni generali lo consentiranno, riservandosi forme alternative di premialità qualora ciò non fosse possibile entro tempi ragionevoli”. Agli studenti vincitori delle attuali classi quinte che concluderanno quest’anno con l’esame di maturità il proprio ciclo di studi superiori, considerata la maggiore età, verrà proposta, in via preferenziale, la possibilità di partecipare, a titolo individuale, ai prossimi viaggi studio che verranno organizzati prevedendo, nel caso di indisponibilità o impedimento, l’attribuzione di un premio alternativo.
Mtr
Molti personaggi particolari si sono aggirati per le strade di Torino nel corso del tempo, alcuni famosi, altri conosciuti solo nei quartieri in cui abitavano, altri ancora avrebbero preferito non essere ricordati da nessuno.
Noto ai torinesi, ma decisamente non amato, fu invece Pietro Pantoni. Egli abitava in via Bonelli 2, ed era il boia della città. Il suo percorso di vita era segnato fin dall’adolescenza, poiché quello era il mestiere di famiglia. Nel 1831 Pietro ricevette, da Urbano Rattazzi, la patente di Ministro di Giustizia torinese. L’uomo rimase in attività per più di trent’anni, giustiziando 127 persone, fino al 13 aprile 1864, anno in cui si tolse il celebre e sinistro mantello rosso: la forca avrebbe di lì in avanti lasciato il passo alla fucilazione. Pietro non ebbe vita facile, poiché la figura del boia, ovviamente, era denigrata da tutti. La moglie di Pietro Pantoni soffrì in modo particolare questa situazione, tanto che quasi non usciva di casa. Una storia antica ci riporta al XV secolo, quando il duca Amedeo VIII di Savoia era dovuto intervenire per riportare l’ordine tra i fornai della città di Torino, che si rifiutavano di vendere il pane al boia. Il duca li obbligò a farlo, pena il diventare clienti dello stesso esecutore. Ma i fornai, astuti, escogitarono un modo per manifestare comunque il loro disprezzo e iniziarono a porgere alla moglie del boia di turno il pane al contrario. Il Duca intervenne di nuovo: nacque il pancarrè, un pane uguale dai due lati, per non far torto a nessuno. Nonostante tutto, le monete pagate dalle consorti dei boia torinesi continuarono ad essere gettate in una ciotola di aceto dai fornai, per essere “ripulite” dalla loro efferata origine. Curioso era anche il metodo con cui il boia veniva pagato dopo un’esecuzione. Il responsabile firmava il foglio di pagamento indossando i guanti, per non aver nulla a che fare con quel denaro. Dopodiché buttava il foglio per terra, dove un addetto lo prendeva con delle pinze e lo gettava al boia, che aspettava nella tromba delle scale o sotto la finestra.
Di Pier Franco Quaglieni / 
In Italia non si votava liberamente da tanti decenni perché già le elezioni del 1924 – i cui brogli erano stati denunciati da Giacomo Matteotti – erano state manipolate dai fascisti anche attraverso il sistema elettorale, assai poco democratico, adottato con la Legge Acerbo. Nel 1946 c’erano quindi tantissimi italiani non abituati a votare in una libera democrazia. Al di là del dubbio dei brogli da parte monarchica, mai documentati in modo convincente, Oliva mette in risalto che se errori, manchevolezze o altro ci furono, ciò fu dovuto anche ad una macchina elettorale non pronta a misurarsi con un referendum: ci fu chi segnalò che cittadini avevano votato due volte, chi lamentò di non aver ricevuto il certificato elettorale, ci fu chi, pur avendolo ricevuto, non poté votare perché non registrato al seggio e chi mise in dubbio l’imparzialità di qualche presidente di seggio.
La stessa campagna elettorale si svolse in modo non sereno, almeno in alcune zone del Nord come Torino. La giovane contessa Buffa di Perrero venne percossa selvaggiamente mentre attaccava dei manifesti monarchici nella città sabauda: un’aggressione che le provocò un’invalidità permanente. I leader monarchici in tante città del Nord non ebbero modo di parlare. I giornali erano tutti schierati per la Repubblica: solo la Nuova Stampa diretta da Filippo Burzio alternava gli articoli filomonarchici del suo direttore con quelli repubblicani di Luigi Salvatorelli.
Scrive lo storico torinese: «La Repubblica nasce così tra ricorsi, sospetti, cavilli e pressioni, con la debolezza della politica da una parte e, dall’altra, la magistratura chiamata ad un ruolo improprio di supplenza». Come scrisse Vittorio Gorresio, allora capocronista del Risorgimento Liberale di Mario Pannunzio, «la folla in piazza Montecitorio chiedeva la bandiera, ma non ne fu esposta nessuna perché non si sapeva quale». La Repubblica nacque quindi nel peggiore dei modi possibili ed ebbe buon gioco il monarchico Giovannino Guareschi a scrivere di «Repubblica provvisoria» anche se alla prova dei fatti le sue origini si riscattarono ampiamente con l’Assemblea Costituente e la redazione di una Carta Costituzionale che ha garantito quasi 70 anni di libertà e di democrazia. Lo stesso Covelli che fu deputato alla Costituente e in molte legislature successive lo riconobbe. Il dato incontestabile è però che una Monarchia non avrebbe potuto reggersi con il consenso di poco più del 50 per cento degli italiani. La Dinastia che aveva fatto il Risorgimento e aveva ceduto (o era stata costretta a cedere) di fronte al fascismo scelse la via dell’esilio.
nuotato controcorrente senza mai scadere nel banale revisionismo che tenta di negare realtà anche assai evidenti e ha cercato di “sdoganare” il fascismo, ma non ha mai speso una parola per i Savoia. È uno storico che con questa opera rivela la sua maturità di studioso, così lontana dalle impostazioni ideologiche di un Quazza e di un Rochat. Quand’era un politico seppe portare nella politica l’equilibrio dello storico e, scrivendo di storia, non si è mai lasciato sedurre dalle sirene delle ideologie che Raimondo Luraghi considerava il veleno letale per la storiografia. Rileggere il suo libro sul referendum del 2 giugno e la fine della Monarchia è il modo migliore per ricordare un fatto storico senza enfasi e polemiche che oggi appiaono superate,ma divisero in due i nostri padri e i nostri nonni.
Fino al prossimo mese di agosto, ingresso gratuito per gli operatori sanitari impegnati nei reparti Covid di tutta ItaliaLi hanno definiti “eroi”. E certo la definizione appare assolutamente adeguata, se si pensa all’impegno e al coraggio – insieme alle competenze e alla quotidiana pervicacia – con cui hanno combattuto “in trincea” ( fino al sacrificio per molti – troppi della loro stessa vita) contro la ferocia di una pandemia – “nemico invisibile” che ha lasciato sul campo, in tutto il pianeta, centinaia di migliaia di vite umane. Per questa ragione, in segno di una più che mai dovuta gratitudine, a tutti i medici, infermieri e OOSS che hanno lavorato e continuano a lavorare nei reparti Covid di tutta Italia, il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino offre l’ingresso gratuito, esteso anche ai loro accompagnatori, nei prossimi mesi di giugno, luglio ed agosto. Un bel modo, non c’è che dire, per il Museo di Palazzo Carignano (via Accademia delle Scienze, 5) per tornare a riaprire i battenti dopo il necessario lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. Cosa che accadrà il prossimo martedì 2 giugno, così come richiesto dalla Città di Torino a tutti i musei con l’intento di creare una giornata che sia una grande festa della cultura.
Negli articoli precedenti si è parlato del lato buono di Torino, ma nell’urbe augustea sappiamo che ci sono anche poli di energia negativa. Il “cuore nero” della città, com’è noto ai più, si trova in piazza Statuto, dalle parti di Valdocco, nome che può essere ricondotto a “vallis occisorum”, ossia il luogo dove avvenivano le esecuzioni capitali e si inumavano i cadaveri oppure a “vallis occasus”, cioè la direzione in cui il sole tramonta. “Nomen omen”, verrebbe da dire. In piazza Statuto si trova il monumento che commemora l’apertura del traforo del Frejus e i tre ingegneri che lo progettarono, Sebastiano Grandi, Severino Grattoni e Germano Sommeiller. Ai Torinesi tuttavia esso soprattutto ricorda i caduti durante la lavorazione, ben 48 morti tra i 4 mila operai (tra di essi 18 si spensero per un’epidemia di colera). Sul monumento spicca la statua di un angelo con una stella in fronte e una penna nella mano destra, che dovrebbe raffigurare il genio alato della scienza, ma tale figura è associata notoriamente a Lucifero. Se volete sapere come mai la statua sia stata assimilata all’immagine del Diavolo, potete rischiare di andare a chiederglielo di persona, perché all’interno del giardino che la circonda si trova un tombino, che pare non essere un comune scarico fognario, anzi sarebbe nientemeno che la porta degli Inferi. Va segnalato però, che la maggiore concentrazione di energie diaboliche si trova poco oltre l’estremità della piazza, al di là di corso Principe Oddone, dove vi è un giardino, non troppo curato, che passa quasi inosservato, al centro del quale svetta un piccolo obelisco sormontato da un astrolabio. Tuttavia questo non è l’unico luogo in cui si può respirare l’aria malsana di “Chiel là,” o di “ël Barabiciu”, per dirla con una credenza piemontese, per cui è meglio non pronunciare il nome del maligno, perché tutte le volte che qualcuno lo dice, lui si avvicina di sette passi. Potreste incontrare “Belzebù” anche in altri posti. C’è infatti un palazzo, da alcuni soprannominato “Ca dël Diav”, caratterizzato da dicerie per nulla lusinghiere e a dir poco terrificanti. Si tratta di Palazzo Trucchi di Levaldigi, edificato tra il 1673 e il 1677 dall’architetto Amedeo di Castellamonte (1613-1683), per il ministro delle Finanze Giovanni Battista Trucchi, conte di Levaldigi (1617-1698). La posizione del palazzo, tra via Alfieri e via XX Settembre, ne sottolinea il particolare taglio diagonale della facciata d’ingresso, caratterizzata dal rigoroso tracciato ortogonale della parete. L’aspetto complessivo dell’edificio è severo e imponente, come testimoniano le bugne del basamento, il ritmo delle lesene binate, i cornicioni marcapiano aggettanti e i timpani delle finestre. All’interno gli ambienti sono stati radicalmente rielaborati tra gli anni Dieci e Trenta del Novecento e riadattati alle nuove esigenze occupazionali. Dal 1939 l’edificio è sede della filiale della Banca Nazionale del Lavoro. La costruzione nasconde la sua leggenda di malvagità proprio all’interno di un particolare della struttura architettonica, precisamente nel portone, rimasto quello originario, montato nel 1675 e riccamente intagliato. Giovanni Trucchi non era nobile di nascita (la famiglia ottenne il titolo comitale – “comes” = “conte” per “concessione d’arma”), ma riuscì ad ottenere una carica che lo rendeva secondo solo al duca Carlo Emanuele I, egli riuscì infatti a rivestire la dignità di Presidente Generale delle Finanze Sabaude, ed era anche soprannominato il “Colbert piemontese”, con riferimento a Jean-Baptiste Colbert, (1619-1683), braccio destro del Re Sole.
Si mormorava molto sul denaro posseduto dal conte Trucchi, che sembrava non esaurirsi mai, e lo stesso conte, per burlarsi di tali dicerie, ordinò che il portone venisse montato in una sola notte e di nascosto. In questo modo la gente avrebbe iniziato a bisbigliare che fosse avvenuto un qualche sortilegio, se non proprio un vero patto satanico. Per far sì che non ci fossero dubbi in tal senso, il conte fece inserire al centro del portone un ornamento in bronzo con la forma della testa del demonio, dalla cui bocca – come si può ancora oggi ammirare – escono due serpenti che si intrecciano e formano il batacchio. Ma forse un po’ di malignità in quel luogo c’era sul serio, e lo dimostrano alcuni fatti. Nel 1790, durante una delle feste indette da Maria Anna Carolina di Savoia, una delle ballerine invitate al ricevimento venne uccisa a pugnalate. Successivamente, nel 1817, nel corso dell’occupazione francese, il capitano Du Perrì, che era in possesso di documenti segreti, cercò rifugio tra quelle stesse mura, ma scomparve all’interno del palazzo. Il corpo venne ritrovato vent’anni dopo, murato in un’intercapedine. Un altro punto cittadino in cui si annidano energie maligne è proprio all’interno di un edificio in cui tutto ci si aspetterebbe tranne che entrare in contatto con Satana o con qualcuno dei suoi seguaci. Si tratta del piccolo gioiello architettonico della chiesa di San Lorenzo edificata tra il 1668 e il 1687 su progetto di Guarino Guarini, per l’ordine monastico dei Teatini. L’edificio è a pianta centrale ottagonale, con i lati di forma convessa, con un presbiterio ellittico posto trasversalmente che introduce un asse principale nella composizione. Lo spazio, al livello inferiore, è definito dalla presenza di ampie serliane che delimitano le cappelle laterali, mentre la copertura è costituita da una cupola a costoloni che si intrecciano fino a formare l’ottagono sul quale poggia la lanterna. All’interno è voluto un gioco di contrasti tra luci ed ombre, per cui in basso domina l’oscurità, accentuata dalla mancanza di finestre, la luce, invece, aumenta man mano che ci si eleva. Si può anche notare che la chiesa è “affollata” da angeli, in tutto più di 400, sono forse così tanti per contrastare qualche altra presenza che è riuscita a insinuarsi tra le sacre pareti? E allora guardiamo con attenzione verso l’alto: tra i costoloni intrecciati è possibile scorgere delle grandi facce demoniache, che si delineano, nette, man mano che lo sguardo vi si fissa, vigile. Se vi è venuta un po’ di angoscia non temete, sono moltissimi i rimedi per scacciare colui che è meglio non nominare, non mettete in tavola mai il pane rovesciato, attenti a non entrare in casa con il piede sinistro, mettete un ferro di cavallo dietro la porta (ma nel verso in cui forma una U), e fate attenzione al sale, se cade siate pronti a lanciarvene un po’ dietro la spalla sinistra. E, soprattutto, se uno sconosciuto, losco e misterioso, vi si avvicina e vi chiede di fare un patto con lui, “daje dël ti al Diav e butlo fora ëd ca”!