Il cinema Vittoria di Giovanni Rosso
Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano
Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.
1. Torino capitale… anche del cinema!
2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo
3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici
4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio
5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente
6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa
7. Torino policulturale: Portapalazzo
8.Torino, la città più magica
9. Il Turet: quando i simboli dissetano
10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro
3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici
Le persone che s’intravedono al di là delle vetrine, intente nelle loro faccende mangerecce, paiono “Tableaux vivants” improvvisati, quadri incorniciati dal legno o dalla ferraglia dei locali, soggetti colpiti furtivamente dalla luce che s’intrufola sotto i portici. Gioco spesso a sbirciare, non vista, i film muti che si svolgono dentro bar e ristoranti, provo a soffermarmi sui tipi più eccentrici o sui solitari, è un buon esercizio creativo, fantasticare sulle vite degli altri, pensare agli individui come personaggi di libri e storie poliziesche, chissà se tra quei divoratori di coppe di gelato non via sia qualche fuggiasco, oppure se dietro occhiali da sole e tazze schiumate di caffè non vi si nascondino degli amanti segreti.
Ecco la Torino ghiotta e stuzzicante, ecco l’atmosfera che resta tutta gozzaniana!
La moda cambia, le donne non alzano più la veletta per mangiare i dolcetti, né si preoccupano dei guanti mentre la panna cola vulcanica dal foro del cannolo, eppure la bellezza della scena rimane intonsa: giovani fanciulle passeggiano con i loro coni gelato Ganduja e crema uscite da Fiorio, signore altezzose sorseggiano caffè shakerato al Caffè Torino, mentre i facoltosi ridono fragorosamente tra i tavoli di Baratti e Milano, certamente meno “charmants” dei loro antenati e un po’ più “yuppie”, ma non meno adocchiati da chi sogna un facile “cambio di categoria”, e nel frattempo gli intellettuali della precollina sconfinano oltre il Po, non di certo per amalgamarsi alla folla, ma in cerca di leccornie e prelibatezze non sempre da condividere con le amiche di pelliccia.
Torino ha un lato “snob”, lo si sa, così come è noto che all’interno del suo perimetro ogni quartiere tiene alla propria identità, giudicando goliardicamente i vicini di casa, prendendoli in giro su usi e costumi che variano notevolmente da zona a zona – come giustamente ci fa notare il comico Davide D’Urso-.
Eppure una cosa fa cedere ogni barriera: la golosità.
Infatti il capoluogo pedemontano non vanta solo primati culturali ed artistici, ma anche diverse vittorie culinarie che rendono tutt’oggi la nostra bella città un punto di riferimento anche per quel che riguarda il turismo dei golosi.
Numerosi sono i “Food Festival” che si svolgono a Torino, così come sono diversi gli eventi che si incentrano sul “wine tasting”, sui“cocktail contest”, o le “food experiences” e via discorrendo, tra questi avvenimenti spicca di certo la celebre “kermesse” del cioccolato artigianale che ogni anno, dal 2003, si svolge nel centro della città, “CioccolaTò”.
L’antica Augusta Taurinorum è sempre stata attenta ai palati dei suoi cittadini, tant’è che proprio qui, nel 1780, presso il Caffè Fiorio, luogo di ritrovo di intellettuali e politici, soprattutto durante il Risorgimento, pare sia nato il cono gelato “da passeggio” –anche se il brevetto sarà poi conseguito da altri-.
Diversa invece è la storia del Giandujotto, prodotto inventato dalla Caffarel: quando Napoleone – nel 1806- bandisce tutti i prodotti provenienti dalla Gran Bretagna e dalle sue colonie, i cioccolatai torinesi devono trovare un’alternativa al cacao, sempre più difficile da reperire, e finiscono per scegliere la nocciola delle Langhe, oggi prodotto IGP. La prima azienda a passare dalla crema al cioccolatino è stata proprio la Caffarel, che presenta il suo nuovo prodotto durante il Carnevale del 1865, motivo per cui il nome della squisitezza deriva dalla tipica maschera torinese, che, in quell’evento particolare, lo distribuiva alla folla: il Signor Gianduja.
Rimanendo in tema dolci, pare che Ferdinando Baratti ed Edoardo Milano siano i genitori del succulento cremino, mentre per i sostenitori “del salato” è bene ricordare alcuni piatti tipici della tradizione, come il vitello tonnato, i tajarin, gli agnolotti del plin, il gran bollito misto, il fritto misto alla piemontese, nonché la temutissima Bagna Caoda, letteralmente traducibile con “salsa calda”, che però è composta da aglio, acciughe e olio. Com’è altrettanto caratteristico, le dispute non mancano quando si tratta di tradizioni e ricette, il gusto per il bon-ton contemporaneo vuole che l’aglio possa anche essere eliminato dalla preparazione, ma, dall’altra parte, i puristi s’infervorano, precisando che sia necessaria una fiasca maleodorante per ogni partecipante al banchetto.
Il mio consiglio è di tentare con l’originale, almeno una volta nella vita, basta tenere sott’occhio il calendario e organizzare una mini clausura di sicurezza, per salvaguardare le amicizie ed i rapporti sociali.
Ma c’è tempo per organizzarsi in tal senso, la Bagna Caoda resta comunque un piatto invernale, nel frattempo concentriamoci sulla ghiottoneria estiva per eccellenza, il gelato.
Ancora una volta gli Stati Uniti tentano di sottrarci il primo premio, additando all’invenzione dell’Eskimo Pie, brevettato nel 1922, prodotto che tuttavia si scontra con il noto “Pinguino”, lo stecco che permette di mangiare il gelato senza sporcarsi le mani, ideato e brevettato dalla Gelateria Pepino, fondata da Domenico Pepino, maestro gelataio napoletano immigrato a Torino, che, nel 1916, aveva ceduto l’attività al commendatore Giuseppe Cavagnino e al suocero, Giuseppe Feletti (già affermato imprenditore dolciario).
Il Pinguino è un’innovazione senza precedenti, porta con sé una nuova modalità di consumo e una piccola rivoluzione tra gli intenditori di gelato: ora si tratta di un “prodotto da passeggio”.
Già una svolta di notevole impatto era stata data dall’introduzione dell’uso del ghiaccio secco per trasportare i prodotti freddi e conservarli, scoperta che contribuisce ad aumentare la notorietà della gelateria preferita di Cavour, anche se la vera svolta avviene proprio nel 1938, con il lancio sul mercato del cremoso gelato alla vaniglia ricoperto di cioccolato e messo su stecco. L’originale è costituito da uno stecco in legno con sopra un fior di latte alla vaniglia e una sottile copertura di cacao che, oltre a rendere croccante e appetitoso il gelato, è anche funzionale a mantenere intatto il prodotto, evitando che si sciolga troppo velocemente. È un successo indiscusso, che porta l’azienda a ottenere il brevetto numero 58033, ossia il primo gelato su stecco al mondo. Il passare del tempo vede la realizzazione di diverse varianti, ripiene di menta o gianduja, senza contare poi le collaborazioni con altre case produttrici, come la Leone (Pinguino alla violetta), la Costadoro (Pinguino al caffè), o le tanto modaiole “edizioni limiatate” con tanto di “packaging” creativi predisposti all’occorrenza, come quello con la squadra di calcio del Torino o per il compleanno dei 60 anni della Mini Cooper.
Ma se sugli “stecchini” si può giocare a cavillare, resta però impossibile battibeccare sulle “Cri-cri”, le tonde caramelle composte di cacao, nocciole e zucchero, ma unite in un modo decisamente diverso, con la nocciola tostata avvolta nel cacao e poi la copertura di minuscole praline di zucchero. Non si conosce il nome dell’inventore del dolciume, tuttavia ad esso è legata una leggenda altrettanto zuccherina: il fidanzato della bella Cristina era solito comprare dolcetti come pegno d’amore, quest’ultimo una volta era entrato con l’amata in pasticceria e l’aveva chiamata “Cri”, alla commessa era piaciuto quel vezzeggiativo e lo ripropose al ragazzo “Cri?”, il quale controrispose “Cri!”. Da quel frivolo scambio di battute, il doppio “Cri” diviene una sorta di consuetudine tra il ragazzo e la pasticcera, che decide di battezzare in quel modo la pralina.
Infine perché non citare una bevanda, altrettanto nota tra turisti e “torinesi d’oc”, il Bicerìn. Si tratta di un liquore già in voga nell’Ottocento, soprattutto tra intellettuali e politici, servito all’epoca principalmente nel bar della Consolata, poiché lì, un giorno, qualcuno pensò di cambiare la “bavareisa” – il solito elisir messo in tavola per i consumatori- servendo cioccolato, latte e caffè in tre contenitori distinti, gli ingredienti venivano poi mescolati con uno sciroppo segreto e versati in un piccolo bicchiere con supporto e manico di metallo, “et voilà”, ecco il nuovo “trend” del Bicerìn.
Bene, cari lettori, non so a voi, ma a me è venuta una certa “acquolina in bocca” e direi di chiuderla qui, per questa volta.
Mi accingerei, se non vi spiace, “a ritornare bambina”, intanto che mi appresto a gustare la mia pasta nella confetteria che più mi aggrada: “Bon appétit!” a tutti!
Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Torino, bellezza, magia e mistero Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.
Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Nelle alte valli delle Alpi era usanza liberare una mucca prima di fondare una borgata; l’animale andava al pascolo tutto il giorno per poi trovare il punto in cui distendersi a terra e riposarsi. Quello sarebbe stato il luogo in cui i montanari avrebbero iniziato ad edificare il borgo: «la mucca può “sentire” cose che all’uomo sfuggono, se il posto è sicuro o meno e se di lì si irradiano energie benefiche o maligne».
Anche la fondazione di Torino potrebbe rientrare in una di tali credenze. Ma a questa versione, tutto sommato verosimile e riconducibile a qualche usanza rurale, fanno da controparte altre ipotesi, decisamente più complesse e letteralmente “divine”, poiché hanno come protagonisti proprio degli dei, Fetonte ed Eridano. Avviciniamoci allora a queste due figure. Secondo il mito greco, Fetonte, figlio del Sole, era stato allevato dalla madre Climene senza sapere chi fosse suo padre. Quando, divenuto adolescente, ella gli rivelò di chi era figlio, il giovane volle una prova della sua nascita. Chiese al padre di lasciargli guidare il suo carro e, dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì. Fetonte partì e incominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste. Ma ben presto fu spaventato dall’altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura e per la sua inesperienza abbandonò la rotta. I cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo che divenne la Via Lattea, quindi scesero troppo vicino alla terra, devastando la Libia che si trasformò in deserto. Gli uomini chiesero aiuto a Zeus che intervenne e, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che cadde nelle acque del fiume Eridano, identificato con il Po. Le sorelle di Fetonte,, le Eliadi, piansero afflitte e vennero trasformate dagli dei in pioppi biancheggianti. Le loro lacrime divennero ambra. Ma precisamente, dove cadde Fetonte? In Corso Massimo d’Azeglio, proprio al Parco del Valentino dove ora sorge la Fontana dei Dodici Mesi. In un altro mito, Eridano, fratello di Osiride, divinità egizia, era un valente principe e semidio. Costretto a fuggire dall’Egitto, percorse un lungo viaggio costeggiando la Grecia e dirigendosi verso l’Italia. Dopo aver attraversato il mar Tirreno sbarcò sulle coste e conquistò l’attuale regione della Liguria, che egli chiamò così in onore del figlio Ligurio. Attraversò poi l’Appennino e si imbatté in una pianura attraversata da un fiume che gli fece tornare alla mente il Nilo. Qui fondò una città, che dedicò al dio Api, venerato sotto forma di Toro.
Un giorno Eridano partecipò ad una corsa di quadrighe, purtroppo però, quando già si trovava vicino alla meta, il principe perse il controllo dei cavalli che, fuori da ogni dominio, si avviarono verso il fiume, ed egli vi cadde, annegando. In sua memoria il fiume venne chiamato come il principe, “Eridano”, che è, come abbiamo detto, anche l’antico nome del fiume Po, in greco Ἠριδανός (“Eridanos”), e in latino “Eridanus”. Questa vicenda ci riporta alla nostra Torino, simboleggiata dall’immagine del Toro, come testimoniano, semplicemente, e giocosamente, i numerosissimi toret disseminati per la città. Storicamente il simbolo è riconducibile alla presenza sul territorio della tribù dei Taurini, che probabilmente avevano il loro insediamento o nella Valle di Susa, o nei pressi della confluenza tra il Po e la Dora. L’etimologia del loro nome è incerta anche se in aramaico taur assume il valore di “monte”, quindi “abitanti dei monti”. I Taurini si scontrarono prima con Annibale e poi con i Romani, infine il popolo scomparve dalle cronache storiche ma il loro nome sopravvisse, assumendo un’altra sfumatura di significato, risalente a “taurus”, che in latino significa “toro”. È indubbio che anche oggi l’animale sia caro ai Torinesi, sia a coloro che per gioco o per scaramanzia schiacciano con il tallone il bovino dorato che si trova sotto i portici di piazza San Carlo, sia a quelli vestiti color granata che incessantemente lo seguono in TV. C’è ancora un’altra spiegazione del perché Torino sorga proprio in questo preciso luogo geografico, si tratta della teoria delle “Linee Sincroniche”, sviluppata da Oberto Airaudi, che fonda, nel 1975, a Torino, il Centro Horus, il nucleo da cui poi si sviluppa la comunità Damanhur. Le Linee Sincroniche sono un sistema di comunicazione che collega tutti i corpi celesti più importanti. Sulla Terra vi sono diciotto Linee principali, connesse fra loro attraverso Linee minori; le diciotto Linee principali si riuniscono ai poli geografici in un’unica Linea, che si proietta verso l’universo. Attraverso le Linee Sincroniche viaggia tutto ciò che non ha un corpo fisico: pensieri, energie, emozioni, persino le anime. Il Sistema Sincronico si potrebbe definire, in un certo senso, il sistema nervoso dell’universo e di ogni singolo pianeta. Inoltre, grazie alle Linee Sincroniche è possibile veicolare pensieri e idee ovunque nel mondo. Esse possono essere utilizzate come riferimenti per erigere templi e chiese, come dimostra il nodo centrale in Valchiusella, detto “nodo splendente”, dove sorge, appunto, la sede principale della comunità Damanhur. Secondo gli studi di tale teoria Torino nasce sull’incrocio della Linea Sincronica verticale A (Piemonte-Baltico) e la Linea Sincronica orizzontale B (Caucaso).Vi sono poi gli storici, con una loro versione decisamente meno macchinosa, che riferiscono di insediamenti romani istituiti da Giulio Cesare, intorno al 58 a.C., su resti di villaggi preesistenti, forse proprio dei Taurini. Il presidio militare lì costituitosi prese il nome prima di “Iulia Taurinorum”, poi, nel 28 a.C, divenuto un vero e proprio “castrum”, venne chiamato, dal “princeps” romano Augusto, “Julia Augusta Taurinorum”. Il resto, come si suol dire, è storia.
Queste le spiegazioni, scegliete voi quella che più vi aggrada.
Alessia Cagnotto
L’Impero Ottomano morì a Sanremo
Valle Grana… AAA Foto d’Epoca Cercasi
Serviranno per organizzare una Mostra di “memoria collettiva” nell’ambito del Progetto “Valle Grana Cultural Village”
Monterosso Grana (Cuneo)
Una raccolta di materiali fotografici d’antan per organizzare la prima di tre mostre di “memoria collettiva” della “Valla Grana”, la più piccola delle valli cuneesi (fra le Alpi Cozie e Marittime), enclave linguistica provenzale e patria “nobile” del grande – di tradizione millenaria – “Castelmagno”, fra le “DOP casearie” piemontesi, prodotto nei tre Comuni più alti della Valle: Monterosso Grana, Pradleves e Castelmagno per l’appunto. Questa la lodevole iniziativa promossa dal “Progetto Valle Grana Cultural Village” (su iniziativa dei Comuni di Monterosso Grana e Pradleves ai fini di una “rivitalizzazione socio – economica” dei piccoli borghi, da finanziare nell’ambito del PNRR) e coordinata dall’Associazione di Promozione Sociale “FormicaLab”.
In buona sostanza, l’iniziativa si basa sulla richiesta di “condivisione” di “album di famiglia”, “vecchie fotografie” conservate nel cassetto, “immagini dimenticate” in soffitta o in vecchie scatole. Ogni fotografia “prenderà forma” durante un workshop gratuito e aperto a tutti dell’artista visivo Alessandro Toscano, sabato 7 e domenica 8 settembre.
Seguirà un allestimento in programma a fine settembre. È possibile inviare il materiale in formato digitale all’indirizzo e-mail formicalab.info@gmail.com, oppure consegnarlo direttamente presso il Municipio di Monterosso Grana (via Mistral, 22- aperto al pubblico martedì, giovedì e sabato dalle 9 alle 12). Tutti gli originali verranno restituiti insieme a una copia digitale del materiale fornito. Per maggiori informazioni visitare il sito www.formicalab.net oppure contattare il numero di telefono 338/7619170.
Alessandro Toscano è un artista visivo italiano (di origini sarde ma oggi residente a Roma) la cui ricerca e produzione abbraccia video, fotografia e installazione. Con un approccio multidisciplinare tra ricerca documentaria, artistica e etnoantropologica, ha sviluppato negli anni progetti video-fotografici “per” e “in” collaborazione con “MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo”, “MIC Ministero della Cultura”, “Rai”, “LaEffe Feltrinelli”, “Einaudi editore”, “Financial Times Magazine” e “Le Parisien”. L’artista sarà ospite tra Monterosso Grana e Pradleves, la prima settimana di settembre.
Quella della “raccolta foto”, ricordiamo, che è solo una delle tante iniziative inserite nel Progetto “Valle Grana Cultural Village”, iniziate con la Festa Patronale di “San Giacomo”, a Monterosso Grana, svoltasi dal 19 al 22 luglio, e culminata con il gemellaggio con il piccolo borgo francese di Le Bar-sur-Loup. Le attività proseguiranno sabato 10 agosto, a partire dalle 14,30, con “La Draio de l’Estelo”, escursione per famiglie alla scoperta del sentiero di “land art” fra San Lucio e Rocho de l’Estelo, organizzata da “Comboscuro Centre Prouvencal”. All’arrivo, festa conclusiva sui pascoli con “merenda sinoira” e spettacolo della Compagnia olandese “Snow Appel”.
Altro appuntamento agostano: sabato 24, dalle 17, a Santa Lucia di Comboscuro, si svolgerà il “Roumiage de Setembre”. Per tutti i bimbi, dai 5 ai 12 anni, è previsto un atelier ludico con “Persil/Prezzemolo” dedicato ai giochi tradizionali delle Alpi, con l’utilizzo di legno e materiali di riciclo. A seguire il tradizionale “concerto estivo”.
g.m.
Nelle foto: Alberto Toscano e “render” Borgata San Pietro al termine dei lavori attualmente in corso per il progetto “Valle Grana Villaggio Culturale”
Un Califfo nel Piemonte Saraceno
Monte Verità, culla dell’utopia
Ascona è un comune svizzero del Canton ticino, sul lago Maggiore. E’ lì che s’incontra “il luogo che non c’è”, la culla dell’utopia: il monte Verità. A partire dall’inizio del ventesimo secolo , su questa collina appena sopra la perla dell’alto Verbano, tra Brissago e Locarno, si riunirono intellettuali e artisti alla ricerca di valori e modi di vita alternativi. Un’umanità varia composta da vegetariani, predicatori del ritorno alla vita rurale, sostenitori dell’utilità delle pratiche igeniste all’aria aperta (ginnastica, sole e bagni freddi) e anche da chi propagandava l’anarchia e il libero amore.
I fondatori del movimento Henry Hoendekoven, figlio di un industriale belga, e Ida Hoffmann, femminista e insegnante di pianoforte, arrivarono sulle rive del lago Maggiore dalla Germania. Vi giunsero a piedi, rifiutando le abitudini di una società sempre più materialistica, alla ricerca di uno stile di vita a contatto con la terra, la natura, la semplicità. A quel tempo il monte Verità si chiamava Monescia e i naturisti comprarono terreni e costruirono case seguendo stili precisi. All’epoca sul colle non c’era neppure l’acqua ma non per questo si persero d’animo e per tutto il primo ventennio del ’900 il Monte Verità diventò la “piccola patria” di pensatori, scrittori, artisti, anarchici e di chiunque fosse interessato a sperimentare in completa libertà le proposte rivoluzionarie del gruppo. Vi soggiornarono le menti più vivaci dell’epoca: Carl Gustav Jung, Erich Maria Remarque, Thomas Mann ,André Gide, Herman Hesse ( che viveva a Montagnola, nel ticinese distretto di Lugano ). E non mancarono gli anarchici e rivoluzionari come Bakunin e Lenin. I valori condivisi erano l’emancipazione femminile, il vegetarianismo, la danza di gruppo (o euritmia, spesso fatta alla luce della luna), l’abolizione del denaro con la sostitutiva pratica del baratto, l’originalissima abolizione delle maiuscole nei testi. La comunità sosteneva che la coltivazione della terra in costumi adamitici portava benefici al raccolto. Nel giro di pochi anni gli abitanti di Ascona iniziarono a guardare con sospetto a cosa stava accadendo sulla loro collina. Ma non protestarono, si limitarono a chiamare quei nudisti ballerini, agricoltori, musicisti e messaggeri dell’amore libero, con un innocuo nomignolo: i “balabiòtt”. Sarà pur bizzarra la storia del Monte Verità e dei suoi “danzatori nudi” ma, come mi disse un vecchio intellettuale ticinese e storico del lago Maggiore, “è la bellezza di questa landa libertaria dove le idee si rispettano anche quando non si condividono”.
Marco Travaglini