STORIA- Pagina 134

Il Consiglio regionale collabora con il centro Giorgio Catti

Il Consiglio regionale del Piemonte ha stipulato un Protocollo d’intesa con il Centro Studi “Giorgio Catti” sulla Resistenza piemontese, che porta il nome del giovane studente torinese, diciannovenne esponente dell’Azione Cattolica e partigiano della Divisione autonoma Val Chisone, caduto sotto il piombo fascista a Porte di Cumiana (TO) il 30 dicembre 1944 e insignito della medaglia di bronzo al valor militare.

“Per noi fare memoria è un dovere civile – ha dichiarato il Presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia – e quest’intesa amplia e rafforza il nostro impegno nei confronti delle giovani generazioni. La preziosa collaborazione di tutti gli enti e di tutte le associazioni, a partire dagli Istituti Storici della Resistenza Piemontesi, ci supporta in quest’opera di enorme importanza”

Salgono così a sei gli enti e associazioni che collaborano stabilmente con il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale, svolgendo, sul territorio piemontese, un ruolo culturale e formativo di diffusione della conoscenza storica della Resistenza, di tutela dei luoghi della memoria e di siti di particolare rilevanza per la lotta di Liberazione nella nostra regione. Il Centro Studi “Giorgio Catti”, che ha sede a Torino, affianca così la Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce (VB),l’ Associazione Memoria della Benedicta (AL), il Comitato Resistenza del Colle del Lys (TO), la Casa della memoria di Vinchio (AT) e il Museo Diffuso della Resistenza di Torino. Anche questa convenzione, come le altre, avrà una durata di un anno. Ogni ente convenzionato, a fronte di un contributo finanziario annuale, si impegna a realizzare – nell’ambito della loro programmazione di eventi – almeno un’iniziativa congiunta con il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale.

L’associazione opera dal 1966 nella raccolta e valorizzazione di documenti e testimonianze sulla presenza e sul ruolo dei cattolici (religiosi e laici) nella Resistenza piemontese, italiana e europea. un lavoro prezioso che, nel corso degli anni, ha consentito la realizzazione di un importante archivio del quale è in corso il processo di digitalizzazione per favorirne la consultazione. Il Centro “Catti” svolge inoltre un’intensa attività di carattere culturale e formativo, promuovendo convegni, mostre e pubblicazioni rivolte in particolar modo alle giovani generazioni e al mondo della scuola.

La possibilità di stipulare convenzioni o intese con enti e associazioni fa parte delle prerogative del Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale, istituito nel 1976 con apposita e specifica legge, impegnato a trasmettere valori e memoria della lotta di Liberazione, lo studio e l’approfondimento della storia contemporanea, la diffusione della conoscenza dei diritti, dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana.

 

Marco Travaglini

Musei riaperti per la Festa della Repubblica

Il 2 giugno Torino riaprirà  i musei fino ad ora chiusi per l’emergenza covid

La scelta è stata fatta dall’assessora  comunale alla Cultura, Francesca Leon, nel corso di una teleconferenza con i rappresentanti del sistema museale della città.

Secondo il  Comune, infatti,  i musei stanno lavorando alla ripartenza in piena sicurezza con l’obiettivo del 2 giugno prossimo. Naturalmente saranno seguite le  disposizioni per il distanziamento e ci saranno  entrate contingentate e sanificazioni. E’ probabile che alcune sedi museali possano già aprire i battenti  il 18 maggio, se consentito dal nuovo  decreto del presidente del Consiglio.

Alla scoperta del Mao in 3D

Gli studenti torinesi avranno a disposizione un tour virtuale in 3D in alta definizione alla scoperta delle sale del primo piano del MAO Museo d’Arte Orientale di Torino e, anche seduti sul divano di casa, potranno partecipare a una vera e propria caccia al tesoro alla ricerca di alcune delle opere più affascinanti del museo, che sono raccontate attraverso dettagliate ma semplici schede realizzate dai Servizi Educativi del MAO.

Il MAO in 3D è uno dei progetti Edu-Lab dedicati all’innovazione nel campo educativo in cui effettuare il testing di soluzioni per la didattica e per l’organizzazione di ambienti di apprendimento di nuova generazione, puntando anche sul protagonismo di studenti e docenti. L’iniziativa è rivolta agli allievi delle scuole primarie e secondarie di primo grado della città di Torino.

Edu-Lab nasce nell’ambito del progetto Torino City Lab, promosso dall’Amministrazione Comunale: un luogo dove la tecnologia si misura con i bisogni reali per offrire soluzioni nuove e che, in questi mesi, con la campagna Torino City Love, propone gratuitamente risorse, azioni e competenze a supporto di cittadini e imprese del territorio durante l’emergenza COVID-19.

“L’iniziativa Il MAO 3D coniuga innovazione, tecnologia e soluzioni didattiche consentendo di sperimentare forme di connessione fra sistemi educativi e strutture territoriali dedicate alla cultura e all’educazione – sottolineano gli Assessori comunali all’Istruzione Antonietta Di  Martino e all’Innovazione Mario Pironti. Un’opportunità unica per offrire agli studenti la possibilità di fare esperienza di nuovi apprendimenti e di acquisire competenze attraverso la conoscenza di tesori artistici e culturali, di cui non potrebbero fruire in questo momento di emergenza sanitaria”.

Il MAO in 3D, realizzato dalle aziende Vertical srl comunicazione digitale e Dktk3d comunicazione virtuale, scelte attraverso una call rivolta alle imprese per individuare sperimentazioni innovative da applicare nelle scuole torinesi, propone a bambini e ragazzi un percorso ludico e accattivante che permette di scoprire alcune delle più belle sale del museo e di avvicinarsi ai tesori dell’arte orientale conservati a Torino dal MAO.

Situato nel secentesco Palazzo Mazzonis nel quadrilatero romano, il museo ospita una delle raccolte orientali più interessanti d’Italia. Inaugurato nel 2008, custodisce circa 2300 opere che offrono un ampio panorama dell’arte delle antiche culture dell’Asia, ordinate in cinque gallerie a seconda delle aree culturali di provenienza: Paesi islamici, Cina, Giappone, Regione Himalayana, Asia Meridionale. Al patrimonio si aggiungono più di 1400 reperti di scavo di periodo pre-islamico provenienti dagli scavi iracheni di Seleucia e Coche.

Siamo molto orgogliosi che la Città di Torino abbia scelto la Fondazione Torino Musei e in particolare il MAO per avviare questo importante progetto pilota – dichiara il Segretario Generale della Fondazione Torino Musei Elisabetta Rattalino – È un’occasione per sperimentare l’uso della tecnologia al servizio dell’educazione, che permette di scoprire il nostro ricco patrimonio di arte orientale, in modo piacevole e formativo

A partire da  venerdì 8 maggio, gli insegnanti potranno aderire al progetto inviando una email a edulab@comune.torino.it  con l’indicazione del proprio nome, quello della scuola e la classe che parteciperà al tour virtuale. I docenti accreditati riceveranno un kit informativo sulle modalità di fruizione e un link per visitare virtualmente il museo con le istruzioni sul funzionamento del gioco.

Agli insegnanti e alle famiglie sarà distribuito un breve questionario per verificare la bontà della sperimentazione e raccogliere suggerimenti al fine di migliorare l’esperienza acquisita ed ampliarla, in futuro, ad altre realtà museali come la GAM – Galleria d’Arte Moderna e Palazzo Madama, altri due gioielli della Fondazione Torino Musei.

Moncalvo, caccia al tesoro nel convento diventato museo

Dal Piemonte / Andare alla ricerca di musei poco conosciuti è come intraprendere una caccia al tesoro spinti dalla curiosità e  dal desiderio di trovare capolavori inaspettati in luoghi che non appartengono al turismo maggiore

Si sarà premiati nello scoprire il piccolo prezioso Museo Civico di Moncalvo nell’ex Convento delle Orsoline fatto costruire nel 1625 da Guglielmo Caccia per inserirvi le figlie Orsola e Francesca, anch’esse pittrici, al fine di preservarle da un periodo storico turbolento e dare continuità alla propria bottega pittorica.

Intitolato all’ambasciatore Franco Montanari che, morto nel 1973, donò la sua collezione di opere antiche e moderne, il museo merita una visita talmente interessante da avere il desiderio di ritornarvi non appena usciti.

Molte le firme prestigiose a cominciare da Orsola Maddalena Caccia grazie ai piccoli dipinti devozionali di sante che risentono ancora l’influsso paterno e in particolare alle tre nature morte autonome a conferma di come la “Monaca pittrice” pur attenendosi a simbolismi e metafore propagandistiche, secondo i dettami del Concilio di Trento, si aprisse ad uno stile innovativo a cui non furono estranee influenze fiamminghe e accurati studi botanici.

Una sezione è dedicata alla raccolta di oggetti di arte africana e in particolare a dipinti e stampe giapponesi che riportano in vita l’elegante freschezza dell’arte del mondo fluttuante del Sol Levante.

Molte opere interessanti nelle sale dedicate all’ottocento e al novecento: la tempera di Giorgio De Chirico “Le vestali” del periodo archeologico, la singolare “Rivelazione” di Mario Sironi, le nature morte di Osvaldo Licini, “La donna seduta” di Afro, gli ironici acquerelli di Nino Maccari, le inconfondibili figure di Ernesto Treccani.

Tanti disegni e incisioni: la matita su carta “Orlando addormentato” di Amedeo Modigliani, acqueforti di Giorgio Morandi, l’incisione “Soldato a cavallo” di Giovanni Fattori, la preziosa puntasecca “Promenade” di Chagal del 1923 che riprende il famoso dipinto del 1915. Inoltre, organizzate da Aleramo Onlus, vengono proposte grandi mostre; in questi ultimi anni si sono svolte esposizioni di famosi artisti viventi: Renata Guga Zunino con i suoi seducenti autoritratti; Gianni Colonna rarissimo artista ancora fedele al figurativo con le splendide “Sovrapposizioni”; Concetto Fusillo autore di una affascinante “Archivio pittura”; Walter Morando, il più grande scultore italiano che tratta la tematica del porto.

Si sono svolte anche mostre di artisti scomparsi: Lalla Romano famosa pittrice e scrittrice, Giorgio Valenzin  magico cantore di atmosfere veneziane oltre al pittore di Canelli Stefano Icardi, l’artista-industriale Giorgio Piacenza Dassu, Giovanni Buschini dall’intrigante musicale surrealismo. Un raro spaccato della vita torinese settecentesca è stato presentato con la mostra delle opere del bambocciante Pietro Olivero, pittore di corte e narratore di vita popolare.

Giuliana Romana Bussola

 

Celebrare Napoleone? Meglio i moti carbonari

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / A distanza di un anno dal bicentenario della morte di Napoleone, 5 maggio 1821, si sta costituendo sotto la presidenza di Philippe Daverio un comitato nazionale presso il Ministero dei beni culturali per celebrare l’anniversario dell’Imperatore dei Francesi

.
A formare il Comitato c’è il Consolato francese di Milano, l’Assessorato alla cultura di Milano, la Biblioteca Nazionale Braidense, ma anche il Centro studi residenze reali sabaude. Lo ha denunciato in un articolo l’assessore regionale lombardo alla cultura prof. Stefano Bruno Galli, storico e docente universitario di chiara fama. E’ giusto valutare a due secoli di distanza con il più assoluto equilibrio la figura di Napoleone che sicuramente, almeno per la Francia, ha rappresentato una pagina importante di storia.

.
Anche Manzoni, scrivendo “Il Cinque Maggio” comprese la grandezza dell’uomo che riuscì a conciliare “due secoli l’un contro l’altro armati”, lasciando comunque “ai posteri l’ardua sentenza”.
Oggi, a distanza di due secoli, il momento dell’ardua sentenza  è sicuramente arrivato e il giudizio storico per il Corso non può essere positivo almeno per noi italiani. Se lo si vede sotto un profilo europeo,egli sconquassò l’Europa, imponendo dappertutto l’egemonia francese con la scusa di portare sulle sue bandiere le parole e le idee  della Rivoluzione Francese. Fu responsabile di guerre con milioni di morti, combattute  soprattutto per un suo personale delirio di onnipotenza. Non ci sono dubbi sulle sue grandi doti di condottiero militare capace di entusiasmare i suoi soldati e inventare  strategie e tattiche militari geniali. Si può anche considerarlo uno statista e un legislatore innovativo che contribuì a rinnovare la vecchia Europa. Ma non si può dimenticare che il dominio napoleonico ,specie in Italia, significò un periodo di furti,violenze e saccheggi senza precedenti . Egli è il responsabile del più grande furto di opere d’arte, come scrive Galli, avvenuto in Italia e non solo.

.
Furono saccheggiate Milano, Roma, il Vaticano, Parma, Modena, Napoli e tanti altri centri. Il giovane Foscolo che acclamò Bonaparte come un un liberatore ,si convinse quasi subito, dopo il trattato di Campoformio ,che egli era un tiranno. Torino e il Piemonte vennero annessi alla Francia e subirono le stessa spoliazione di opere d’arte ;il re dovette rifugiarsi in Sardegna fino al 1815 durante tutto il periodo napoleonico. Napoleone fece abbattere le porte e una parte cospicua dei bastioni di Torino, salvando solo la cittadella e Palazzo Madama. Per sue utilità fece costruire il ponte in pietra sul Po davanti a piazza Vittorio.  In sintesi si presentò come liberatore d’Italia, ma gli italiani che furono  soprattutto carne da macello per le sue guerre, subirono un regime di stampo giacobino accentratore che peggiorò ulteriormente quando Napoleone divenne imperatore. A partire dal 1796 una parte del popolo italiano si oppose all’invasione francese e diede vita a quelle che vengono definite le insorgenze, quando cominciò la campagna d’Italia napoleonica. Le insorgenze furono numerose in tutta Italia. Comunque, basterebbe pensare al saccheggio e ai furti di opere d’arte,per esprimere un netto parere contrario alla costituzione di un comitato nazionale per il onoranze del bicentenario napoleonico presso il ministero dei Beni Culturali Sicuramente si terranno  delle manifestazioni in Francia ,ma non ha senso che l’Italia celebri un uomo che fu un dominatore senza scrupoli che, tra l’altro,come disse Foscolo,vendette Venezia all’Austria.
E fa specie che uno storico dell’arte come Daverio non si sia accorto della vistosa contraddizione rappresentata dalla sua presidenza al Comitato napoleonico. In ogni caso con le ristrettezze che ci caratterizzano in questi tempi calamitosi, si tratterebbe di una spesa superflua. Se si vuole fare qualcosa, ricordiamo invece  nel 2021 il bicentenario dei moti  carbonari del 1821 che ebbero protagonista il grande patriota Santorre di Santarosa, ingiustamente dimenticato.

.

Scrivere a quaglieni@gmail.com

Superga, il comandante Meroni e quella Lambretta in via Carpi

Il 4 maggio del 1949 a Superga l’aereo del ‘Grande Torino’ si schiantò a Superga. Ma questo immenso dramma colpì non soltanto il mondo dello sport e la capitale del Piemonte, ma l’Italia ed il mondo intero per la sua dimensione, generò anche mille storie ‘collaterali’, altrettanto drammatiche e ricche di risvolti

Una di queste mi riguarda sia pure indirettamente. A guidare l’aereo che si schiantò a Superga era il comandante Pierluigi Meroni, 34 anni, pilota capace ed abile con un’esperienza maturata nei cieli della seconda guerra mondiale. Lui con la famiglia viveva in via Carpi a Milano.

E qui si intreccia la sua storia con il suo ricordo di Superga: a quell’epoca in via Carpi viveva la famiglia Gindari, il padre Francesco, la madre Tina e la figlia Marisa, che allora aveva diciotto anni. E, dopo la sciagura fu Francesco Gindari ad acquistare la lambretta dalla moglie del comandante che era deceduto in quel di Superga. Spiego subito il nesso: Marisa Gindari ha sposato nel 1972, Marco Iaretti, padre mio e di mio fratello Fabrizio, che era rimasto vedovo di Lucia (la nostra prima mamma, quella biologica che se n’era andata per un brutto male il 12 dicembre del 1969, perché Marisa, per tutto quello che ha fatto per noi è stata una Mamma con la M maiscola, e questa è un’altra storia). Mamma, in più di un’occasione mi ha raccontato di questo episodio e del collegamento tra il nonno Francesco (ma per tutti era Cecco) e  l’episodio della lambretta del comandante Meroni. Tant’è che quando in un giorno alla fine di settembre del 2011, andai a fare una gita a Superga e a rendere omaggio a quella grande squadra (pur da sempre juventino) chiamai mamma al telefono, non ricordando il nome del comandante dell’aereo, e lei mi disse solo ‘Meroni’ e trovai il suo nome sulla stele nel luogo del tragico impatto. Certo adesso, passati gli anni (Mamma Marisa ha terminato il suo cammino terreno pochi giorni dopo nell’ottobre di quel maledetto 2011), mi piacerebbe anche incontrare, parlare, con i figli o i nipoti del comandante Meroni, per saperne di più. Credo che sarebbe un momento ricco e carico di emozione, sia pure a distanza di tanti anni. Chissà.

Massimo Iaretti

(foto di Fabio Liguori)

 

Maggio e il Neoclassicismo per la Fontana dei Mesi di Torino

L’ultimo round è arrivato anche per la rubrica della Fontana dei Mesi. Penso questo, aprendo il computer per scrivere della statua del mese di maggio, in programma per la decima uscita, l’ultima della serie. Mi trovo all’ultimo gradino prima di mettere la parola “conclusa” sulla cartellina degli articoli. Uno step che non è più alto, né più basso degli altri, tuttavia questo è per me un momento che fa riflettere

Colgo l’occasione per ripensare alle precedenti uscite e anche alla scorsa rubrica, donne (in nero), apparsa su iltorinese.it l’anno scorso. Penso anche ai luoghi dove mi trovavo quando ho scritto la Fontana dei Mesi in passato e al fatto che sono ormai parecchi giorni che tutti noi non mettiamo naso fuori di casa, se non per le necessità. Ho un ultimo pezzo con voi e continuo doverosamente nello scrivere una rubrica che, a parte la correlazione tra “correnti artistiche” e “statue dei mesi”, porta avanti un messaggio: recatevi al Parco del Valentino a vedere la fontana del Ceppi.

Insomma mi trovo a combinare questo pezzo in un momento particolarmente caldo per tutti noi, in un momento in cui uscire di casa per una passeggiata al parco è proibito e per questo mi scuserete se per questa volta, vi chiederò invece di stare a casa, di non andare al parco, ma piuttosto di riprodurre ad esempio su carta la statua di maggio, la fontana intera oppure la vostra statua preferita e poi di attaccare il foglio sulla porta di casa con la promessa di arrivare fino alla vostra fontana di Torino e godervi il giro, non appena sarà possibile.  Iconiche per maggio le spalle. Poi le braccia; forti tengono accostati al petto quantità di fiori il cui aspetto è quello del culmine del loro splendore, in altre parole non si tratta di boccioli, ma di fiori carnosi.

Tutti sanno che c’è un momento in cui i fiori, così come i frutti, sono così carichi da far desiderare di coglierli. Una spinta che porta con sé un duplice motivo, il desiderio di salvarli, dallo sfiorire o, nel caso dei frutti, dalla via della marcescenza. E la volontà di goderne la compagnia in una sala da pranzo oppure di banchettarne è la seconda ragione che spinge al gesto del cogliere. La nostra statua ne ha con sé sotto le braccia, li porta con sé in quanto allegoria di maggio, il mese in cui la primavera è matura e i fiori sono da cogliere, perché sono nel tripudio della loro breve vita e se ne può sentire l’odore gradevole invitare ad avvicinarci. Ho pensato dunque di parlarvi del Neoclassicimo. Una corrente artistica che deriva dalle riflessioni estetiche del suo tempo, il Settecento, e che è il culmine del periodo precedente, quello Barocco, da cui si stacca nettamente per alcune caratteristiche abbastanza notevoli da permettere la strutturazione di una corrente artistica per così dire a sé stante. I neoclassici si sono liberati dalle ombre del periodo barocco cogliendo la parte matura del periodo precedente, dipingono perciò finalmente senza i forti vincoli prospettici a cui il barocco chiamava. E lo fanno senza nulla togliere all’ambientazione. I soggetti dei neoclassici sono i miti, come ad esempio Giovan Battista Tiepolo dipinge Apollo e Daphne, Briseide e Agamennone e molti altri, ma questa corrente artistica, si potrebbe studiare anche attraverso una selezione delle allegorie che fioriscono in quel periodo. In generale i racconti della mitologia greca e latina, così come i fatti storici, come ad esempio l’incontro tra Antonio e Cleopatra, sono rispolverati, dipinti e scolpiti sull’onda lunga del Barocco, si potrebbe dire del leit motiv barocco, quello di “mettere in scena i personaggi” siano essi dipinti oppure scolpiti.  Poi mi pare che la statua di maggio alla Fontana dei Mesi di Torino sia un po’ come il Neoclassicimo, perché mi dà l’impressione di una donna che si è lasciata indietro le ombre della primavera, in attesa di una prossima estate.  Sono contenta, di riuscire a essere con voi, per un momento, anche in questo difficile periodo.

Elettra Nicodemi

Sul Neoclassicismo Elettra Nicodemi ha scritto anche: Neoclassicismo, dipingere senza le ombre di inizio secolo [https://insidethestaircase.com/2017/05/01/neoclassicismo/] edito Inside The Staircase

4 maggio, il “Fila” racconta

L’epopea calcistica che più di tutte ha entusiasmato, emozionato e commosso l’Italia. Il libro “Il Grande Torino. Gli Immortali” del giornalista sportivo Alberto Manassero, edito da Diarkos  ci racconta, nell’anniversario della tragedia di Superga del 1949,  la storia di uno stadio e di una squadra che resteranno nella storia. Ne pubblichiamo un capitolo per gentile concessione dell’editore

 

Torino ha il cappello calato sugli occhi, quel giorno. Nubi rigonfie e livide oscurano l’apice delle verdi colline che le fanno da retroscena. Sotto, il frusciante Po è scorrevole proscenio. Piazza Vittorio Veneto somiglia a un’elegante platea; i palazzi sono palchi; di là, la maestosa corona delle Alpi è un unico grande loggione. È già sera, ma non lo è: è solo pomeriggio. Quel poco di residua luce è luce strana, violacea, che non fa ombre, tutto è una grande ombra. I nembostrati carichi di pioggia paiono massi lì lì per cadere.

Avvolta, la sacra sentinella di Torino, che dall’alto a nord-est vigila da duecento anni, non si vede. Macerie non ce ne sono quasi più, quelle restano nei cuori, ma le vie sono ancora bucate, piene di vuoti strazi laddove stavano case e palazzi. La ricostruzione è partita: lunga, ci metterà decenni per dirsi terminata.
Gino, che nell’infernotto della casa di via Solero ha ricavato un piccolo laboratorio dove ripara un po’ di tutto e qualcosa inventa pure, è sulla sua bicicletta. Fa piccole consegne, con la faticosa e preziosissima conquista postbellica a due ruote, per i suoi lavori e per chi ha urgenza di recapitare qualunque cosa possa caricare. Pioggia o sole poco importa, lui ce la farà.
Pedala costeggiando il Po, che ha appena passato sul ponte Umberto I, proprio in direzione piazza Vittorio. Ha il volto piegato verso destra, guarda la collina, così strana tagliata dalle nuvole. Il Monte dei Cappuccini si scorge, imbrunito, ma la basilica lassù proprio no, sparita. Mentre gli occhi la guardano senza vederla, un tetro bagliore gliene svela i contorni in controluce: che boato. L’hanno sentito tutti, le massaie già rientrate nelle cucine fiocamente rischiarate da una lampadina 15 candele, e nelle fabbriche gli operai che stanno per chiudere il turno. Tutti, istintivamente, hanno alzato gli occhi al cielo. Un brivido li scuote. Una scossa attraversa Gino. Non può evitare di poggiare un piede, sostare un istante. Sbircia l’orologio, unica eredità del padre: sono le cinque e tre del pomeriggio.
Pochi attimi, fatta la consegna, Gino rinsella e parte verso la Madonna del Pilone. Deve andare accanto al Cinema Eridano, in corso Casale, per l’ultimo pacchetto. Fa in fretta e, prima di ritornare verso casa, usa gli spiccioli di mancia per concedersi un lusso: il bicchiere di spuma Giommi che la sete reclama. Entra nel bar, dove sono tutti agitati: cos’è questo brusio? Chiede alla signorina se è successo qualcosa: «Non lo sa? Dicono che sia caduto un aereo a Superga, l’aereo del Grande Torino». È un cazzotto di Joe Lewis, le gambe lo piegano, ma in un fulmine è sulla bici. Pedala che neanche Coppi e Bartali assieme. Un forsennato, un pazzo, lo credono guardandolo sfrecciare proprio davanti al Motovelodromo. La strada che sale non è chiusa, provano a fermarlo, ma chi lo acchiappa? Gino è un motore che spinge un piede dietro l’altro, assomiglia a uno schizzo futurista. È marcio di pioggia, ma anche splendesse il sole sarebbe fradicio: di sudore e lacrime. Non si ferma, non si fermano.
Non è un pianto, è un continuo sgorgare di angoscia e dolore che per non esplodere da qualche parte deve uscire, ed esce dagli occhi. Scarta i pedoni che salgono a piedi, sente una sirena in alto, un attimo e sparisce dietro la curva. No, non può essere vero. Si convince, ci prova; ma quelle sirene, quei gendarmi che volevano bloccarlo…
No, non è vero. Dio, dimmi di no! Sembra una preghiera, è più una bestemmia. In un amen è lassù, sfigurato, nella nebbia. Scarta la Basilica, si precipita dietro. Butta la bicicletta, il bene più prezioso che ha, cade la catena e neanche se ne accorge. Non pensa. I soccorritori – mai nome fu più fallace: nulla possono soccorrere, andrebbero soccorsi – sono pochi, uno lo abbranca: no, si fermi, non vada! Se lo trascina dietro ancora per uno, per due. Tre passi. Stop. A terra fissa uno scarpino da calcio. Là, una maglia un po’ lacera e bruciacchiata: granata. C’è una valigia marrone di cartone pressato, spalancata. Gli occhi si abbassano, vicino al piede c’è un documento, aperto: il sorriso di un ragazzo ventottenne lo fissa. È finita. Si lascia andare, seduto, arso dentro, e piange. Piange in coro con tutta Torino, tutta l’Italia, il mondo. Piangono i tifosi, piangono i professori, piangono le nonne e le nipoti, piangono gli amici, i nemici e gli avversari. Piange la terra. Continua a piangere il cielo. E non c’è più fiato.
Il 4 maggio 1949 appallottola Torino come un foglio accartocciato dalle mani del destino: soltanto la guerra ci era riuscita. La gente ha gli stessi occhi del ’43, del ’44, del ’45. Smarriti, sbiaditi, feriti. Lo stesso animo, agghiacciato. Prova le stesse cose: un buco che s’allarga dentro all’altezza dello sterno, e lo riempiono ora il dolore, ora l’ansia, ora la disperazione. Quell’aereo ha sparpagliato trentuno corpi straziati: tredici sono uomini, il più anziano ha 66 anni, il più giovane 33; quanti il più vecchio dei diciotto ragazzi pieni di muscoli. Gli altri tutti meno, fino ai ventidue, ai ventun’anni! Ventuno! Ventuno, Dio mio. Ognuno lascia un fiore, almeno. Una madre. Un padre. Un bimbo, due. Fratelli, sorelle, nonni. Una moglie, una donna. Lascia un campo arato con i sentimenti e seminato di amore. Cresceranno quei semi, per sempre, ma senza più fiorire.

.

prima parte

Lunghe radici

Sono del 1926, mi chiamo Campo Torino, ma comunemente mi conoscono come stadio Filadelfia. Fila per gli amici. Ai bei tempi avevo anche un soprannome: Fossa dei Leoni. Il Toro era un ragazzo, quando mi hanno costruito. Aveva vent’anni. Era nato nel 1906, il 3 dicembre, benché potesse vantare robuste radici in quelle che furono le prime società calcistiche italiane.

.

L’embrione del pallone tricolore
L’anno è il 1887, quando Edoardo Bosio, che scopre il pallone a Nottingham dove l’ha portato il mestiere di tessile, fonda assieme a colleghi britannici il Torino Football & Cricket Club. Le maglie sono rossonere, si gioca a pallone, ma il cimento atletico spazia anche nel canottaggio e nell’alpinismo. Nota importante: Bosio abita in piazza Solferino e la sua casa è sede del club. Nel 1889, sull’esempio di Bosio, nascono i gialloneri Nobili Torino per volontà di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta e, come da nome, è d’ispirazione aristocratica. Le prime sfide si giocano in piazza d’Armi, non lontano da me e, soprattutto, laddove si affaccerà per sempre la curva Maratona dello stadio Olimpico Grande Torino, già Comunale, ex Mussolini. Ma questa è un’altra storia.
Ancora un biennio, e siamo nel ’91 dell’Ottocento: i due sodalizi primigeni si uniscono nell’Internazionale Torino. Colore sociale d’esordio il maroon dello Sheffield FC, il club di calcio più antico del mondo: granata. Tra questi pionieri, c’è Herbert Kilpin, l’inglese che, trasferitosi a Milano, fonderà il Milan nel 1899. La passione per il calcio cresce tra i giovani. Nel 1894, altri ragazzi si aggregano nel Football Club Torinese, la squadra in cui giocherà per anni Vittorio Pozzo, e la vestono di oro-nero. Sul finire del secolo, l’FC Torinese assorbe l’Internazionale Torino. E arriva il 3 dicembre 1906. In una saletta al primo piano dell’allora Birreria Voigt, guarda caso in piazza Solferino, il Football Club Torinese cessa di esistere per dare la luce al Torino Football Club unendosi con alcuni fuoriusciti dalla Juventus (fondata nel 1897), tra cui Alfredo Dick. Il primo presidente è Franz Josef Schoenbrod, già pilastro dell’FC Torinese.
Si comincia subito a giocare, indossando e reindossando le vecchie casacche, sia granata sia oronere. Come vedete, le radici del Toro sono profondissime: in quel 3 dicembre di cento e passa anni fa, più che una società nuova si registrò un cambio di nome. Al di là del continuo movimento di dirigenti e giocatori tra un gruppo e l’altro di appassionati, caratteristico dell’era pionieristica, ci fu continuità di persone e di colori. E che fine avrà fatto Edoardo Bosio, il primo di tutti a buttare un pallone per le strade di Torino, d’Italia? Riepiloghiamo: fondatore e giocatore del Torino Football & Cricket Club, quindi calciatore dell’Internazionale Torino e dell’FC Torinese. E ora, anzi allora, dirigente del Torino FC. Il nostro amato Toro.
Ci tengo, a queste precisazioni, malgrado possano avere un valore relativo dal punto di vista genealogico ufficiale. Ci tengo perché a Torino, nella mia bela Turin, è nato un po’ tutto, non solo l’Italia unita. Dal cinema alla radiotelevisione, dalla grande moda al caffè espresso, dall’automobile all’aeronautica. E pure il calcio.
Ma torniamo ai giorni nostri, pardon ai giorni miei. A cavallo dei due secoli scorsi e nei primi anni del Novecento, Torino gettava le basi della città industriosa e poi industriale che sarebbe diventata, nonostante fosse ancora la Torino regia, anzi regale, al di là dell’aspetto istituzionale. Madamine dai grandi abiti passeggiavano al braccio di cadetti in uniforme e spadino sotto i chilometrici e accoglienti portici del centro. Il Bicerin, i cavouriani saloni tappezzati del Caffè Fiorio in via Po, l’eleganza del Baratti & Milano, l’espresso veloce da Mulassano, un gelato da Pepino davano il senso della storia e profumavano d’Ottocento. Allora come ora. Le già forti tensioni politiche e sociali non impedivano l’eleganza, il clima festoso, il gusto della Belle Époque. Un modo di vivere vivace e misurato che solo il macello della Grande Guerra interruppe. Ma non uccise. Tornò, col fervore tipico del momento e del luogo. È in questo bozzolo che, il 15 marzo 1895, venne alla luce, crebbe e agì Enrico Eugenio Antonio Marone Cinzano. Il conte Marone Cinzano. Mio padre.

.
Il grande Enrico
Cinzano fu l’ottavo presidente del Torino. Ma, al di là dei meriti sportivi, fu una grande persona non solo per qualità imprenditoriali, ma anche umane. Le prime le dimostrò alla guida dell’azienda di famiglia: mamma Paola Cinzano era l’ultima erede dell’omonima e storica fabbrica di alcolici. Le seconde, nella vita di tutti i giorni, nel suo impegno sportivo, nella partecipazione in prima persona alla lotta di Liberazione. Nel 1919 entra in azienda, si è appena congedato col grado di sottotenente dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale da volontario. Nel ’22 ne diventa vicepresidente. Apre il marchio italiano alla scena internazionale, portandolo nei più importanti Paesi del mondo. Viaggia senza sosta. L’infaticabile lavoro, però, non lo distoglie dalla passione per il calcio. Da studente, ha cominciato a frequentare il velodromo Umberto I, dove gioca il Torino FC. Conosce molti dei pionieri e crea un forte legame con due pilastri dell’epopea granata: Vittorio Pozzo e Vittorio Morelli di Popolo. Entra in società, diventa dirigente e nel 1924 rileva la presidenza da Giuseppe Bevione.
Enrico ha la scorza del vecchio torinese bogia nen, che non si scosta d’un passo dinanzi alle difficoltà, e l’agilità fulminea e audace dell’esploratore moderno, dello scopritore, del sognatore pratico. Quando diventa presidente, il Torino gioca le sue partite nel cosiddetto Campo Stupinigi, all’angolo tra corso Sebastopoli e corso Galileo Ferraris (ai margini di piazza D’Armi) e, per una stagione, al Motovelodromo. Ma il calcio sta lasciando velocemente l’era dei pionieri, cresce ogni giorno la schiera degli appassionati e dei sostenitori. Mio papà, intuitivo e tenace, ha capito da tempo che il Torino ha bisogno di una casa tutta sua, di uno stadio dove ospitare adeguatamente allenamenti, partite e, soprattutto, tifosi. Un luogo di sport e spettacolo, certo, però anche una piazza d’incontro e d’aggregazione. Sarà il Filadelfia, sarò io.
La scelta del terreno è facile: a pochi passi da dove già gioca il Torino. Periferia, anzi per lo più ancora i dintorni della città, però non ancora aperta campagna. Da una parte, non lontano, oltre la ferrovia, si erge la fabbrica Fiat del Lingotto, dall’altra ci sono gli imponenti mattoni rossi dell’Ospizio di Carità, che i torinesi chiamano Poveri Vecchi. E il viale che dalla città porta a Stupinigi, laddove si staglia la juvarriana Palazzina di Caccia dei Savoia sormontata dal cervo in bronzo, ha cominciato a ospitare ai lati qualche casetta oltre alle storiche caserme. Sono i semi della Torino che verrà. Lì, accanto a quel viale, il futuro conte Cinzano acquista il terreno e il 24 marzo 1926 presenta in Comune la richiesta di concessione edilizia per la costruzione dello stadio.
Intanto, ha le idee chiare e giuste pure sul piano sportivo. Vuole vincere. Compra tre fuoriclasse, ancora oggi tra i migliori giocatori che abbiano portato la maglia del Toro: nel 1925 Adolfo Baloncieri, Julio Libonatti e, l’anno successivo, Gino Rossetti. In granata ci sono già autentiche colonne della nostra storia: Mario Sperone, Antonio Janni, i fratelli Mosso (Eugenio, Francisco, Benito, Julio: una famiglia tutta granata), i fratelli Martin (Cesare, Piero, Dario, Edmondo: altra famiglia tutta granata), Vittorio Staccione che poi sarà seguito dal fratello Eugenio. Come quest’ultimi, molti sono già passati dal quasi neonato vivaio. I fratelli Staccione ci obbligano a una piccola deviazione. Eugenio, portiere, restò legato al Torino anche dopo le esperienze in altre squadre e tornò a lavorare in società. Drammatica la vicenda di Vittorio, centrocampista, che lasciò un segno profondo nella storia della Fiorentina: inserito nella hall of fame della Fiorentina quale miglior giocatore viola degli anni Venti e Trenta, antifascista convinto, pagò con la vita la partecipazione alla battaglia per la libertà nel campo di concentramento di Mauthausen, il 16 marzo 1945, poco prima dell’altro fratello Francesco, assieme al quale era stato arrestato a Torino nel 1944 per la sua attività politica. Lo stadio di Cremona, lo Zini, gli ha dedicato una lapide in marmo con un’opera in bronzo dello scultore Mario Coppetti, che lo vide giocare dal vivo in grigiorosso. Anche Torino, al principio del 2019, ha inserito una Pietra d’Inciampo a sua memoria davanti al domicilio di Vittorio ai tempi dell’arresto, in via San Donato 27.
I Venti e i Trenta sono anni memorabili per lo sport italiano, in cui alza la testa e stupisce la Francia con il ciclista Ottavio Bottecchia, che trionfa in due Tour consecutivi (1924 e 1925), uscendo così dalla miseria più nera per poi morire assassinato nel 1927 in circostanze mai ufficialmente chiarite, ma con grossi indizi di delitto politico. Luigi Beccali nei 1500 metri e Attilio Pavesi sulla bicicletta esaltano i paisà a Los Angeles 1932, l’Olimpiade da record per l’Italia con trentasei medaglie, dodici per ogni metallo. E il nostro sport meraviglia l’America con il gigante buono Primo Carnera, capace di strappare la cintura mondiale dei massimi a Jack Sharkey in casa sua, a Boston, nel 1933. Fino al 1936, all’ultima illusione di Berlino, annerita da Jesse Owens con nove anni di anticipo sulle bombe alleate, che incorona Ondina Valla, prima italiana d’oro alle Olimpiadi, quelle che vedranno anche il trionfo degli azzurri guidati da Vittorio Pozzo. Fino al ’36, almeno l’aria è ancora pulita, l’Italia sembra un Paese destinato a un luminoso futuro. Sembra.

.
Subito competitivo
Torniamo al sorriso e all’eleganza di Enrico Marone Cinzano. Con il progetto dell’impianto sportivo e la costruzione di una squadra forte, il presidente assembla una società calcistica all’avanguardia per la metà degli anni Venti, già molto attenta alla formazione giovanile di futuri campioni e al proprio pubblico. I risultati sono immediati. Da un mediocre sesto posto, il Torino balza a un secondo nel 1925-26, Girone Nord Gruppo A (il campionato non era ancora stato unificato), a soli due punti dal Bologna qualificato per la fase finale e battuto dai granata 6-2 nell’ultima partita, giocata al Motovelodromo di corso Casale. Io sono in costruzione.
Marone Cinzano ha aperto la Società Civile del Campo Torino proprio al fine di attuare il progetto. L’area acquistata è di circa 38 mila metri quadrati e, appena ottenuto il via libera comunale, i lavori sono partiti sotto la direzione dell’ingegnere Miro Gamba, professore del prestigioso Politecnico torinese. Ad attuarli, il commendator Riccardo Filippa. «Ci siamo recati al cantiere, dove una folla di operai sta lavorando attivamente sotto la direzione dell’ideatore ingegnere Gamba. Dal corso Stupinigi si disegna già l’ossatura leggera ed elegante della tribuna coperta, capace di 1300 posti» scrive il quotidiano «La Stampa» il 26 agosto 1926.
Il nuovo campo sarà indubbiamente il più elegante e moderno d’Italia. Avrà inoltre, su gli altri […] confratelli, il vantaggio di un’invidiabile posizione. Gli spettatori della tribuna avranno dinanzi ai loro occhi il suggestivo sfondo della collina torinese, visibile per un larghissimo tratto; in lontananza si profilano l’agile guglia della Mole Antonelliana, il caratteristico Monte dei Cappuccini, la bianca Basilica di Superga: tutto quanto di più torinese e di più bello c’è a Torino. Sarà uno spettacolo per […] forestieri, i quali potranno visitare con l’occhio la nostra città, standosene comodamente seduti sulle gradinate di cemento, fasciate da scranni di legno, e assistendo contemporaneamente a un emozionante spettacolo sportivo.
L’elegante tribuna è in stile Liberty, fatta di ghisa e legno, come di legno sono le poltroncine tutte numerate: bellissima. Le gradinate invece sono di cemento armato. La mia facciata è in mattoni rossi, grandi finestre dai bianchi infissi, colonne e un lungo ballatoio con la ringhiera in ferro. Sembrava una casa: un segno del mio destino. «Il campo sportivo costerà tre milioni di lire», dice il medesimo articolo: a quanto pare si riuscì addirittura a risparmiare, visto che il primo investimento non superò i due milioni e mezzo. «II campo avrà una capacità complessiva di 15.000 spettatori […] Ma la capacità massima del campo sarà facilmente raggiunta con altre due gradinate, qualora l’affluenza del pubblico crescesse in misura così… consolante da richiedere altri posti. L’ing. Gamba ha predisposto il progetto per questa lieta e possibile probabilità: il campo allora potrà raggiungere la capacità di 25.000 spettatori». E così sarà presto: nel 1932 arriverò a contenere oltre trentamila spettatori. In cinque mesi, ero pronto.

.
Si comincia!
Il 17 ottobre 1926, a pagina quattro, «La Stampa», tra «L’inaugurazione del Tennis Club allo Stadium» e «Il turno delle farmacie» diffondeva la seguente notizia di cronaca cittadina:
Il nuovo campo del Torino F.B.C.
Come abbiamo già pubblicato, oggi alle 14.30 verrà inaugurato il nuovo campo del Torino F.B.C, alla presenza del Duca d’Aosta, del Duca di Pistoia e della Principessa Adelaide, che ne sarà la madrina. Monsignor Gamba, Arcivescovo di Torino, impartirà la benedizione al nuovo campo. La Direzione del FC Torino comunica che, per gentile concessione della Divisione militare, presterà servizio la Banda dei Reali Carabinieri, che suonerà per la prima volta l’inno del «Torino», musica del maestro Consiglio. Ricordiamo che, in occasione dell’eccezionale avvenimento, è stato disposto un servizio di autobus con partenza da piazza Paleocapa.
La piazzetta gemella della Lagrange ai lati di piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione ferroviaria Porta Nuova: il centro di Torino. Servizio autobus provvidenziale e sfruttatissimo dai cittadini, che letteralmente mi assediarono. Sempre «La Stampa», sempre cronaca cittadina di pagina quattro ma il dì appresso, il titolo più grande recita: «15.000 persone all’inaugurazione del nuovo campo del Torino».
Il nuovo campo del Torino F.B.C. ha ricevuto ieri il battesimo dell’Arcivescovo Monsignor Gamba, presente una folla varia ed elegante di almeno quindicimila spettatori. Il magnifico viale di Stupinigi in un meriggio dolce di primavera, festoso di sole e d’azzurro, era percorso già prima delle 14 da una lunga teoria di automobili, che si affannavano, in un groviglio insolito e pittoresco, a trovare un tratto di strada libera. Il movimento delle macchine è stato per breve tempo addirittura fantastico, e molti sono stati gli «arresti», ma nessuno si è lamentato. L’inaugurazione del nuovo campo sportivo ha assunto così le proporzioni di un vero e proprio avvenimento cittadino. Quando, alle 14.30 annunciati da uno squillo di tromba sono giunti in automobile il Duca d’Aosta, il Duca di Pistoia e la Principessa Maria Adelaide, il nuovo campo, pittorescamente bello nella sua allegria di colori, era nereggiante di folla. Il duplice sfondo delle nostre dolci colline, ancora verdi in quest’autunno avanzato, e del massiccio delle montagne già incappucciate di neve, chiude in un cerchio panoramico sereno e giocondo il nuovo campo che era tutto uno sventolio dei gonfaloni tricolori.
Questo era il clima della mia prima volta… Un impasto ribollente di emozione, tra passione e colore, suoni e voci, cose e uomini. Sempre «La Stampa» del 18 ottobre:
Nella verde pelouse, sbucano improvvisamente dal sottopassaggio undici casacche granata: è la prima squadra del Torino, accolta, ça va sans dire, da un subisso d’applausi. Segue immediatamente l’“undici” della Fortitudo. Le due squadre s’allineano sul campo su una sola fila, rivolte alla tribuna d’onore. E qui viene la sorpresa: casacche granata continuano a sbucare sul campo; più si continua e più gli […] atleti che le vestono diventano piccini: è una scala decrescente. È una parata di […] forza del Torino, che allinea sul campo le sue squadre di giocatori. Ultima ad arrivare è quella dei biberons, di cui fa parte il figlio del dottor Laugeri che conta la bellezza di… due primavere e mezza, il piccolo footballer reca tra le mani – fatica non lieve – il pallone che dovrà servire all’incontro. Dodici sono ora le squadre in campo: undici del Torino, e quella della Fortitudo.
Lo so cosa state pensando, ed è proprio così. Sì, la mia è un’autentica vocazione: tutti quei piccoli granatini sin dal primo giorno. Allevare giovani torelli è stata una missione, probabilmente la mia più importante. Più delle vittorie e delle bolge di tifo, più degli allenamenti e di tanti provini: da me, in me, con me, si imparavano tante cose, senza accorgersene. Valori, ideali, passioni, capacità di soffrire e di superare le difficoltà, senso di appartenenza e spirito di corpo. Si imparava il Toro. Si diventava il Toro. Si era il Toro.
Le note della Marcia Reale, suonata dalla Banda dei Carabinieri, echeggiano nel campo. I giuocatori s’irrigidiscono sull’attenti, mentre nel pubblico si fa un gran silenzio. L’Arcivescovo di Torino, Monsignor Gamba, entra allora nel campo, seguito dalla Principessa e dal Principe ed accompagnato dal presidente del FC Torino, comm. Marone. Nel seguito ci sono: il generale Ferrari, gli onorevoli Italo Foschi, Olivetti, Lando Ferretti [presidente del Coni, nda], Bagnasco, il reggente la Federazione fascista Conte di Robilant, il questore comm. Chiaravalloti…
L’inutile lista è lunga. C’è incredibile silenzio.
La musica tace. Si ode distintamente la voce di Monsignor Gamba che pronuncia le frasi di rito, mentre con l’aspersorio getta l’acqua benedetta sul campo. Le due porte di giuoco sono sbarrate. Un leggero nastro tricolore le attraversa chiudendo per ora la via […] ai goals. Il compito della gentile madrina, la Principessa Maria Adelaide, è di spezzare quell’ostacolo. La Principessa, con a lato il Duca d’Aosta, e sempre seguita dalle autorità, taglia prima il nastro di una porta e poi quello dell’altra. Il campo è inaugurato. Mentre l’ultimo nastro tricolore cade a terra, la banda dei Carabinieri suona per la prima volta il nuovo inno del Torino.
S’intitola Va’, calciator!, musica di Alberto Consiglio, parole di Giuseppe Montesi, sottotitolo Alle valorose casacche granata. Ammetto una certa ironia, a cotanto sussiego, ma ogni epoca ha le sue impettite ridicolaggini. Confesso, però, pure sincera emozione: in fondo sono tutti quanti lì per me. E, giuro senza vanto, ritengo che non avessero tutti i torti, a esserci.

.

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/diarkoseditore/

Sito: https://www.diarkos.it/

“Il Piave mormorava…”

Tutto ebbe inizio nel mese di maggio /  Soldati di Terra e di Mare. L’ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l’esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire.

Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell’arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarlo. Soldati a voi la gloria di piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri“. Così parlò dal Gran Quartier Generale il Re d’Italia,Vittorio Emanuele III, con un discorso gonfio di retorica. Era il 24 maggio 2015, un lunedì, giorno dedicato alla Beata Vergine Maria Ausiliatrice. Erano passati dieci mesi dall’agosto del 1914 che aveva segnato l’inizio del conflitto. Il ”maggio radioso”, come viene spesso chiamato il periodo che prelude all’entrata in guerra dell’Italia, fu un mese di fermento diplomatico e di forte tensione politica. Il fervore interventista si concretizzò in manifestazioni di tutte le piazze della penisola e D’Annunzio arringava la folla e la incitava contro Giolitti, fautore della linea della neutralità. L’Italia era ormai prossima a rompere l’antico patto con Austria e Germania e a entrare in guerra a fianco dell’Intesa, secondo i piani segreti firmati a Londra il 26 aprile del 1915.

I primi fanti marciarono contro l’Austria proprio quel giorno, oltrepassando il confine, “per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera“.Iniziava così, anche per l’Italia, la “Grande guerra”. L’Italia, incurante del patto sottoscritto fin dal 1882 (Triplice Alleanza) con l’Austria-Ungheria e la Germania, decise di entrare in guerra cambiando alleanza e schierandosi con la Triplice Intesa, formata da Francia, Inghilterra e Russia. La Triplice Alleanza era un trattato di carattere puramente difensivo, che prevedeva il reciproco aiuto in caso di invasione esterna. Questa clausola permise all’Italia, visto che l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia senza avvisarla, di rimanere neutrale allo scoppio del conflitto. Dopo essersi dichiarata tale l’Italia decise successivamente di schierarsi a fianco dell’Intesa contro gli Imperi centrali (Austria-Ungheria, Germania e Impero Ottomano). La vittoria, secondo l’accordo, avrebbe garantito all’Italia il Trentino e il Sud Tirolo, con il confine al Brennero; Trieste e l’Istria fino al Quarnaro, ma senza Fiume; la Dalmazia, una sorta di protettorato sull’Albania e compensi indefiniti in caso di disgregazione dell’Impero Ottomano e di guadagni coloniali da parte inglese e francese. Il comando supremo delle operazioni venne affidato al generale Luigi Cadorna.

Tre erano le zone del teatro di guerra italiano: Trentino, Cadore e  la valle dell’Isonzo, nella Carnia. Un compito piuttosto  difficile dal momento che il confine italiano era lungo oltre 600 chilometri ed era molto vulnerabile. Il confine col Trentino era decisamente montuoso, favorevole alle posizioni austriache, lì ben fortificate, come pure in Cadore e in Carnia, dove il fronte correva lungo la displuviale delle Alpi.Diversa era la situazione sull’Isonzo: da Tolmino al mare Adriatico, le Alpi presentavano una serie di bassi altopiani, che favorivano la difesa, ma consentivano anche di attaccare in forze, aprendo la via verso obiettivi strategici di grandissimo interesse: Trieste, la pianura di Lubiana e, infine, Vienna. Delle 35 divisioni a disposizione, Cadorna decise di destinarne sei alla I° armata che si trova verso il Trentino, cinque alla IV° armata in Cadore, due al corpo d’armata della Carnia e quindici alle armate II° e III° , destinate a sferrare l’attacco decisivo da Tolmino al mare (a cui se ne aggiunsero  altre sette). Il grosso delle forze era dunque concentrato sul fronte dell’Isonzo, che diventò presto un simbolo della difficile guerra di logoramento italiana. E che, successivamente venne impresso nel fuoco con un nome tragicamente noto: Caporetto! Fatto sta che quel giorno di centotre anni fa iniziava il conflitto che sarebbe costato al mondo milioni di morti in quella l’allora pontefice , Benedetto XV, in una lettera ai “capi dei popoli belligeranti” che porta la data del 1° agosto 1917 definì “l’inutile strage”. Un’espressione la cui carica profetica risuonerà per tutto il XX secolo e che anche oggi risulta drammaticamente attuale.

Marco Travaglini

 

Sognando Venezia

Non possiamo andarci per il momento e non possiamo neanche specchiarci nell’acqua miracolosamente cristallina e pulita dei suoi canali, come abbiamo visto in televisione, sgombri da motoscafi, gondole piene di turisti, mercati galleggianti, melma e rifiuti ma, in attesa di tornarci, possiamo leggere qualche bel libro su Venezia

Uno di questi, pubblicato di recente, è “La splendida. Venezia 1499-1509”, di Alessandro Marzo Magno, Laterza. Alla fine del Quattrocento Venezia è una superpotenza europea, più o meno come oggi gli Stati Uniti o la Russia. Tutti la temono ma il suo essere tra i grandi d’Europa segna anche l’inizio della fine. Gli altri Stati italiani decidono di correre ai ripari alleandosi tra loro. Venezia sarà sconfitta dalle potenze europee della Lega di Cambrai nel 1509 e ridimensionata. La Serenissima è in lacrime, abbattuta dagli Stati europei che si sono coalizzati contro di lei.

Rischia perfino di scomparire dalla mappa geografica, sopravvive a fatica. Ma a quel punto risorge e inizia un fase di splendore che durerà tre secoli. Venezia tornerà potente e soprattutto splendente, e, come scrive l’autore, “riuscirà a mantenere un ruolo centrale nel mondo utilizzando l’arte e l’architettura e riuscirà a meravigliare con il tintinnare delle monete. La Venezia del Cinquecento è quella del mito arrivato fino a noi: la città dei palazzi di Sansovino, della celebrazione del governo perfetto e della rivoluzione del colore che influenzerà tutta la pittura successiva”. Nel grandioso decennio narrato nel libro Venezia diventa il cuore del mondo. Le storie e gli eventi che si intrecciano in pochi anni sono tanti. Da un breve soggiorno in laguna nel 1500 di un famoso Leonardo da Vinci a un giovane di belle speranze chiamato Tiziano che, lasciata la natia Pieve di Cadore, nel 1503 comincia a dipingere nella bottega dei Bellini, Gentile e Giovanni, la più importante di Venezia. Nel 1507 muore, a 78 anni, Gentile Bellini, il ritrattista della nobiltà veneziana e non solo. È autore del celebre ritratto di Maometto II, oggi esposto alla National Gallery di Londra. Il sultano lo chiama a Costantinopoli e il doge lo invia sul Bosforo dove si fermerà due anni. Un tal giorno il dipinto arriva a Venezia, non si sa come e quando, forse venduto a qualche mercante veneziano perchè il figlio e successore del Conquistatore, Bayazid II, disprezzando l’arte figurativa, aveva spedito al bazar gli oggetti preziosi del padre, quadro compreso. Sono anche gli anni in cui Gorgione dipinge la misteriosa Tempesta mentre il primo libro tascabile della storia viene pubblicato da Aldo Manuzio, il “portatile”, come lo chiamava lui. Mentre Ottaviano Petrucci stampa il primo libro musicale a caratteri mobili, il fòndaco dei tedeschi, il magazzino-locanda dei mercanti tedeschi, brucia e viene ricostruito in appena tre anni. Nel frattempo, i portoghesi circumnavigano l’Africa e interrompono il monopolio veneziano nel commercio delle spezie. Nella città lagunare risiedono Albrecht Durer e il filosofo Erasmo ma l’inizio del Cinquecento è anche il periodo veneziano di Caterina Corner, l’ex regina di Cipro, divenuta signora di Asolo che crea l’unica corte mai esistita sul territorio della Serenissima, una delle più colte del Rinascimento italiano. E poi la battaglia che rischia di cancellare la Serenissima dalla carta geografica, combattuta ad Agnadello, presso Cremona, il 14 maggio 1509, tra le forze della Lega di Cambrai e la Repubblica di Venezia con la vittoria di Luigi XII che costringe i veneziani a rinunciare alle mire espansionistiche sul resto della penisola.

Filippo Re