STORIA- Pagina 133

Superga, il comandante Meroni e quella Lambretta in via Carpi

Il 4 maggio del 1949 a Superga l’aereo del ‘Grande Torino’ si schiantò a Superga. Ma questo immenso dramma colpì non soltanto il mondo dello sport e la capitale del Piemonte, ma l’Italia ed il mondo intero per la sua dimensione, generò anche mille storie ‘collaterali’, altrettanto drammatiche e ricche di risvolti

Una di queste mi riguarda sia pure indirettamente. A guidare l’aereo che si schiantò a Superga era il comandante Pierluigi Meroni, 34 anni, pilota capace ed abile con un’esperienza maturata nei cieli della seconda guerra mondiale. Lui con la famiglia viveva in via Carpi a Milano.

E qui si intreccia la sua storia con il suo ricordo di Superga: a quell’epoca in via Carpi viveva la famiglia Gindari, il padre Francesco, la madre Tina e la figlia Marisa, che allora aveva diciotto anni. E, dopo la sciagura fu Francesco Gindari ad acquistare la lambretta dalla moglie del comandante che era deceduto in quel di Superga. Spiego subito il nesso: Marisa Gindari ha sposato nel 1972, Marco Iaretti, padre mio e di mio fratello Fabrizio, che era rimasto vedovo di Lucia (la nostra prima mamma, quella biologica che se n’era andata per un brutto male il 12 dicembre del 1969, perché Marisa, per tutto quello che ha fatto per noi è stata una Mamma con la M maiscola, e questa è un’altra storia). Mamma, in più di un’occasione mi ha raccontato di questo episodio e del collegamento tra il nonno Francesco (ma per tutti era Cecco) e  l’episodio della lambretta del comandante Meroni. Tant’è che quando in un giorno alla fine di settembre del 2011, andai a fare una gita a Superga e a rendere omaggio a quella grande squadra (pur da sempre juventino) chiamai mamma al telefono, non ricordando il nome del comandante dell’aereo, e lei mi disse solo ‘Meroni’ e trovai il suo nome sulla stele nel luogo del tragico impatto. Certo adesso, passati gli anni (Mamma Marisa ha terminato il suo cammino terreno pochi giorni dopo nell’ottobre di quel maledetto 2011), mi piacerebbe anche incontrare, parlare, con i figli o i nipoti del comandante Meroni, per saperne di più. Credo che sarebbe un momento ricco e carico di emozione, sia pure a distanza di tanti anni. Chissà.

Massimo Iaretti

(foto di Fabio Liguori)

 

Maggio e il Neoclassicismo per la Fontana dei Mesi di Torino

L’ultimo round è arrivato anche per la rubrica della Fontana dei Mesi. Penso questo, aprendo il computer per scrivere della statua del mese di maggio, in programma per la decima uscita, l’ultima della serie. Mi trovo all’ultimo gradino prima di mettere la parola “conclusa” sulla cartellina degli articoli. Uno step che non è più alto, né più basso degli altri, tuttavia questo è per me un momento che fa riflettere

Colgo l’occasione per ripensare alle precedenti uscite e anche alla scorsa rubrica, donne (in nero), apparsa su iltorinese.it l’anno scorso. Penso anche ai luoghi dove mi trovavo quando ho scritto la Fontana dei Mesi in passato e al fatto che sono ormai parecchi giorni che tutti noi non mettiamo naso fuori di casa, se non per le necessità. Ho un ultimo pezzo con voi e continuo doverosamente nello scrivere una rubrica che, a parte la correlazione tra “correnti artistiche” e “statue dei mesi”, porta avanti un messaggio: recatevi al Parco del Valentino a vedere la fontana del Ceppi.

Insomma mi trovo a combinare questo pezzo in un momento particolarmente caldo per tutti noi, in un momento in cui uscire di casa per una passeggiata al parco è proibito e per questo mi scuserete se per questa volta, vi chiederò invece di stare a casa, di non andare al parco, ma piuttosto di riprodurre ad esempio su carta la statua di maggio, la fontana intera oppure la vostra statua preferita e poi di attaccare il foglio sulla porta di casa con la promessa di arrivare fino alla vostra fontana di Torino e godervi il giro, non appena sarà possibile.  Iconiche per maggio le spalle. Poi le braccia; forti tengono accostati al petto quantità di fiori il cui aspetto è quello del culmine del loro splendore, in altre parole non si tratta di boccioli, ma di fiori carnosi.

Tutti sanno che c’è un momento in cui i fiori, così come i frutti, sono così carichi da far desiderare di coglierli. Una spinta che porta con sé un duplice motivo, il desiderio di salvarli, dallo sfiorire o, nel caso dei frutti, dalla via della marcescenza. E la volontà di goderne la compagnia in una sala da pranzo oppure di banchettarne è la seconda ragione che spinge al gesto del cogliere. La nostra statua ne ha con sé sotto le braccia, li porta con sé in quanto allegoria di maggio, il mese in cui la primavera è matura e i fiori sono da cogliere, perché sono nel tripudio della loro breve vita e se ne può sentire l’odore gradevole invitare ad avvicinarci. Ho pensato dunque di parlarvi del Neoclassicimo. Una corrente artistica che deriva dalle riflessioni estetiche del suo tempo, il Settecento, e che è il culmine del periodo precedente, quello Barocco, da cui si stacca nettamente per alcune caratteristiche abbastanza notevoli da permettere la strutturazione di una corrente artistica per così dire a sé stante. I neoclassici si sono liberati dalle ombre del periodo barocco cogliendo la parte matura del periodo precedente, dipingono perciò finalmente senza i forti vincoli prospettici a cui il barocco chiamava. E lo fanno senza nulla togliere all’ambientazione. I soggetti dei neoclassici sono i miti, come ad esempio Giovan Battista Tiepolo dipinge Apollo e Daphne, Briseide e Agamennone e molti altri, ma questa corrente artistica, si potrebbe studiare anche attraverso una selezione delle allegorie che fioriscono in quel periodo. In generale i racconti della mitologia greca e latina, così come i fatti storici, come ad esempio l’incontro tra Antonio e Cleopatra, sono rispolverati, dipinti e scolpiti sull’onda lunga del Barocco, si potrebbe dire del leit motiv barocco, quello di “mettere in scena i personaggi” siano essi dipinti oppure scolpiti.  Poi mi pare che la statua di maggio alla Fontana dei Mesi di Torino sia un po’ come il Neoclassicimo, perché mi dà l’impressione di una donna che si è lasciata indietro le ombre della primavera, in attesa di una prossima estate.  Sono contenta, di riuscire a essere con voi, per un momento, anche in questo difficile periodo.

Elettra Nicodemi

Sul Neoclassicismo Elettra Nicodemi ha scritto anche: Neoclassicismo, dipingere senza le ombre di inizio secolo [https://insidethestaircase.com/2017/05/01/neoclassicismo/] edito Inside The Staircase

4 maggio, il “Fila” racconta

L’epopea calcistica che più di tutte ha entusiasmato, emozionato e commosso l’Italia. Il libro “Il Grande Torino. Gli Immortali” del giornalista sportivo Alberto Manassero, edito da Diarkos  ci racconta, nell’anniversario della tragedia di Superga del 1949,  la storia di uno stadio e di una squadra che resteranno nella storia. Ne pubblichiamo un capitolo per gentile concessione dell’editore

 

Torino ha il cappello calato sugli occhi, quel giorno. Nubi rigonfie e livide oscurano l’apice delle verdi colline che le fanno da retroscena. Sotto, il frusciante Po è scorrevole proscenio. Piazza Vittorio Veneto somiglia a un’elegante platea; i palazzi sono palchi; di là, la maestosa corona delle Alpi è un unico grande loggione. È già sera, ma non lo è: è solo pomeriggio. Quel poco di residua luce è luce strana, violacea, che non fa ombre, tutto è una grande ombra. I nembostrati carichi di pioggia paiono massi lì lì per cadere.

Avvolta, la sacra sentinella di Torino, che dall’alto a nord-est vigila da duecento anni, non si vede. Macerie non ce ne sono quasi più, quelle restano nei cuori, ma le vie sono ancora bucate, piene di vuoti strazi laddove stavano case e palazzi. La ricostruzione è partita: lunga, ci metterà decenni per dirsi terminata.
Gino, che nell’infernotto della casa di via Solero ha ricavato un piccolo laboratorio dove ripara un po’ di tutto e qualcosa inventa pure, è sulla sua bicicletta. Fa piccole consegne, con la faticosa e preziosissima conquista postbellica a due ruote, per i suoi lavori e per chi ha urgenza di recapitare qualunque cosa possa caricare. Pioggia o sole poco importa, lui ce la farà.
Pedala costeggiando il Po, che ha appena passato sul ponte Umberto I, proprio in direzione piazza Vittorio. Ha il volto piegato verso destra, guarda la collina, così strana tagliata dalle nuvole. Il Monte dei Cappuccini si scorge, imbrunito, ma la basilica lassù proprio no, sparita. Mentre gli occhi la guardano senza vederla, un tetro bagliore gliene svela i contorni in controluce: che boato. L’hanno sentito tutti, le massaie già rientrate nelle cucine fiocamente rischiarate da una lampadina 15 candele, e nelle fabbriche gli operai che stanno per chiudere il turno. Tutti, istintivamente, hanno alzato gli occhi al cielo. Un brivido li scuote. Una scossa attraversa Gino. Non può evitare di poggiare un piede, sostare un istante. Sbircia l’orologio, unica eredità del padre: sono le cinque e tre del pomeriggio.
Pochi attimi, fatta la consegna, Gino rinsella e parte verso la Madonna del Pilone. Deve andare accanto al Cinema Eridano, in corso Casale, per l’ultimo pacchetto. Fa in fretta e, prima di ritornare verso casa, usa gli spiccioli di mancia per concedersi un lusso: il bicchiere di spuma Giommi che la sete reclama. Entra nel bar, dove sono tutti agitati: cos’è questo brusio? Chiede alla signorina se è successo qualcosa: «Non lo sa? Dicono che sia caduto un aereo a Superga, l’aereo del Grande Torino». È un cazzotto di Joe Lewis, le gambe lo piegano, ma in un fulmine è sulla bici. Pedala che neanche Coppi e Bartali assieme. Un forsennato, un pazzo, lo credono guardandolo sfrecciare proprio davanti al Motovelodromo. La strada che sale non è chiusa, provano a fermarlo, ma chi lo acchiappa? Gino è un motore che spinge un piede dietro l’altro, assomiglia a uno schizzo futurista. È marcio di pioggia, ma anche splendesse il sole sarebbe fradicio: di sudore e lacrime. Non si ferma, non si fermano.
Non è un pianto, è un continuo sgorgare di angoscia e dolore che per non esplodere da qualche parte deve uscire, ed esce dagli occhi. Scarta i pedoni che salgono a piedi, sente una sirena in alto, un attimo e sparisce dietro la curva. No, non può essere vero. Si convince, ci prova; ma quelle sirene, quei gendarmi che volevano bloccarlo…
No, non è vero. Dio, dimmi di no! Sembra una preghiera, è più una bestemmia. In un amen è lassù, sfigurato, nella nebbia. Scarta la Basilica, si precipita dietro. Butta la bicicletta, il bene più prezioso che ha, cade la catena e neanche se ne accorge. Non pensa. I soccorritori – mai nome fu più fallace: nulla possono soccorrere, andrebbero soccorsi – sono pochi, uno lo abbranca: no, si fermi, non vada! Se lo trascina dietro ancora per uno, per due. Tre passi. Stop. A terra fissa uno scarpino da calcio. Là, una maglia un po’ lacera e bruciacchiata: granata. C’è una valigia marrone di cartone pressato, spalancata. Gli occhi si abbassano, vicino al piede c’è un documento, aperto: il sorriso di un ragazzo ventottenne lo fissa. È finita. Si lascia andare, seduto, arso dentro, e piange. Piange in coro con tutta Torino, tutta l’Italia, il mondo. Piangono i tifosi, piangono i professori, piangono le nonne e le nipoti, piangono gli amici, i nemici e gli avversari. Piange la terra. Continua a piangere il cielo. E non c’è più fiato.
Il 4 maggio 1949 appallottola Torino come un foglio accartocciato dalle mani del destino: soltanto la guerra ci era riuscita. La gente ha gli stessi occhi del ’43, del ’44, del ’45. Smarriti, sbiaditi, feriti. Lo stesso animo, agghiacciato. Prova le stesse cose: un buco che s’allarga dentro all’altezza dello sterno, e lo riempiono ora il dolore, ora l’ansia, ora la disperazione. Quell’aereo ha sparpagliato trentuno corpi straziati: tredici sono uomini, il più anziano ha 66 anni, il più giovane 33; quanti il più vecchio dei diciotto ragazzi pieni di muscoli. Gli altri tutti meno, fino ai ventidue, ai ventun’anni! Ventuno! Ventuno, Dio mio. Ognuno lascia un fiore, almeno. Una madre. Un padre. Un bimbo, due. Fratelli, sorelle, nonni. Una moglie, una donna. Lascia un campo arato con i sentimenti e seminato di amore. Cresceranno quei semi, per sempre, ma senza più fiorire.

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prima parte

Lunghe radici

Sono del 1926, mi chiamo Campo Torino, ma comunemente mi conoscono come stadio Filadelfia. Fila per gli amici. Ai bei tempi avevo anche un soprannome: Fossa dei Leoni. Il Toro era un ragazzo, quando mi hanno costruito. Aveva vent’anni. Era nato nel 1906, il 3 dicembre, benché potesse vantare robuste radici in quelle che furono le prime società calcistiche italiane.

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L’embrione del pallone tricolore
L’anno è il 1887, quando Edoardo Bosio, che scopre il pallone a Nottingham dove l’ha portato il mestiere di tessile, fonda assieme a colleghi britannici il Torino Football & Cricket Club. Le maglie sono rossonere, si gioca a pallone, ma il cimento atletico spazia anche nel canottaggio e nell’alpinismo. Nota importante: Bosio abita in piazza Solferino e la sua casa è sede del club. Nel 1889, sull’esempio di Bosio, nascono i gialloneri Nobili Torino per volontà di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta e, come da nome, è d’ispirazione aristocratica. Le prime sfide si giocano in piazza d’Armi, non lontano da me e, soprattutto, laddove si affaccerà per sempre la curva Maratona dello stadio Olimpico Grande Torino, già Comunale, ex Mussolini. Ma questa è un’altra storia.
Ancora un biennio, e siamo nel ’91 dell’Ottocento: i due sodalizi primigeni si uniscono nell’Internazionale Torino. Colore sociale d’esordio il maroon dello Sheffield FC, il club di calcio più antico del mondo: granata. Tra questi pionieri, c’è Herbert Kilpin, l’inglese che, trasferitosi a Milano, fonderà il Milan nel 1899. La passione per il calcio cresce tra i giovani. Nel 1894, altri ragazzi si aggregano nel Football Club Torinese, la squadra in cui giocherà per anni Vittorio Pozzo, e la vestono di oro-nero. Sul finire del secolo, l’FC Torinese assorbe l’Internazionale Torino. E arriva il 3 dicembre 1906. In una saletta al primo piano dell’allora Birreria Voigt, guarda caso in piazza Solferino, il Football Club Torinese cessa di esistere per dare la luce al Torino Football Club unendosi con alcuni fuoriusciti dalla Juventus (fondata nel 1897), tra cui Alfredo Dick. Il primo presidente è Franz Josef Schoenbrod, già pilastro dell’FC Torinese.
Si comincia subito a giocare, indossando e reindossando le vecchie casacche, sia granata sia oronere. Come vedete, le radici del Toro sono profondissime: in quel 3 dicembre di cento e passa anni fa, più che una società nuova si registrò un cambio di nome. Al di là del continuo movimento di dirigenti e giocatori tra un gruppo e l’altro di appassionati, caratteristico dell’era pionieristica, ci fu continuità di persone e di colori. E che fine avrà fatto Edoardo Bosio, il primo di tutti a buttare un pallone per le strade di Torino, d’Italia? Riepiloghiamo: fondatore e giocatore del Torino Football & Cricket Club, quindi calciatore dell’Internazionale Torino e dell’FC Torinese. E ora, anzi allora, dirigente del Torino FC. Il nostro amato Toro.
Ci tengo, a queste precisazioni, malgrado possano avere un valore relativo dal punto di vista genealogico ufficiale. Ci tengo perché a Torino, nella mia bela Turin, è nato un po’ tutto, non solo l’Italia unita. Dal cinema alla radiotelevisione, dalla grande moda al caffè espresso, dall’automobile all’aeronautica. E pure il calcio.
Ma torniamo ai giorni nostri, pardon ai giorni miei. A cavallo dei due secoli scorsi e nei primi anni del Novecento, Torino gettava le basi della città industriosa e poi industriale che sarebbe diventata, nonostante fosse ancora la Torino regia, anzi regale, al di là dell’aspetto istituzionale. Madamine dai grandi abiti passeggiavano al braccio di cadetti in uniforme e spadino sotto i chilometrici e accoglienti portici del centro. Il Bicerin, i cavouriani saloni tappezzati del Caffè Fiorio in via Po, l’eleganza del Baratti & Milano, l’espresso veloce da Mulassano, un gelato da Pepino davano il senso della storia e profumavano d’Ottocento. Allora come ora. Le già forti tensioni politiche e sociali non impedivano l’eleganza, il clima festoso, il gusto della Belle Époque. Un modo di vivere vivace e misurato che solo il macello della Grande Guerra interruppe. Ma non uccise. Tornò, col fervore tipico del momento e del luogo. È in questo bozzolo che, il 15 marzo 1895, venne alla luce, crebbe e agì Enrico Eugenio Antonio Marone Cinzano. Il conte Marone Cinzano. Mio padre.

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Il grande Enrico
Cinzano fu l’ottavo presidente del Torino. Ma, al di là dei meriti sportivi, fu una grande persona non solo per qualità imprenditoriali, ma anche umane. Le prime le dimostrò alla guida dell’azienda di famiglia: mamma Paola Cinzano era l’ultima erede dell’omonima e storica fabbrica di alcolici. Le seconde, nella vita di tutti i giorni, nel suo impegno sportivo, nella partecipazione in prima persona alla lotta di Liberazione. Nel 1919 entra in azienda, si è appena congedato col grado di sottotenente dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale da volontario. Nel ’22 ne diventa vicepresidente. Apre il marchio italiano alla scena internazionale, portandolo nei più importanti Paesi del mondo. Viaggia senza sosta. L’infaticabile lavoro, però, non lo distoglie dalla passione per il calcio. Da studente, ha cominciato a frequentare il velodromo Umberto I, dove gioca il Torino FC. Conosce molti dei pionieri e crea un forte legame con due pilastri dell’epopea granata: Vittorio Pozzo e Vittorio Morelli di Popolo. Entra in società, diventa dirigente e nel 1924 rileva la presidenza da Giuseppe Bevione.
Enrico ha la scorza del vecchio torinese bogia nen, che non si scosta d’un passo dinanzi alle difficoltà, e l’agilità fulminea e audace dell’esploratore moderno, dello scopritore, del sognatore pratico. Quando diventa presidente, il Torino gioca le sue partite nel cosiddetto Campo Stupinigi, all’angolo tra corso Sebastopoli e corso Galileo Ferraris (ai margini di piazza D’Armi) e, per una stagione, al Motovelodromo. Ma il calcio sta lasciando velocemente l’era dei pionieri, cresce ogni giorno la schiera degli appassionati e dei sostenitori. Mio papà, intuitivo e tenace, ha capito da tempo che il Torino ha bisogno di una casa tutta sua, di uno stadio dove ospitare adeguatamente allenamenti, partite e, soprattutto, tifosi. Un luogo di sport e spettacolo, certo, però anche una piazza d’incontro e d’aggregazione. Sarà il Filadelfia, sarò io.
La scelta del terreno è facile: a pochi passi da dove già gioca il Torino. Periferia, anzi per lo più ancora i dintorni della città, però non ancora aperta campagna. Da una parte, non lontano, oltre la ferrovia, si erge la fabbrica Fiat del Lingotto, dall’altra ci sono gli imponenti mattoni rossi dell’Ospizio di Carità, che i torinesi chiamano Poveri Vecchi. E il viale che dalla città porta a Stupinigi, laddove si staglia la juvarriana Palazzina di Caccia dei Savoia sormontata dal cervo in bronzo, ha cominciato a ospitare ai lati qualche casetta oltre alle storiche caserme. Sono i semi della Torino che verrà. Lì, accanto a quel viale, il futuro conte Cinzano acquista il terreno e il 24 marzo 1926 presenta in Comune la richiesta di concessione edilizia per la costruzione dello stadio.
Intanto, ha le idee chiare e giuste pure sul piano sportivo. Vuole vincere. Compra tre fuoriclasse, ancora oggi tra i migliori giocatori che abbiano portato la maglia del Toro: nel 1925 Adolfo Baloncieri, Julio Libonatti e, l’anno successivo, Gino Rossetti. In granata ci sono già autentiche colonne della nostra storia: Mario Sperone, Antonio Janni, i fratelli Mosso (Eugenio, Francisco, Benito, Julio: una famiglia tutta granata), i fratelli Martin (Cesare, Piero, Dario, Edmondo: altra famiglia tutta granata), Vittorio Staccione che poi sarà seguito dal fratello Eugenio. Come quest’ultimi, molti sono già passati dal quasi neonato vivaio. I fratelli Staccione ci obbligano a una piccola deviazione. Eugenio, portiere, restò legato al Torino anche dopo le esperienze in altre squadre e tornò a lavorare in società. Drammatica la vicenda di Vittorio, centrocampista, che lasciò un segno profondo nella storia della Fiorentina: inserito nella hall of fame della Fiorentina quale miglior giocatore viola degli anni Venti e Trenta, antifascista convinto, pagò con la vita la partecipazione alla battaglia per la libertà nel campo di concentramento di Mauthausen, il 16 marzo 1945, poco prima dell’altro fratello Francesco, assieme al quale era stato arrestato a Torino nel 1944 per la sua attività politica. Lo stadio di Cremona, lo Zini, gli ha dedicato una lapide in marmo con un’opera in bronzo dello scultore Mario Coppetti, che lo vide giocare dal vivo in grigiorosso. Anche Torino, al principio del 2019, ha inserito una Pietra d’Inciampo a sua memoria davanti al domicilio di Vittorio ai tempi dell’arresto, in via San Donato 27.
I Venti e i Trenta sono anni memorabili per lo sport italiano, in cui alza la testa e stupisce la Francia con il ciclista Ottavio Bottecchia, che trionfa in due Tour consecutivi (1924 e 1925), uscendo così dalla miseria più nera per poi morire assassinato nel 1927 in circostanze mai ufficialmente chiarite, ma con grossi indizi di delitto politico. Luigi Beccali nei 1500 metri e Attilio Pavesi sulla bicicletta esaltano i paisà a Los Angeles 1932, l’Olimpiade da record per l’Italia con trentasei medaglie, dodici per ogni metallo. E il nostro sport meraviglia l’America con il gigante buono Primo Carnera, capace di strappare la cintura mondiale dei massimi a Jack Sharkey in casa sua, a Boston, nel 1933. Fino al 1936, all’ultima illusione di Berlino, annerita da Jesse Owens con nove anni di anticipo sulle bombe alleate, che incorona Ondina Valla, prima italiana d’oro alle Olimpiadi, quelle che vedranno anche il trionfo degli azzurri guidati da Vittorio Pozzo. Fino al ’36, almeno l’aria è ancora pulita, l’Italia sembra un Paese destinato a un luminoso futuro. Sembra.

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Subito competitivo
Torniamo al sorriso e all’eleganza di Enrico Marone Cinzano. Con il progetto dell’impianto sportivo e la costruzione di una squadra forte, il presidente assembla una società calcistica all’avanguardia per la metà degli anni Venti, già molto attenta alla formazione giovanile di futuri campioni e al proprio pubblico. I risultati sono immediati. Da un mediocre sesto posto, il Torino balza a un secondo nel 1925-26, Girone Nord Gruppo A (il campionato non era ancora stato unificato), a soli due punti dal Bologna qualificato per la fase finale e battuto dai granata 6-2 nell’ultima partita, giocata al Motovelodromo di corso Casale. Io sono in costruzione.
Marone Cinzano ha aperto la Società Civile del Campo Torino proprio al fine di attuare il progetto. L’area acquistata è di circa 38 mila metri quadrati e, appena ottenuto il via libera comunale, i lavori sono partiti sotto la direzione dell’ingegnere Miro Gamba, professore del prestigioso Politecnico torinese. Ad attuarli, il commendator Riccardo Filippa. «Ci siamo recati al cantiere, dove una folla di operai sta lavorando attivamente sotto la direzione dell’ideatore ingegnere Gamba. Dal corso Stupinigi si disegna già l’ossatura leggera ed elegante della tribuna coperta, capace di 1300 posti» scrive il quotidiano «La Stampa» il 26 agosto 1926.
Il nuovo campo sarà indubbiamente il più elegante e moderno d’Italia. Avrà inoltre, su gli altri […] confratelli, il vantaggio di un’invidiabile posizione. Gli spettatori della tribuna avranno dinanzi ai loro occhi il suggestivo sfondo della collina torinese, visibile per un larghissimo tratto; in lontananza si profilano l’agile guglia della Mole Antonelliana, il caratteristico Monte dei Cappuccini, la bianca Basilica di Superga: tutto quanto di più torinese e di più bello c’è a Torino. Sarà uno spettacolo per […] forestieri, i quali potranno visitare con l’occhio la nostra città, standosene comodamente seduti sulle gradinate di cemento, fasciate da scranni di legno, e assistendo contemporaneamente a un emozionante spettacolo sportivo.
L’elegante tribuna è in stile Liberty, fatta di ghisa e legno, come di legno sono le poltroncine tutte numerate: bellissima. Le gradinate invece sono di cemento armato. La mia facciata è in mattoni rossi, grandi finestre dai bianchi infissi, colonne e un lungo ballatoio con la ringhiera in ferro. Sembrava una casa: un segno del mio destino. «Il campo sportivo costerà tre milioni di lire», dice il medesimo articolo: a quanto pare si riuscì addirittura a risparmiare, visto che il primo investimento non superò i due milioni e mezzo. «II campo avrà una capacità complessiva di 15.000 spettatori […] Ma la capacità massima del campo sarà facilmente raggiunta con altre due gradinate, qualora l’affluenza del pubblico crescesse in misura così… consolante da richiedere altri posti. L’ing. Gamba ha predisposto il progetto per questa lieta e possibile probabilità: il campo allora potrà raggiungere la capacità di 25.000 spettatori». E così sarà presto: nel 1932 arriverò a contenere oltre trentamila spettatori. In cinque mesi, ero pronto.

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Si comincia!
Il 17 ottobre 1926, a pagina quattro, «La Stampa», tra «L’inaugurazione del Tennis Club allo Stadium» e «Il turno delle farmacie» diffondeva la seguente notizia di cronaca cittadina:
Il nuovo campo del Torino F.B.C.
Come abbiamo già pubblicato, oggi alle 14.30 verrà inaugurato il nuovo campo del Torino F.B.C, alla presenza del Duca d’Aosta, del Duca di Pistoia e della Principessa Adelaide, che ne sarà la madrina. Monsignor Gamba, Arcivescovo di Torino, impartirà la benedizione al nuovo campo. La Direzione del FC Torino comunica che, per gentile concessione della Divisione militare, presterà servizio la Banda dei Reali Carabinieri, che suonerà per la prima volta l’inno del «Torino», musica del maestro Consiglio. Ricordiamo che, in occasione dell’eccezionale avvenimento, è stato disposto un servizio di autobus con partenza da piazza Paleocapa.
La piazzetta gemella della Lagrange ai lati di piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione ferroviaria Porta Nuova: il centro di Torino. Servizio autobus provvidenziale e sfruttatissimo dai cittadini, che letteralmente mi assediarono. Sempre «La Stampa», sempre cronaca cittadina di pagina quattro ma il dì appresso, il titolo più grande recita: «15.000 persone all’inaugurazione del nuovo campo del Torino».
Il nuovo campo del Torino F.B.C. ha ricevuto ieri il battesimo dell’Arcivescovo Monsignor Gamba, presente una folla varia ed elegante di almeno quindicimila spettatori. Il magnifico viale di Stupinigi in un meriggio dolce di primavera, festoso di sole e d’azzurro, era percorso già prima delle 14 da una lunga teoria di automobili, che si affannavano, in un groviglio insolito e pittoresco, a trovare un tratto di strada libera. Il movimento delle macchine è stato per breve tempo addirittura fantastico, e molti sono stati gli «arresti», ma nessuno si è lamentato. L’inaugurazione del nuovo campo sportivo ha assunto così le proporzioni di un vero e proprio avvenimento cittadino. Quando, alle 14.30 annunciati da uno squillo di tromba sono giunti in automobile il Duca d’Aosta, il Duca di Pistoia e la Principessa Maria Adelaide, il nuovo campo, pittorescamente bello nella sua allegria di colori, era nereggiante di folla. Il duplice sfondo delle nostre dolci colline, ancora verdi in quest’autunno avanzato, e del massiccio delle montagne già incappucciate di neve, chiude in un cerchio panoramico sereno e giocondo il nuovo campo che era tutto uno sventolio dei gonfaloni tricolori.
Questo era il clima della mia prima volta… Un impasto ribollente di emozione, tra passione e colore, suoni e voci, cose e uomini. Sempre «La Stampa» del 18 ottobre:
Nella verde pelouse, sbucano improvvisamente dal sottopassaggio undici casacche granata: è la prima squadra del Torino, accolta, ça va sans dire, da un subisso d’applausi. Segue immediatamente l’“undici” della Fortitudo. Le due squadre s’allineano sul campo su una sola fila, rivolte alla tribuna d’onore. E qui viene la sorpresa: casacche granata continuano a sbucare sul campo; più si continua e più gli […] atleti che le vestono diventano piccini: è una scala decrescente. È una parata di […] forza del Torino, che allinea sul campo le sue squadre di giocatori. Ultima ad arrivare è quella dei biberons, di cui fa parte il figlio del dottor Laugeri che conta la bellezza di… due primavere e mezza, il piccolo footballer reca tra le mani – fatica non lieve – il pallone che dovrà servire all’incontro. Dodici sono ora le squadre in campo: undici del Torino, e quella della Fortitudo.
Lo so cosa state pensando, ed è proprio così. Sì, la mia è un’autentica vocazione: tutti quei piccoli granatini sin dal primo giorno. Allevare giovani torelli è stata una missione, probabilmente la mia più importante. Più delle vittorie e delle bolge di tifo, più degli allenamenti e di tanti provini: da me, in me, con me, si imparavano tante cose, senza accorgersene. Valori, ideali, passioni, capacità di soffrire e di superare le difficoltà, senso di appartenenza e spirito di corpo. Si imparava il Toro. Si diventava il Toro. Si era il Toro.
Le note della Marcia Reale, suonata dalla Banda dei Carabinieri, echeggiano nel campo. I giuocatori s’irrigidiscono sull’attenti, mentre nel pubblico si fa un gran silenzio. L’Arcivescovo di Torino, Monsignor Gamba, entra allora nel campo, seguito dalla Principessa e dal Principe ed accompagnato dal presidente del FC Torino, comm. Marone. Nel seguito ci sono: il generale Ferrari, gli onorevoli Italo Foschi, Olivetti, Lando Ferretti [presidente del Coni, nda], Bagnasco, il reggente la Federazione fascista Conte di Robilant, il questore comm. Chiaravalloti…
L’inutile lista è lunga. C’è incredibile silenzio.
La musica tace. Si ode distintamente la voce di Monsignor Gamba che pronuncia le frasi di rito, mentre con l’aspersorio getta l’acqua benedetta sul campo. Le due porte di giuoco sono sbarrate. Un leggero nastro tricolore le attraversa chiudendo per ora la via […] ai goals. Il compito della gentile madrina, la Principessa Maria Adelaide, è di spezzare quell’ostacolo. La Principessa, con a lato il Duca d’Aosta, e sempre seguita dalle autorità, taglia prima il nastro di una porta e poi quello dell’altra. Il campo è inaugurato. Mentre l’ultimo nastro tricolore cade a terra, la banda dei Carabinieri suona per la prima volta il nuovo inno del Torino.
S’intitola Va’, calciator!, musica di Alberto Consiglio, parole di Giuseppe Montesi, sottotitolo Alle valorose casacche granata. Ammetto una certa ironia, a cotanto sussiego, ma ogni epoca ha le sue impettite ridicolaggini. Confesso, però, pure sincera emozione: in fondo sono tutti quanti lì per me. E, giuro senza vanto, ritengo che non avessero tutti i torti, a esserci.

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“Il Piave mormorava…”

Tutto ebbe inizio nel mese di maggio /  Soldati di Terra e di Mare. L’ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l’esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire.

Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell’arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarlo. Soldati a voi la gloria di piantare il tricolore d’Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri“. Così parlò dal Gran Quartier Generale il Re d’Italia,Vittorio Emanuele III, con un discorso gonfio di retorica. Era il 24 maggio 2015, un lunedì, giorno dedicato alla Beata Vergine Maria Ausiliatrice. Erano passati dieci mesi dall’agosto del 1914 che aveva segnato l’inizio del conflitto. Il ”maggio radioso”, come viene spesso chiamato il periodo che prelude all’entrata in guerra dell’Italia, fu un mese di fermento diplomatico e di forte tensione politica. Il fervore interventista si concretizzò in manifestazioni di tutte le piazze della penisola e D’Annunzio arringava la folla e la incitava contro Giolitti, fautore della linea della neutralità. L’Italia era ormai prossima a rompere l’antico patto con Austria e Germania e a entrare in guerra a fianco dell’Intesa, secondo i piani segreti firmati a Londra il 26 aprile del 1915.

I primi fanti marciarono contro l’Austria proprio quel giorno, oltrepassando il confine, “per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera“.Iniziava così, anche per l’Italia, la “Grande guerra”. L’Italia, incurante del patto sottoscritto fin dal 1882 (Triplice Alleanza) con l’Austria-Ungheria e la Germania, decise di entrare in guerra cambiando alleanza e schierandosi con la Triplice Intesa, formata da Francia, Inghilterra e Russia. La Triplice Alleanza era un trattato di carattere puramente difensivo, che prevedeva il reciproco aiuto in caso di invasione esterna. Questa clausola permise all’Italia, visto che l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia senza avvisarla, di rimanere neutrale allo scoppio del conflitto. Dopo essersi dichiarata tale l’Italia decise successivamente di schierarsi a fianco dell’Intesa contro gli Imperi centrali (Austria-Ungheria, Germania e Impero Ottomano). La vittoria, secondo l’accordo, avrebbe garantito all’Italia il Trentino e il Sud Tirolo, con il confine al Brennero; Trieste e l’Istria fino al Quarnaro, ma senza Fiume; la Dalmazia, una sorta di protettorato sull’Albania e compensi indefiniti in caso di disgregazione dell’Impero Ottomano e di guadagni coloniali da parte inglese e francese. Il comando supremo delle operazioni venne affidato al generale Luigi Cadorna.

Tre erano le zone del teatro di guerra italiano: Trentino, Cadore e  la valle dell’Isonzo, nella Carnia. Un compito piuttosto  difficile dal momento che il confine italiano era lungo oltre 600 chilometri ed era molto vulnerabile. Il confine col Trentino era decisamente montuoso, favorevole alle posizioni austriache, lì ben fortificate, come pure in Cadore e in Carnia, dove il fronte correva lungo la displuviale delle Alpi.Diversa era la situazione sull’Isonzo: da Tolmino al mare Adriatico, le Alpi presentavano una serie di bassi altopiani, che favorivano la difesa, ma consentivano anche di attaccare in forze, aprendo la via verso obiettivi strategici di grandissimo interesse: Trieste, la pianura di Lubiana e, infine, Vienna. Delle 35 divisioni a disposizione, Cadorna decise di destinarne sei alla I° armata che si trova verso il Trentino, cinque alla IV° armata in Cadore, due al corpo d’armata della Carnia e quindici alle armate II° e III° , destinate a sferrare l’attacco decisivo da Tolmino al mare (a cui se ne aggiunsero  altre sette). Il grosso delle forze era dunque concentrato sul fronte dell’Isonzo, che diventò presto un simbolo della difficile guerra di logoramento italiana. E che, successivamente venne impresso nel fuoco con un nome tragicamente noto: Caporetto! Fatto sta che quel giorno di centotre anni fa iniziava il conflitto che sarebbe costato al mondo milioni di morti in quella l’allora pontefice , Benedetto XV, in una lettera ai “capi dei popoli belligeranti” che porta la data del 1° agosto 1917 definì “l’inutile strage”. Un’espressione la cui carica profetica risuonerà per tutto il XX secolo e che anche oggi risulta drammaticamente attuale.

Marco Travaglini

 

Sognando Venezia

Non possiamo andarci per il momento e non possiamo neanche specchiarci nell’acqua miracolosamente cristallina e pulita dei suoi canali, come abbiamo visto in televisione, sgombri da motoscafi, gondole piene di turisti, mercati galleggianti, melma e rifiuti ma, in attesa di tornarci, possiamo leggere qualche bel libro su Venezia

Uno di questi, pubblicato di recente, è “La splendida. Venezia 1499-1509”, di Alessandro Marzo Magno, Laterza. Alla fine del Quattrocento Venezia è una superpotenza europea, più o meno come oggi gli Stati Uniti o la Russia. Tutti la temono ma il suo essere tra i grandi d’Europa segna anche l’inizio della fine. Gli altri Stati italiani decidono di correre ai ripari alleandosi tra loro. Venezia sarà sconfitta dalle potenze europee della Lega di Cambrai nel 1509 e ridimensionata. La Serenissima è in lacrime, abbattuta dagli Stati europei che si sono coalizzati contro di lei.

Rischia perfino di scomparire dalla mappa geografica, sopravvive a fatica. Ma a quel punto risorge e inizia un fase di splendore che durerà tre secoli. Venezia tornerà potente e soprattutto splendente, e, come scrive l’autore, “riuscirà a mantenere un ruolo centrale nel mondo utilizzando l’arte e l’architettura e riuscirà a meravigliare con il tintinnare delle monete. La Venezia del Cinquecento è quella del mito arrivato fino a noi: la città dei palazzi di Sansovino, della celebrazione del governo perfetto e della rivoluzione del colore che influenzerà tutta la pittura successiva”. Nel grandioso decennio narrato nel libro Venezia diventa il cuore del mondo. Le storie e gli eventi che si intrecciano in pochi anni sono tanti. Da un breve soggiorno in laguna nel 1500 di un famoso Leonardo da Vinci a un giovane di belle speranze chiamato Tiziano che, lasciata la natia Pieve di Cadore, nel 1503 comincia a dipingere nella bottega dei Bellini, Gentile e Giovanni, la più importante di Venezia. Nel 1507 muore, a 78 anni, Gentile Bellini, il ritrattista della nobiltà veneziana e non solo. È autore del celebre ritratto di Maometto II, oggi esposto alla National Gallery di Londra. Il sultano lo chiama a Costantinopoli e il doge lo invia sul Bosforo dove si fermerà due anni. Un tal giorno il dipinto arriva a Venezia, non si sa come e quando, forse venduto a qualche mercante veneziano perchè il figlio e successore del Conquistatore, Bayazid II, disprezzando l’arte figurativa, aveva spedito al bazar gli oggetti preziosi del padre, quadro compreso. Sono anche gli anni in cui Gorgione dipinge la misteriosa Tempesta mentre il primo libro tascabile della storia viene pubblicato da Aldo Manuzio, il “portatile”, come lo chiamava lui. Mentre Ottaviano Petrucci stampa il primo libro musicale a caratteri mobili, il fòndaco dei tedeschi, il magazzino-locanda dei mercanti tedeschi, brucia e viene ricostruito in appena tre anni. Nel frattempo, i portoghesi circumnavigano l’Africa e interrompono il monopolio veneziano nel commercio delle spezie. Nella città lagunare risiedono Albrecht Durer e il filosofo Erasmo ma l’inizio del Cinquecento è anche il periodo veneziano di Caterina Corner, l’ex regina di Cipro, divenuta signora di Asolo che crea l’unica corte mai esistita sul territorio della Serenissima, una delle più colte del Rinascimento italiano. E poi la battaglia che rischia di cancellare la Serenissima dalla carta geografica, combattuta ad Agnadello, presso Cremona, il 14 maggio 1509, tra le forze della Lega di Cambrai e la Repubblica di Venezia con la vittoria di Luigi XII che costringe i veneziani a rinunciare alle mire espansionistiche sul resto della penisola.

Filippo Re

Abbonamento Musei: 25 anni nel segno del successo

150mila abbonati attivi, un milione di visitatori nel 2019 e, in tempi di pandemia, un forte desiderio: ripartire insieme

Martedì 21 aprile scorso, “Abbonamento Musei” ha tagliato il traguardo dei 25 anni di attività. Era infatti il 21 aprile del 1995 quando l’Associazione (già “Torino Città Capitale Europea”) veniva costituita per volontà degli assessorati alla Cultura della Città di Torino, Regione Piemonte e Provincia di Torino “con lo scopo di gestire e promuovere eventi cittadini legati alla promozione culturale”.

Dal 1998 l’Associazione ha in capo il progetto di Abbonamento Musei, diventato nel tempo- anche grazie alla continuità del sostegno dei Soci – un progetto nazionale che oggi conta 420 fra Musei e Istituzioni coinvolte, tre Regioni (Piemonte, Valle d’Aosta e Lombardia), un territorio di oltre 53mila chilometri quadrati e 150mila abbonati attivi. Nel 2019 l’Associazione ha inoltre coinvolto nella sua opera di promozione e valorizzazione del patrimonio museale e culturale un milione di visitatori. Oggi i Soci Fondatori sono la Città di Torino, Regione Piemonte e Fondazione CRT. Soci Ordinari: Regione Lombardia, Regione Autonoma Valle d’Aosta, Comune di Milano e Museo Nazionale del Risorgimento. Cinque lustri e un anniversario importante, dunque, per un’istituzione che per davvero può ormai dirsi porta d’accesso a quello che è stato definito, con il claim della fortunata campagna di comunicazione, il “museo più grande d’Italia”. E in questo senso suonano, a ragione, le parole del suo presidente Dino Berardi (presidente onorario è il Sindaco della Città di Torino, Chiara Appendino) che afferma: “Abbonamento Musei da 25 anni ha una mission: aumentare la partecipazione dei cittadini alle attività museali, portarli a scoprire e riscoprire un patrimonio infinito di bellezza. Su questi presupposti abbiamo lavorato molto, costruendo un ecosistema di relazioni tra i musei e il pubblico locale, creando occasioni di incontro che raccontassero tutto questo e lo cementassero, tra storytelling e esperienze personali. Dobbiamo un profondo ringraziamento ai Soci che hanno accompagnato l’Associazione in questo quarto di secolo, garantendo sostegno e facendo di Abbonamento Musei uno vero strumento di welfare culturale”. Strumento granitico nella forza dei suoi principi, certamente non scalfiti dalla particolarità di un momento tanto critico come quello attuale, in cui l’emergenza epidemiologica ha stravolto le nostre vite, “lasciando però intatte alcune certezze, quelle che corrispondono ai valori portanti dell’Associazione: la cultura come patrimonio comune e motore economico, l’importanza di essere una rete, l’attenzione al territorio, la comunicazione digitale”. Il nostro grande desiderio? “Ripartire insieme – conclude Berardi – nel rispetto delle regole che questa situazione ci impone, ma sempre tutti consapevoli del ruolo determinante della bellezza”. E a lui fa eco Simona Ricci, direttore dell’Associazione:“Sono convinta che il nostro pubblico di abbonati sarà tra i primi a ripartire, a ricominciare a frequentare la bellezza, l’arte, la storia e il paesaggio, perché ha scelto i musei e le istituzioni culturali, li ha scelti come occasione di svago e di conoscenza, di socialità e di scoperta, li ha scelti 4 mesi fa, un anno fa, tanti anni fa, li sceglie ogni giorno. Ripartiamo dunque ‘per’ e ‘da’ loro e trasformiamoci tutti in ambasciatori del nostro patrimonio”.
g. m.

 

Nelle foto
– Dino Berardi
– Simona Ricci

Il senso della Libertà

PAROLE ROSSE  di Roberto Placido / Questo 25 aprile 2020 lo ricorderemo a lungo. La Festa nazionale della Liberazione da settantacinque anni ci ricorda da dove nasce la Repubblica Italiana e soprattutto grazie a chi il nostro paese ha riacquistato, oltre alla dignità, la libertà e la democrazia. Per troppi anni è stata relegata, oltre ad un giorno di festa da scuola e dal lavoro, a cerimonia istituzionale ristretta ai rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni della resistenza, ai partigiani ed i loro famigliari ed a quanti, una minoranza, hanno sempre avuto una forte sensibilità democratica.

Con il passare degli anni e con la naturale e fisiologica scomparsa dei protagonisti di quello straordinario periodo è sorto il problema di tramandare la loro esperienza e valori e di coinvolgere le giovani generazioni. Periodicamente abbiamo assistito a tentativi revisionistici da parte della destra neofascista o ex fascista e da qualche storico di sinistra o presunto tale. Anche quest’anno, perdendo l’occasione di dare un segno di maturità quanto mai necessario in una situazione emergenziale da destra è arrivata la proposta di dedicare il 25 aprile alle vittime del Corona Virus. Proposta tanto irricevibile quanto idiota. L’ipocrisia porta a non avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome.

Se si fosse mantenuto lo spirito e la composizione delle forze che hanno animato le formazioni partigiane il 25 aprile sarebbe stata vissuta con una partecipazione e condivisione se non unanime, impossibile, certamente in misura decisamente maggiore. Voglio ricordare che nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e nelle formazioni partigiane c’erano rappresentanti socialisti, comunisti, cattolici democratici, liberali, repubblicani, monarchici ed azionisti. Quindi, mi riferisco specialmente ad una parte della sinistra che ha cercato di appropriarsi della “resistenza”, la Resistenza non era e non è di una parte sola, ad essa hanno partecipato, dando sostegno e copertura, operai, impiegati, contadini, civili, preti e suore e molti rappresentanti delle forze dell’ordine. Per chi fosse interessato c’è una bella pubblicazione del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri sul ruolo dei Carabinieri durante la lotta di Liberazione. Un altro elemento da confutare è quello della territorialità, si è svolta solo al nord dell’Italia. Chi lo sostiene dimentica o fa finta di dimenticare lo sbarco alleato, la “ linea gotica” e l’Italia divisa in due. Problema risolto dalla folta e numerosa, molte migliaia, presenza di meridionali nelle formazioni partigiane. Uno su tutti il comandante del CLN che liberò Torino, Pompeo Colajanni, nome di battaglia “Barbato”, siciliano, ufficiale della cavalleria. Sul ruolo e sulla partecipazione dei meridionali alla lotta di liberazione voglio ricordare il convegno organizzato dal Consiglio Regionale del Piemonte il 16 giugno 2013 al Teatro Carignano a Torino.

Per concludere su di un altro elemento, spesso riproposto, quello degli esigui numeri dei partigiani, rammento che alla lotta di Liberazione hanno contribuito sicuramente le formazioni partigiane, i molti civili, ed, non si possono dimenticare e lo sono stati per troppo tempo, i seicentomila internati militari italiani (IMI) che rifiutarono di combattere per la repubblica di Salò e preferirono i campi di concentramento pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni. Tutto questo è la storia passata e recente ma la vera particolarità, che mi ha fatto riflettere, di questo 25 aprile è l’essere tutti “prigionieri” in casa da quasi due mesi. Festeggiare la Liberazione stando chiusi in casa, segregati quasi volontariamente, un ossimoro, per combattere un nemico invisibile e quindi più subdolo, non può che fare riflettere sul senso e sul valore della libertà. E’ proprio vero che una cosa l’apprezzi molto di più quando non ce l’hai, quasi, più o ti viene a mancare. Forse è per questo senso di privazione, di mancanza, che ci sono state un numero straordinario di manifestazioni e di iniziative con una partecipazione e condivisione che ci dà la percezione tangibile di essere liberi pur essendo “prigionieri” e segregati. La libertà e la democrazia sono, insieme alla Costituzione, i più importanti dei grandi “regali” che ci hanno portato la Resistenza e la lotta di liberazione.

Giampiero Leo: “I miei cinquant’anni di 25 aprile”

“Si è appena concluso un bellissimo flashmob – svoltosi dalle 15.00 alle 16.00 – realizzato sui balconi che danno sui giardini condominiali di molte abitazioni, facenti riferimento a una grande “corte”, secondo la concezione architettonica di un tempo. La nostra “manifestazione”- molto partecipata – ha avuto come animatori e fornitori delle canzoni, una bella famigliola composta da due giovani sposi, genitori di due ragazzine – Matilde e Maddalena – simpaticissime e molto versate tanto nel ballo e nel canto, quanto nelle arti ginniche. Abbiamo iniziato con varie versioni di “Bella Ciao” e proseguito con una azzeccata scelta di canzoni resistenziali e patriottiche, per concludere – tutti noi in posa marziale – con “L’inno di Mameli” e il Silenzio”

Quest’anno avrebbe dovuto essere la mia cinquantesima partecipazione alla fiaccolata del 25 aprile. In realtà io iniziato a presenziare alle celebrazioni della liberazione nel 1969 (quando avevo 16 anni, ero il più votato tra i leaders studenteschi del mio liceo e della mia Città e rappresentavo il Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana), quindi sarebbero 51 gli anni, ma una volta sono stato assente causa malattia. Ebbene, credo che questo piccolo curriculum possa sia attestare la mia fede antifascista, quanto darmi un minimo diritto di raccontare come – a mia esperienza – è cambiato il Paese.

Gli anni intorno al ’68 erano già abbastanza roventi, ma in quel di Calabria – esattamente a Catanzaro, mentre a Reggio infuriava il “boia chi molla”- nessuno avrebbe mai messo in dubbio la piena legittimità di un cattolico democratico di agire nell’agone politico sociale. Infatti, come accennavo, nel mio liceo nelle elezioni più significative e importanti (per esempio l’invio di una delegazione di tutti gli studenti calabresi a Roma, a incontrare l’allora ministro all’istruzione Riccardo Misasi) che si svolgevano col voto plurimo, ovvero due o tre preferenze, la prima era quasi sempre per me all’unanimità, mentre le altre venivano equamente divise fra rappresentanti della sinistra e della destra. Di conseguenza, nella stragrande maggioranza dei momenti politici “ufficiali”, venivo designato io a rappresentare il Movimento. Immaginabile il mio shock, quando, trasferitomi a Torino per l’università nel 1971, scoprii che da conclamato leader “cattolico-sociale-antifascista”, ero di colpo diventato un “clerico fascista”. In quegli anni, infatti, l’università – in particolare le facoltà umanistiche – erano diventate terreno di “caccia” al “non marxista rivoluzionario”, senza alcuna eccezione per i cattolici democratici e non violenti quale ero io. Che poi tra i “rivoluzionari” abbondassero i figli di papà, sponsorizzati e coccolati da professori con giacca in kashmire e porsche (….rigorosamente parcheggiate lontano dall’università) e che io fossi uno sfigatissimo studente lavoratore immigrato dalle “Calabrie”, non cambiava minimamente l’idea che il rappresentante del “potere” e del capitalismo fossi io e non loro. Per fortuna, o forse meglio per Provvidenza, mentre in università ero pubblicamente schivato da molti (che poi, magari si scusavano in privato), incontrai i “pericolosissimi” giovani di Comunione e Liberazione che, benchè fossi terrone e democristiano, mi accolsero con semplice ma genuino affetto. Da questa amicizia nacque la mia candidatura a capolista del raggruppamento cattolico alle prime elezioni universitarie – post ’68 – nel febbraio del 1975 e a quelle comunali della Città di Torino nel giugno dello stesso anno. (eletto in entrambi i casi con un risultato giudicato incredibile da organi di stampa e commentatori politici). E delle celebrazioni del 25 aprile, cosa ne era stato? Ebbene, dal mio arrivo a Torino, nel ‘71/’72 avevo continuato a partecipare come singolo, mentre dal ’75 in poi iniziai ad andarvi come rappresentante ufficiale delle istituzioni o del partito. Intanto eravamo ormai nel pieno degli anni di piombo, ed è forse superfluo sottolineare quale fosse il contesto: un clima di odio e d’intolleranza nei nostri confronti, che si traduceva in quotidiani insulti e minacce, fino a non poche aggressioni fisiche (gli episodi a Torino e in Italia furono così numerosi che non è neanche il caso di ricordarne alcuno in particolare). Voglio citarne solo uno, non particolarmente grave, ma abbastanza emblematico della follia ideologica dominante. Nel corso di una delle annuali celebrazioni del 25 aprile, mentre mi accingevo a salire sul palco degli oratori, fui bloccato da una quarantina di esagitati – in questo caso non giovani ma almeno 40/45enni – che mi urlarono: “tu su quel palco non puoi salire perché ti conosciamo, sei democristiano e sappiamo bene che sono 30 anni che rubi!”. Indignato, ma senza scompormi, risposi loro: “è un evidente menzogna. E’ impossibile che io rubi da 30 anni, anche perché ne ho appena compiuti 22”! Quella volta andò bene, altre un po’ meno. Ora, non potendo ovviamente fare la cronaca dettagliata “di 50 anni di 25 aprile”, proseguo un po’ a volo d’uccello, evidenziando tre cose. La prima è che in qualsiasi ruolo mi trovassi, consigliere di maggioranza o di opposizione, assessore comunale o regionale, non mancai di salire sul palco degli oratori e, in qualunque condizione, prendere la parola.

La seconda è che il clima come il mare a capo Horn, poteva essere più o meno tempestoso ma mai tranquillo. Se ai tempi della D.C. ci accusavano di essere ladri e proteggere i “fascisti”(uno slogan era: “MSI fuorilegge. A morte la D.C. che lo protegge”), in epoca “berlusconiana”, fui invece più volte invitato “a lasciare l’Italia perché vi rimanessero solo i puri e i giusti”).
La terza è che, a fianco dei fatti succitati, devo riconoscere con piacere che la stragrande maggioranza dei dirigenti e dei quadri del P.C.I., del Sindacato, dell’A.N.P.I., dei movimenti giovanili di sinistra, hanno sempre considerato gradita, benvenuta e significativa la mia presenza, tant’è che Sergio Chiamparino, prima Sindaco di Torino, poi Presidente della Regione Piemonte, soleva scherzosamente dire alla partenza del corteo: “ se c’è Leo possiamo partire, altrimenti no perché saremmo incompleti!”. Così come pure sarebbe ingeneroso non ricordare quanti nella sinistra “storica”, e anche oltre, manifestarono – anche molto concretamente… – solidarietà e rispetto per le idee mie e dei miei “compagni di ventura”. Ripensando agli anni ‘72/’77 in università, come non ricordare i due grandi professori Cottino, Gastone e Amedeo, che in più occasioni “calde”, spesero la loro autorevole parola per difendere il diritto alla nostra presenza. Invece, non solo con la parola, ma anche con le azioni, a tutelare la nostra incolumità fisica – a partire dalla mia! – furono leaders della sinistra parlamentare ed extra parlamentare, quali Piero Fassino, Giorgio Ardito, Patrizio Tosetto e Stefano Della Casa (allora uno dei capi di Lotta Continua). Poi, a fianco dell’allora presidente del Consiglio regionale, Dino Sanlorenzo, partecipai anche a decine e decine di assemblee contro il terrorismo. Confortanti incoraggiamenti, ovviamente, arrivavano dalla “famiglia” a cui appartenevo. Da tante/i giovani meravigliosi e spericolati di Comunione e Liberazione, del Movimento giovani della D.C., del Ser.mig, da padri spirituali ineguagliabili come don Bernardino Reinero, don Primo Soldi e Mons. Franco Peradotto, fino a intellettuali raffinatissimi e non conformisti, (verso il pensiero dominante del tempo) come, per esempio, l’indimenticabile prof. Giorgio Lombardi e il battagliero prof. Pier Franco Quaglieni, espressione della migliore cultura laica, e non laicista d’Italia.

 

Carlin Petrini

Arrivando ad oggi ho recentemente letto una bellissima intervista a La Repubblica di Carlin Petrini. In essa esalta la festa della Liberazione e la Costituzione, come figlie legittime delle grandi culture popolari e storiche del Paese: quella socialista e comunista, quella liberale, quella cattolico democratica/democristiana, quella moderata-conservatrice.  Petrini si affianca così all’appello all’unità del Paese, magistralmente e opportunamente lanciato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un invito a superare l’epoca delle barriere ideologiche, delle prevenzioni, delle faziosità, che purtroppo ancora persistono in discrete fasce di “pasdaran”, demagoghi, populisti, intellettuali radical-schic (in questo senso rappresenta una brutta caduta di stile, l’incredibile fatwa lanciata da Saviano contro i “sedicenti cristiani”, perché fa temere che l’epoca delle scomuniche reciproche e degli inquisitori, non appartenga ancora a un passato da dimenticare). Ovviamente l’auspicio non è che spariscano le differenze. Queste ci sono e, in democrazia, è anche bene e opportuno che ci siano. L’auspicio, – per giungere a una società veramente democratica e civile – è che il “diverso da noi” non venga stigmatizzato ne ghettizzato, il concorrente politico non divenga il “nemico”, le minoranze – anche culturali e religiose – non siano percepite come un ostacolo al progresso della maggioranza, le differenti identità siano percepite non come un fastidio, ma come un arricchimento reciproco. Una società matura e tollerante, ha l’intelligenza, se non addirittura di fare sintesi, quanto meno di creare le condizioni perché culture, tradizioni, sensibilità divere, convivano armonicamente, avendo come unico riferimento ineludibile la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e, in Italia, la nostra bella Costituzione.  Grazie al cielo, anche questo “particolare” 25 aprile potrò viverlo nello spirito summenzionato. Infatti si è appena concluso un bellissimo flashmob – svoltosi dalle 15.00 alle 16.00 – realizzato sui balconi che danno sui giardini condominiali di molte abitazioni, facenti riferimento a una grande “corte”, secondo la concezione architettonica di un tempo. La nostra “manifestazione”- molto partecipata – ha avuto come animatori e fornitori delle canzoni, una bella famigliola composta da due giovani sposi, genitori di due ragazzine – Matilde e Maddalena – simpaticissime e molto versate tanto nel ballo e nel canto, quanto nelle arti ginniche. Abbiamo iniziato con varie versioni di “Bella Ciao” e proseguito con una azzeccata scelta di canzoni resistenziali e patriottiche, per concludere – tutti noi in posa marziale – con “L’inno di Mameli” e il “Silenzio”. A fare da coreografia, tante bandiere Italiane insieme a quelle Europee e a quelle per la Pace. Per trovarci in pieno lock down, non mi è sembrato niente male, ma soprattutto ho avuto la piacevole sensazione che, almeno in questa “corte”, trionfasse l’ecumenismo che a me piace tanto, ci fosse un forte spirito di unità e le differenze fra noi – sicuramente esistenti – non disturbassero nessuno. Viva l’Italia!

Giampiero Leo portavoce del Coordinamento interconfessionale del Piemonte, vice presidente del Comitato per i diritti umani della Regione Piemonte

Il 25 aprile di fronte alla storia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Sono passati 75 anni anni dalla fine della II Guerra mondiale e dalla Liberazione dal giogo nazifascista. E’ una ricorrenza della storia  che va ricordata e anche festeggiata  perché segna la fine della più terribile guerra in cui fu coinvolta l’Italia per cinque anni e fu   l’inizio di una rinascita nazionale che porterà alla Costituzione, mettendo le basi della ricostruzione. 

La Resistenza iniziata dopo l’8 settembre 1943, ma già anticipata idealmente  dagli antifascisti esiliati, incarcerati e confinati dal regime,  rappresentò un elemento importante della Guerra di Liberazione, anche se, senza il determinante apporto degli Alleati angloamericani ,il riscatto sarebbe stato  molto problematico. Fu guerra  di popolo, di volontari armati che ricorda il Risorgimento, ma anche  una guerra regolare del Regio Esercito ricostituito al Sud  che diede un contributo non solo simbolico, come per troppo tempo sostenuto.
Tra i volontari ci furono donne e uomini di tutti gli orientamenti  politici o anche di nessun schieramento come molti militari che dopo l’8 settembre non fuggirono, ma andarono in montagna a resistere al nemico tedesco.  Ci fu una Resistenza tricolore di tanti che furono, più che partigiani, dei veri patrioti. Ma quei mesi dal ‘43 al’45 rappresentarono anche, come riconobbe  lo storico antifascista Claudio Pavone ,un momento di atroce guerra civile tra Italiani che coinvolse anche dei civili inermi. Ci furono atrocità  terribili, esagerazioni, come riconobbe il presidente Giorgio a Napolitano, che non fanno onore alla Resistenza e che proseguirono anche dopo il 25 aprile. Esse non oscurano i meriti dei combattenti che si immolarono per difendere il suolo nazionale e ripristinare la libertà, ma una ricostruzione storica non può prescindere anche dagli aspetti negativi che sono insiti di per sè in una guerra civile che, di norma, da’ spazio anche a vendette personali  e crudeltà’ che non vanno sottaciute. I fascisti e i tedeschi  si macchiarono di stragi e rappresaglie  orrende che determinarono delle reazioni più che comprensibili. Certo i fascisti combatterono dalla parte sbagliata, mentre i partigiani seppero schierarsi dalla parte giusta e questo rappresenta uno spartiacque importante ma che non può giustificare tutto di per se’. Anche gli Alleati liberatori nel corso della loro campagna d’Italia si macchiarono di azioni gravi verso donne e popolazioni civili che non mettono in discussione la loro fondamentale partecipazione a liberare l’ Italia. La storia segue criteri valutativi che vanno oltre quelli etico – politici, pure importanti.
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 Poi ci fu una parte di resistenti ,abbastanza consistente ,che vide nella Resistenza l’occasione di una guerra rivoluzionaria di classe per portare anche in Italia un regime comunista. Questa parte tentò di far deviare il corso della storia ,ma non riuscì nell’intento,anzi diede qualche lezione di patriottismo ,contribuendo in modo costruttivo e decisivo  alla redazione della Carta Costituzionale.  C’è chi ha scritto  che tra le finalità della Resistenza ci sia stata anche la fondazione della Repubblica ,ma questa affermazione non è del tutto vera perché una parte significativa dei volontari della Libertà erano soldati legati al giuramento al Re come tutti i militari italiani  che combatterono come truppe regolari a fianco degli alleati. Va inoltre messa in evidenza la Resistenza nei lager tedeschi dei militari  italiani  fatti prigionieri, i cosiddetti Internati militari italiani , oltre mezzo milione di uomini con le stellette che patirono fame, freddo, angherie per rimanere anch’essi fedeli al  loro giuramento di soldati. Essi non furono meno resistenti dei partigiani, anche se il loro ruolo venne misconosciuto  per decine di anni. Infine non va enfatizzata la partecipazione popolare alla Resistenza perché ci fu un’ ampia “zona grigia“ di Italiani che fece il doppio gioco o cercò di tenersi fuori dalla vicende drammatiche che stavano vivendo. Solo alla vigilia del 25 aprile tutti, all’improvviso, diventarono antifascisti, mentre la realtà era stata ben diversa. Con questi indispensabili distinguo storici tutti gli Italiani si possono oggi ritrovare a festeggiare una data importante della storia italiana che la guerra civile ha reso divisiva  e che invece va vista in una dimensione più alta come guerra nazionale e patriottica. Anche il 14 luglio in Francia fu una data  inizialmente molto divisiva, poi via via divenne un riferimento  in cui tutti i francesi si identificano con orgoglio. Esporre il Tricolore ha il significato di vedere nel 25 aprile un elemento patriottico da cui si autoescludono i nostalgici del fascismo e i faziosi che vogliono colorare politicamente questa data in senso ideologico. Essa invece appartiene a tutti gli Italiani che amano l’Italia,  la libertà, la pace, la democrazia.
Scrivere a quaglieni@gmail.com

In memoria di Dante Di Nanni

Caro Direttore,  scrivo per testimoniare quanto mi disse mia madre, che era presente, sulla fine di Dante Di Nanni.
Sono figlio di un partigiano, decorato con Croce di Guerra, per meriti partigiani.
Mia madre, Effeta Albanese in Acchiardi, mi ha raccontato, perché era presente, come si svolsero i fatti che portarono alla fine di Dante Di Nanni: tutto vero sulla resistenza del partigiano contro fascisti e tedeschi. Vero che lo trovarono nella canna della pattumiera, ma, quando lo trovarono, Dante Di Nanni era già morto: si era sparato, per non cadere nelle mani degli aguzzini, che certamente lo avrebbero torturato, per farlo parlare. Una ultima annotazione: mentre i fascisti lo spostarono con i loro scarponi, i tedeschi gli resero il saluto militare.
Questo e tanti episodi durante l’occupazione fascista e nazista di Torino fu testimone mia madre, come moltissime altre situazioni, spensierate e drammatiche, vissute e raccontate a me.
Una memoria, a tutti coloro che sacrificarono la loro vita, per una Italia libera e democtatica.
Un saluto cordiale.
dott. Tommaso Acchiardi
Presidente GAU (Gruppo Assistenza Ustionati)
Presidente OCTOPUS (Org. Confederata tra Onlus Pazienti Ustionati)