STORIA- Pagina 125

Un’epoca e una società dentro le immagini di Carlo Bossoli

Sino al 31 gennaio prossimo, nelle sale della Fondazione Accorsi – Ometto

Un lungo secolo, che scavalca i tempi abituali. L’Ottocento. Dagli ultimi fuochi della Rivoluzione francese sino ad arrivare alla fine del primo Grande Conflitto, l’abbandono cruento dell’Ancien Régime per spingersi incontro ad un secolo nuovo e pericoloso.

Al centro le guerre d’Indipendenza, il colonialismo e le sue piaghe, l’importanza sempre maggiore della borghesia che va sostituendosi alla nobiltà, i decenni delle grandi quanto affascinanti esplorazioni, le guerre che ridisegnano gli atlanti, le scoperte messe in campo per dare un volto nuovo alla società. Non ultima la costruzione delle ferrovie, che cambiano il paesaggio e indicano un nuovo modo di viaggiare: le più antiche – la Napoli/Portici o la Milano/Monza – messe al servizio delle corti, la Torino/Genova del 1845 costruita per lo sviluppo del trasporto delle merci. Un secolo importante. Che necessita di un testimone importante, capace di farlo rivivere anche agli occhi di noi moderni, che mostri – quasi cantore di “una vita in diretta”, preciso e raffinato cronista del suo tempo – le azioni e i mutamenti che gli sono corsi attraverso.

Cronache dall’Ottocento ovvero La vita moderna nelle opere di Carlo Bossoli e nelle fotografie del suo tempo s’intitola la mostra che la Fondazione Accorsi-Ometto presenta sino al 31 gennaio 2021, fortemente voluta dal direttore Luca Mana, curata da Sergio Rebora con la collaborazione di Daniela Giordi per la sezione fotografica. Con prestiti privati e pubblici (Museo del Risorgimento e Galleria d’Arte moderna di Torino, Archivio di Stato di Torino, il Museo Vincenzo Vela di Ligornetto, il Museo del Risorgimento di Milano e i Musei Civici di Varese), sono presenti cinquanta dipinti di Bossoli (paesaggi, scorci cittadini, opere celebrative, immagini della Storia catturate quasi in istantanea) e 40 fotografie di maestri italiani e stranieri, appropriandosi la fotografia della giusta attenzione, “non più arte ma storia”, inconfutabile specchio di una società, di una vita che cambia verso la modernità, che abbraccia la città e la campagna, che testimonia il progresso e le distruzioni di una guerra, che corre in simultanea con l’azione descritta.

Proveniva da una famiglia di origine svizzera Carlo Bossoli, era nato a Lugano nel 1815 e solo cinque anni dopo aveva seguito il padre trasferitosi a Odessa, nella Russia dei Romanov, curioso e pronto di lì a pochi anni ad accrescere una formazione artistica, da autodidatta, che l’avrebbe presto visto vedutista, scenografo e autore di “cosmorami” panoramici. Poi il ritorno nel Canton Ticino, il decennale soggiorno milanese all’interno del quale visse gli eventi delle Cinque Giornate e fu onorato altresì delle numerose commissioni delle famiglie aristocratiche: e infine, nel 1853, l’arrivo a Torino. Dove trovò quella corte sabauda che gli avrebbe conferito la patente di “pittore reale di storia”, con l’incarico di raffigurare tra l’altro i luoghi delle ferrovie inaugurate in Piemonte in quegli anni, dipinti da cui fu tratta la celebre serie di litografie intitolata Views on the railway between Turin and Genoa, pubblicata a Londra, ancora nel ’53. E dove progettò la propria casa, un’abitazione con un giardino privato e uno studio dentro cui lavorare, un esempio di stile moresco andato perduto nelle proprie fisionomie (lo si può ammirare in un’opera dello stesso Bossoli del 1868 presente in mostra): ma il palazzo s’affaccia ancora oggi sul Lungo Po Diaz, sopra i Murazzi, all’altezza di via Giolitti. Morì nel 1884: e nel lungo periodo in cui operò, percorse le strade di Russia, Inghilterra, Scozia, Irlanda, Spagna e Marocco, testimoniando gli avvenimenti storici e privati che oggi queste “cronache” ci rendono.

Suddivise in cinque sezioni, un raffinato percorso che guarda alla storia e all’arte, concepito dall’allestimento di Diego Giachello, attento all’interno delle sale all’impiego dei colori e alla loro morbidezza, in pieno accordo con le opere esposte. I centri urbani disseminati lungo lo stivale, il capolavoro del Duomo palermitano e della sua piazza (del 1871) e il Canal Grande a Venezia e il torinese palazzo Coardi di Carpeneto con il suo atrio elegante e animato di personaggi, come le vaste piazze della Capitale sabauda divise tra divertimento e attività lavorative: accanto le prove fotografiche, a confronto, un allinearsi di tinte ambrate a restituirci la Torino lontana più di un secolo e mezzo fa. Le tempere su carta di Bossoli abbracciano poi i differenti momenti storici, la prima e la seconda Guerra d’Indipendenza come la difesa della Repubblica Romana del ’49, Vittorio Emanuele II a Palestro o mentre scende con i suoi ministri lo scalone di palazzo Madama in occasione dell’apertura della Quinta Legislatura, le scuderie juvariane di Venaria, felicemente riscoperte di recente, in un susseguirsi di ombre tra cavalli e stalli, colori, particolari, frammenti vivissimi, o ancora la guerra di Crimea, alla metà degli anni Cinquanta, fotografata in un primo tempo a opera di Roger Fenton, al seguito dell’esercito britannico, e poi da James Robertson (sua la Postazione d’artiglieria) e Felice Beato, due veri e propri reporter di guerra.

Il capitolo delle ferrovie testimonia l’ammodernamento del paese e soprattutto il primato dello stato sabaudo; come un’attenzione a sé merita l’esotismo, con il Bazar del 1847, l’interno del caffè di Galata e l’ampio panorama di Istanbul (l’antica Costantinopoli) del 1878 con i suoi minareti, i gruppi di personaggi nei loro abiti, le case ed i palazzi, tutti schierati come su di un palcoscenico, ben visibili in primo piano mentre le montagne e l’azzurro del cielo si perdono impalpabili in lontananza; e ancora il Marocco e l’Egitto, cui molti guardavano con curiosità, quasi un paese da sogno, tra l’antico (le immagini con le rovine di Karnak) e il moderno, all’indomani dei lavori dello stretto e del successo dell’Aida verdiana. L’ultima sezione considera, ancora in uno stretto rapporto tra tempere e materiali fotografici, le molteplici vedute di ville e giardini storici, il piacere di vivere in campagna, i luoghi della tranquillità e del piacere fuori delle città, quasi al loro riparo (il secolo precedente aveva conosciuto al riguardo le opere di Magnasco e di Bellotto), morbidi capolavori che ci raccontano tra gli altri della Villa Giulia a Bellagio, una vera e propria testimonianza per i proprietari, il ricordo di gite in barca, di passeggiate nel parco, di feste notturne o di ricevimenti pomeridiani, la descrizione esatta e ancora una volta immediata dei riti mondani di una società di cui Bossoli era testimone. Chi visiterà la mostra si soffermi davanti ai minuscoli schermi su cui scorrono “leggerissime” clip, della durata di un minuto circa, chiaramente in un canonico bianco e nero, montaggi curiosi, mobili testimonianze di un’epoca che ha ancora molto da dirci: a movimentare una mostra che qualcuno ha temuto per un attimo che fosse “noiosa”. Se ne volete scoprire l’alto tasso di vitalità, non mancate.

Elio Rabbione

 

 

Le immagini

Carlo Bossoli, “Veduta del Duomo di Palermo”, 1871, tempera su carta applicata su tela, 59 x 89 cm, coll privata, courtesy Galleria Aversa, Torino

Carlo Bossoli, “Veduta della scuderia grande di Venaria Reale”, 1853, tempera su carta applicata su tela, 55 x 77 cm, coll privata

James Robertson, “Crimea. Postazione di artiglieria al termine della battaglia”, 1856, carta salata, 259 x 200 mm, coll Marco Antonetto

Antonio Beato, Egitto, Luxor-Karnack, veduta degli obelischi nel tempio di Amon-Ra”, circa 1870, stampa all’albumina, 275 x 212 mm, coll Marco Antonetto

Carlo Bossoli, “Veduta di Istanbul”, 1878, olio su cartone, 46,5 x 76,5 cm, coll privata

Norma Cossetto e la storia libera da condizionamenti ideologici

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni  / Il fatto che a Pescara l’Anpi locale non voglia riconoscere l’intitolazione di un giardino alla Medaglia d’ oro Norma Cossetto, struprata e infoibata, appare un arretramento notevole nella ricostruzione storica che l ‘Anpi ha imboccato

 

E’ vero che in Istria e Dalmazia ci furono
violenze da parte del regime fascista e in generale da parte di Italiani, ma è altrettanto vero che la giovane studentessa Istriana Norma Cossetto con quelle violenze non c’entrava nulla
. Era una studentessa dell ‘Università di Padova vittima della selvaggia violenza dei partigiani titini. Sollevare polveroni polemici su di lei e’ di per se’ sintomo di un disturbo nella capacità di accogliere i fatti storici senza riferimenti ideologici ormai vecchi ed obsoleti. L’Anpi che offende una vittima delle foibe, non rende onore alla sua storia migliore, ma rischia di tornare al negazionismo dei vetero- comunisti. Il giorno del ricordo del 10 febbraio dovrebbe essere un punto di non ritorno . Le pagine scritte da Gianni Oliva non possono essere contestate. Sono una verità incontrovertibile. Sono stato tra i primi a scrivere di Norma Cossetto ed ebbi la possibilità di avere rapporti con sua sorella che abitava a Novara e che fu una profuga dell’esodo Giuliano- Dalmata dopo la seconda Guerra Mondiale e il trattato di pace che diede a Tito i territori italiani della Costa Adriatica orientale. Fui io a proporre per la Medaglia d’oro la Cossetto al presidente Ciampi che subito accolse la proposta. Sentire che l’Anpi si dissoci dalla intitolazione di una giardino a Norma mi addolora. Semmai bisognerebbe dire che le città italiane sono in ritardo nel ricordare l’eroica ragazza istriana.  Torino proprio non ci pensa a Norma Cossetto. Dopo la guerra l’ Università di Padova conferì la laurea honoris causa alla studentessa allieva di Concetto Marchesi, latinista insigne e comunista di spicco. All’ Anpi, prima di sminuire Norma Cossetto con la scusa di contestualizzarla,  dovrebbero studiare la storia. In ogni caso ogni violenza,  anche contestualizzata, va condannata senza equivoci e mezze verità.

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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Quell’ottobre di 40 anni fa

Ottobre di 40 anni fa a Torino. Il clima era cambiato repentinamente. Non solo il clima atmosferico.

Clima tra la città e la Fiat e tra la Fiat ed i sindacati ed anche tra i sindacati e gli operai. Capivamo che qualcosa era diverso. Precisamente intuivamo ma  non capivamo fino in fondo o, forse non volevamo ne’ potevamo capire. Distanti anni luce da quello che sarebbe accaduto e soprattutto da come e dove sarebbe accaduto.
Nessuno,  ma proprio nessuno capi’ che i cosiddetti quadri intermedi sarebbero scesi  in piazza. Giocammo la carta della solidarietà con gli operai Fiat. Solidarietà degli studenti e solidarietà di tutta l‘Italia con Torino e con i suoi cittadini. Non fu una passeggiata, molti erano contrari ad una manifestazione nazionale.

Noi avevamo la testa dura e così si parti’ per Roma per convincere i sindacati nazionali. Delegazione composta da due studentesse del liceo classico Massimo D‘Azeglio. Carolina De Donato e Anna Rossomando diventata una importante avvocato del foro di Torino e ( ora ) Vicepresidente del Senato. 2 operai: Ulderico Verniano del Lingotto e un operaio della Lancia di Chivasso. Io proposto dal mitico Passarino capo politico della Lancia che aveva montato una tenda davanti ai cancelli, vivendo difatto 24 ore il suo impegno contro i licenziamento diventato ( direi a pieno titolo ) un dirigente della Fiom torinese e regionale .
Viaggio in cuccetta. Partenza alle 22 ed arrivo a Roma alle 8. Non dormimmo e parlando tanto ognuno diceva la sua ed organizzammo la giornata successiva. E poi c’era tanta passione. In particolare Anna che , nonostante la giovane età voleva dire sempre la sua. Arrivo a Roma, colazione e poi una passeggiata fino a via della Vite sede dei Giovani Comunisti nazionali. Non faticoso perché la strada era tutta in discesa. Piazza Barberini e poi via. Breve riunione coi dirigenti nazionali e poi conferenza stampa dietro il Ministero di Grazia e Giustizia.
Trattoria di Trastevere , tipico , 40 anni fa anche a Roma si poteva mangiare con poco.

 

Pomeriggio dedicato ad incontri con i sindacati. Ritorno sempre in cuccetta per Torino. Ci eravamo riusciti:  11 ottobre manifestazione nazionale. Arrivarono da tutta Italia. Che emozione, che emozione vedere tutti quei giovani. In particolare all’inzio. 7.30: Piazza San Carlo,  un boato ci fece voltare. Da via Roma i compagni dalla Capitale  appena scesi a Porta Nuova: Compagni di Torino tenete duro. L‘attacco della Fiat non ha futuro.
Esaltante, ma avevano torto. Poi il corteo si snodo’ per via Nizza e corso Unione Sovietica fino alla Palazzina degli impiegati a Mirafiori.
Eravamo veramente in tanti, ed Anna, Carolina, Ulderico ed io orgogliosi di quello che avevamo fatto. Ci sentiamo vincenti e , perché non ammetterlo, invincibili. Ci sbagliammo, ovviamente, comunque ci stavamo provando. E comunque non avevamo altra strada da percorrere.
La botta arrivò il lunedì successivo.
Eravamo in Federazione ed arrivarono telefonate concitate: i capi Fiat erano al Teatro Nuovo per manifestare. Erano tanti.
In auto si raggiunse corso Massimo D’Azeglio giusto in tempo per vederli uscire. Corteo fino in piazza San Carlo. Non erano avvezzi ai cortei. I più vestiti da ufficio con giacca e cravatta. Qua e là cartelli improvvisati. Il messaggio era, comunque inequivocabile: Novelli Novelli fai aprire i cancelli. Non saranno stati 40mila ma erano tanti, tantissimi. Cavolacci se erano tanti. Venne poi fuori che nell’organizzare la manifestazione, la direzione Fiat promise di pagare la giornata. Non avvenne ma poco importava. Quella manifestazione diede la spallata finale e dopo 48 ore fu firmato l‘accordo. 24mila in cassa integrazione.

 

Ora col senno di poi si potrebbe dire: tanto rumore per nulla. Si tornava all’inizio con la proposta di Cesare Romiti. Eravamo basiti e tramortiti L‘accordo si fece a Roma al Ministero. Praticamente non c‘erano alternative. Dopo la firma dell’accordo Asemblea di tutti i conflitti di fabbrica Fiat. Una bolgia indescrivibile. Si capiva che la maggioranza era contraria all’accordo, anche perché la maggioranza dei possibili cassaintegrati erano delegati sindacali. L’estremismo colpi’ il giorno dopo L’ auto blindata di Pier Carniti, Segretario generale CISL che fu letteralmente distrutta e il Sindacalista messo in salvo dal servizio d’ordine del PCI. Partito che volle comprare l’auto. Diciamola in questo modo: si sentiva in colpa perché sapeva che alcuni dei suoi c’entravano.  Addirittura Giuliano Ferrara pare sia stato visto tirare pietre. L’estremismo colpiva anche un cosiddetto riformista convinto con il romano Ferrara. Anni dopo lascio’ Torino ed il Pci abbracciando il Craxismo e  dimostrando che le vie del Signore sono infinite. Indubbiamente quell’Ottobre di 40 anni fa cambio’ la Storia di Torino, d‘Italia e dell’industria a Torino e in Italia. Eravamo al settimo cielo il sabato con la manifestazione dei giovani spazzata via da quella del lunedì dei capi. Parafrasando un film di Robert De Niro Domenica a messa e lunedì all’inferno. Per Torino comincio’ il lungo declino che ha portato la Fiat a non esserci più. Con l‘attuale situazione di un preoccupante oblio.
Sicuramente è troppo presto per sperare di avere una memoria condivisa. Una cosa è certa, almeno per ora  la nostra città trova in questo oblio il dramma di non essere riuscita ad essere diversa da quella che è  stata. Quando ci si oppone, non capendoli, soprattutto non volendoli capire questi cambiamenti, si arriva a questo punto di oblio.

Patrizio Tosetto

Un ottobre di cultura ai Musei Reali

Aperture, visite straordinarie e mostre  A ottobre, un ricco programma di iniziative straordinarie permetterà di riscoprire e approfondire le collezioni dei Musei Reali, anche attraverso visite e attività speciali per adulti e ragazzi.

 

Aperture straordinarie

 

Tutti i giovedì di ottobre, dalle ore 21, il pubblico potrà partecipare alle visite guidate “Una gita a…”. Un interessante itinerario alla scoperta degli oggetti e dei siti archeologici più particolari al Museo di Antichità.

Giovedì 8 ottobre si inizia con Una gita a Industria: viaggio sul Po in età romana con Elisa Panero, curatore delle collezioni archeologiche dei Musei Reali, tra i tesori della città fluviale sacra alla dea Iside. Il percorso, della durata di circa un’ora, è visitabile in gruppi composti al massimo da 8 persone ciascuno, al costo di 5 euro oltre al biglietto di ingresso ai Musei Reali. Giovedì 8 ottobre, il Museo di Antichità e i Giardini Reali rimarranno aperti eccezionalmente dalle 19.30 alle 23.30, al costo di 5 Euro comprendente anche l’ingresso alla mostra Incēnsum.

 

Sabato 10 ottobre, dalle ore 19.30 alle ore 23.30, Palazzo Reale  la visita speciale “Tutto in una notte. Ingresso con biglietto speciale da 10 Euro, ridotto a 2 Euro dai 18 ai 25 anni, gratuito sotto i 18 a

 

Domenica 11 ottobre, dalle 10.15 alle 17.15, sarà l’occasione per visitare anche la Biblioteca Reale grazie all’iniziativa Domenica di Carta, promossa a livello nazionale dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Nel Salone monumentale sarà allestito un breve percorso espositivo, La cura di carta, dedicato al tema della cura nelle collezioni della Biblioteca e verrà esposto anche un prezioso ricettario manoscritto della fine del XIV secolo, riccamente miniato, che tramanda antiche ricette per trattare molte malattie. I visitatori riceveranno una breve brochure di presentazione della Biblioteca e delle opere esposte. L’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria almeno 24 ore prima all’indirizzo: mr-to.bibliotecareale@beniculturali.it. L’accesso è consentito in gruppi da 10 persone ogni ora, dalle 10.15 alle 17.15. A quanti non dovessero trovare posto nell’orario prescelto, sarà proposto un orario alternativo, fino ad esaurimento dei posti disponibili. La mascherina protettiva è obbligatoria e dovrà essere indossata per tutto il tempo di permanenza in Biblioteca. Per la registrazione anagrafica dovrà essere compilato il modulo alla pagina https://www.museireali.beniculturali.it/scheda-di-registrazione-anagrafica-biblioteca-reale/.

 

Visite speciali

 

Sabato 10 e domenica 11 ottobre alle ore 15 l’itinerario Benvenuto a Palazzo! è visitabile con le guide di CoopCulture, alla scoperta delle sale di rappresentanza del primo piano di Palazzo Reale, con l’Armeria e la Galleria della Sindone, per scorgere il restauro “a vista” dell’altare della Cappella. Il percorso, della durata di circa un’ora, è visitabile in gruppi composti al massimo da 8 persone ciascuno, al costo di 7 euro oltre al biglietto di ingresso ridotto ai Musei Reali. Per una visita individuale, è possibile scaricare MRT, l’app ufficiale dei Musei Reali, comprendente l’audioguida completa con oltre 35 ascolti oppure acquistare al Museum Shop la nuova guida a stampa I Musei Reali di Torino pubblicata da Allemandi Editore e realizzata in collaborazione con CoopCulture.

 

Sabato 10 e domenica 11 ottobre il percorso prosegue nelle Cucine Reali al piano interrato di Palazzo Reale e nell’Appartamento della Regina Elena, a piano terreno, alle ore 10-11-12 e 15-16-17. Le visite, della durata di un’ora, sono condotte dai volontari dell’Associazione “Amici di Palazzo Reale”. Il biglietto è acquistabile in cassa il giorno stesso al costo di 7 euro.

 

 

Attività ai Giardini Reali

 

Sabato 10 ottobre, alle ore 10, in una cornice del tutto eccezionale come quella dei Giardini Reali, sarà possibile praticare yoga con una lezione all’aria aperta della durata di un’ora. Un’occasione unica per riscoprire sé stessi, riconnettendosi con la terra e l’ambiente circostante. In caso di maltempo la lezione sarà svolta nella Sala da Ballo del secondo piano di Palazzo Reale. L’attività si terrà i primi 4 sabato di ottobre al costo di 15 euro, abbonamento di quattro lezioni 50 euro. Ultimo appuntamento sabato 24 ottobre. Per prenotazioni e informazioni, 011 19560449 o info.torino@coopculture.it.

 

 

Le mostre

 

Capa in color

Nelle Sale Chiablese, fino al 31 gennaio 2021, si potrà visitare Capa in color, la mostra monografica dedicata al fotografo di fama mondiale Robert Capa, nata da un progetto di Cynthia Young, curatrice della collezione al Centro Internazionale di Fotografia di New York. La mostra, che presenta oltre 150 immagini a colori, lettere personali e appunti dalle riviste su cui furono pubblicate, intende illustrare il particolare approccio dell’autore verso i nuovi mezzi fotografici e la sua straordinaria capacità di integrare il colore nei lavori da fotoreporter, realizzati tra gli Anni ‘40 e ‘50 del Novecento. L’esposizione è aperta dal martedì al venerdì dalle 10 alle 19, il sabato e la domenica dalle 10 alle 21 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura). I biglietti possono essere acquistati in cassa oppure online sul sito www.capaincolor.it. Prenotazioni e informazioni al numero 338 1691652 o via e-mail info@capaincolor.it.

È possibile anche prenotare percorsi e laboratori destinati alle scuole ed ideati da CoopCulture: le attività, con un occhio attento alle connessioni tra la straordinaria mostra e le collezioni dei Musei Reali, si svolgono dal martedì al sabato nella fascia oraria 9.30-10 per un accesso a mostra chiusa e in tutta sicurezza per le classi. Prenotazioni e informazioni al numero 338 1691652 o via e-mail info@capaincolor.it

 

Beyond Walls – Oltre i muri

Dopo il Champ de Mars di Parigi, le tappe di Andorra, Ginevra, Berlino, Ouagadougou e Yamoussoukro, l’artista franco-svizzero Saype ha scelto Torino come settimo sito della sua monumentale opera di Land Art ecologica dedicata alla fratellanza universale e alle connessioni tra uomini e culture. Una gigantesca catena di mani intrecciate è comparsa sui prati del giardino della Porta Palatina, dipinta con pigmenti eco-compatibili appositamente brevettati. Un messaggio di solidarietà e di fratellanza per un’opera che unisce idealmente Torino al resto del mondo. In parallelo, i Musei Reali si sono fatti sostenitori del progetto grazie alla volontà di connettere il patrimonio delle arti classiche alle espressioni artistiche contemporanee, contribuendo a realizzare uno dei più importanti interventi artistici su scala globale degli ultimi anni. Il progetto è un percorso che comprende anche la prima mostra personale dell’artista franco-svizzero al primo piano della Galleria Sabauda. Beyond Walls. Torino 2020 ricostruisce poetica, carriera e tecnica dei “Foot Murales” che hanno reso celebre Saype in tutto il mondo e sarà visitabile fino al 17 gennaio 2021 con il biglietto ordinario del museo.

Incēnsum

“Incēnsum”, l’esposizione, organizzata in collaborazione con l’Associazione culturale Per Fumum, illustra con opere che si datano a partire dal III millennio a.C., il percorso delle Vie dell’Incenso. Le fonti antiche riportano l’itinerario compiuto dalle lacrime del deserto, il frankincenso o olibano, prodotto principalmente in Oman e Yemen, che dall’antica Arabia Felix risaliva verso le terre dei Nabatei, giungendo fino al Mediterraneo, attraversando Israele o spingendosi fino ad Alessandria d’Egitto. Questo è da sempre legato alla creazione di pregiate essenze profumate che verranno ricreate lungo il percorso. La mostra conta sui prestiti del National Museum di Mascate (Sultanato dell’Oman), del Museo Egizio e del Museo d’Arte Orientale di Torino, del Museo delle Civiltà di Roma, del Museo Etnoarcheologico Castiglioni di Varese. L’esposizione, aperta fino al 10 gennaio 2021, è visitabile ogni venerdì dalle 10 alle 13, sabato e domenica dalle 14 alle 17 con ingresso compreso nel biglietto dei Musei Reali.

 

TOward2030. What are you doing?

Fino al 17 gennaio il pubblico potrà visitare l’esposizione dedicata al progetto TOward2030. What are you doing? Ideato da Lavazza e dalla Città di Torino per diffondere la cultura della sostenibilità attraverso il linguaggio della street art, il progetto ha previsto la realizzazione di 18 opere murali ispirate ai Sustainable Development Goals elaborati dall’ONU, 17 obiettivi di sviluppo sostenibile più il Goal Zero, pensato da Lavazza per divulgare gli obiettivi stessi. La mostra, curata da Roberto Mastroianni e Filippo Masino, presenta nello Spazio Confronti della Galleria Sabauda fotografie e filmati degli artisti al lavoro, mentre nel Boschetto dei Giardini Reali sono riproposti gli scatti delle 18 opere d’arte urbana presenti a Torino, oltre ai lavori di alcuni artisti dei collettivi Il Cerchio e le Gocce, Monkeys Evolution e Truly Design, realizzati durante il live painting inaugurale con il coordinamento di MurArte Torino.

 

9cento Storie. Donne che cambiano il mondo

Al Polo del ‘900, in partenza cinque settimane dedicate a cinque donne rivoluzionarie raccontate attraverso un format ibrido, tra digitale e reale

 

Giovedì 8 ottobre, primo appuntamento alla scoperta di Rosa Luxemburg: la rivoluzionaria, la teorica, la donna.  Seguono Rita Levi Montalcini, Adriana Zarri Elsa Morante, Hannah Arendt

        

@Polo del ‘900

 

Sono Rosa Luxemburg, Hannah Arendt, Elsa Morante, Adriana Zarri, Rita Levi Montalcini le protagoniste di 9cento Storie, nuovo format di approfondimento in partenza al Polo del ‘900 di Torino, a cura del Centro studi Piero Gobetti con l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, la Fondazione Vera Nocentini, la Fondazione Donat-Cattin e l’Unione Culturale Franco Antonicelli.

“Le cinque figure che verranno raccontate, anche dal lato più intimo e meno conosciuto, in un parallelismo con l’oggi, sono cinque donne che hanno rivoluzionato la politica, la scienza, la teologia, la letteratura, la filosofia. L’idea alla base di 9cento Storie è quella di riattraversare il Secolo breve dalla prospettiva dei punti di svolta, quando la storia fa un passo in avanti, attraverso le idee, le culture, i valori, le persone.”: Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti.

Per cinque settimane, dal 2 ottobre al 17 dicembre, a raccontare le protagoniste un mix di appuntamenti digitali e dal vivo. Per ciascuna donna, un video e podcast (sui canali social del Polo) anticipano una lecture serale di approfondimento con esperti e ospiti a confronto.

Prima lecture, giovedì 8 ottobre alle ore 18, dedicata a Rosa Luxemburg, oltre i tratti più noti del suo profilo da rivoluzionaria, alla scoperta della donna. Al dibattito partecipano gli storici: Monica Quirico, Marco Scavino, Federico Trocini, moderati da Marco Brunazzi, vice presidente dell’Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini.

L’evento si tiene al Polo del ‘900 su prenotazione al sito www.polodel900.it e in diretta streaming sulla pagina FB @ilpolodel900.

 

“Ebrea di origini, polacca di sentimenti, russa di cittadinanza e tedesca di acquisizione, Rosa ‘la rossa’ è anzitutto una delle figure più complesse e importanti nel panorama del socialismo internazionale a cavallo tra Otto e Novecento. Aldilà dei tratti più iconici del suo profilo di rivoluzionaria si parlerà della sua profonda umanità e femminilità, forse i tratti che più colpiscono di lei e che, a oltre un secolo dalla morte, contribuiscono a renderne la figura ancora così straordinariamente attuale e affascinante”: Federico Trocini, storico dell’Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini.

 

9cento Storie continua con gli appuntamenti su Rita Levi Montalcini “la piccola signora dalla volontà indomita e dal portamento di una principessa» come la descrive Primo Levi (21 ottobre); Adriana Zarri, la teologa, pensatrice e visionaria (5 novembre); Elsa Morante, “lo scrittore” (3 dicembre) e Anna Arendt, tra politica e filosofia (17 dicembre).

 

“Grazie alle competenze degli Enti Partner e alla contaminazione con il digitale il Polo propone un format ibrido di grande qualità da seguire in Via del Carmine, 14 o sui canali social del Polo. Ci rivolgiamo così a un pubblico più ampio per diffondere nuove chiavi di lettura legate alla vita di queste donne e continuare a trarne ispirazione per l’attualità, affrontando alcuni temi come partecipazione, lavoro, diritti, pensiero critico”: Alessandro Bollo, direttore del Polo del ‘900

9cento Storie è un progetto integrato del Polo del ‘900, a cura del Centro studi Piero Gobetti  in collaborazione con l’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, la Fondazione Vera Nocentini, la Fondazione Donat-Cattin, l’Unione Culturale Franco Antonicelli. I podcast sono realizzati in collaborazione con GRP-Giornale Radio Piemonte e con la consulenza di Valeria Dinamo e Maurizio Petroni.

 

LE PROTAGONISTE

 

Rosa Luxemburg (Zamość 1871 – Berlino 1919)

Di chi è il cadavere che nel maggio 1919 fu ritrovato nel Landwehrkanal di Berlino? È quello di Anna Matschke o quello di Rosa Luxemburg? E, in questo caso, chi è davvero Rosa Luxemburg (1871-1919)? Ebrea di origini, polacca di sentimenti, russa di cittadinanza e tedesca di acquisizione, Rosa ‘la rossa’ è anzitutto una delle figure più complesse e importanti nel panorama del socialismo internazionale a cavallo tra Otto e Novecento. Protagonista del dibattito primonovecentesco sul revisionismo, fautrice dell’internazionalismo socialista e teorica del marxismo consiliarista, Rosa Luxemburg fu non solo una pensatrice politica di altissimo profilo e un’instancabile rivoluzionaria, capace di ispirare generazioni intere di militanti socialisti, ma anche una donna sensibile e appassionata, capace di commuoversi di fronte allo sbocciare di un fiore a primavera. Aldilà dei tratti più iconici del suo profilo di rivoluzionaria, la sua profonda umanità e la sua femminilità a tutto tondo sono forse i tratti che più colpiscono di lei e che, a oltre un secolo dalla morte, contribuiscono a renderne la figura ancora così straordinariamente attuale e affascinante.

 

Rita Levi Montalcini (Torino 1909 – Roma 2012)

«La piccola signora dalla volontà indomita e dal portamento di una principessa» come la descrive Primo Levi, riceve nel 1986 all’età di 77 anni il Nobel per la medicina. Dal 1901 ad oggi si contano solo 16 Nobel assegnati alle scienziate donne su 600.

La sua opera e la sua vita rappresentano un punto di riferimento fondamentale per una società più equa, nella quale si possono superare le disuguaglianze di genere. Perseguitata perché ebrea, non rinuncia a fare ricerca, pur in condizioni precarie e ostili, e tenacemente lo farà per tutta la sua lunga esistenza, affermando il valore della conoscenza e della partecipazione.

Una donna e una scienziata che non si arrende alla mediocrità, alle difficoltà e all’abitudine, coltivando il coraggio di ribellarsi a un destino prestabilito.

Una donna che ha fatto dei suoi sogni la sua vita, lodando e affermando il valore dell’imperfezione, offrendo speranza e futuro a tante altre donne, in particolare a quelle giovani e provenienti dai paesi più svantaggiati.

 

Adriana Zarri (San Lazzaro di Savena 1919 – Strambino 2020)

Teologa, pensatrice, visionaria la Zarri è stata una vera mistica del nostro tempo, non facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua.

La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno a un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti, dagli uomini agli animali al mondo vegetale, aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa. È sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto. Le parole dell’amico teologo Giannino Piana raccontano in profondità Adriana Zarri il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia la sua originalità la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio.

 

Elsa Morante (Roma 1912 – Roma 1985)

Elsa Morante ha rappresentato un modello straordinario di donna e intellettuale. Sempre diffidente nei confronti di qualsiasi tipo di femminismo organizzato, realizzava la sua emancipazione quotidianamente senza passare per rivendicazioni esibite. La biografia e le opere della grande romanziera del ‘900 testimoniano oggi l’eccezionalità di una figura che amava essere ricordata come «lo scrittore». L’epiteto non deriva certo da un rifiuto della femminilità, anzi, Morante semplicemente avvertiva un profondo bisogno di uguaglianza e si mostrava, al tempo stesso, attratta da tutte le possibili forme di alterità. Una serie di scritture private e letterarie, edite e inedite, possono servire a comprendere appieno il valore di questa figura di donna complessa e centrale del secolo scorso.

 

Hannah Arendt (Hannover 1906 – New York 1975)

Hannah Arendt è una tra le figure di maggior rilievo della cultura del Novecento: una filosofa politica i cui principali libri (Le origini del totalitarismoLa banalità del maleVita activa) sono stati tradotti in numerosissime lingue e alla cui biografia si sono dedicati film e spettacoli teatrali. Alcune sue analisi sono diventate paradigmatiche ed entrate nel senso comune e il suo profilo ha negli ultimi anni assunto i tratti di un’icona, e in certi casi di una star. Ma Hannah Arendt è stata anzitutto una pensatrice apolide e un’intellettuale in esilio, una donna ebrea che ha vissuto le discriminazioni di un tempo che l’ha costretta a fare i conti con la natura profonda del male. Anche per questa ragione, la sua voce risuona ancora oggi come un limpido richiamo a considerare la dimensione politica dell’agire umano, la necessità di uno spazio pubblico inteso come luogo di incontro e dialogo e il valore irrinunciabile della libertà.

“Argenti preziosi” a Palazzo Madama

In mostra  “opere degli argentieri piemontesi” da inizio Settecento a fine Ottocento. Dal 2 luglio al 15 novembre

“Assaggiatore d’argento”. Mestiere improbabile o, quanto meno, bizzarro? Assolutamente, no! Niente di più concreto e impegnativo, ai tempi dell’antica corte sabauda. Di tal mestiere – mestiere di Stato !– se ne ha infatti contezza (per chi ancora ne avesse ignorato l’esistenza) in apertura della mostra“Argenti preziosi”, curata da Clelia Arnaldi di Balme e allestita (nell’ambito del progetto della Regione Piemonte “L’essenziale è Barocco”), in “Sala Atelier” di Palazzo Madama dal 2 luglio al 15 novembre.

Lì, infatti, s’apprende che già nel lontano 1476 a parlare di “assaggiatore d’argento” era un’antica normativa piemontese, successivamente ripresa e ufficializzata nel 1677 da Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, la seconda Madama Reale, madre dell’editto che ufficialmente istituì – nell’ambito delle attività dell’Università degli Orafi e Argentieri di Torino – proprio la figura (“assaggiatore”) del funzionario statale incaricato del compito assai importante di certificare con un marchio il titolo della lega, ossia la quantità di argento presente nel metallo con cui veniva realizzato ogni oggetto che usciva in allora dalle botteghe cittadine. Di quella Torino che fra inizi Settecento e per tutto l’Ottocento vantò una tradizione di maestri argentieri di assoluta eccellenza ed originalità. A darne prova è proprio la suggestiva mostra di Palazzo Madama che in esposizione vede autentiche mirabilia, selezionate dalle collezioni dello stesso Palazzo juvarriano. In una ricca panoramica che cavalca due secoli d’arte e di storia, si va così dalla comune “argenteria da tavola” (con posate, zuppiere, cioccolattiere, teiere, zuccheriere e quant’altro accanto alle piemontesissime “paiole” o tazze da puerpera dove le donne erano solite sorseggiare il primo brodo dopo il parto) agli “oggetti da arredo” più preziosi, fino agli “argenti destinati al culto”, come un “Reliquiario di San Maurizio” (1740 ca.) – che nel corso del restauro per la mostra ha rivelato la presenza del punzone con San Rocco da riferire a Giovanni Francesco Paroletto, membro di una delle più importanti famiglie di argentieri sabaudi – e il “Calice” di Giovanni Battista Boucheron, realizzato nel 1789 in memoria di Carlo Emanuele III, accanto ad alcuni “argenti ebraici” come un bel piatto per la cena durante le celebrazioni della Pasqua ebraica (Seder) e un calice per la benedizione sul vino recitata nel giorno del riposo (Kiddush). Di Giovanni Battista Boucheron (Torino, 1742 – 1815) la rassegna presenta anche grandiosi “disegni preparatori” alle opere in argento insieme a raffinati “Ritratti” degli argentieri della sua famiglia, autentica culla di generazioni di importanti maestri orfèvres. Vera chicca della mostra, la “Mazza cerimoniale” della Città di Torino, restaurata ed esposta al pubblico per la prima volta. Realizzata in argento sbalzato e cesellato, fra il 1814 ed il 1824, la Mazza veniva portata a mano dall’usciere comunale nelle occasioni ufficiali e riprende i tre progetti della prima Mazza civica eseguita da Francesco Ladatte nel 1769, con tanto di testa taurina e corona, sostituita nel 1849 da quella “turrita”, opera dell’argentiere di corte Carlo Balbino. A proseguire l’iter espositivo, sono le “armi” d’epoca con preziose decorazioni in argento, una serie di “monete” che ripercorrono la storia del Ducato di Savoia e una scelta accurata di disegni di Lorenzo Lavy (Torino, 1720 – 1789), fra i più apprezzati incisori di monete e medaglie della settecentesca Zecca torinese. In chiusura, alcune tavole dell’“Encyclopedie”, una selezione di “bastoni da passeggio” con il pomo d’argento (autentica sciccheria per gli elegantoni del tempo) e un curioso nucleo di “dorini” della seconda metà dell’Ottocento, ornamenti da acconciatura e spilloni in argento lavorato a filigrana, che madame e madamin piemontesi amavano vezzosamente appuntarsi fra trecce e capelli ai dì di festa.

Gianni Milani

“Argenti preziosi”
Palazzo Madama – Sala Atelier, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzamadamatorino.it
Fino al 15 novembre
Orari: gov. e ven. 13/20; sab. e dom. 10/19

 

Nelle foto

– Giovanni Damodé: “Paiola”, 1740-1750 ca.
– Argentiere piemontese: “Reliquiario di san Maurizio”, argento sbalzato, cesellato e inciso, 1740 ca.
– Giovanni Battista Boucheron: “Calice”, argento cesellato e inciso, argento dorato, 1789
– Manifattura torinese (Luigi Schenone): “Carabina monocanna”, 1857
– “Bastoni da passeggio”

Giacomo Puccini a Lucca, le memorie del grande maestro

Eclettico, moderno, geniale, sregolato, affascinante, questi e molti altri aggettivi non potrebbero descrivere in tutte le sue sfumature la personalità e il carattere di uno dei massimi compositori italiani: Giacomo Puccini.

Puccini nasce il 22 dicembre 1858 nella Corte San Lorenzo a Lucca, ultimo di una dinastia di compositori. La sua strada sembra già segnata: da quattro generazioni, infatti, i Puccini sono maestri di cappella del Duomo di Lucca e fino al 1799 i suoi antenati hanno lavorato per la prestigiosa Cappella Palatina del Duomo di Lucca.

 

Tuttavia, la morte prematura del padre, nel 1864 mette in ristrettezze economiche la famiglia e Puccini può iscriversi al Conservatorio di Milano soltanto grazie a una borsa di studio.Il legame con la casa natale sarà sempre molto forte per il compositore che, erede della proprietà insieme al fratello Michele, sarà costretto a venderla nel settembre 1889, a causa delle ristrettezze economiche, al cognato, ponendo tuttavia una clausola del riscatto che avrebbe consentito loro di ricomprarla.Più volte nelle sue lettere al fratello emigrato in America Giacomo rievoca il pensiero della casa natale, della casa della sua infanzia, ricordandogli di pensare “al riscatto della povera nostra casa a Lucca”. Tuttavia, sarà il compositore stesso a riuscire nell’impresa di ricomprarla nel 1894 grazie al successo di “Manon Lescaut” nel 1893.

 

La corrispondenza con il cognato negli anni precedenti al riscatto è caratterizzata da continui riferimenti alla casa e al desiderio di ritornarne proprietario, segno del legame forte con quei luoghi che erano stati testimoni dell’infanzia e dell’adolescenza del maestro.“Io tengo ai 4 muri screpolati, ai travistravati, anche alle macerie della mia casa e ti prego di non insistere oltre per ciò perché mi faresti dispiacere. Riscatterò la mia casa, di questo puoi star certo […] amo dove nacquero i miei e per tutto l’oro del mondo non recederei dal disfarmi del tetto paterno” scriveva Puccini. La casa natale, anche dopo il riscatto, continua tuttavia a essere affittata, nonostante Puccini si interessi regolarmente, con continui riferimenti nelle sue lettere, alla sua manutenzione. Puccini, nella sua vita, coltiva, grazie ai proventi derivanti dai diritti d’autore delle sue opere, due grandi passioni: le automobili e le case. Nel 1919 acquista la Torre della Tagliata, un’abitazione di origine etrusca nella Maremma, proprio vicino al mare. Successivamente se ne libera e inizia a farsi costruire una villa a Viareggio, villa che avrebbe dovuto sostituire quella di Torre del Lago e nella quale lavora alla realizzazione di Turandot.

 

Tra le mura delle sue abitazioni le note si trasformano in composizioni, animano le parole dei libretti e danno vita ai grandi personaggi delle opere che ancora oggi sono tra le più rappresentate al mondo: Manon e le sue colpe, Mimì tra rossori e consunzione, Tosca e le sue gelosie, Madama Butterfly tra coraggio e sacrificio, Minnie e l’azzardo per amore, Turandot e la sua spietata crudeltà. La storia dell’eredità del Maestro sembra uscita da un melodramma, quasi le ombre della sua vita avventurosa e sregolata si fossero allungate anche sui suoi eredi, sui suoi beni. Alla morte di Puccini il figlio Antonio eredita, insieme alle altre proprietà, anche la casa di Lucca e, dopo la sua morte l’edificio passa a sua moglie Rita Dell’Anna che, nel 1974, a coronamento di una serie di iniziative del Comune di Lucca, principalmente della costituzione della Fondazione Giacomo Puccini del 1973, la dona alla città perché venga trasformata in museo accessibile a tutti. Il Museo, allestito grazie alle donazioni di cimeli da parte della vedova di Antonio Puccini e di suo fratello Livio, viene inaugurato il 28 ottobre 1979. Nel 2004 il Museo viene chiuso per procedere a lavori di restauro complessivo e di nuovo allestimento, progetto bloccato da una sentenza del 2006 che assegna l’immobile e le sue collezioni a Simonetta Puccini, figlia naturale di Antonio.

 

Solo alla fine del 2010 la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca acquista la casa natale del compositore e delibera di affidare il Museo alla Fondazione Giacomo Puccini e di finanziare i lavori di ristrutturazione e allestimento interrotti. Il 13 settembre 2011 il Museo natale Casa Puccini riapre al pubblico, rendendo accessibili molti oggetti appartenuti al compositore. L’oggetto simbolo della casa del compositore è sicuramente il pianoforte Steinway&Sons, acquistato da Puccini nella primavera del 1901, il più importante dei suoi strumenti. Si devono a questo pianoforte le note immortali del “Nessun Dorma” e più in generale di tutta la “Turandot”, l’ultima opera del maestro lucchese, l’incompiuta. Le altre stanze ospitano mobili, cimeli, lettere, partiture, statuine, ritratti. Tutto è conservato con cura, amore e dedizione, tutto evoca la vita e le opere di un compositore molto amato in tutto il mondo per la sua straordinaria modernità e per l’incredibile passione che ogni nota continua a evocare.

Barbara Castellaro

Quando la Fiat era Torino e Torino era la Fiat

I 35 giorni alla Fiat furono eterni.

Sostanzialme definibili in due fasi diverse. Dall’11 settembre al 27 settembre. Poi fino alla firma dell’accordo che avvenne 24 ore dopo la famosa marcia dei quarantamila. Il 14 ottobre era un lunedi. Diego Novelli ha sempre sostenuto che il numero dei partecipanti era una bufala. Probabile, ma che schiaffo al sindacato e dunque a tutta la sinistra italiana  Prima dell’11 Cesare Romiti annuncio’ che la Fiat dovevava mettere in cassa integrazione 24mila operai. A Torino gli operai ed impiegati erano oltre 100mila. Torino e provincia. Rincontrai davanti ai cancelli di Lingotto Ulderico Verniano compagno di liceo. Che ci fai? “Ci lavoro”. Ci vediamo dopo ? I i turni erano 6 -14 e 14 -22. Erano ancora gli anni che potevi girare per Torino senza orologio. Da Barriera si partiva in tram apposta per Lingotto e Mirafiori.  Torino era la Fiat e la Fiat era Torino. Non ci sono Santi ….alle 14 davanti ad un panino chiesi ad Ulderico di iscriversi alla fgci.
Non solo lo fece ma ne iscrisse altri 10 in Lingotto. Capitava un po’ in tutti gli stabilimenti Fiat. I piazzali di Mirafiori erano pieni di auto. Lingotto produceva sempre meno e Rivalta non aveva mai funzionato a pieno regime. Fu un errore di Valletta che voleva replicare il progetto ( riuscito ) di Mirafiori. Al museo dell’auto c’è una edificante cartina di Torino.
Sono segnati i primi insediamenti produttivi all’inizio del 900, tra carrozzerie e aziende metalmeccaniche. I più erano diventati fornitori Fiat. Il fondatore Guovanni Agnelli aveva una tecnica: per un po’ non li pagava, poi li annetteva. A volte con lusinghe, a volte con sistemi poco ortodossi. Il Vecchio ha sempre avuto il pelo. Diverso il nipote, l‘Avvocato suo omonimo. Si era goduto la vita fino a 48 anni delegando totalmente a Vittorio Valletta. Gianni Agnelli fu probabilmente ben contento di delegare il “lavoro sporco“ a Cesare Romiti. Davanti ai cancelli Fiat si paso’ dai picchetti al blocco totale. Praticamente nulla e nessuno poteva entrare ne’uscire. Bloccato tutto compreso (ovviamente) il cosiddetto indotto fatto per maggioranza da artigiani o piccoli industriali. Al di sotto dei 15 dipendenti dove non c‘era cassa integrazione. Comunque tutta la città era con gli operai Fiat. Gli Agnelli avevano un debito morale con la città e non potevano licenziare.
Il 26 settembre arrivo’ in città Enrico Berlinguer. Prima al Lingotto e poi al comizio a Mirafiori davanti alla Palazzina degli impiegati. Moltitudine di persone.Piero Cordone e Palmiro Gonzato, ex partigiani, capi del servizio d’ordine facevano largo tra la folla. C’erano tutti i capi comunisti di Torino e, giuro, c‘ero anch io. Durante il comizio di Berlinguer arrivo’ la fatidica frase: Compagno Berlinguer, se gli operai occupano la Fiat, tu da che parte stai? Ovviamente starei dalla parte degli operai. Non fu un Berlinguer risoluto nel rispondere. Perlomeno è ciò che mi ricordo, con gli occhi dell’oggi. Nel PCI, come nel sindacato c‘erano posizioni diverse tra chi voleva trattare e chi non voleva trattare.
Enrico Berlinguer fu ” tirato per il i capelli “ma nom ci poteva essere altra risposta. Risposta che era nel DNA di ogni comunista. Gianni Agnelli ci rimase male. Buon per lui ma appunto era nella forza delle cose. Sarebbe cambiato qualcosa ? No, perché era nelle cose. Il giorno dopo la Fiat annunciò  un radicale cambiamento  di strategia. Dai licenziamenti al ritorno ai 24mila cassa integrazione universalmente. I sindacati rifiutarono. Qualcosa comunque era cambiato, non ultimo erano passati 15 giorni, momenti di stanchezza con la consapevolezza che il tutto non poteva durare in eterno. Decisamente, in quei giorni ci fu una svolta diventando preludio della fine.

Patrizio Tosetto

La memoria sospesa del Caffé Tito

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La prima volta mi ci sono imbattuto per caso, voltando sul retro del Museo di Storia nazionale, dove è conservata la preziosissima Haggadah, il più antico documento serfadita del mondo, scritto a Barcellona intorno al 1350 e portato a Sarajevo dagli ebrei in fuga dalla Spagna

 Lì , a pochi passi, tra la   ulica Zmaja od Bosne e la riva destra della Miljacka, quasi di fronte al quartiere di Grbavica che si stende sulla riva opposta del fiume, c’è il Caffè Tito. Tra pareti rosse e verdi, gli ospiti vengono accolti dall’esposizione di ogni tipo di materiale bellico: dai kalachnikov fissati alle pareti agli elmetti appesi al soffitto e usati come portalampade. Nel dehors si può stare seduti su di una cassa per munizioni di mortaio, sorseggiando un boccale di bionda e fresca Sarajevska pivara. Ci sono persino un M3-M5 Stuart, il carro armato leggero di fabbricazione americana usato nella seconda guerra mondiale. E, a fianco, un esemplare di “sIG-33” (schwere Infanteriegeschütz),un obice tedesco usato come arma di appoggio dai fanti della Wehrmacht che venne,   probabilmente, “fatto prigioniero” dai partigiani jugoslavi. Dentro è un piccolo museo. Dal busto in bronzo del leader della Jugoslavia alle sue foto incorniciate e appese ai muri: in vacanza sulle isole istriane di Brioni, mentre ispeziona le truppe, al fianco di Churchill, Che Guevara, Castro; mentre discute con JFK poco tempo prima che il presidente degli Stati Uniti fosse ucciso a Dallas. Ma anche immagini con attori famosi, da Richard Burton a Elisabeth Taylor, Sofia Loren e Gina Lollobrigida. Sul muro c’è l’orologio, fermo sull’ora e il giorno della sua morte: le tre e zero cinque del quattro maggio 1980. Girando per i locali si possono ammirare il quadro che descrive la battaglia della Neretva e la serie di suoi ritratti a carboncino, accanto a vecchie pagine di giornale incorniciate dove di parla di lui. Sul sito web, in campo rosso,scorrono frasi come queste: “Druze Tito, mi ti se kunemo”, compagno Tito,noi te lo giuriamo, “Smrt Fašizmu Sloboda Narodu “, a morte il fascismo, libertà del popolo. Strana città, Saraievo,dove si è incontrata la storia dai romani fino all’impero ottomano, mescolando origini ed etnie mentre oggi, in quest’epoca incerta s’irrigidiscono i nazionalismi. Un detto veniva un tempo ripetuto,quasi con orgoglio: sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito.

Lui, il garante della complessa unione degli slavi del sud, conservata per decenni nel mito della lotta partigiana, gelosamente difesa da est e ovest, non ha potuto assistere al crollo e alla dissoluzione del sogno jugoslavo. Nel Caffè le immagini sono statiche, fissate dal tempo come nei libri di storia mentre, a poco meno di quarant’anni dalla sua morte, la figura di Tito resta lì, sospesa nel limbo, ancora scomoda e difficile, amata e contestata. In tanti vorrebbero dimenticarla mentre altrettanti la rivendicano in un soprassalto di nostalgia. Non bisogna farsi trarre in inganno,però: nel bar, a ciò che ci circonda, quasi nessuno ci fa caso. Non c’è un fervore “titino” da parte dei clienti. Solo un paio di anziani, a quanto si racconta, vengono di tanto in tanto, comandano una rakija e mentre se la bevono lentamente ispezionano i muri quasi temessero che l’immagine di Tito potesse d’un momento all’altro dissolversi, sparire. I ragazzi invece si fermano a bere, fanno festa e quando il clima lo consente preferiscono sedersi all’aperto sotto il portico. Altri ragazzi della loro età, più o meno venticinque anni fa, percorrevano le strade di Sarajevo scandendo “Mismo Walter”, noi siamo tutti Walter,tentando di fermare la corsa pazza vero la guerra ammantata da falsi simboli etnici e religiosi che s’avvicinava minacciosa. Agitando migliaia di bandiere arcobaleno ripetevano all’infinito uno dei nomi clandestini del partigiano Tito,del comandante dell’esercito popolare che unì serbi e bosniaci, croati e macedoni nella lotta contro i nazisti.Quanti erano? Centomila? Forse anche di più. Col passare del tempo tutto cambia e oggi anche l’antifascismo è poco più di un rito e persino l’inespugnabile bunker di Tito a sud di Sarajevo è stato aperto da qualche anno alle visite dei turisti per fare cassa. “La lezione della guerra non è servita”, confidò a Paolo Rumiz un serbo, Milutin Jovanovic, studente di   Scienze politiche in Italia , nato a   Niš durante il conflitto balcanico. “Trionfa tutto ciò che lui aveva bandito: vessilli, identità regressive, fascismi”. Ormai c’è chi celebra Draza Mihajlovic, acerrimo nemico di Tito e capo dei “cetnici”, gli ultranazionalisti e filo-monarchici serbi della seconda guerra mondiale. C’è persino chi va in pellegrinaggio sulla tomba di Slobodan Milosevic, tenendo in pugno una candela accesa, a rendere omaggio a colui che ha trascinato la ex-Jugoslavia nel disastro. Ancora Milutin, a Rumiz: “Pare quello che accade in Italia con Garibaldi. Anche il nostro mito unitario è denigrato con argomenti clericali e separatisti. Accusano Tito di avere odiato i serbi e di aver voluto unire ciò che era impossibile tenere assieme”. Appunto, sei nazionalità, quattro religioni, tre alfabeti e una decina di lingue diverse. Intanto, nel locale, un uomo di mezza età, dall’aspetto distinto, allunga una mano sul busto. Sembra quasi che accarezzi il volto scolpito. Guarda me e Goran e, prima di andarsene, ci dice in serbo-croato,sottovoce: “Che tristezza!”. Scuote la testa e aggiunge un “mala tempora currunt” che capisco anch’io. Ci dicono, poi, che è un professore di latino e filosofia all’Università di Sarajevo che, di tanto in tanto e a volte senza nemmeno consumare un bicchiere d’acqua, s’aggira sconsolato tra le reliquie del locale. Pensiamo che sia bene farci un’altra birra, brindando alla speranza di tempi migliori: živeli, alla salute.

Marco Travaglini

Il “rude” Arisio testimone di una pagina di storia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Con Luigi Arisio scompare un testimone e un protagonista di una pagina di storia torinese e italiana. Era un uomo rude e un po’ incolto che veniva dal duro lavoro in fabbrica dove entrò giovanissimo dopo aver frequentato  la scuola allievi Lancia. Allora Fiat e Lancia avevano una scuola allievi che formava i giovani, così come avevano, con Valletta, il culto degli anziani. Si tratta di un mondo scomparso.

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Arisio rappresenta il testimone di un mondo che non c’è più perché la Fiat non c’ è più. Ho riletto nel corso dell’ estate la bella biografia  di Piero Bairati su Vittorio Valletta ed ho potuto ricostruire il durissimo lavoro per ricostruire dopo la guerra e creare il miracolo italiano.
Si trattava di  gente abituata a lavorare, dei gran  “ruscun” per dirla in piemontese. I sindacati, sull’onda della contestazione e e dell’autunno caldo, avevano devastato la Fiat, ricorrendo al sabotaggio interno. C’erano dipendenti che erano  contigui al terrorismo e che creavano sul posto di lavoro un clima di violenza Intollerabile.  il terrorismo stesso era entrato nel corpo dell’azienda. L’avv.Giovanni Agnelli, più abituato alla bella vita che all’ impegno alla guida dell’azienda, forse non si  era neppure accorto del clima che c’era a Mirafiori. Il mio amico operaio Salvatore Guerreri mi descrisse più volte come si stava in officina . Solo tardivamente Cesare Romiti si rese conto  di una situazione ingovernabile che incideva gravemente  sulla produzione aziendale. Il capo reparto Luigi  Arisio insieme a pochi  altri ebbe il coraggio quarant’anni fa nell’ ottobre 1980 di  promuovere la grande marcia dei quarantamila quadri ed operai  che rivendicavano il diritto di lavorare che il picchettaggio sindacale rendeva  impossibile. Furono 40 Mila “crumiri “ come dissero sprezzantemente i comunisti e la CGIL che arrivò all’idea di occupare  la Fiat sostenuta da Enrico Berlinguer in persona. Piero Fassino che fu un giovane dirigente del Pci a Mirafiori, ha ripensato onestamente a quegli anni di ferro e di fuoco. L’ex sindaco Diego  Novelli  ha di recente dileggiato, da par suo,  Romiti a cadavere caldo, sostenendo che, al massimo, i quarantamila erano quindicimila. C’ è da attendersi qualche  altra bordata dell’arzillo novantenne  per Arisio che rischio’ la sua incolumità personale per dare un segnale di cambiamento che inverti la storia della Fiat. Rischiò di essere ammazzato o gambizzato dalle Br che ancora non erano state sconfitte, Nel 1983 venne eletto deputato repubblicano e fece una legislatura senza brillare particolarmente. Lo incontravo qualche volta alle feste in Prefettura e lo vedevo impacciato, malgrado fosse diventato onorevole, Era un uomo che era rimasto semplice, che si era fatto da se’, sapendo rischiare la propria tranquillità personale e famigliare in un momento drammatico. Non entrò nella casta politica, alle elezioni successive non venne riconfermato. Resta il valore morale politico del suo coraggio civile di fronte alle pecore e agli agnelli che stavano subendo il ricatto della demagogia populista e sindacale di quegli anni. Fu un uomo coriaceo ,un piemontese duro e puro ,un esempio del valore che il vecchio Piemonte sapeva dare al lavoro. Oggi siamo  finiti nello stagno del reddito di cittadinanza, figlio lontano del marasma di quegli anni il cui il salario era una variabile indipendente dalla produttività.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com