Il senatore Saverio De Bonis vuole chiudere il museo Lombroso. Che personaggio! Persino i pentastellati non lo vogliono più nelle proprie file.
Espulso, e non per questioni politiche, bensì per una restituzione di soldi alla regione Basilicata perché li avrebbe ottenuti dichiarando il falso. A casa mia, se così è successo, sa di truffa. Eletto a Potenza con un mare di preferenze, accusa il museo che manco conosce di razzismo scientifico.
Purtroppo non è il primo, e quasi sicuramente non sarà l’ultimo. L’ignoranza al potere. Cesare Lombroso fondatore della crimilogia moderna e della medicina legale nel nostro paese. Avrà certamente detto delle cose non fondate, ma ci è invidiato da molti paesi , in particolare quelli di cultura anglosassone. E poi al sottoscritto è sempre stato simpatico. Giusto al liceo scientifico Albert Einstein. Giusto quasi 50 anni fa.
Chiaramente ero, già allora fuori linea.
Unico orizzonte possibile il Marxismo leninismo. Eppure il positivismo di Cesare lombroso mi piaceva. Questo tentativo di dare uno sbocco filosofico alle scienze. Intellettuale a tutto tondo. Dall’essere medico agli studi giuridici , per essere tra i primi antropologi. Oggi, più che mai, l’antropologia è essenziale per capire il perché siamo arrivati a questo punto. Decisamente non a caso a Cesare lombroso è stato dedicato un intero museo, in particolare sugli studi empirici da lui effettuati. L’accusa di razzismo è patetica e senza alcun fondamento. Si inserisce, difatto, su un certo revanscismo neo Borbonico. Per loro, in estrema sintesi, i Savoia sono solo imperialisti che hanno , solo con la forza , cacciato i Borboni napoletani amatissimi dal proprio popolo. Ovviamente stupidaggini e balle colossali. Come, ad esempio, la vicenda del Forte di Fenestrelle. Prima considerato un lager dove migliaia di Soldati borboni hanno orrendamente perso la vita.
Poi , lo storico Alessandro Barbero, e il mio carissimo amico Juri Bossuto, per decenni presidente dell’ente Forte di Fenestrelle, con due diverse pubblicazioni, hanno dimostrato, dati alla mano, esattamente l’opposto. Ma Barbero e Bossuto hanno una grave colpa: prima di dire studiano. Viceversa Il senatore De Bonis è orgogliosissimo della sua Ignoranza storica, vantandosene in giro.
Ultima domanda: il ministro ha l’obbligo della risposta? Ho paura di sì. In tal caso spero solo che si aggiunga del ridicolo ad una vicenda ridicola come il quella sollevata dal Senatore Saverio De Bonis.
Patrizio Tosetto
Nella foto Cesare Lombroso

Con grande onestà intellettuale ricorda la sua personale partecipazione ai cortei in cui si urlava la violenza e arriva a scrivere che nessuno di quei giovani può dirsi completamente innocente, anche se non ha mai sparato, non ha mai scagliato le molotov o i cubetti di porfido. E’ vero che hanno una qualche responsabilità morale e anche politica perchè – contrariamente a quanto è stato autorevolmente detto- non è affatto vero che non ci siano stati dei nessi tra ‘68, autunno caldo e la stagione successiva della violenza terroristica. L’ultrasinistra è nata nelle università in fiamme e nelle fabbriche in cui il sabotaggio era considerato più che legittimo legittimo. C’è stato un rapporto evidente tra la iniziale violenza verbale e il ricorso progressivo alla teorizzazione e alla pratica della violenza più o meno rivoluzionaria . Fino ad un certo punto lo stesso Pci che fu un prediletto bersaglio di certa contestazione , non ha avuto almenoper un certo tempo le idee chiare su cosa stava accadendo. Alcuni suoi iscritti finirono nelle Br. Sarebbe persino fastidioso ricordare i “compagni che sbagliano“ e le “sedicenti Br”, ma anche quelle frasi appartengono a quella storia. Mi ha stupito apprendere una vulgata ufficiale sul ‘68 che non credo corrisponda al vero. Certo non va criminalizzata la contestazione in quanto tale, ma la sua esaltazione acritica suscita qualche lecito dubbio. Non è possibile scindere il ‘68 rispetto a quanto accadde dopo perché per una parte di contestatori la militanza, ad esempio, in Lotta Continua fu una scelta naturale e scontata. Oliva ,parlando di verità etica, mette in evidenza che anche chi non ha commesso reati, ha una qualche responsabilità, una responsabilità che non si può giustificare con il giovanilismo degli anni formidabili. Aver indossato o non indossato l’eskimo fa una qualche differenza.
Chieri (Torino)
Per chi ha avuto l’opportunità – e l’onore – di scrivere su quel giornale fondato da Antonio Gramsci ( com’è capitato per diversi anni a chi scrive) sono entrambi fatti di straordinario rilievo. Positivo, il primo. Drammatico, da far venire il groppo in gola, il secondo. Gli anniversari combinano sempre storia e memoria. Nel calendario privato di ciascuno di noi a prevalere è la seconda. Nel calendario civile – quello che accompagna la vita di una nazione– prevale quasi sempre la prima.
o Hemingway: sono solo alcune delle firme che all’Unità hanno consegnato parole e testimonianze del loro tempo. Direttori, redattori, inviati e tutti gli altri giornalisti come quelli che incontrai nella redazione torinese di via Chiesa della Salute ai tempi di Andrea Liberatori come capo redattore e Antonio Monticelli, capo cronista; tipografi ,linotipisti, dattilografe; i diffusori che (tutte) le domeniche portavano nelle case il giornale e gli ispettori che, come uno dei miei maestri – il vercellese di nascita e verbanese d’adozione Bruno Salvai – , visitavano incessantemente le edicole per garantirne la miglior diffusione. E’ un patrimonio di storie e vicende umane che sarebbe un eresia disperdere. La storia di un giornale – di ogni giornale – è come una tessera del mosaico nella storia di un Paese. A quella tessera che porta il nome ( “puro e semplice”) de L’Unità i democratici, i progressisti e la sinistra italiana sono legati da un affetto e una passione civile profondi. Se è vero, parafrasando quella canzone del capolavoro disneyano “Cenerentola”, “che i sogni son desideri”, per quanto difficilmente realizzabile mi piacerebbe trovare ancora tra i giornali in edicola ancora L’Unità, il “mio” giornale.

Alla base di tutto, prima ancora del progetto, c’è il sogno di una famiglia, quella di Luca Veronelli e di Elsa Panini, che da sempre condividono un desiderio comune: vivere e lavorare a contatto con la natura, in un contesto che abbia quel gusto del vissuto che dona a tutto un sapore diverso. Luca Veronelli, classe 1966, proveniente da una famiglia di imprenditori, consulente aziendale, appassionato di giornalismo e di teatro. “Enogastronomia, antichità e desiderio di benessere, in attesa che un giorno, ad apprezzare questo progetto di vita – e non di puro investimento – ci saranno i nostri eredi”. Elsa Panini, anch’essa proveniente da una famiglia di imprenditori, biologa per formazione e cuoca per passione, con un passato nel controllo qualità, è a capo della Scuola di Cucina, a cui è affidato il compito di portare il concetto della sana alimentazione al di là delle mura, grazie ai corsi aperti a tutti, che animeranno il palinsesto durante l’anno. “Il nostro è un vero e proprio progetto di vita, più che di lavoro, che mi ha permesso di apprezzare ancora di più il valore della bellezza e delle cose fatte bene e con amore. È un sogno che si realizza, fatto di amore e mattoni vecchi di mille anni, benessere e cibo”.
Sei saranno le stanze dove gli ospiti potranno accomodarsi e vivere l’esperienza della Rocca di Arignano. Riposare in questi ambienti, che non hanno avuto abitanti per secoli, guardare da quelle finestre, che per 700 anni sono rimaste serrate, sembra impossibile. In ogni camera l’equilibrio dei materiali è affidato ai mattoni che rivestono le generose altezze, ai materiali di recupero, alle vecchie ceramiche, al legno, ai velluti, ai portoni borchiati che sanno di storia, al ferro grezzo, alla lana cotta e al lino dei tessuti. Il linguaggio è lontano e contemporaneo allo stesso tempo. Fiori all’occhiello della struttura sono la suite della Camera della Guardia con accesso privato, che prende il nome proprio dalla sentinella che qui riposava al termine della ronda, e la Camera della Trinità, la suite a doppia altezza con vasca idromassaggio, che culmina con il terrazzo privato che si trova a 30 metri di altezza. Da qui si può godere di un panorama che lascia senza fiato, fatto di dolci colline, di borghi e di natura. E che presto si potrà ammirare da altre nove stanze.
A firmare la carta del Ristorante La Locanda della Rocca, lo chef 1 Stella Michelin di Guido Ristorante, Ugo Alciati. Chiamato a coordinare il progetto ristorativo, ha scelto come executive chef Fabio Sgrò, dopo aver instaurato con lui un rapporto umano prima ancora che lavorativo. “Pur non avendo mai lavorato fianco a fianco con Fabio, sono certo che si rivelerà la persona giusta per questo progetto, è un condensato di esperienze di spessore in ristoranti di livello, anche a livello internazionale”. La filosofia di cucina è stata costruita a 4 mani, grazie a studi che arrivano fino all’epoca medievale, portati a termine attraverso libri e ricettari. Il risultato è una proposta culinaria singolare: da un lato in grado di richiamare gli usi di un tempo e dall’altro la contemporaneità. Locale, stagionale ed etica sono le tre caratteristiche imprescindibili per la selezione delle materie prime, al fine di creare una linea di continuità con il territorio e in sintonia con il panorama naturale. La presenza dello chef Alciati alla Rocca sarà contingentata a lezioni di cucina, nella Scuola, orchestrata dalla Direttrice Creativa Elsa Panini, a eventi eno-gastronomici e a occasioni speciali.