15 ottobre 1967, muore a Torino Gigi Meroni.
Il George Best italiano; il talento che scompare a 24 anni in un tragico incidente attraversando una strada del capoluogo subalpino in una uggiosa domenica d’autunno, l’ormai famoso Corso Re Umberto; il calciatore che infiammava le folle con i suoi dribbling, le sue follie creative, la sua capacità di ridicolizzare l’avversario senza mai infierire come capitava ad un altro mito del calcio argentino e juventino, Omar Sivori. No, Gigi Meroni si limitava a giocare al calcio. Ma, soprattutto, è stato un inventore del calcio. Un anticipatore del calcio moderno. E un anticipatore dei tempi. Meroni che gioca pochissimo in Nazionale per i capelli lunghi la barba lunga; Meroni che convive con una donna già sposata; Meroni che rinuncia al trasferimento alla Juventus – richiesto fortemente dall’Avvocato Gianni Agnelli che, non a caso, ha sempre visto lontano, anche nel calcio – e rimane il leader indiscusso della compagine granata; Meroni che, con il suo stile di vita e la sua visione del calcio, resta un anticipatore dei tempi che si apriranno ufficialmente solo l’anno successivo la sua scomparsa, nel 1968.
Certo, Meroni a 54 anni dalla sua scomparsa resta non solo un “mito” granata come lo sono rimasti i “ragazzi di Superga” ma rimane anche un’icona del calcio italiano ed europeo. La sua tragica e paradossale scomparsa in una sera dopo una bella vittoria contro la Sampdoria al Comunale per 4-2 e in attesa del derby poi vinto 4-0 con tre gol del suo grande amico Nestor Combin la domenica dopo la sua scomparsa. E la conferma della sua unicità e singolarità di personaggio arriva dalla vasta e copiosa pubblicistica su Gigi Meroni, sul suo estro e sul suo innato anticonformismo. Nel calcio come nella vita di tutti i giorni. Viveva in quella famosa mansarda di Piazza Vittorio a Torino, guidava una Balilla nera e attrezzata in modo artistico e inconsueto, dipingeva ritratti ed è stato giudicato un raffinato pittore. E, in ultimo, tratteggiava i suoi abiti che poi li faceva costruire su misura dal suo amico sarto personale.
Insomma, la “farfalla granata” è stato un figlio dei suoi tempi, indubbiamente. Ma Gigi Meroni è destinato a rimanere nella memoria collettiva dell’universo granata e del calcio italiano anche perchè, a cominciare proprio dal calcio, ha anticipato tutti i tempi. A livello sportivo, culturale, politico, sociale e calcistico. Certo, Meroni è stato fortemente contestato dal “politicamente corretto” dell’epoca e da quasi tutto il circo mediatico degli anni che l’ha visto protagonista: i famosi anni ‘60. E la conferma arriva anche dalla sua presenza saltuaria e precaria nella Nazionale – per la lunghezza dei capelli certamente ma non solo, come ovvio – e dalla considerazione concreta di molte altre società blasonate dell’epoca. Ma Meroni era ormai diventato un punto di riferimento nel calcio italiano e quando saliva i gradini degli spogliatoi per entrare in campo la sua presenza, e il suo estro, erano al centro delle opposte tifoserie. Per la gioia dei granata e per la sofferenza degli avversari.
In ultimo, ma non per ordine di importanza, nel mosaico triste, tragico ma anche entusiasmante e vivace del mondo granata, Gigi Meroni continua a rivestire un ruolo del tutto particolare. Sì, un campione a volte incompreso e, purtroppo, calcisticamente non pienamente realizzato per la tragica scomparsa ma anche, e soprattutto, una persona che ha segnato profondamente la sua epoca anticipando quella rivolta sociale e quella rivoluzione dei costumi che avrebbe caratterizzato il nostro paese di lì a poco. Per questo Gigi Meroni resta nei cuori granata e nella leggenda del calcio italiano.
Giorgio Merlo
“Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy”, atto secondo. Mentre prosegue, infatti, fino al prossimo 7 novembre, al “Museo Diocesano” di Susa la prima tappa piemontese della mostra dedicata a de Lonhy (e curata da Vittorio Natale), il testimone passa ora a Torino, dove nella “Sala Senato” di Palazzo Madama e sotto lo stesso titolo sono raccolte (fino al 9 gennaio del 2022) 35 opere dell’artista di Borgogna, arrivate da prestigiosi prestiti nazionali ed internazionali, pubblici e privati, alcune mai esposte al pubblico. Curata da Simone Baiocco e Simonetta Castronovo, anche la rassegna torinese (sponsorizzata da “Reale Mutua”) si inserisce nel progetto nato nell’ambito del “Réseau européen des musées d’art médiéval”, una rete di musei europei fondata nel 2011 da Élisabeth Taburet-Delahaye, già direttrice del “Musée de Cluny – Musée National du Moyen Âge” di Parigi, per promuovere iniziative espositive comuni, ricerche condivise, convegni e conferenze sul proprio patrimonio artistico. Obiettivo della mostra subalpina, quello di “ricomporre” la visione artistica estremamente poliedrica di Antoine de Lonhy – pittore, ma anche miniatore, maestro vetraio, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinario per il rinnovamento del panorama figurativo di quello che è oggi il territorio piemontese, nella seconda metà del Quattrocento. Originario di Autun, in Borgogna, e formatosi alla scuola della pittura fiamminga, fra i vari Jan van Eych ed i Rogier van der Weyden, l’artista visse e lavorò in tre Paesi diversi, intrecciando il “fare” dell’originaria cultura nordica a quella mediterranea e savoiarda, divenendo “portatore – dicono i curatori della rassegna – di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzato dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi”.
Sconvolto dalla violenza delle Crociate abbandonò le terre d’oltremare dove si combatteva duramente contro gli arabi e, tornato in Italia, passò il resto della sua esistenza a lavorare nell’ospedale della Commenda di San Giovanni di Prè, di fronte al porto antico di Genova. Pochi sanno chi è costui: l’8 ottobre veniva commemorato dove nacque, a Castellazzo Bormida nell’alessandrino, pare nel 1148, ma oggi nel suo paese natale non si fa più nulla per ricordarlo mentre il 19 ottobre viene festeggiato a Genova con una solenne cerimonia nella splendida chiesa dei crociati, san Giovanni Evangelista, dove è sepolto, a pochi metri dalla stazione Principe, anche se da due anni tutto è sospeso a causa del Covid. Correva l’anno 1187 e da Genova salpavano i cavalieri della Terza crociata: destinazione Terrasanta, obiettivo la riconquista di Gerusalemme. Sulle galee, stipate di uomini armati, c’era anche Ugo Canefri. Partì anche lui per il Levante crociato e musulmano ma la sua avventura durò poco. Prese parte alla spedizione militare agli ordini del marchese Corrado del Monferrato, una delle più grandi figure della storia delle crociate, e al vercellese Guala Bicchieri. Ma qui accadde qualcosa che gli farà cambiare vita.
Varcare la soglia della Commenda di San Giovanni di Prè, oggi museo e sede di mostre, è come fare un salto nella storia e nell’atmosfera delle Crociate: è stato ricreato l’ospedale dei pellegrini e alcuni attori danno vita in video ai principali personaggi legati alla Commenda e ai protagonisti delle crociate, cristiani e musulmani. La Commenda di San Giovanni è un complesso di edifici, risalente al 1180, che comprende due chiese in stile romanico, sovrapposte l’una all’altra, e un fabbricato a tre piani (la Commenda) con il convento, il ricovero per i pellegrini e i malati e gli alloggi dei Cavalieri. Tutto ciò fa parte del museo mentre la chiesa superiore di San Giovanni Evangelista è ancora oggi un luogo di culto, con regolari funzioni nei giorni festivi, ed è qui che si svolge la celebrazione annuale per Ugo Canefri. La Commenda è attualmente chiusa per i lavori di allestimento del Museo nazionale dell’emigrazione italiana.