STORIA- Pagina 11

Chi era davvero Enrico Mattei?

 

“Nel luglio del 1987, dopo un colloquio con Mario Ronchi alla cascina Albaredo di Bascapè, raggiungo il breve prato della notte del 27 ottobre.

C’è una lapide sul terreno, in memoria di Mattei, Bertuzzi, McHale. All’intorno, tanti alberi e una fitta siepe. In un angolo, un cancello bianco, chiuso. Di quando in quando il silenzio è rotto dal rombo di un aereo che passa basso scendendo su Linate”. Con queste parole Italo Pietra concludeva il suo libro ‘Mattei La pecora nera’ il libro dedicato ad Enrico Mattei, uno dei più geniali ed autorevoli figli dell’Italia del Novecento, partito dalle Marche come operaio e giunto alla presidenza dell’Eni, la sua creatura, dopo aver salvato l’Agip dalla liquidazione cui era condannata alla fine della seconda guerra mondiale, considerata un inutile residuato del regime fascista. La sua vita ebbe termine, come tutti sanno, il 27 ottobre del 1962 mentre rientrava da una due giorni in Sicilia, di cui molto di è detto e scritto. Il Morane-Saulnier mentre era in fase di avvicinamento a Linate cadde e con lui morirono il pilota Irnerio Bertuzzi, asso dell’aviazione della Repubblica Sociale ed il giornalista americano William McHale, della testata Time-Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Il testo di Italo Pietra, già comandante partigiano nell’Oltrerpo Pavese e direttore de ‘Il Giorno’, quotidiano voluto da Mattei, dal 1960 al 1972 è una delle pietre miliari, anche se datato, dei lavori a lui dedicati. L’aereo cadde in territorio del comune di Bascapè, piccolo centro della Provincia di Pavia incuneato tra i territori di quelle di Milano e di Lodi.

Qui si trova l’area commemorativa dei 3 scomparsi in quello che all’epoca venne classificato come un incidente ma che oggi la caparbia tenacia di un magistrato, l’ex procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, può ragionevolmente fare ritenere un attentato. Il magistrato ha riassunto i risultati degli anni di lunghe indagini e ricostruzioni giudiziarie in un testo che vale davvero la pena di leggere: ‘Il caso Mattei. Le prove dell’omicidio del presidente dell’Eni dopo bugie, depistaggi e manipolazioni della verità’. Oggi, anche a distanza di oltre trent’anni dalla descrizione che diede Italo Pietra l’area di Bascapè non è molto dissimile. Al suo esterno dei cartelli posti ‘a ricordo del fondatore di Eni nel luogo in cui perse la vita’ spiegano sinteticamente chi era e all’interno una lapide, offuscata dal tempo, ricorda i tre scomparsi nel tragico incidente. Chissà se verrà data una ripulita il prossimo anno, visto che sono ormai sessanta gli anni dell’evento. Il luogo, posto in campagna, sembra quasi immerso in un silenzio irreale, quasi angoscioso, quasi a perpetuo ricordo di  quanto accadde quella notte. Ma chi era veramente Enrico Mattei ?  Un Uomo che vedeva molto al di là del tempo in cui viveva, che sapeva creare lavoro ed assicurare al lavoro italiano energia a buon mercato, un Uomo che capiva i tempi, che capiva che il mondo stava cambiando, che sicuramente non si faceva troppi scrupoli per arrivare agli obiettivi che si prefissava, ma che sognava un’Italia aperta al mondo. Forse la definizione sentita in un bar di Bascapè è quella che gli si cuce maggiormente addosso: “Era un grande italiano, un patriota, un partigiano’. E la sua opera andrebbe studiata maggiormente nelle scuole perché è comunque un pezzo di storia dell’Italia odierna.

Massimo Iaretti

I 300 uomini dello Chaberton

Sospesi a 3130 metri di altitudine, nel silenzio più totale, i 300 uomini della 515esima batteria dello Chaberton ascoltano via radio le parole di Mussolini provenienti dal balcone di piazza Venezia a Roma: “…la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna..”.

Era il 10 giugno 1940. La guerra con i francesi si avvicina, sono attimi di grande tensione e incertezza. Al forte Chaberton, fra il valico del Monginevro e il Colle del Sestriere, tra l’alta Val Susa e la valle di Briancon, a strapiombo sui paesi di Cesana e Claviere, la guarnigione è comandata dal giovane capitano Spartaco Bevilacqua mentre sul versante opposto i mortai francesi sono pronti ad aprire il fuoco per distruggere l’odiato Chaberton. Fa freddo lassù e la nebbia è fitta. I primi giorni trascorrono in una relativa calma interrotta solo da scariche di fucileria e di armi automatiche. I cannoni del forte aprirono il fuoco alcune volte verso obiettivi militari francesi ma con scarso successo. Nella notte tra il 13 e il 14 giugno suonò l’allarme per l’arrivo di alcuni aerei nemici che sorvolarono il forte e raggiunsero Torino che verrà pesantemente bombardata. Nei giorni successivi il nostro presidio militare assistette a duelli di artiglieria a distanza tra il forte italiano Jafferau, sopra Bardonecchia e il forte francese de l’Olive. Niente di più, l’artiglieria francese, per il momento, ignorò lo Chaberton e si concentrò contro la fanteria italiana in valle. Ma il 21 giugno fu una giornata drammatica: un inferno di fuoco si scatenò ai 3130 metri del monte Chaberton. L’imponente figura della montagna fu teatro di una delle tante battaglie della II Guerra mondiale. I francesi decisero di fare sul serio: l’ordine impartito ai comandi militari fu di demolire lo Chaberton. I mortai francesi cominciarono a martellare la vetta distruggendo sei delle otto torri del forte e la stessa teleferica, nove uomini dello Chaberton morirono sotto le bombe, una cinquantina tra ustionati e feriti, di cui alcuni gravi e notevoli furono i danni alle strutture.
Ci fu poca gloria per il forte alpino più alto e più famoso d’Europa costruito a fine Ottocento, ai tempi di Umberto I, proprio per la sua notevole importanza strategica, una fortificazione nota come la batteria dello Chaberton. Costituiva una grave minaccia per il fondovalle e in particolare per la conca di Briancon e quindi i francesi non vedevano l’ora di metterlo fuori uso. Ma restò sempre una postazione militare di assoluta rilevanza a tal punto che lo stesso De Gaulle nel 1947 pretese e ottenne la vecchia fortezza. In quel momento il monte Chaberton passò alla Francia, nel territorio del comune di Nevache. Le rovine della batteria sono visitabili ma bisogna pur sempre arrivare fino in vetta dove è possibile osservare non solo i resti delle torri ma anche le gallerie sotto il forte che si snodano per centinaia di metri nelle viscere della montagna. È quindi necessario attrezzarsi in maniera adeguata e informarsi bene prima di partire. Il monte è diventato una classica meta per escursionisti e scialpinisti. Il forte è raggiungibile a piedi o in mountain bike percorrendo la vecchia strada militare da Fenils (frazione di Cesana) o, a piedi, partendo dal paese di Claviere. Non solo vediamo chiaramente il monte salendo in auto in alta Valle di Susa, lassù ad oltre tremila metri, con quella cima dentellata dalle torri della fortezza ma, ogni volta che lo guardiamo, ci domandiamo a cosa serviva e se è servito a qualcosa a quell’altitudine il forte Chaberton. Per saperne di più si può leggere il sempre attuale libro “Distruggete lo Chaberton!” scritto dal colonnello di artiglieria Edoardo Castellano, edizioni Il Capitello, Torino. Un vecchio libro assai utile per scoprire i segreti militari dello Chaberton nel quale la tragica giornata del 21 giugno 1940 è documentata nei minimi particolari dall’autore, ufficiale di artiglieria e gran conoscitore della montagna. Un volume che ci parla di cannoni, di traiettorie, di mortai, di guerra, di sangue e soprattutto di 300 valorosi soldati e del loro forte.
 Filippo Re

Quaglieni presenta “Matteotti” a Bardonecchia

Mercoledì 14 agosto alle ore 17,30 nel Foyer del Palazzo delle Feste di Bardonecchia (piazza Valle Stretta 1) verrà presentato il libro che lo storico Pier  Franco Quaglieni ha curato, dotandolo di un suo importante  saggio storico che sta facendo molto discutere, su Giacomo Matteotti nel centenario del suo assassinio (1924 – 2024), edizioni Pedrini. Oltre al suddetto saggio dal titolo “Matteotti fra contemporaneità e storia”, la pubblicazione contiene il discorso di Matteotti alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 in cui egli denunciava i brogli perpetrati dai fascisti per vincere le elezioni dell’aprile 1924;  un inedito di Mario Soldati, il saggio che Piero Gobetti scrisse e pubblicò con la sua Casa Editrice all’indomani del delitto commesso il 10 giugno e scoperto il 16 agosto 1924, ed un ricco apparato iconografico sulla vita di Matteotti. Il saggio  di  Quaglieni è un lavoro fortemente innovativo su Matteotti, che propone una lettura storiografica lontana dalle banalizzazioni che hanno caratterizzato lo studio della figura politica di Matteotti nel passato. Interverrà Edoardo Massimo Fiammotto. Ingresso libero. L’iniziativa rientra nel calendario delle manifestazioni estive promosse dal Comune di Bardonecchia.

Torino e le sue mummie: il Museo egizio

 

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticci ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

4. Torino e le sue mummie: il Museo Egizio

Con oltre 850.000 visitatori all’anno, il Museo Egizio è un inopinabile punto di riferimento nel panorama culturale e scientifico, non solo del territorio ma anche a livello internazionale.
Al di là della sua notorietà, il primato museale è quello di essere il primo museo del mondo interamente dedicato alla civiltà nilotica.
La collezione affonda le sue radici nel lontano Seicento, quando Carlo Emanuele I di Savoia entra in possesso della Mensa isiaca, una minuziosa tavoletta in bronzo di epoca romana, nota anche come Tavola bembina” – perché originariamente di proprietà del Cardinal Bembo- preziosamente intarsiata in bronzo e metalli, raffigurante figure e geroglifici a imitazione di quelli egizi.
Il reperto suscita grande interesse tra gli studiosi dellepoca, che iniziano ad appassionarsi a quella parte di mondo, dove in effetti si sviluppano le prime civiltà che tuttoggi studiamo con fascinazione e meticolosità. Accade così che tra il 1759 e il 1762, Vitaliano Donati venga incaricato di recarsi in Egitto per effettuare una serie di scavi, da cui emergono diversi reperti di straordinaria bellezza, tuttavia sarà necessario attendere le campagne napoleoniche prima che la moda dellegittologiadilaghi in Europa, soprattutto grazie alle scoperte di Bernardino Drovetti, collezionista piemontese, allora diplomatico al servizio della Francia, a cui si deve la raccolta di ben 8.000 reperti.
Nonostante tale motivazione pare comunque strano che proprio qui, ai piedi delle Alpi, sorga una raccolta così ampia, da essere seconda solo al Museo del Cairo, tutta dedicata a quellesotica cultura sabbiosa e vetusta, non di meno ormai il Museo si presenta come uno dei principali centri nevralgici torinesi, indissolubilmente legato alla cittadinanza e, anzi, luogo misterioso che ben si addice a sottolineare un certo carattere occulto della Torino esoterica.
Il Museo infatti, oltre alla fama intellettuale indiscussa, si circonda di diverse leggende che lo rendono unicoanche sotto altre ottiche: vi ricordate, cari lettori, che cosa è avvenuto nellormai lontano 2000? In quellanno si registrano innumerevoli casi di bambini colpiti da malessere e intossicazioni proprio durante la visita allEgizio, i medici non trovano subito una spiegazione e lasciano così il tempo ai superstiziosi di gridare alla maledizione del faraone; poco dopo viene in effetti fuori che la colpa è delle mummie, o meglio, delle loro teche, pulite con un particolare solvente che danneggia il benessere del pubblico.
Vi è inoltre la questione dei triangoli magici, quello Bianco e quello Nero, i cui influssi positivi e negativi si riversano silenziosi e costanti sui cittadini, ecco, proprio allinterno delledificio pare vi siano molti oggetti dalle forti influenze energetiche, sia benevole che malevole, anche se gli esperti del settore ci tranquillizzano ricordandoci che il bene abbonda e la maggior parte dei reperti incriminati sono in realtà legati alla Magia Bianca.
Tiriamo quindi subito un sospiro di sollievo, senza tuttavia abbassare del tutto la guardia, dopotutto non è poco lo spazio occupato dal papiro definito Libro dei Morti, una delle attrazioni principalidellesposizione che, con i suoi 864 cm di lunghezza, occupa unintera parete! Si tratta di un diuturno reperto risalente al 332-320 a. C. e contenente vere e proprie istruzioni per guidare le anime nellaldilà; le sepolture egizie sono solite avere un oggetto simile nel corredo del defunto, ma quello conservato a Torino è il più dettagliato e completo mai stato ritrovato.


E voi, in che sfera dinfluenza lo inserireste, in quella Bianca o in quella Nera?
A connettere il Museo alla città, vi è poi una delle molte versioni del mito della fondazione dellantica Augusta Taurinorum: un giovane principe egizio, Pa Rahotep, costretto ad abbandonare il proprio paese dorigine ed a intraprendere un lungo viaggio, che prima lo porta sulle coste della Liguria, ed infine lo vede approdare in Piemonte dove, sulle sponde di un fiume il Po, secondo la storia- fonda una città che denomina Eridania -il fiume Po, per secoli, è noto come Eridano-. Una volta insediatosi, Pa Rahotep introduce il culto del dio Api, raffigurato con le sembianze di un Toro. Da qui la derivazione del nome della città.
Trovo sempre affascinanti, cari lettori, questi aspetti mitici e leggendari, ma è bene occuparsi anche di altri assunti, decisamente più quantificabili anche se meno intriganti.
Torniamo allepoca ottocentesca, precisamente nel 1824, quando re Carlo Felice acquista la collezione Drovetti, e, dopo averla unita a quella di Donati, dona vita al primo museo in nuce dedicato alla civiltà egizia.
La prima esposizione ha sede presso il Collegio dei Nobili, edificio costruito su progetto di Michelangelo Garove (dal 1679), tuttavia, nel corso del secolo, grazie agli interventi, di Giuseppe Maria Talucchi e Alessandro Mazzucchetti, lo spazio viene ampliato e adeguato alle nuove necessità, finché, a seguito degli importanti rinnovamenti, nel 1832, il Museo apre finalmente al pubblico.
Secondo il gusto del periodo, i reperti dellantico Egitto sono mescolaticon articoli romani, preromani e preistorici, ed è inoltre presente una sezione di storia naturale.
Nel tempo la collezione singrandisce, comportando diversi cambi di sede, dallAccademia delle Scienze, al Regio Museo di Antichità fino alla sede attuale, in via Accademia delle Scienze.
Di determinante importanza sono stati gli scavi archeologici di Ernesto Schiaparelli e di Giulio Farina, i quali, tra il 1903 e il 1937, portano a Torino circa 30.000 referti. Nel 1924 lo stesso Vittorio Emanuele III di Savoia solca i corridoi dellesposizione, attraversando per primo la nuova ala del Museo, denominata Ala Schiapparelli, nella quale sono visionabili oggetti provenienti da Assiut e Gebelein.
Tra gli anni 30 e gli anni 80 del Novecento si predispongono ulteriori ristrutturazioni e adattamenti, tra cui linstallazione della Pinacoteca e la sistemazione dellAla Schiaparelli; di particolare rilevanza è stata, allepoca, lopera di ricomposizione del tempietto rupestre di Ellesiya, donato dal Governo Egiziano in riconoscimento dellaiuto italiano nel salvataggio dei templi nubiani minacciati dalle acque della diga di Assuan. Per il trasferimento a Torino la struttura viene tagliata in 66 blocchi e poi ricostruita ed inaugurata il 4 settembre 1970.
A partire dagli anni 80 lattenzione si pone sulla costruzione di nuovi spazi espositivi sotterranei, dedicati ai ritrovamenti di Assiut, Qau el-Kebir e Gebelein, nonché allampia sala del piano terra destinata ad accogliere le testimonianze dellEtà Predinastica e dellAntico Regno.
Un altro anno da ricordare è senzaltro il 2006, (Giochi Olimpici Invernali di Torino), quando lo statuario è riallestito dallo scenografo Dante Ferretti; lintervento rifunzionalizza gli ambienti allintero percorso museale, ora articolato su cinque piani espositivi, muta inoltre notevolmente anche la generale atmosfera, ora assai suggestiva e teatrale, costituita da unilluminazione impattante e altamente immersiva. La riapertura del 2015 segna il nuovo approccio rivolto ai visitatori, decisamente meno faticosoe didatticodelloriginale, ma maggiormente apprezzato dal pubblico di massa, che allo sforzo intellettivo predilige lapprendimento stile TikTok.
Ancora qualche parola per chi fosse interessato al contenuto della raccolta e non solo ai selfienella Galleria dei Re.
Oltre al già citato Libro dei Morti, vi sono altri due papiri degni di nota: il papiro dello sciopero e il papiro erotico.

Il primo documenta uno tra i più antichi scioperi della storia, svoltosi durante il regno di Ramesse III, portato avanti dagli operai e dagli artigiani impegnati nella costruzione delle tombe reali di Luxor; il secondo invece, proveniente dal villaggio di Deir el-Medina, smorzalidea austera e monumentale che solitamente caratterizza lestetica dellarte egizia, mostrando al pubblico illustrazioni sinuose e figure curvilinee, ma soprattutto immagini esplicitamente erotiche, contrassegnate da tratti ironici ai limiti della comicità, senza mai perdere il tocco raffinato tipico dellOriente.
Oltre a testimoniare che chi non lavora, non fa lamore” – lo sciopero termina dopo alcuni mesi- i reperti dimostrano come la Cultura con la Cmaiuscola non abbia nulla a cui spartire con censura e bigottismo, aspetti esclusivi degli integralismi religiosi e dei regimi politici totalitari. Ce lo insegnavano già millecinquecento anni prima di Cristo, eppure luomo contemporaneo continua ad avere una testa durissima.
Oltre alla Tela di Gebelein, la più antica pittura su lino mai rinvenuta, raffigurante momenti di vita quotidiana e usanze dellepoca, consiglio di soffermarvi sulla tomba di Kha, una sorta di archistardellepoca, noto capo architetto, progettista della Necropoli Tebana. La sua bravura lo porta a lavorare per i grandi faraoni della XVIII dinastia, i suoi meriti sono riconosciuti pubblicamente, tanto da ottenere una tomba più piccola, ma uguale in tutto e per tutto a quella dei regnanti. Larchitetto viene sepolto insieme alla moglie Merit, il loro corredo funerario consta di circa 460 pezzi, tra cui anche una spettacolare parrucca rimasta ancora perfettamente intatta.
Dato che è secondo solo al Museo del Cairo, non credo sia il caso di continuare, in questa sede, con lelenco dei reperti visionabili allinterno dellesposizione torinese, vi invito quindi ad andare, cari lettori, a scoprire le meraviglie del Museo Egizio con i vostri occhi .
Spero, con questo mio scritto, di avervi un poincuriosito, perché non mi stancherò mai di sottolineare limportanza dei luoghi delle Muse, contenitori concreti della cultura, luoghi di testimonianza e bellezza, roccaforti dellunica, vera, insopprimibile libertà, quella intellettuale.

Alessia Cagnotto

 

Antichi legami tra Luzzogno e Casale Monferrato

 

Luzzogno fu la prima comunità a rendersi autonoma da Omegna nel 1312 ed erigendosi in parrocchia nel 1455 rappresentò per quattro secoli l’unità religiosa e civile della Valstrona. Nel 1756 nacque il comune libero di Luzzogno il quale, come gli altri della vallata, rimase distinto fino al 1926 quando fu riunito nel comune di Valstrona per decreto governativo. In passato gli uomini del piccolo borgo trovarono lavoro nelle cave di marmo, nelle miniere, in agricoltura e negli alpeggi, vera fonte economica del paese. Proficua fu l’emigrazione esterna oltre le Alpi verso la Germania, raggiunta a piedi in una settimana di viaggio attraverso il Lago Maggiore verso Bellinzona e seguendo il Ticino per fermarsi solitamente due anni. Meno proficua fu l’emigrazione interna verso la Lombardia e il Piemonte, effettuata nella stagione invernale dai concari e palai venditori di pale da riso, gioghi per buoi, cucchiai e mestoli ritornando a casa in primavera con piccoli guadagni. L’emigrazione fu interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale, creando grave danno economico per la comunità.

Miglior fortuna ebbe la nobile famiglia dei conti Gozzano, provenienti in passato dalla Val Vigezzo. Lasciarono Luzzogno alla metà del ‘500 per spostarsi a Brolo di Nonio (il paese dei gatti) sulle sponde del Lago d’Orta dove edificarono la loro bella casa nel Canton di Sopra a Nord della chiesa. Tramite  cinque matrimoni con membri dei conti Tarsis di Brolo, possedevano il 40% dei terreni del borgo, costruirono la nuova sacrestia e il porticato della chiesa sorretto da sette colonne. I Gozzano-Tarsis risiedevano nell’imponente palazzo di Brolo del XVII° secolo con i suoi loggiati, le decorazioni affrescate e giardini formali. Per costruire l’oratorio annesso al palazzo, dedicato alla Vergine dei sette dolori, ottennero la dispensa dal vescovo di Novara mons. Gilberto Borromeo. Nel 1650, le due  famiglie emigrarono a Madrid e ad Aranjuez dove fecero fortuna con attività commerciali e prestiti di denaro. Al rientro dalla Spagna, i Tarsis acquisirono il titolo di conti di Castel d’Agogna, segnando l’inizio di un nuovo radicamento nel novarese ed edificarono il palazzo neoclassico a Milano.
A Briga Novarese, i Gozzano acquistarono nel 1730 il palazzo e l’oratorio accanto alla parrocchia dal nobile Brusati ed ereditarono i beni della cappella della Beata Vergine Immacolata, denominata Madonna del Motto, ospitando il vescovo di Novara mons. Marco Aurelio Bertone nel 1761. Altre importanti discendenze furono create all’inizio del ‘600 dai Gozzano di Luzzogno con le famiglie Alessi e Bialetti, fondatori delle note aziende di casalinghi. La casa dei conti Gozzano fu ceduta nel 1709 al comune di Luzzogno, con instrumento rogato dal notaio Giovanni Albergante di Omegna, da Francesco Bernardino figlio del notaio casalese Antonio Gozzano e ultimo esponente della famiglia a lasciare la vallata, ricco proprietario di case e terreni a Casale, Cereseto e Moncalvo.
La casa è stata ristrutturata nel 1972 mantenendo l’architettura originale dove è  conservato, su una  parete del loggiato, un affresco del ‘500 di autore sconosciuto che riproduce i vizi e le virtù rappresentate da una doppia serie di figure allegoriche, restaurato da don Luigi Arioli padre rosminiano e professore d’arte a Stresa. Due importanti personaggi hanno dato risonanza a Luzzogno, mons. Carlo Antonio Gozzano oriundo nato a Casale nel 1640, arcidiacono della cattedrale casalese e vescovo di Acqui e mons. Raffaele De Giuli nato a Luzzogno nel 1884, arciprete di Domodossola e vescovo di Vallo di Lucania e Albenga. Anche la chiesa cattolica di Luzzogno ha il proprio santuario. Dedicato alla Madonna delle Grazie, detto della Colletta, è stato eretto come ex voto da un Gozzano nel ‘600 su un antico oratorio dove si svolge la famosa festa triennale in onore della regina protettrice della vallata.
Nella Valstrona esistono due tipi di costumi femminili simili, pittoreschi, tradizionali ed espressione di cultura montana. Nella alta vallata (Campello Monti e Forno) l’indumento si richiama ai modelli Walser della Valsesia,  composto da un vestito nero di lana, una camicia bianca ricamata con ampia apertura comoda per l’allattamento e due sottovesti, una bianca rifinita con pizzi e passamaneria e l’altra colorata più rustica, ricoperte da una pettorina ricamata fermata da due nastri colorati. Nella media vallata (Luzzogno, Massiola, Fornero e Sambughetto) il costume è composto da una gonna nera di lana pieghettata e uno scamiciato di stoffa bianca a maniche lunghe finemente ricamato ricoperto dal bustino aderente senza maniche, arricchito da motivi floreali con nastro colorato in vita. Le famiglie Gozzano, emigrate a metà ‘500 nel casalese, riuscirono ad ottenere tanta dignità e ricchezza tali da condizionare la Corte dell’epoca e furono definiti i banchieri dei Gonzaga, duchi di Mantova e Monferrato. L’accorta e coraggiosa politica patrimoniale permise loro di scalare diversi rami della nobiltà diventando signori, consignori, conti ed in seguito marchesi di San Giorgio, Treville, Odalengo Grande e Piccolo, Olmo Gentile (Asti) e Perletto (Cuneo), edificando diverse chiese e palazzi in Monferrato e a Torino.
I Gozzano erano proprietari di una fabbrica di orologi con fonderia annessa a Ginevra e gli importanti matrimoni con membri di una trentina di casate nobiliari piemontesi, liguri, savoiarde, austriache e balcaniche portarono ad aumentare il loro patrimonio, definito il più colossale di sempre del Monferrato. Ulteriore prestigio è rappresentato dalla parentela recentemente emersa sulla linea romana dei Gozzano di Agliè con la famiglia materna del principe Maurizio Gonzaga. Sappiamo però che in genealogia le persone che portano lo stesso nome non sempre discendono da un comune antenato. Nel 1995 il marchese Titus Gozani di Dusseldorf, ultimo esponente del ramo austriaco emigrato da San Giorgio Monferrato a metà ‘700, ritrovò le proprie origini a Luzzogno concludendo la ricerca iniziata a Casale dal padre marchese Leo Ferdinando nel 1963, luogo di incontro con i parenti conti Cavalli d’Olivola di Lucedio e con il nostro giornalista Idro Grignolio. Oggi le famiglie Gozzano risiedono in Piemonte, Lombardia, Liguria, Abruzzo, Lazio, Germania, Brasile (Itu e Sorocaba) e negli Usa (New York, Mass, Colorado e California). I loro antichi legami, che si erano interrotti, sono stati ricuciti dall’autore nel 2018 a Luzzogno.
Armano Luigi Gozzano

Badaluk, burnia, ramassin: incursioni saracene nel dialetto piemontese

Damaschin, burnia, badaluk, faudal… sono tante le parole piemontesi di origine araba, alcune delle quali si usano ancora oggi in varie parti del Piemonte.

In effetti, i contatti tra le due lingue risalgono a oltre 1200 anni fa quando i saraceni si insediarono per almeno un secolo tra torinese e cuneese.
Nel IX secolo i mori provenienti dal nord Africa sbarcarono in Spagna e raggiunsero le coste francesi, la Provenza e infine le montagne piemontesi su cui innalzarono torri di avvistamento e bastioni per difendersi, molti dei quali erano già esistenti e furono in seguito fortificati dagli arabi. Quante volte in montagna troviamo un’insegna turistica con la scritta “torre saracena” che in realtà non è proprio “saracena” ma preesistente all’arrivo degli arabi. E allora, aspettando i dolcissimi ramassin o dalmassin, le susine forse più buone e gustose, chiamate anche “damaschin” per evocare una millenaria origine siriana, passiamo brevemente in rassegna alcune parole arabe che sono penetrate con forza nel dialetto piemontese. Altri nomi di provenienza araba sono “cossa” (zucca) che deriva dalla parola araba “kusa” (zucchina), “badaluk”(sciocco) dall’arabo “mamaluk”, cioè i Mamelucchi, i soldati-schiavi dei sultani, “fàudal” (grembiule) dall’arabo “fodhal” (grembo), “burnia” (contenitore di vetro) dall’arabo “buri” e così via. Ma torniamo ai ramassin o “damaschin” o ancora “dalmassin” perché anche sulla frutta e in particolare sulla susina o prugna che sia, da oltre un millennio saraceni e crociati sono ai ferri corti, tanto per cambiare. É arrivata dalla Siria, da Damasco, grazie ai saraceni o stati i crociati a introdurla in Piemonte tra una crociata e l’altra in Terra Santa? Il dubbio permane. Comunque sia, la coltura veniva chiamata già allora “damaschin”, termine che risuona ancora oggi in alcune vallate del cuneese. Sembra infatti che il suo nome sia derivato dalla variante di “dalmassin” coltivato nella zona di Mondovì. Da Damasco la susina sarebbe stata importata in Piemonte dai crociati nel XII secolo mentre secondo altre fonti, più attendibili, furono i saraceni a portarla nelle nostre valli durante le scorrerie medioevali tra il IX e il X secolo. Da Bagnasco a Garessio, da Sampeyre a Mondovì sono infatti ancora molte le rievocazioni storiche che narrano l’epoca dei mori nella nostra regione. Il ramassin arrivò prima nelle campagne del saluzzese e del monregalese e poi in Val di Susa, Valli di Lanzo e nel chierese. Altrove il frutto è quasi sconosciuto e il suo nome evoca subito la dolcezza delle marmellate e delle crostate che lo vedono assoluto protagonista, una bontà tutta siro-piemontese.            Filippo Re

Il Bicerin, quando la storia è una delizia

Nel 1763, quando l’acquacedratario Giuseppe Dentis apre la sua piccola bottega nell’edificio di fronte all’ingresso del Santuario della Consolata, non sa di avere aperto il primo caffè  di concezione moderna in Europa. Ancora oggi è il famoso “Bicerin” che prende il nome dalla dolce bevanda proprio lì inventata.

Il locale all’epoca era arredato semplicemente, con tavole e panche di legno. Nel 1856, su progetto dell’architetto Carlo Promis, viene edificato l’attuale palazzo e in questa sede il caffè assume l’elegante forma che oggi possiamo apprezzare: le pareti vengono abbellite con boiseries di legno decorate da specchi e lampade e fanno la loro comparsa i caratteristici tavolini tondi di marmo bianco, il bancone di legno e marmo e le scaffalature per i vasi dei confetti. Alla fine dell’Ottocento viene posta esternamente la devanture in ferro, con le vetrinette ai lati, le colonnine e i capitelli in ghisa. In questo ambiente viene svolta l’attività di confetteria e di caffè-cioccolateria.

Tra gli ospiti illustri nella storia del locale: il conte di Cavour, Nietzsche, Giacomo Puccini, varie altezze reali. E più recentemente Giovanni Agnelli e Umberto Eco, solo per citare alcuni nomi

L’invenzione del bicerin è stata, senza alcun dubbio, la base del successo del locale e, più che invenzione, fu evoluzione della settecentesca bavareisa, una bevanda allora di gran moda che veniva servita in grossi bicchieri e che era fatta di caffè, cioccolato, latte e sciroppo. Il rituale del bicerin prevedeva all’inizio che i tre ingredienti fossero serviti separatamente, ma già nell’Ottocento vengono riuniti in un unico bicchiere e declinati in tre varianti: pur e fiur (simile all’odierno cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), ‘n poc ‘d tut (ovvero “un po’ di tutto”), con tutti e tre gli ingredienti. Quest’ultima formula fu quella di maggiore successo e finì per prevalere sulle altre, arrivando integra ed originale ai nostri giorni e prendendo il nome dai piccoli bicchieri senza manico in cui veniva servita (bicerin, appunto).

Dal 1910 al 1975 il locale è stato gestito dalla signora Ida Cavalli, con l’aiuto della sorella e della figlia Olga, nelle cui mani passò quando la madre si ritirò. Le signore Cavalli sono state molto amate e conosciute da tutta la città: più padrone di casa che ostesse, amorevolmente accudivano tutti gli intellettuali squattrinati che nel Caffè Al Bicerin cercavano riparo dai rigori del freddo.

Nel 1983 Maritè Costa ha raccolto l’eredità delle signore Cavalli, portando il locale al livello di notorietà internazionali a cui  è oggi conosciuto. Il suo è stato uno straordinario lavoro di vera archeologia del cioccolato e dei dolci torinesi: la sua ricerca e studio delle ricette originali, dei materiali di qualità e un vero ed autentico amore per la cioccolata e la pasticceria tradizionale piemontese, hanno fatto sì che questo piccolo caffè venisse conosciuto ed amato nel mondo intero.

 

Il segreto per assaporare al meglio il vero bicerin è non mescolarlo, lasciando che le sue varie componenti si fondano fra di loro direttamente sul palato, con le loro differenti densità, temperature e sapori.

www.bicerin.it

Nagasaki, 9 agosto 1945

Nagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa “lunga penisola”. Il 9 agosto del 1945 diventò la seconda città su cui venne sganciata una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento. In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney. Era, come si usa dire in gergo militare, “una seconda scelta”. L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyūshū, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese. Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città. “Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sull’abitato e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy”, l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima. Nagasaki era costruita su un terreno collinoso e il numero di morti fu inferiore a quelli causati dal primo ordigno. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le sessantaseimila e le settantottomila persone e altrettanti furono i feriti. Per due volte in tre giorni, il sole cadde sulla terra. Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi. Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle ottantamila persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti. La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di Hiroshima. Entrambe città vennero rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre di quell’anno, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Quasi ottant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure nei prossimi anni per le problematiche legate alle radiazioni. In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati oltre due milioni e mezzo di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, un 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni. Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentavano, fino a qualche anno fa, il 56% del totale. Secondo i dati forniti dalla Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare. Dopo tanti decenni, in tempi in cui la guerra scoppiata con l’invasione dell’Ucraina si è combattuta pericolosamente nei pressi delle centrali nucleari, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità del conflitto, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.

Marco Travaglini

De Amicis, il monumento grazie a un amico

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I monumenti di Torino    Ecco un nuovo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Quest’oggi vorremmo parlarvi del monumento dedicato a Edmondo De Amicis, conosciuto da tutti per essere l’autore del libro Cuore

Situata in piazza Carlo Felice, all’interno dei Giardini Sambuy, l’opera è formata da due elementi su un’ampia piattaforma con scalini. In primo piano si erge la statua della “Seminatrice di buone parole”, rappresentata dalla “bella figura di una popolana dal largo gesto che diffonde la semente”(cit.), mentre sullo sfondo è situato un muro a esedra (incavo semi-circolare), decorato da un fitto altorilievo nel quale sono raffigurate scena di vita quotidiana, narranti episodi di “amor figliale, amor materno, amicizia, studio, amor di patria, carità e lavoro”(cit.). Sul piedistallo della statua è invece scolpito un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis.

 

Edmondo De Amicis nacque ad Oneglia il 21 ottobre 1846 da una famiglia benestante di origine genevose. Nel 1848 la sua famiglia si trasferì in Piemonte, dapprima a Cuneo e poi a Torino, dove Edmondo frequentò il liceo. All’età di 16 anni entrò al Collegio Militare Candellero di Torino, ma fu subito trasferito all’Accademia militare di Modena dove divenne ufficiale sottotenente. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma, l’anno dopo, decise di abbandonare l’esercito per dedicarsi alla carriera di giornalista. Divenne quindi giornalista militare e trasferitosi a Firenze, assunse la direzione della rivista “L’ Italia Militare”. Nel 1868, all’età di 22 anni, venne assunto dal giornale “la Nazione” di Firenze, dove continuò come inviato militare assistendo così, nel 1870, alla presa di Roma.

Dal 1879 (ma più permanentemente dal 1885) De Amicis si stabilì a Torino, andando ad abitare presso il palazzo Perini, davanti alla vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa; qui (ispirato forse dalla vita scolastica dei suoi figli Ugo e Furio), terminò quella che fu considerata la sua più grande opera. Il 17 ottobre 1886 (primo giorno di scuola di quell’anno), venne infatti pubblicato Cuore, una raccolta di episodi ambientati tra dei compagni di una classe elementare di Torino, provenienti da regioni diverse, costruito come finzione letteraria di un diario di un ipotetico ragazzo: l’io narrante Enrico Bottini.

Il romanzo (nato come libro per ragazzi), ebbe subito un grande successo e venne molto apprezzato sia per il suo carattere educativo-pedagogico, sia perché ricco di spunti morali riguardanti i miti affettivi e patriottici del Risorgimento italiano. Il libro Cuore fece conoscere Edmondo De Amicis in tutto il mondo e lo suggellò autore attento alle problematiche della borghesia, del popolo e dell’educazione. Alcuni avvenimenti spiacevoli della sua vita, come ad esempio la morte suicida del figlio maggiore Furio (nel 1898 si sparò al Parco del Valentino), lo portarono ad abbandonare definitivamente la città sabauda. In seguito scrisse numerosi racconti nel corso dei suoi viaggi in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Costantinopoli e Marocco. Morì a Bordighera l’11 marzo del 1908 a causa di una improvvisa emorragia celebrale. Su iniziativa della Gazzetta del Popolo, per onorare la memoria di Edmondo De Amicis ad un anno dalla sua scomparsa, un Comitato propose di erigere un monumento a lui dedicato, che ne onorasse la memoria e ne esaltasse le “doti di educatore e autore immortale”(cit.) del libro Cuore.

L’esecuzione dell’opera venne affidata direttamente (non si proclamò nessun concorso) allo scultore e disegnatore Edoardo Rubino, caro amico di De Amicis, che si propose di realizzare il monumento a titolo gratuito come suo personale contributo. Ad un anno di distanza dall’iniziativa, nel 1910, Rubino presentò il bozzetto del progetto che trovò il consenso e l’approvazione di tutti. Il monumento venne terminato già nel 1914, ma la posa in opera con l’ufficiale inaugurazione, avvenne una decina di anni più tardi a causa di alcune questioni riguardanti la scelta del luogo. Su richiesta della commissione, l’inaugurazione avvenne il 21 ottobre 1923, volutamente dopo l’apertura delle scuole, in modo che “gli potesse essere intorno come aureola gloriosa l’affetto di centinaia di bimbi” (cit.).

Simona Pili Stella

Un pinerolese alle Crociate

C’era anche un pinerolese sulle galee salpate da Venezia e dirette a Costantinopoli in quella sciagurata avventura passata alla storia come la Quarta Crociata del 1204.

Lungo la riva degli Schiavoni, a pochi passi da Palazzo Ducale, Amedeo Buffa s’imbarcò con Bonifacio I, marchese di Monferrato, capo dei crociati e comandante militare della spedizione che, diretta a Gerusalemme per liberare la città santa, cambiò improvvisamente percorso e puntò sulla capitale bizantina conquistandola dopo un orrendo massacro.
Un Buffa di Pinerolo, forse un Buffa di Perrero, che viene citato in vari documenti dell’epoca e da molti storici. Non esistono però testi scritti che comprovino la sua parentela con i Buffa di Perrero ma, come osserva lo storico torinese Francesco Cordero di Pamparato, “pensare che nella Pinerolo del 1200 vi fossero due famiglie di nome Buffa che non fossero imparentate tra di loro sembrerebbe molto azzardato. È quindi molto più probabile che si tratti della stessa famiglia”. Comunque sia, nella primavera del 1202, secondo gli studiosi delle crociate, raggiunse Venezia e partecipò in San Marco alla solenne cerimonia presieduta dal doge Enrico Dandolo. Poi 17.000 veneziani e oltre 30.000 crociati si imbarcarono sulla grande flotta cristiana che l’8 novembre partì per la quarta crociata che nel 1204 cacciò i bizantini da Costantinopoli. Nello stesso anno Amedeo Buffa prese parte anche alla conquista del regno di Tessalonica (oggi Salonicco) insieme a Bonifacio, fondatore del regno e suo primo sovrano, che ringraziò Amedeo concedendogli la baronia di Domokòs nella Grecia centrale. La morte del marchese del Monferrato nel 1207 in battaglia contro i bulgari aprì la crisi del regno che fu subito cavalcata da un gruppo di nobili italiani che puntavano alla separazione del regno di Tessaglia dall’impero latino di Costantinopoli. Con l’appoggio di un nutrito gruppo di cavalieri italiani tentò di consegnare il regno di Tessalonica al figlio di Bonifacio, Guglielmo IV del Monferrato, e magari portarlo sul trono a Bisanzio. L’imperatore Enrico di Hainaut corse ai ripari e dichiarò guerra agli insorti. Il conte Uberto di Biandrate e Amedeo Buffa furono i capi di una vera e propria rivolta che costrinse Enrico di Hainaut ad intervenire in Tessaglia. Fu proprio Buffa a organizzare la resistenza ma circondato dalle truppe dell’imperatore fu costretto alla resa. Unico tra i rivoltosi, Buffa fece la pace con Enrico che nel frattempo aveva stroncato la rivolta. Il pinerolese si sottomise e da allora rimase fedele all’imperatore il quale gli conferì la carica di connestabile, comandante dell’esercito, una delle più alte cariche dell’Impero. Poco tempo dopo, nel 1210, alla testa di cento cavalieri, cadde in un’imboscata e fu catturato dal tiranno dell’Epiro Michele Angelo Comneno, arcinemico del nuovo Impero latino, che lo fece crocifiggere. Una morte atroce per il pinerolese Amedeo Buffa, il cui supplizio è citato in una bolla di papa Innocenzo III.
Filippo Re