STORIA

La Torino oscura di Profondo Rosso

Cinquant’anni fa, nel settembre del 1974, iniziavano a Torino le riprese di Profondo Rosso, un film che sarebbe diventato un riferimento classico per gli appassionati di cinema, uno dei migliori thriller italiani di sempre. Il regista Dario Argento per la terza volte sceglieva la prima capitale d’Italia e le sue atmosfere magiche dove si scorgono, oltre alle piazze e alle vie più note del centro, il Teatro Carignano, la Galleria San Federico e piazza CLN, dove si riconoscono le fontane di fronte alle quali Gabriele Lavia e David Hemmings assistono al primo terribile delitto del film, quello della sensitiva Helga Ullman ( l’attrice Macha Méril). Hemmings (che nel film interpretava il pianista inglese Marc Daly ) incrociò sulla collina torinese alcune dimore importanti come Villa della Regina (residenza storica dei Savoia), lungo la Strada Comunale Santa Margherita, per poi raggiungere l’obiettivo della sua ricerca: Villa Scott, in Corso Giovanni Lanza, 57.

 

È quella, infatti, la lugubre “villa del bambino urlante” che si trova in Borgo Po, sulle colline della città: un edificio bellissimo, uno degli esempi più straordinari dell’art decò. “L’avevo scoperta per caso — confessò il regista — mentre giravo in auto in cerca di posti interessanti dove girare il film. La villa era in realtà un collegio femminile diretto dalle monache dell’Ordine delle Suore della Redenzione e, siccome ne avevo bisogno per un mese, offrii alle occupanti una bella vacanza estiva a Rimini, dove si divertirono tantissimo. Con noi restò una monaca-guardiano, che sorvegliò le riprese con austerità”. Un’ulteriore curiosità merita di essere segnalata. Quando Marc, nel film suonò al campanello di casa del suo amico Carlo, si trovò di fronte la madre di lui (Clara Calamai) che lo fece entrare in un appartamento ricco di cimeli e foto d’ogni sorta. La casa era davvero quella dell’attrice e, quindi, ciò che si vede nel film era probabilmente in gran parte ciò che davvero c’era in quell’appartamento nel 1974, diventato set per l’ultima avventura cinematografica della grande interprete del cinema italiano. Il film, quinta prova dietro la macchina da presa per Dario Argento, uscì nelle sale il 7 marzo 1975 e lo consacrò, grazie al successo, come il vero maestro del brivido made in Italy.

Marco Travaglini

I Toret: le voci d’acqua di Torino

C’è un suono che accompagna Torino in silenzio, giorno e notte, estate e inverno: quello dell’acqua che scorre senza sosta dai Turet, o Toret, le fontanelle verdi che punteggiano strade e piazze (e che sono anche il simbolo del nostro giornale, il Trinese). Sono piccoli totem urbani, semplici e discreti, ma per chi li conosce raccontano più di un secolo e mezzo di storia cittadina.

Il loro nome, turet, in piemontese significa “toretto”: un vezzeggiativo che richiama la testina di toro in bronzo da cui l’acqua sgorga. È lo stesso animale che compare nello stemma della città, ma qui diventa amico benevolo che offre ristoro a chi passa.

Un incontro tra modernità e tradizione

La loro storia comincia nel 1862, quando Torino, prima in Italia, si dota di un acquedotto moderno. Per celebrare quel traguardo e garantire a tutti un accesso all’acqua potabile, il Comune installa la prima fontanella in piazza Carlo Felice. Da allora il modello non è quasi cambiato: un cilindro in ghisa, dipinto di verde, con la testa taurina come firma inconfondibile.

Nel tempo i Turet sono diventati centinaia – oggi circa 700 – disseminati tra vie, parchi e cortili. Sempre uguali, eppure sempre diversi: chi è cresciuto a Torino ne ha uno del cuore, quello vicino a scuola, al mercato, o lungo il tragitto verso il lavoro.

Piccoli custodi di memoria

Bere a un Turet non è soltanto dissetarsi. È compiere un gesto antico, condiviso da generazioni: la mano che si piega sotto il getto, l’acqua fresca che sorprende, la pausa che riconcilia col cammino. È un rito quotidiano, gratuito, democratico, che lega chi vive la città da sempre e chi la attraversa solo per un giorno.

Torinesi e turisti li fotografano, li raccontano, li trasformano in simboli: souvenir, opere d’arte, persino mappe digitali che guidano alla scoperta di queste fontanelle come fossero tappe di un itinerario poetico.

L’acqua come promessa

L’acqua che sgorga dai Turet non si ferma mai, nemmeno nelle notti d’inverno, quando il gelo avvolge le strade. È acqua buona, la stessa che arriva ai rubinetti delle case, custodita e garantita dalla rete dell’acquedotto. E quella generosità incessante è forse la loro magia: ricordano a chiunque che l’acqua è un bene comune, da condividere e proteggere.

Un simbolo che vive

Così i Turet, con la loro modestia, sono entrati nell’anima della città. Non hanno la grandiosità della Mole né la dolcezza dei gianduiotti, ma sono l’emblema più autentico di una Torino che sa unire funzionalità e poesia. Piccole fontanelle che, da più di 150 anni, offrono a tutti lo stesso dono: un sorso di freschezza e un attimo di intimità con la città.

La triste e sfortunata vita di Emilio Salgari

L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.

 

Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali  a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.

 

Tornato a  Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e  Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.

 

Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.

Marco Travaglini

Via dell’Arcivescovado, da Gramsci a Einaudi

In questo palazzo ebbe sede la redazione del giornale di Gramsci e degli altri futuri fondatori del Pcd’i, come prima l’aveva avuta l’edizione piemontese de “L’Avanti!” e, in seguito, si sarebbe insediata, il 15 novembre del 1933 e per qualche tempo, la casa editrice Einaudi

In via dell’Arcivescovado, a Torino, quasi all’angolo con via XX Settembre, su uno dei muri dell’ex convento che oggi ospita una banca, il 27 aprile del 1949 è stata posta una lapide da «Torino memore » dove si ricorda che lì «La forte volontà/ e la mente luminosa/ di Antonio Gramsci/ stretti attorno a lui/ gli operai torinesi/ contro la barbarie/ fascista prorompente/ “L’Ordine Nuovo”/ stendardo di libertà/ qui nella bufera/levarono e tennero fermo».

In questo palazzo ebbe sede la redazione del giornale di Gramsci e degli altri futuri fondatori del Pcd’i, come prima l’aveva avuta l’edizione piemontese de “L’Avanti!” e, in seguito, si sarebbe insediata, il 15 novembre del 1933 e per qualche tempo, la casa editrice Einaudi. In via dell’Arcivescovado nei «due grandi cameroni, in cui lavoravano tutti i redattori e i cronisti», come ricordava Palmiro Togliatti, nacque, visse e morì “L’Ordine Nuovo” di Gramsci. In via dell’Arcivescovado  ci passa tanta gente, tutti i giorni. Chissà quanti alzando gli occhi, magari casualmente, si soffermano a leggere quella lapide. E quanti impegneranno almeno qualche attimo soffermandosi a pensare a quell’insieme di uomini e di cultura, immaginando il fervore delle idee, delle passioni, dei progetti che si addensarono in quelle stanze luogo. Probabilmente pochi. E per i più varrà quell’indifferenza che Gramsci condannò con veemenza in uno dei suoi scritti più noti, “Odio gli indifferenti”.  Lo scrisse per La città futura, numero unico pubblicato nel febbraio del 1917 a cura della Federazione giovanile piemontese del Partito Socialista.

Scriveva, tra l’altro, Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti..L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza…Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti…”.

Marco Travaglini

 

Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento

Breve storia di Torino


1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

 

4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento

 

Si è parlato finora dei Taurini, dei Romani, di Carlo Magno e dei Barbari, e ancora si sono citati Arduino e la contessa Adelaide, oggi invece ci occupiamo della Torino del Duecento, a cavallo delle lotte tra Imperatore, Papato e comuni e limminente arrivo dei Savoia, famiglia a cui lurbe si lega indissolubilmente.
I fatti risultano nuovamente intricati, sullo sfondo nuovi assetti scombussolano il territorio europeo e la nostra bella città si trova a galleggiare tra guerre e poteri che la vedono comunque coinvolta, anche se non proprio in prima linea.
È il 1155, Federico I di Hohenstaufen, meglio noto con lappellativo Barbarossa, viene eletto imperatore. Egli è convinto di poter risollevare le sorti del potere imperiale del Regno Italico, così nel 1158 indice unassemblea durante la quale presenta il suo puntiglioso programma, sostenendo di voler governare direttamente i territori italiani, di voler nominare personalmente i funzionari amministrativi, e infine di essere deciso a ripristinare limposizione fiscale.
Il piano tuttavia è tuttaltro che apprezzato, soprattutto dal papa e da molte città del nord, in primis Milano.
Tale malcontento porterà poi alla costituzione della Lega Lombarda (1167), voluta dal papa Alessandro III e dalla maggior parte dei comuni nordici, ormai abituati ad una indipendenza de facto.
Allinizio la Fortuna appoggia Barbarossa, tant’è che egli, dopo aver clamorosamente messo a ferro e fuoco Milano, entra trionfale a Torino il giorno di Ferragosto, insieme alla moglie, e qui, proprio nella cattedrale piemontese, viene incoronato.
Ma la Dea è cieca e volubile, e finisce per voltare le spalle allImperatore, che nel 1168 è costretto alla fuga attraverso Susa.

Negli anni seguenti accadono altri scontri tra il Barbarossa, che tenta una riconquista dei territori, e la Lega lombarda: le vicende non sostengono lImperatore, che, infine, nel 1183, dopo la sconfitta di Legnano (1174), sigla un trattato di pace con cui riconosce lautonomia alla città del nord Italia.
È bene ricordare tuttavia che Torino rimane sempre fedele allImperatore, non aderisce alla Lega e si ritrova ad essere nelle mani dei vescovi di turno o degli effimeri alleati del Barbarossa: dapprima infatti è il vescovo Carlo ad essere figura di riferimento per la cittadinanza, in seguito tale incarico è affidato a Milone e poi a Umberto III di Savoia. Federico I resta interessato a governare su Torino, a causa della strategica posizione geografica: a testimonianza  di ciò si sa che egli aveva una residenza, allinterno delle mura cittadine, in un vero e proprio palazzo imperiale. Nel tentativo di controllare lurbe e non solo- il Barbarossa istituisce dei nuovi funzionari: i podestà. Si tratta di amministratori e giudici che dovevano mantenere la pace e riscuotere pedaggi e tasse per conto dellImpero; queste figure rendono il sistema governativo più efficace e sottile, inoltre vantano una formazione legale nonché una schiera di collaboratori personali e possiedono una scorta armata. I podestàesercitano un incarico itinerante, dopo circa sei mesi essi devono spostarsi altrove, aspetto che li rende più imparziali nel giudizio, a confronto dei pubblici ufficiali o dei consoli locali.
Alla fine del XII secolo il comune di Torino si presenta tutto sommato tranquillo ed ordinato: consoli e podestà si susseguono ordinatamente, lassemblea cittadina si riunisce periodicamente e le decisioni che vengono prese durante tali incontri sono trascritte in un corpus che si affianca alle indicazioni designate affinchè si attui un buon governo.

 

Tuttavia la Storia ci insegna che gli eventi sono in continuo mutamento, è infatti proprio durante questo tempo tranquillo che alcune famiglie particolarmente agiate si apprestano ad assumere il controllo della città. Spiccano tra l’élite urbana alcuni protagonisti, tra cui Pietro Porcello, i cui interessi si espandono dalla città al contado. Egli è funzionario amministrativo e vassallo del vescovo, per conto del quale gestisce addirittura un castello, inoltre è menzionato come console assai conosciuto e membro di alto rango nell’élite cittadina.
I cittadini più abbienti erano soliti autodefinirsi nobiles e facevano riferimento alle proprie famiglie come dinastie patrilineari, copiando le abitudini della nobiltà fondiaria.
Alla fine del XII secolo tali gruppi sono quasi una quindicina, tra questi è bene annoverare i Della Rovere, i Borgesio, i Calcagno, i Beccuti e gli Zucca, questi ultimi particolarmente legati alla realtàtorinese.
I nobiles fanno ovviamente coalizione compatta tra loro, grazie a legami matrimoniali intenti a mantenere questo status privilegiato. È possibile avere unidea di come tali famiglie vivessero e accumulassero terre e averi grazie ad uno specifico documento, il testamento di Enrico Maltraverso, redatto intorno al 1214.
Egli dispone che, dopo la sua dipartita, la ricchezza posseduta venga suddivisa tra le quattro figlie e alcune istituzioni ecclesiastiche; la fortuna della famiglia deriva dai possedimenti fondiari, costituiti da molti territori circoscritti a Torino e dintorni: ville, giardini, una macelleria, un vigneto e diversi appezzamenti di terreni agricoli. Tale Maltraverso, come altri elitari, possiede inoltre diversi beni sparsi tra città e campagna e ha il diritto di riscossione dei pedaggi a Rivoli.
Altri dettagli che si possono leggere nel testamento sono prima di tutto che una cospicua parte delleredità spetta alla figlia badessa del convento di San Pietro, ma poi che la parte più ingente di tutto il lascito è devoluta al monastero di San Solutore, dove lo stesso Maltraverso fa edificare una cappella in suo onore. Non è difficile comprendere il motivo di tale attenzione nei confronti della Santissima Chiesa: il pio Enrico tenta di placare linevitabile castigo divino che lo attende per aver praticato lusura durante buona parte della sua vita; il tentativo fa sorridere, ancora di più perché nemmeno dopo la morte Maltraverso mostra carità nei confronti dei creditori, al punto che incarica il collega usuraio Giovanni Cane di riscuotere i crediti precedenti.
Abbiamo alcune informazioni anche su questultimo losco figuro, il Signor Cane diventa presto uno degli uomini più facoltosi della città, ma anchegli pare avesse la coda di paglia: nel suo testamento, redatto nel 1244,  si legge di ingenti donazioni rivolte alla chiesa di San Francesco, con specifiche di ammenda per i propri peccati legati alla vita terrena.
Attraverso tali personaggi si evince che le ricchezze di certa élite torinese è spesso derivata da denaro ottenuto per mezzo di scambi, pagamenti di pedaggi o prestiti e non da attività commerciali o di qualsivoglia produzione. È poi chiaro il legame tra questi nobilesusurai e la Chiesa, che non disdegna di ricevere donazioni per finanziare enti ecclesiastici, ospedali o altre istituzioni religiose; nésono da dimenticare i rapporti più interpersonali tra le due categorie, come dimostrano i canonicati delle cattedrali o le posizioni allinterno dei monasteri più prestigiosi, affidate proprio a figli o figlie di questi ricchi nobiluomini, in modo da assicurare alle varie famiglie un avanzamento sociale e una stabile rete di appoggio costituita da politici e finanziatori: favori che garantiscono a questa esecrabile élite dominante una salda posizione di rilievo allinterno della gerarchia amministrativa comunale o ecclesiastica. É per via di questi spregiudicati che pian piano la figura del vescovo viene surclassata, fino al definitivo colpo di grazia dovuto allinsorgere delle insidie dei signori vicino a Torino, altri aspiranti al potere che si fanno forti della situazione problematica causata dalla contesa tra i comuni della Lega, lImperatore e il Papa.
Il vento sta cambiando ancora, questa volta sussurra il nome dei Savoia.

ALESSIA CAGNOTTO

Torino, capitale italiana del Liberty

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È luomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nellarte.

Lespressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo luomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché  sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo.  Non furono da meno gli  autori delle Avanguardie del Novecento  che, con i propri lavori disperati, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto Secolo BreveNegli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di ricreare la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i ghirigori del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa ledera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di unarte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che larte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

Torino Liberty

1.  Il Liberty: la linea che invase l  Europa
2.  Torino, capitale italiana del Liberty
3.  Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
4.  Liberty misterioso: Villa Scott
5.  Inseguendo il Liberty: consigli   di viaggio ”  per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
6.  Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la citt à
7.  Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicit à
8.  La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
9.  La linea che veglia su chi  è  stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
10.  Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock
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Articolo 2. Torino, capitale italiana del Liberty

In seguito allEsposizione Internazionale delle Arti Decorative del 1902 a Torino, gli artisti e i professionisti presenti ebbero lopportunità di conoscere e visionare i più rappresentativi esempi di Art Nouveau, firmati proprio dai migliori esponenti della corrente artistica di tutto il mondo. Successivamente a tale avvenimento e grazie alla presenza sul territorio di abilissimi architetti e assai preparati ingegneri,  che potevano contare su una ricca classe borghese e imprenditoriale, la città sabauda si trasformò in un immenso cantiere di sperimentazione stilistica, che in circa trentanni portò alla realizzazione di un gran numero di edifici appartenenti alle più svariate tipologie, sia industriale che residenziale, dai palazzi destinati allistruzione o al culto, fino ad alcuni esempi di arte funeraria. Gli artisti torinesi interpretarono il Liberty con originalità e maestria, rivisitando le scuole dellArt Nouveau, da quella franco-belga a quella austro-tedesca,  con occhio personale e mai scontato. Torino, ancora oggi nota per le grandi architetture barocche dei palazzi nobiliari e delle celebri residenze sabaude, vede affermarsi dunque, tra la fine dellOttocento e linizio del Novecento, una nuova corrente artistica, meglio conosciuta come Liberty. Di questo stile, Torino presenta numerose testimonianze di pregio, al punto da essere considerata la capitale del Liberty italiano.

Sul piano prettamente estetico il Liberty affronta leterno problema del bello, ovvero lideale di un socialismo della bellezza inteso come diffusione e messa a disposizione di prodotti artistici presso una sempre più vasta porzione di cittadinanza, nelle più disparate applicazioni, verso ununica adesione ad unestetica condivisa, che ha nella natura il suo inizio e la sua fine. Grazie allo sviluppo industriale e agli interventi urbanistici in varie zone della città, il Liberty si impose elegantemente nelle linee architettoniche di interi quartieri, dalla Crocetta alla Gran Madre, da Cit Turin a San Donato. In ogni spazio edificato allinizio del secolo scorso su impulso della nuova borghesia industriale, vi è la chiara impronta delloriginale stile artistico europeo, di cui ancora oggi  possiamo ammirare lelegante armonia architettonica.Passeggiando per Torino, con lo sguardo attento ai palazzi più rappresentativi, che si stagliano netti ed eleganti per le vie della città, non si può fare a meno di rimanere estasiati e ammirati di fronte alla raffinatezza espressiva di alcuni edifici, dalle linee flessuose e curve, dai tratti morbidi” delle facciate, che ancora ci sorprendono per la loro piacevole bellezza architettonica. Osserviamo tetti insolitamente ricchi,  vetrate che catturano la luce riflessa in colori pastello,  tettoie con strutture in ferro-vetro, dettagli di balconi dalla ringhiera incurvata, dove lalternanza vuoto-pieno sottolinea vitalità e dinamismo. E poi portoni, mancorrenti, finestre con finezze di particolari, festoni e fregi che richiamano la grazia della natura mediante la riproduzione di piante, foglie, tralci, fiori, tutta una leggiadria di forme che sembrano quasi nascondere e tacitare il peso del litocemento.  E poi ancora la riproduzione di rampicanti che, sviluppandosi in altezza, sanno dare un tocco di levità ai palazzi, arricchiti anche da conchiglie, sirene, animali araldici, curiosi ghirigori.  Ogni edificio mantiene una propria impronta particolare, ma, nel richiamarsi alla nuova linea floreale, la sa esaltare in strutture di spettacolare bellezza, come il flessuoso e morbido bovindo, bow-window, che nellinglese antico significa finestra ad arco, ed è, nelledificio, la parte di un ambiente aggettante verso lesterno, come un balcone chiuso da vetrate.

Lingegnere Pietro Fenoglio, il più grande architetto torinese di questo stile, ne ha realizzati numerosissimi in città, e in forme assai diverse, rettangolari, ovali, quadrate, circolari, cilindriche. A mezza altezza tra la strada e il tetto, il bovindo, anche solo di un metro quadrato o poco piùè una magnificenza costruita sulla facciata, dove la fantasia creativa ben si accompagna al tratto fluido e morbido, alla varietà e allinventiva. E così, nella  malinconica Torino gozzaniana  che mi piace ricordare (Come una stampa antica bavarese/vedo al tramonto il cielo subalpino/Da Palazzo Madama al Valentino/ ardono lAlpi tra le nubi accese/ E’ questa lora antica torinese,/ è questa lora vera di Torino), trovano spazio architetture quasi gioiose, dove il rosso del mattone ben si accorda al grigio chiaro del litocemento. In una perfetta costruzione armonica, ogni più piccolo particolare è studiato con cura, e i ferri battuti delle ringhiere dei balconi a volte differiscono volutamente per qualche minimo dettaglio, che solo una disamina attenta riesce a cogliere, e anche gli androni, le scale, i mancorrenti sono originali e costruiti ad arte. Nello stile floreale gli ornamenti fanno parte della costruzione complessiva, non sono elementi puramente accessori, quasi in aggiunta, al contrario prendono, per così dire, vita dalla bellezza dellinsieme.   Improntati allo stile Liberty, Torino presenta non solo un gran numero di case e villini, ma anche stabilimenti industriali, uffici pubblici e scuole, disseminati nei vari quartieri della città, la CrocettaSan Donato, il CentroSan Salvario, la Gran MadreCit Turin.

Di certo è stata troppo breve lingenua e ottimistica stagione Liberty, ben presto labilità tecnica si concretizzò negli orrori della guerra e la realtà drammatica che si andò delineando portò a una diffusa sfiducia nei confronti dellarte come materia salvifica. La bellezza dunque non è più né ricercata né indagata, la funzione” prevale sulla forma” e la violenta modernità si manifesta con canoni antitetici rispetto agli ideali dellArt Nouveau. Il tempo della natura e dei suoi mirabolanti ghirigori viene schiacciato dal suono devastante delle bombe e delle grida del primo conflitto mondiale.

 

Alessia Cagnotto

“Bianco al Femminile”. In mostra sei secoli di autentici capolavori tessili

Appartenenti alle Collezioni di “Palazzo Madama”

Fino al 2 febbraio 2026

Occasione contingente, il riallestimento della “Sala Tessuti”. Da questa pratica incombenza, nasce una mostra di notevole valore culturale, storico e didattico che racconta, attraverso sei secoli di altissima arte tessile una storia che passa per ricami minuti e intricati e preziosi merletti, arrivando al più iconico degli abiti femminili di colore bianco, il colore naturale della seta e del lino: l’abito da sposa. Si presenta così la mostra dal titolo (non per nulla) di “Bianco al Femminile” curata da Paola Ruffino e allestita nella “Sala Tessuti” di “Palazzo Madama” fino a lunedì 2 febbraio 2026. In rassegna, trovano adeguato spazio cinquanta manufatti tessili, appartenenti alle Collezioni del Palazzo che fu “Casa dei secoli” per Guido Gozzano, di cui sei restaurati per questa precisa occasione e quattordici esposti per la prima volta: autentici capolavori nati dal sorprendente lavoro (più che artigianale) passato, per tradizioni secolari, attraverso “mani femminili” che hanno operato con minuta diligenza sul “ricamo in lino medievale”, così come sulla lavorazione dei “merletti ad ago” o “a fuselli” o ancora sul “ricamo in bianco su bianco”. Donne artigiane, donne artiste, donne “autrici, creatrici, nonché raffinate fruitrici e committenti di tessuti e accessori di moda”. Comune fil rouge, per tutte, il colore bianco, colore “in stretta connessione, materiale e simbolica, proprio con la donna”. E che trova il suo massimo apice in Francia e in Europa, sul finire del XVIII secolo, complice il fascino esercitato dalla statuaria greca e romana su una moda che guarda, affascinata non poco, all’antico. “Le giovani – si legge in nota – adottano semplici abiti ‘en-chemise’, trattenuti in vita da una fusciacca; il modello del ‘cingulum’ delle donne romane sposate, portato alto sotto al seno, dà avvio ad una moda che durerà per trent’anni. I tessuti preferiti sono mussole di cotone, garze di seta, rasi leggeri, bianchi o a disegni minuti, come le porcellane dei servizi da tè”.

Dal XIV – XV secolo fino al Novecento (dietro l’angolo) l’iter espositivo prende avvio dai primi “ricami dei monasteri femminili”, in particolare di area tedesca e della regione del lago di Costanza (lavorati su tela di lino naturale e poi diffusisi, per la povertà dei materiali e per la facilità di esecuzione, anche in ambito domestico – laico, per la decorazione di tovaglie e cuscini) per poi passare a documentare la lavorazione del “merletto” nell’Europa del XVI e XVII secolo che vide protagonisti i lini bianchissimi e la straordinaria abilità delle “merlettaie veneziane e fiamminghe”. In rassegna una scelta di bordi e accessori in pizzo italiani e belgi illustra gli eccezionali risultati decorativi di quest’arte “esclusivamente femminile”, che nel Settecento superò gli stretti confini della casa o del convento e si organizzò in “manifatture”. E proprio l’inizio della “produzione meccanizzata” causò, nel XIX secolo, la perdita di quell’insostituibile virtuosismo nell’arte manuale del “merletto”, che riemerse invece nel ricamo in filo bianco sulle sottili “tele batista” (in trama fatta con filati di titolo sottile) e sulle “mussole” dei “fazzoletti femminili”. Quattro splendidi esemplari illustrano l’alta raffinatezza raggiunta da questi accessori, decorati con un lavoro a ricamo che restò sempre un’attività soltanto al femminile, anche quando esercitata a livello professionale.

L’esposizione si conclude nel XX secolo con uno dei temi che più vedono uniti la donna e il colore bianco nella nostra tradizione, l’ “abito da sposa”, con un abito del 1970, corto, accompagnato non dal velo ma da una avveniristica cagoule (cappuccio), scelta non scontata “che ribadisce la forza e la persistenza del rapporto tra l’immagine della donna e il candore del bianco”.

La selezione di tessuti è accostata nell’allestimento a diverse “opere di arte applicata”, fra cui miniature, incisioni, porcellane e legature provenienti dalle Collezioni del “Museo”. 

In occasione del nuovo allestimento delle Collezioni Tessili, “Palazzo Madama” propone, inoltre, un laboratorio di cucitura in forma meditativa” a cura di Rita Hokai Piana nelle giornate di sabato 15 e 22 marzo, 5 12 aprile,  dalle ore 10 alle ore 13. Tutte le info su: www.palazzomadamatorino.it

Gianni Milani

“Bianco al Femminile”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 2 febbraio 2026

Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; mart. chiuso

 

Nelle foto: “Sala Tessuti” (Ph. Studio Gonella); Caracò, Italia 1750-60; Corpetto, Germania sud-occidentale, 1750-75

La pieve di San Pietro a Pianezza. Uno dei tesori oltre la cintura di Torino

 

Eretta sulla sponda del Dora Riparia nel XII secolo in stile romanico lombardo, con il tetto a capanna, e dedicata a San Pietro, la pieve di Pianezza, a pochi chilometri da Torino, offre uno spettacolo unico e, probabilmente, inaspettato grazie ai suoi affreschi, un ciclo dipinto, quasi interamente, da Giacomo Jaquerio e altri artisti della sua scuola. Il pittore fu il rappresentante della pittura tardo-gotica in Piemonte e le sue opere, grazie al duca Amedeo VIII, arrivarono fino a Ginevra.

Sconsacrata oramai da molto, un tempo fu luogo di preghiera di pellegrini e viandanti, e venne costruita, con molta probabilita’, al posto di un tempio pagano; in origine era costituita da una sola navata, ma in epoca gotica (tra il 300 e il 400) ne furono aggiunte altra due piu’ piccole. La facciata, in un primo tempo poco curata, fu riqualificata a fine ‘300 con mattoni rossi romanici e materiali di recupero mentre l’entrata fu collocata nella parte laterale da dove si accede anche al presbiterio. Durante l’ultima fase dei lavori sono stati dipinti il Cristo in Croce, una santa non identificata sul pilastro di entrata ed un’altra vicina all’immagine di Santa Margherita. Molto belle anche le vetrate colorate, copie create nell’800, i cui originali di Antoine de Lonhy sono conservati al Museo Civico Torinese di Palazzo Madama.

I Provana, una tra le cinque famiglie feudali piu’ importanti del Piemonte, volle fortemente le decorazioni della Pieve di San Pietro, tra queste, oltre a quelle gia’ citate, abbiamo la raffigurazione degli Apostoli, l’Annunciazione e il dipinto dedicato a Santa Caterina; nella cappella che porta il loro nome, invece, troviamo il dipinto sulla vita di San Giovanni in cui si riconoscono anche i simboli della famiglia: il liocorno e i tralci di vite.

La Pieve di San Pietro si aggiunge alle moltissime opere in stile romanico del Piemonte (chiese, castelli, abbazie) che venivano edificate perlopiu’ sulle strade devozionali, come la via Francigena che portava i pellegrini dall’Inghilterra fino a Roma.

Normalmente non e’ aperta al pubblico, ma si può visitare contattando gli uffici comunali o i gruppi di volontari dedicati. In questa chiesa, inoltre, e’ possibile celebrare matrimoni civili assecondando cosi’ la volonta’ di valorizzare ancora di piu’ il patrimonio architettonico della citta’.

MARIA LA BARBERA

Apertura su richiesta; prenotazioni presso l’ufficio URP 011/9670211 oppure
presso UNECON: 3333903669 – 3394620103 – 3356171376
unecon2019@gmail.com

Linea Cadorna, la Maginot italiana

Il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale

Linea Cadorna” è il nome con cui è conosciuto  il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale. Un’opera fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore), con lo scopo di contrastare una eventuale invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera.

Lo scoppio della guerra – il 23 luglio del 1914 –  e gli avvenimenti successivi tra cui l’invasione del Belgio neutrale e i cambi di alleanze tra le varie potenze europee, accentuarono i dubbi sulla volontà del governo elvetico di far rispettare la neutralità del proprio territorio. Così, una volta che l’Italia entrò in guerra  contro l’Austria  – il 24 maggio 1915 – , il generale Cadorna, per non incorrere in amare sorprese, ordinò di avviare i lavori difensivi, rendendo esecutivo il progetto di difesa già predisposto. Da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche, ricerche tecnologiche. E non si era stati con le mani in mano: a partire dal 1911 erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore,  e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola, tra le prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Anche la Svizzera, dal canto suo,  intensificò i lavori di fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel canton Ticino. In realtà,tornando alla Linea Cadorna,quest’opera, nella terminologia militare dell’epoca, era definita come ” Frontiera Nord” o, per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nordverso la Svizzera”. E, ad onor del vero, più che una fortificazione collocata a ridosso della frontiera si tratta di una linea difensiva costruita in località più arretrate rispetto al confine, con lo scopo di presidiare  i punti nevralgici. Un’impresa mastodontica.

 

Basta scorrere, in sintesi,  la consistenza dei lavori eseguiti e delle spese sostenute per la loro realizzazione: “Sistemazione difensiva – Si svolge dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta. Comprende 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai ( con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni”. Le ristrettezze finanziarie indussero ad un utilizzo oculato delle materie prime,recuperate sul territorio. Si aprirono cave di sabbia, venne drenata la ghiaia negli alvei di fiumi e torrenti; si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque. Gli scalpellini ricavarono il  pietrame, boscaioli e falegnami il legname da opera, e così via. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai 17 anni e non superiore ai sessanta e, in più, occorreva che i lavoratori fossero muniti di indumenti ed oggetti personali. A dire il vero, in ragione della ridotta disponibilità di manodopera maschile, per i frequenti richiami alle armi, vennero assunti anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, di guardiani dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.  La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e di occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private.

 

Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto ( il rancio)  uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato, in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi; da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti; da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori; da 60 ad una lira per i capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e  prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. Delle paventate truppe d’invasione che, come orde fameliche, valicando le Alpi, sarebbero dilagate nella pianura padana, non si vide neppure l’ombra. Così, senza il nemico e senza la necessità di sparare un colpo, con la fine della guerra,  le fortificazioni vennero dismesse. Quelle strutture, negli anni del primo dopoguerra, furono in parte riutilizzate per le esercitazioni militari e , negli anni trenta, inserite in blocco e d’ufficio nell’ambizioso  progetto del “Vallo Alpino”, la linea difensiva che avrebbe dovuto – come una sorta di “grande muraglia” –  rendere inviolabili gli oltre 1800 chilometri di confine dello Stato italiano. Un’impresa titanica, da far tremare le vene ai polsi che, forse proprio perché troppo ardita, in realtà, non giunse mai a compimento. Anche nella seconda guerra mondiale, la Linea Cadorna non conobbe operazioni  belliche, se si escludono i due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi , durante la Resistenza, furono utilizzati dalle formazioni partigiane. Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949, anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della “guerra fredda”. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

 

Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte  alla fruizione turistica, lungo gli itinerari segnalati. La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una  vera e propria “Maginot italiana”,  un gigante inviolato, in grado di presentarsi senza aloni drammatici, come un sito archeologico dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo ma non quella dirompente della guerra. Tralasciando la parte lombarda che si estende fino alla Valtellina e restando in territorio piemontese, sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara  – sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondovalle ossolano –  alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera  ( la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), dalle trincee circolari con i camminamenti e la grande postazione per obici e mortai del Monte Bavarione fino alle linee difensive del Vadà e del monte Carza, per terminare con quelle  della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: “la Zeda”.

Marco Travaglini

Lo strano caso del Dottor Bruneri e del Signor Canella

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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3. Lo strano caso del Dottor Bruneri e il Signor Canella
È il 10 marzo 1926, siamo in un cimitero ebraico di Torino, un rumore di cocci e terriccio desta l’attenzione del guardiano, che sorprende un signore intento a rubare un vaso di rame da una tomba. Immediatamente avvisate le autorità, il ladro viene arrestato e portato in Questura. L’uomo non riesce a esprimersi bene, non conosce il suo nome, non sa da dove viene, né quale sia il suo mestiere, non ricorda assolutamente nulla. Le uniche parole che riesce a dire sono in piemontese: “Monsu, ch’am rovin-a nen. Ch’am fasa ‘l piasì ‘d lasseme andè”. Lo smemorato si trova in uno stato di grande agitazione, preso dall’ansia tenta un maldestro suicidio, ma tutto ciò che ottiene è essere rinchiuso nel manicomio di Collegno, dove la sua identità diventa il numero 44.170. In Questura viene foto-segnalato e gli vengono prese le impronte digitali, il cartellino segnaletico così compilato è inviato a Roma, al Servizio centrale d’identità, ma senza risultati. Intanto, lo smemorato si ambienta nella sua nuova casa, lega particolarmente con un detenuto poco raccomandabile, il milanese Riccardo Testa, cocainomane e rapinatore, soprannominato il “commediografo ladro”, con lui trascorre molto tempo, soprattutto giocando interminabili partite a scacchi. Il rapporto di amicizia diventa forte e stabile, Testa addirittura dedica all’amico senza identità un sonetto dal titolo “L’amico ignoto” (2 dicembre 1926):
.
“Io non so chi tu sia, mio grande amico
eppur l’anima tua m’appar sì bella
che a te m’affido come ad una stella
s’affidava il viator nel corso antico.
Tu credi e preghi ed ami e doni, e quella
luce serena degli occhi tuoi, l’intrico
dei miei pensieri scioglie ed affratella
contro l’oscuro e vigile nemico:
Il dubbio. Oh! Non lasciarmi più giammai
amico ignoto datomi da Dio!
Senza di te mi pare d’esser solo;
senza di te non riprendo il volo
oltre l’azzurre vette ed i nevai:
incontro al sol ed al Sovrano mio.”
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Lo smemorato continua la sua vita tranquilla all’interno del manicomio, gioca a scacchi, legge, produce addirittura alcuni saggi letterari e disegna discretamente alcune caricature di altri degenti, scusandosi quando questi ultimi si mostrano offesi; gli vengono, poi, attribuite alcune meditazioni filosofiche che egli esegue sotto i rami di uno specifico pino, chiamato “il pino di Canella”. Tutto pare tranquillo e statico, quando il 6 febbraio 1927 la sua fotografia viene pubblicata sul settimanale italiano più popolare, “La Domenica del Corriere”, accompagnata da mastodontiche parole: “Chi lo conosce?” È l’inizio di una vicenda bizzarra e misteriosa. 
A Verona una donna risponde inaspettatamente alla domanda, si tratta di Giulia Concetta Canella, che riconosce nell’uomo della fotografia suo marito Giulio Canella, letterato e docente, capitano della Brigata Ivrea inviata in Macedonia e dichiarato disperso il 25 novembre 1916, presso la località di Bitola. Svelata dunque l’identità dello smemorato, che si scopre quarantaseienne padovano, sposato con la cugina, figlia di un ricco possidente terriero che aveva grossi investimenti in Brasile.  La donna parte per Collegno per avere il riscontro definitivo: dopo dieci anni di lutto e dolore il suo sogno si era avverato, l’amatissimo marito era tornato da lei e dai loro due figli, Rita e Giuseppe. La scena dell’incontro viene immortalata da una copertina della “Domenica del Corriere”, la bislacca vicenda trova finalmente un lieto fine, il direttore del manicomio dimette lo smemorato che se ne va a Verona con la moglie tanto amata. Eppure la storia non finisce qui: il 3 marzo 1927 arriva alla Questura torinese una lettera anonima, firmata da una persona che si definisce “amico della verità e della giustizia”, in cui si segnala che l’ex ricoverato non è Giulio Canella ma Mario Bruneri, tipografo torinese con non pochi conti da regolare con la giustizia. La vicenda, dunque, ricomincia da capo. La Polizia recupera le impronte digitali di Bruneri e dall’analisi risulta che le linee papillari corrispondono a quelle dello smemorato. Tale riscontro non si era potuto effettuare precedentemente perché Bruneri non era schedato come criminale pericoloso e la polizia scientifica di Roma non disponeva, nel suo archivio, del suo cartellino segnaletico. Lo smemorato non è dunque il professor Canella, ma Mario Bruneri, sposato con Rosa Negro, padre di un figlio, Giuseppino, e amante di Camilla Ghidini, tutte persone che lo riconoscono e confermano questa seconda identità. La vicenda diventa un caso mediatico, la popolazione si divide in due fazioni, i bruneriani e i canelliani, moltissimi cittadini scrivono il proprio parere ai giornali e propongono prove fantasiose a sostegno della tesi che meglio piace. Inizia un vero e complesso processo, a colpi di prove scientifiche e testimonianze dirette, nessuna delle due donne si tira indietro, Giulia non si arrende nemmeno davanti alla prova inconfutabile delle impronte digitali, la proiezione del desiderio del ritorno del marito è talmente forte che le fa distorcere la realtà. Si effettua l’esame dei padiglioni auricolari, che in ben diciassette punti differisce da quello di Canella, ma nemmeno questa prova riesce a far cambiare idea alla Penelope veronese. A riprova che non si tratta di Canella c’è il fatto che l’uomo non conosce per nulla né il latino né il greco, non sa suonare il pianoforte, ha in generale una cultura molto approssimativa, ignora elementi teologici fondamentali, si dimostra l’esatto contrario di quello che doveva essere il professor Canella. Il neuropsichiatra Alfredo Coppola, perito del Tribunale, nella perizia sostiene che lo smemorato sia Bruneri e che egli abbia simulato, con grande capacità recitativa, un’amnesia cognitiva. Il caso dello smemorato di Collegno diviene tra i più conosciuti, non solo per l’insolita vicenda, ma anche perché si tratta della prima volta in cui sociologi e neuropsichiatri spiegano ai lettori semplici che cosa sia la memoria e che cosa significhi la rimozione dei ricordi in seguito a traumi. Giulia Canella non si smuove. È innamorata di suo marito, ora che lo ha ritrovato ancora di più, infatti rimane incinta altre quattro volte da quando i due si sono ricongiunti. Il caso Bruneri-Canella ha ulteriori sviluppi e con l’ordinanza del 23 dicembre 1927, il Tribunale dichiara che l’identificazione dello smemorato con Mario Bruneri non è stata raggiunta, non si possono quindi eseguire i tre mandati di cattura. Lo smemorato chiude i suoi rapporti con la giustizia, mentre la sua vera identità rimane ad ogni effetto, in bilico tra i due profili, quello del dotto Giulio Canella e quello del povero Mario Bruneri. Il 10 gennaio 1928 il Presidente del Tribunale autorizza la direzione del manicomio a dimettere lo smemorato, rinchiuso a Collegno il 12 marzo 1927, per affidarlo in custodia all’avvocato Gino Zanetti, che lo consegna definitivamente nelle mani di Giulia Canella. Il 5 novembre 1928 il Tribunale Civile di Torino ribalta l’ordinanza del Tribunale e identifica Mario Bruneri nello smemorato. I Canella ricorrono in appello. Il 7 agosto 1929 la Corte d’Appello di Torino conferma la sentenza di primo grado. I Canella ricorrono in Cassazione e l’11 marzo 1930 la Cassazione annulla la sentenza della Corte d’Appello di Torino per insufficiente motivazione, e rinvia gli atti alla Corte d’Appello di Firenze. Il 1 maggio la Corte d’Appello di Firenze conferma la sentenza di Torino, il 24 dicembre 1931 la Cassazione conferma la sentenza di Firenze. Per la giustizia italiana lo smemorato è definitivamente Mario Bruneri, il quale deve scontare le pene che gli sono state attribuite. Il 1 maggio 1932, grazie ad un’amnistia, lo smemorato viene rilasciato dal carcere di Pallanza e nel mese di ottobre parte per Rio de Janeiro, dove il probabile suocero gode di un’ottima reputazione e possiede vaste proprietà. In quelle terre viene accolto come Giulio Canella e lì muore il 12 dicembre 1941. Nell’ultimo periodo della sua vita si dedica allo studio della filosofia e scrive una serie di saggi. A distanza di trent’anni dalla morte dello smemorato il segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Giovanni Benelli, precisa che la Chiesa riconosce nello smemorato il professor Giulio Canella e dunque Giulia Canella rimane la sua legittima consorte, come legittimi sono i figli nati dall’unione dei due. Nel 2014 viene effettuato l’esame del DNA sui diretti discendenti, i risultati riaprono l’indagine, dimostrando che, forse, lo smemorato era in realtà Mario Bruneri.
Alessia Cagnotto