STORIA

Trasferta cinese dei sabaudi “Musei Reali”. Tutta l’epopea dei cavalieri rinascimentali, ma non solo

In mostra per la prima volta in Cina su prestito dei torinesi “Musei Reali”

Fino al 22 giugno

Titolo e sottotitolo chiariscono subito i contenuti della grande rassegna organizzata in Cina, al “Nanshan Museum” (7mila metri quadrati espositivi) di Shenzhen (città meridionale sul delta del Fiume delle Perle, al confine con Hong Kong) dai nostri prestigiosi “Musei Reali”, costituitisi fra XVI e XX secolo, di pari passo con la storia dei Savoia, inglobando nei loro (a oggi) 30mila metri quadrati anche reperti ben più antichi all’interno delle proprie Collezioni, composte da più di 400mila opere, fra dipinti, sculture, reperti archeologici, tessuti, oreficerie, armi e armature, per finire con libri e disegni. Opere che oggi parlano di Torino e dell’Italia riuniti, fino a domenica 22 giugno, in ben 140 pezzi in un sito museale fra i più prestigiosi della Cina e in una città di 18milioni di abitanti, dichiarata negli anni Ottanta “Zona Economica Speciale” e oggi principale centro tecnologico della Repubblica Popolare, con sede di giganti come “Huawei” e “Tencent”, nonché della “Byd”, fra le maggiori industrie di automobili elettriche del Paese.

Titolo e sottotitolo, si diceva: “Steel of Glory” e “A Knight’s Life of Armor, Blade and Honor”. Come dire “Acciaio di Guerra” e “Una vita da cavaliere fatta di armature, lame e onore”. E’ infatti l’epopea degli antichi cavalieri, con le loro armature, i miti e le leggende a farla totalmente da protagonista della grande, sorprendente esposizione in trasferta dalla Mole a Shenzhen, che, offrendo al pubblico cinese la possibilità di ammirare preziose opere mai uscite dalla loro sede subalpina, “ripercorre la storia della cavalleria e la creazione del suo mito, dalle premesse tra l’VIII e il IX secolo, quando in Europa si verificano le condizioni economiche e sociali favorevoli alla nascita del sistema feudale, fino all’età dell’oro che coincide con il periodo dall’XI al XIII secolo quando la categoria dei cavalieri diventa un ceto sociale”.

Una nutrita selezione di capolavori provenienti dalle collezioni dei “Musei Reali”, in particolare dall’“Armeria Reale”, una delle più importanti al mondo (insieme a quella di Madrid, a quella imperiale di Vienna e a quella dei Cavalieri di Malta) darà la possibilità di ammirare la produzione europea di armi e armature da parata e da torneo tra il XVI e il XVII secolo. In esposizione, il pubblico potrà dunque ammirare pezzi di altissimo valore storico e artistico-artigianale. Fra i più pregevoli un’“armatura completa per cavallo e cavaliere” uscita dopo duecento anni e per la prima volta dall’“Armeria Reale”, insieme ad una rara “armatura da bambino” e a un “elmo modellato a forma di animali fantastici”, tutti risalenti al Rinascimento. Per non dire della “Spada” appartenuta al primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, autentico capolavoro di cesellatura.

Sottolinea Mario Turetta, direttore delegato dei “Musei Reali” torinesi: “Collaborare con un’importante istituzione cinese come il Museo di Nanshan rientra tra le iniziative di valorizzazione volte a promuovere i rapporti tra la Cina e l’Italia attraverso l’organizzazione di attività espositive, straordinaria fonte di accrescimento culturale e di confronto metodologico sulla gestione e sulla conservazione delle collezioni”.

E a lui fa eco Valerio De Parolis, Console Generale d’Italia a Canton: “A Shenzhen presentiamo con orgoglio una pagina di storia italiana che mette in risalto il nostro inestimabile patrimonio di cultura e tradizioni, attraverso questa esposizione molto scenografica e di assoluto prestigio delle collezioni dei ‘Musei Reali’ di Torino. È una mostra che suggella l’incontro tra una delle maggiori istituzioni museali del nostro Paese con un polo museale di prim’ordine del Sud della Cina, e che consente di rafforzare ulteriormente lo scambio culturale e la conoscenza reciproca tra l’Italia e la Provincia del Guangdong”.

Curata dai “Musei Reali” di Torino e ideata e organizzata da “Arteficio”, la mostra resterà a Shenzhen fino a domenica 22 giugno per poi spostarsi in altri tre Musei della Repubblica Popolare Cinese.

Gianni Milani

Nelle foto: “Steel of Glory” Allestimento; “Armatura di ragazzo”, acciaio inciso, 1560/1570; “Armatura di uomo e cavallo” (Particolare), acciaio inciso a bulino e all’acquaforte, circa 1550; Eusebio Zuloaga “Spada d’onore di Vittorio EmanueleII”, acciaio damascato, oro e argento, 1852/1853

Mu-To ripropone “Maciste”, da vedere anche dopo 110 anni

Il cinema muto ebbe un’ampia diffusione a Torino, attraverso grandi case di produzione quali Aquila Films, Ambrosio e Itala Film, tutte attive nel momento di ascesa del cinema come forma d’arte. Nella città piemontese nacquero alcuni dei primi film muti con trame sofisticate e capolavori del cinema italiano, come Cabiria (1914).

Martedì 25 marzo ha avuto luogo il primo dei due appuntamenti di Mu-To, un progetto dedicato alla proiezione dei film muti in un’atmosfera originale: un po’ di luce soffusa, una sala piena di gente (evento raro nei nostri giorni) e un accompagnamento musicale dal vivo. L’evento è stato organizzato con la partecipazione del Conservatorio Giuseppe Verdi, del Liceo Classico e Musicale “Cavour” e del Museo Nazionale del Cinema. Si è trattato solo del primo incontro dei due in programmadel secondo, che si svolgerà ad aprile, verrà comunicata la data precisa sui social del Cinema Massimo e del Conservatorio Giuseppe Verdi.

Durante la serata la sala 3 del Cinema Massimo era gremita. Il primo film in programma è stato Maciste (1915), il cui protagonista è un uomo caratterizzato da una forza straordinaria e interpretato da un attore divenuto iconico: Bartolomeo Pagano. Un’opera che contribuì a sviluppare ulteriormente il divismo, fenomeno, già avviato nel XIX secolo, che consisteva in una sorta di divinizzazione delle star, le quali diventavano più popolari dei personaggi da loro interpretati.

Maciste (senza fare spoiler) è un allegro film d’avventura che vale la pena vedere anche a distanza di 110 anni. L’esperienza è stata resa unica in particolare da un giovane protégé pianista, che ha accompagnato il film senza alcuna interruzione per tutta la sua durata ben 67 minuti! Quella melodia, che allinizio sembrava una semplice colonna sonora, alla fine ha scatenato un’ovazione. L’esecuzione è stata così impeccabile che era difficile all’inizio credere che si trattasse di un accompagnamento dal vivo, perciò non si poteva fare altro se non applaudirlo calorosamente. Insieme alle risate della sala, scatenate dalle scene più divertenti, ha reso quella serata indimenticabile.

Dopo quel momento introduttivo (la proiezione di un classico lungometraggio), si è svolta la seconda parte della serata, in cui sono stati riprodotti 6 cortometraggi, quasi tutti realizzati e poi restaurati a Torino. Questa volta le immagini sullo schermo erano accompagnate dall’intera orchestra giovanile del Liceo Classico e Musicale Cavour. I film scelti erano tra loro molto diversi: dai primi esperimenti di cinema narrativo ai film francesi della società Pathé, risalenti al 1907 e orientati allintrattenimento. Sono rivolti a uno spettatore più attento rispetto a Maciste, che, ribadisco, è un film sicuramente migliore di alcune produzioni di Marvel, come Captain Marvel. Richiedono che lo spettatore abbia una capacità di lettura approfondita delle opere cinematografiche; anche la musica, questa volta suonata da giovani, non è sempre di altissimo livello, però ha i suoi momenti di fama e di sorpresa, con l’introduzione di una colonna sonora in stile jazz.

Per concludere, questo evento è soltanto alla sua seconda edizione, ma ha tutte le carte in regola per sopravvivere. Si configura come una grande sfida collettiva per assicurare al pubblico un’esperienza unica nel suo genere.

Viktor  Smolkin

redattore di The Password

Stemmologia dei Gozzani di Casale 

La posizione sociale-economica che seppe crearsi la famiglia Gozzani di Casale durante la seconda guerra di successione del Monferrato permise loro di assumere e fregiarsi di uno stemma come segno distintivo verso il riconoscimento nobiliare. Lo stemma primordiale della nobile casata è rappresentato su un ritratto di San Carlo Borromeo di autore sconosciuto risalente al 1600, visibile nella chiesa sussidiaria di Santa Maria di Luzzogno situata di fronte alla antica casa dei Gozzano. In parte coperto dalla cornice, rappresenta un’arma avente come elemento parlante un giovane bianco senza benda dal gozzo pronunciato alludendo al nome della famiglia, con giglio d’argento e fascia scaccata obliqua. La prima variante avvenne sullo stemma feudale della Valstrona, dove la testa di giovane bianco volta a sinistra fu sostituita dalla testa di giovane negro con benda sulla fronte senza fascia scaccata, definita più elegante ed aristocratica.

A Varallo Sesia lo stemma dei Gozzani con testa di moro venne arricchito dalla fascia scaccata trasversale, riprodotto su un piatto vecchia Savona esposto nella Pinacoteca di Varallo, proprietà del conte Carlo Dal Pozzo. Sulla copertina del cabreo contenente le prime proprietà dei Gozzani risalente al 1663, autentificato dal notaio Nani della collegiata di Ozzano e agente del castello Gozzani di San Giorgio, le inquartature dello stemma sono identiche a quelle di Varallo con l’aggiunta di una piuma sul capo e fascia sul collo. Nel prezioso documento i numerosi feudi monferrini sono identificati dallo stesso stemma con la variante costante della cornice. Gli altri due cabrei ordinati dai Gozzani nel 1748 e 1767 non sono stati ritrovati. Lo stemma esistente nel palazzo Gozzani Treville di Casale risalente al 1710-1740 è stranamente speculare allo stemma posto sul timpano della chiesa di Odalengo Grande edificato dai Gozzani nel 1786.
Nel municipio casalese, palazzo Gozzani San Giorgio risalente al 1778, gli stemmi sono diversificati. Le teste di giovane bianco dello stemma nell’androne principale non risultano volte a sinistra come gli stemmi originali ma contrapposte, con benda sugli occhi e orecchino senza fascia scaccata simile a quello esistente nel Palazzo Madama di Torino proveniente dal palazzo Gozzani San Giorgio di via Bogino, recante però la benda sulla fronte senza orecchino. Nella segreteria del sindaco casalese la singola testa di moro volta a destra dei marchesi Gozzani in marmo bruno di Levanto, incastonata nel caminetto in marmo giallo di Verona, reca la benda sulla fronte senza orecchino. Nell’ufficio protocollo comunale lo stemma in gesso con galero e nappe del vescovo Gozzani reca la testa di moro volta a sinistra con benda sugli occhi, orecchino e fascia sul collo contrariamente allo stemma dei suoi Sinodi di Acqui raffigurante due giovani bianchi con benda sulla fronte senza orecchino.
Nel castello Gozzani di San Giorgio gli stemmi in pietra, marmo, ferro e gesso riportano la fascia scaccata con colori diversi, oro-rosso, rosso-nero e giallo-nero come l’antico cabreo. Il blasonario subalpino di Antonio Manno affianca erroneamente lo stemma a colori del castello di San Giorgio alla linea austriaca dei marchesi Gozzani, non sapendo che l’ultimo marchese conosceva bene il diverso stemma conferito dal Kaiser al nonno emigrato in Slovenia e non aveva modificato gli stemmi esistenti a Casale e San Giorgio. A Casale si narra che il blasonatore dei Gonzaga aveva penalizzato lo stemma dei Gozzani con l’inserimento del giglio per ricordare il favoritismo francese e la benda sugli occhi con orecchino a causa della loro bassa origine ma in realtà lo stemma con giglio e testa di moro era stato adottato dai Gozzani 150 anni prima in Valstrona con queste sporadiche varianti.

In simili contesti nazionali, la testa di moro è rappresentata sempre con una benda, esempio tipico la trasformazione secolare del vessillo sardo e una riproduzione antica di un podestà di Todi. Lo stemma ufficiale del marchese Titus Gozani residente a Dusseldorf, ultimo esponente vivente della linea austriaca di San Giorgio, reca la benda sulla fronte con orecchino senza fascia scaccata. Riassumendo, ognuno dei marchesi Gozzani assumeva liberamente uno stemma personale per identificare le notevoli proprietà dagli altri membri della famiglia, in altri casi si trattava solamente di un errore dell’artista a cui era stato assegnato il lavoro. Solo in alcune rare occasioni il blasonatore reale concedeva lo stemma araldico.
Armano Luigi Gozzano

Ecco l’Appartamento del Principe, mai visitabile a Palazzo Reale

Persiane spalancate e luci accese a Palazzo Reale a Torino. Non solo al primo piano, visitabile ogni giorno, ma anche al secondo piano, aperto in via eccezionale per le Giornate FAI di primavera organizzate dal Fondo Ambiente Italiano. Lunghe code per entrare nell’Appartamento del Principe ma l’attesa viene subito ripagata dallo splendore degli arredi, degli arazzi, dei dipinti e dei mobili della dimora dell’ultimo Re d’Italia. Code tutto sommato abbastanza scorrevoli e ben gestite dai volontari del Fai.
Grazie a loro siamo entrati nei saloni dove vivevano i Principi ereditari, un luogo che viene aperto solo in occasioni molto particolari. Il secondo piano di Palazzo Reale è infatti sempre chiuso al pubblico per mancanza di personale. Con il Fai si entra, non accadeva da quindici anni. Mentre il primo piano, sempre aperto alle visite del pubblico, era riservato al sovrano e alla sua famiglia, il secondo piano di Palazzo Reale, un tempo cuore politico e artistico di Torino dal Seicento alla metà del Novecento, era destinato ai principi ereditari e alle loro consorti. Naturalmente i saloni hanno subito radicali cambiamenti nei secoli decisi dai vari architetti chiamati a Palazzo.
Molto sfarzosa appare infatti la scenografia allestita per le nozze del futuro Carlo Emanuele III con Anna Cristina di Baviera Sultzbach celebrate nel 1722 dal messinese Filippo Juvarra, il celebre l’architetto che ha cambiato il volto di Torino e che operò per tanti anni alla corte dei Savoia. Per il matrimonio Juvarra realizzò la Scala delle Forbici, capolavoro assoluto della residenza. L’appartamento del Principe fu in seguito riallestito da Benedetto Alfieri a metà Settecento per Vittorio Amedeo III e nella prima metà dell’Ottocento toccò a Pelagio Palagi ridisegnare in termini neoclassici gli spazi interni per Vittorio Emanuele, il futuro primo Re dell’Italia unita, e Maria Adelaide d’Asburgo.
I tempi cambiano, i secoli passano, le mode anche. Infine sarà il principe ereditario Umberto, trasferitosi a Torino nel 1925 per seguire le manovre del suo reggimento, a rinnovare le trenta sale di Palazzo Reale con arredi del Settecento e strutture moderne. Verrà installato un impianto di riscaldamento con termosifoni nascosti nelle bocche dei camini e ogni sala verrà attrezzata con ascensori e montacarichi. Si può vedere lo studio di Umberto in cui il principe leggeva la corrispondenza e riceveva ospiti importanti. L’allestimento di Palagi verrà mantenuto solo nell’alloggio occupato nel 1930 dalla moglie Maria Josè del Belgio. Dopo la guerra e la fine della monarchia l’Appartamento del Principe venne dimenticato per almeno 50 anni.
Di recente è stato restaurato seguendo le scelte di Umberto II. L’appartamento dei Principi è uno dei 105 beni che il Fai ha aperto nel weekend in 51 città tra Piemonte e Valle d’Aosta nelle tradizionali Giornate di Primavera giunte alla 33esima edizione.
 Filippo Re
Nelle foto alcuni saloni dell’Appartamento del Principe a Palazzo Reale e le code in Piazzetta Reale

“L’Artigliere Cartoliniere” al Mastio della Cittadella: ultimi giorni

Cartoline e disegni  di Antonio Mascia

Fino a sabato 29 marzo

Cartoline e disegni che esprimono in ogni tratto segnico e cromatico, l’abilità del grafico – pittore, ma anche la passione verso ideali etici ed esistenziali che da sempre guidano la sua mano e il suo cuore e, con essi, il trasporto emotivo verso valori che hanno fatto la “nostra” Storia e che, oggi, purtroppo appaiono troppo spesso trascurati, se non del tutto dimenticati o, ancor peggio, portati alla ribalta di talk televisivi assai poco “onesti” e convincenti.

Fra le innumerevoli (circa 200) opere originali esposte – tutte realizzate a mano, tra cartoline, disegni, incisioni, quadri, taccuini, una cassetta postale ed un tamburo – troviamo i vividi colori del “foulard di Madama Micca” e il soldato con l’uniforme dei “Dragoni di Piemonte”, accanto al rapido essenziale e nitido disegno blu “a biro” della “batteria” pronta a far fuoco e alla “cassetta postale da campo” con lo stemma sabaudo di “rosso alla croce argento”: sono queste solo alcune delle opere raccolte in un’avvincente mostra, dal titolo “L’Artigliere Cartoliniere”, curata dall’“Associazione Amici del Museo Pietro Micca” ed ospitata, fino a sabato 29 marzo, presso il “Mastio della Cittadella”, in corso Galileo Ferraris, a Torino. A firmarle è Antonio Mascia che, nove anni dopo la prima mostra tematica “Il dragone cartoliniere” (al Museo Civico “Pietro Micca e dell’assedio di Torino del 1706”), presenta ora un’accurata selezione di nuove opere, attraverso le quali rendere omaggio all’“Artiglieria” Italiana” e in cui l’artista “vuole raccontare – scrive il Gen. Di Brigata Luigi Cinaglia – come si comportano i ‘reenactors’, vale a dire coloro che partecipano attivamente alle rievocazioni storiche, con lo scopo di invitare le varie generazioni a volgere uno sguardo al passato per indagare il presente con uno slancio verso il futuro”.

L’esposizione documenta circa quindici anni d’impegno dell’artista, in qualità sia di “disegnatore” sia di “socio volontario” dell’Associazione “Amici del Museo Pietro Micca e dell’Assedio di Torino del 1706”, con l’uniforme dei “Dragoni di Piemonte” all’interno delle attività di rievocazione del “Gruppo Storico Pietro Micca della Città di Torino”, a partire dal 2007. Inserendosi nel filone degli artisti che hanno accompagnato gli eserciti, vivendo accanto ai soldati e documentandone le vicissitudini, Antonio Mascia prosegue la tradizione nel far vivere emozioni che attraversano il tempo. Una tradizione che continua ancora oggi in Francia e nel Regno Unito con manifestazioni prive di qualsivoglia alone nostalgico e organizzate secondo i canoni della piena  contemporaneità. Per questa ragione, l’invito rivolto al pubblico da Mascia (il cui percorso creativo annovera migliaia di opere) è quello di “avvicinare le cartoline, toccarle e girarle sul retro per meglio cogliere tutti gli elementi di questa particolare forma d’arte popolare che viaggia nel mondo e unisce popoli e culture differenti”. Il tutto, attraverso “soggetti militari” che vanno dagli antichi eserciti “sanniti e romani”, agli “ussari napoleonici”, fino alla vita nelle trincee durante la prima guerra mondiale e agli attuali contingenti italiani di stanza in luoghi del mondo particolarmente “fragili” dal punto di vista della sicurezza, così come ai reportages disegnati negli accampamenti di “rievocazione storica” delle più famose battaglie della storia europea a cui

l’autore solitamente prende parte.

Non solo come “attore – dragoniere”, ma altresì come “artista – cartoliniere”, autore di opere assolutamente convincenti, sotto vari aspetti, che, per questo,  troviamo oggi conservate in numerose Collezioni private in Italia e all’estero (in Spagna, presso la sede dell’“Asociación 1707 Almansa Histórica” di Almansa) e in Collezioni pubbliche (“Civica Galleria d’Arte Moderna” di Torre Pellice, “Museo Diocesano” di Susa, “Museo Arte Urbana” di Torino, “Museo Civico dell’Illustrazione” di Bolzano, “Museo della Cartolina” di Isera, “Fondazione Peano” a Cuneo), “testimoni di un lungo e creativo percorso tra tecniche diverse che compongono una iconografia inedita e ben bilanciata tra le due dimensioni del reale e dell’immaginario”.

Gianni Milani

“L’Artigliere Cartoliniere”

Mastio della Cittadella, corso Galileo Ferraris 2, Torino; tel. 011/5629223 o www.artiglieria.org

Fino al 29 marzo

Orari: dal mart. alla dom. 10,30/12,30 e 15/18

Nelle foto: Antonio Mascia “Il foulard di Madama Micca”, acrilico su tela; “In batteria”, cartolina postale, penna a biro; “Cassetta postale da campo”

Torino e i primi cinquant’anni della donna della domenica

 

Cinquant’anni fa usciva nelle sale cinematografiche La donna della domenica, film diretto da Luigi Comencini e sceneggiato da Age e Scarpelli con Marcello Mastroianni (nei panni del commissario Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio), Jean-Louis Trintignant (Massimo Campi), Lina Volonghi (Ines Tabusso), Claudio Gora (Garrone), Aldo Reggiani, Pino Caruso, Omero Antonutti. La pellicola era tratta dall’omonimo romanzo edito tre anni prima da Mondadori, il primo e il più popolare dei libri di Fruttero & Lucentini, considerato dagli esperti del genere come il capostipite del giallo italiano. Il celebre critico e storico del cinema Gianni Rondolino commentò che il film raccolse un successo pari a quello del romanzo, aggiungendo che “non poteva essere diversamente con un regista come Comencini e due sceneggiatori come Age e Scarpelli a confezionare un prodotto filmico corrispondente.

Il film mantiene in sostanza quello che promette, e l’ingarbugliata vicenda gialla, un poco sfrondata di episodi collaterali, e di motivi secondari, si scioglie progressivamente secondo le regole di tal genere di prodotti. C’è da osservare che nel film manca quella torinesità che invece costituiva il fascino del romanzo”. La donna della domenica, ambientata da Fruttero e Lucentini nella Torino degli anni Settanta, vedeva la città come vera protagonista del racconto con tutte le sue luci e le ombre, descritta nei dettagli, resa reale in ogni sua piega quasi fosse una sintesi in grado di rappresentare la vita italiana di quegli anni. La trama è nota. Nella calda estate torinese del 1973 viene assassinato nel suo pied-à-terre l’architetto Garrone, un personaggio sordido e scontroso che vive di espedienti, piccoli imbrogli e ricatti. Il brutale omicidio viene consumato con un’arma originale dalla vena artistica: un fallo di pietra. La vittima, a causa del suo carattere e della tendenza a molestare il prossimo, aveva parecchi nemici e molti di loro lo avevano minacciato di morte. Così il tenebroso e affascinante commissario Santamaria si trova a indagare su una vasta lista di persone sospette che si trovano a vivere in modo trasversale tra tutti i ceti sociali della città. Tra queste vi sono Anna Carla Dosio, moglie di un ricco industriale, e Massimo Campi, giovane omosessuale della buona borghesia, che con Garrone deploravano vizi, ostentazioni e volgarità dei loro conoscenti. Santamaria ( con il volto di Marcello Mastroianni nel film) si trova così a indagare tra l’ipocrisia, le assurde velleità e i chiacchiericci che animano il mondo della borghesia piemontese, tra professionisti dalla doppia vita, dame dell’alta società dal fascino snob e industriali privi di scrupoli. Pagina dopo pagina si scopre che la vera indagine non è tanto quella tesa a scovare il colpevole quanto il desiderio di svelare vizi e difetti di una società dove regna la doppiezza. Si passa così dalla noia di ricchi imprenditori e agiati borghesi, alla stanca relazione omosessuale che trascina avanti Massimo Campi fino al disprezzo di quell’ambiente di parvenu per i meridionali immigrati e per i ceti popolari che vivono nei quartieri della città della Fiat. Si intuisce così che Torino, in apparenza ordinata e precisa fino ad essere noiosa, nasconde un cuore nero, cattivo e folle. Sono gli stessi Fruttero e Lucentini a far riflettere nel libro il commissario Santamaria, sostenendo come “altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l’avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, al pian dii babi, al livello di rospi”.

Marco Travaglini

 

Quando Bard fermò Napoleone

E’ sempre stato un baluardo inespugnabile il forte valdostano di Bard, una fortezza di sbarramento resa famosa dall’assedio di Napoleone e ricostruita dai Savoia. Si arrese solo alle truppe di Napoleone ma quanta fatica, quante perdite umane, che onta per il grande Napoleone Bonaparte che quel giorno rischiò perfino di essere catturato. Andò su tutte le furie per non essere riuscito ad impadronirsi velocemente del forte a causa della valorosa resistenza dei soldati italiani e austriaci e alla fine decise di raderlo al suolo. Con una curiosità: nel maggio del 1800 Napoleone varcò il Gran San Bernardo non su un maestoso cavallo bianco come si vede nel celebre dipinto del David ma a dorso di mulo accompagnato da una giovane guida che trainava l’animale con sopra Napoleone il quale chiese poi a David di essere ritratto su un cavallo focoso. Ma il fatto straordinario di questa vicenda è che Bard, l’avamposto difensivo dell’esercito austro-piemontese, bloccò la Campagna d’Italia di Napoleone. Bard tenne testa ai francesi alla perfezione. Ma come si svolsero questi fatti storici? Per saperne di più è assai utile leggere il libro “La fortezza inespugnabile di Bard: storia dello sbarramento tra Valle d’Aosta e Pianura Padana” dello storico Mauro Minola, edizioni Susalibri. Fu un’incredibile battuta d’arresto per Napoleone, autoproclamatosi Primo Console con il colpo di Stato del 1799, un tale disonore che lo costrinse a reagire in seguito con la distruzione totale del Castel de Bard. Ma torniamo un po’ indietro. L’unico ostacolo imprevisto che si opponeva alla veloce avanzata dei francesi verso la pianura era appunto il forte di Bard, un bastione imprendibile che controllava e difendeva la Valle d’Aosta. Napoleone lo sottovalutò rischiando di far fallire i suoi piani. Eppure la fortezza era difesa da meno di 400 persone contando anche magazzinieri, cuochi e tamburini. All’esterno premeva una forza soverchiante di 40.000 francesi dell’Armée de Réserve. Come si presentava il forte di Bard nel maggio 1800? Aveva ancora la fisionomia di una fortezza medievale ed erano state realizzate nuove batterie per consolidare le difese in vista dell’attacco. Le scorte di viveri e d’acqua erano sufficienti per oltre due mesi ma dai documenti ufficiali dell’epoca trapela che gli ufficiali francesi non avevano nessun timore del forte e dei suoi difensori a tal punto che la fortificazione non era stata tenuta in nessun conto. Minola spiega che “la causa della sottovalutazione di Bard da parte dei generali di Napoleone fu dovuta alla mancanza di informazioni precise e alla carenza di una cartografia aggiornata della Valle d’Aosta. Secondo recenti ricerche dei cartografi Aliprandi è da cercare proprio in questi fattori il motivo per cui Bard non fu considerato un ostacolo così importante”. Nella notte tra il 21 e il 22 maggio un gruppo di soldati francesi camminando curvi dietro i parapetti che costeggiano la strada si avvicinarono alle postazioni difensive degli austro-piemontesi mentre un secondo gruppo di zappatori e granatieri scese lungo i dirupi della montagna impadronendosi della borgata. Occupato il paese di Bard che contava 246 abitanti cominciò l’assedio al forte con “un audace stratagemma” ideato dai francesi. Far passare i cannoni attraverso l’unica strada che lambiva il borgo appena preso dagli assedianti non era impresa facile. Vari tentativi fallirono per la pioggia di fuoco che arrivava dal forte sovrastante e investiva soldati e mezzi militari. Allora si decise di agire di notte ricoprendo le ruote dei cannoni con paglia e fieno per contenere al massimo i rumori del movimento e ingannare la sorveglianza dei difensori sulla strada del paese. La strada lastricata fu ricoperta di letame, paglia e materassi presi nelle case. I cavalli da tiro vennero sostituiti da squadre di 50 uomini adibiti al traino. Tutto perfetto ma non funzionò come era previsto nei piani. Alcuni cannoni passarono integri sotto le difese della fortezza ma ben presto gli austro-piemontesi scoprirono il traffico in corso nella via del paese e scatenarono un inferno di fuoco sui francesi che nonostante le perdite di uomini e mezzi riuscirono a far passare nell’arco di alcune notti una quarantina di cannoni. Infastidito per i ritardi subiti nella spedizione militare Napoleone lasciò Aosta e si avvicinò a Bard per verificare di persona la situazione ma venne circondato a sorpresa da un drappello di soldati austriaci. Si salvò grazie al pronto intervento delle sue guardie che lo seguivano a breve distanza. Era giunto il momento di farla finita. Sul monte che sovrasta il forte vennero portati con grande fatica diversi cannoni ma la potenza di fuoco anche questa volta non fu sufficiente a costringere i difensori alla resa. Il capitano Stockard von Bernkopf, comandante della guarnigione, rifiutò più volte di arrendersi. Dopo alcuni tentativi falliti che lasciarono sul terreno centinaia di morti e feriti, un cannone da 12 libbre venne posizionato di fronte al portone del forte, fuori dalla portata di tiro degli assediati. Il bombardamento aprì brecce sempre più larghe nella mura del forte ma l’esito non fu decisivo per la conquista della fortezza. Decisiva fu la resa degli assediati, stremati ed esausti: la resistenza della guarnigione era giunta alla fine e il comando austriaco ordinò di cessare il fuoco e di arrendersi. I francesi persero oltre 1500 uomini contro i 13 morti e i 61 feriti tra le fila dei difensori. Il baluardo valdostano fu poi nello stesso anno completamente raso al suolo a colpi di mine. Trent’anni dopo Carlo Felice di Savoia lo farà ricostruire. Tra le fortificazioni alpine sabaude il forte di Bard è l’unico che ha conservato l’aspetto che aveva fin dai tempi della sua riedificazione nel 1838. Abbandonato alla fine dell’Ottocento, il forte divenne un carcere militare e in seguito polveriera dell’Esercito italiano. Oggi è di proprietà della Regione Autonoma Valle d’Aosta. Un libro di storia da leggere tutto d’un fiato.. aspettando “Napoleon”, il kolossal di Ridley Scott, a novembre sul grande schermo.                     Filippo Re
Nelle foto:
Forte di Bard
Copertina libro di Mauro Minola
Napoleone varca le Alpi a cavallo e a dorso di mulo
Napoleone assedia Bard, rievocazione storica

Ventotene non si discute

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni
Il prof. Quaglieni

Che certi sostenitori improvvisati del Manifesto di Ventotene  appartenenti al Polo del ‘900  si agitino  per letture di massa del documento non deve stupire. Sono terze file soprattutto per ciò che riguarda l’europeismo. Chi ha conosciuto Bobbio sa che ruoli secondari hanno avuto nella quotidianità della vita  del filosofo. Oggi scrivono articoli, insegnandoci cosa sia l’Europa senza averne titolo. L’idea d’Europa nasce dalle lezioni milanesi di Federico Chabod, dagli scritti federalisti di Luigi Einaudi, dalla cultura cattolica di De Gasperi. Forse solo Carlo Rosselli ebbe un po’ di attenzione al tema europeo. Comunisti e socialisti erano allora  filo sovietici e disinteressati ad un’Europa libera che si sarebbe opposta a Mosca. Tutti gli storici seri hanno visto i limiti politici e culturali del Manifesto di Spinelli e Rossi  che pure si fecero anni di  carcere e di confino. Ma essi non avevano le doti intellettuali e culturali per scrivere un manifesto per l’Europa futura. L’avrebbe potuto scrivere  Bobbio o meglio Einaudi o anche Chabod. O  forse De Gasperi. I due confinati erano persone oneste e coraggiose, ma prive della cultura necessaria. L’errore fatto da “Repubblica” di tirare fuori dAll’oblio un ricordo del passato privo di senso politico e di scarso impatto culturale offre alle terze file torinesi  di imitare l’on. alessandrino Fornaro che alla Camera stava per stracciarsi le vesti perché il Manifesto per lui è come un Vangelo laico da venerare. Guai a criticarlo

“Bianco al Femminile”. In mostra sei secoli di autentici capolavori tessili

Appartenenti alle Collezioni di “Palazzo Madama”

Fino al 2 febbraio 2026

Occasione contingente, il riallestimento della “Sala Tessuti”. Da questa pratica incombenza, nasce una mostra di notevole valore culturale, storico e didattico che racconta, attraverso sei secoli di altissima arte tessile una storia che passa per ricami minuti e intricati e preziosi merletti, arrivando al più iconico degli abiti femminili di colore bianco, il colore naturale della seta e del lino: l’abito da sposa. Si presenta così la mostra dal titolo (non per nulla) di “Bianco al Femminile” curata da Paola Ruffino e allestita nella “Sala Tessuti” di “Palazzo Madama” fino a lunedì 2 febbraio 2026. In rassegna, trovano adeguato spazio cinquanta manufatti tessili, appartenenti alle Collezioni del Palazzo che fu “Casa dei secoli” per Guido Gozzano, di cui sei restaurati per questa precisa occasione e quattordici esposti per la prima volta: autentici capolavori nati dal sorprendente lavoro (più che artigianale) passato, per tradizioni secolari, attraverso “mani femminili” che hanno operato con minuta diligenza sul “ricamo in lino medievale”, così come sulla lavorazione dei “merletti ad ago” o “a fuselli” o ancora sul “ricamo in bianco su bianco”. Donne artigiane, donne artiste, donne “autrici, creatrici, nonché raffinate fruitrici e committenti di tessuti e accessori di moda”. Comune fil rouge, per tutte, il colore bianco, colore “in stretta connessione, materiale e simbolica, proprio con la donna”. E che trova il suo massimo apice in Francia e in Europa, sul finire del XVIII secolo, complice il fascino esercitato dalla statuaria greca e romana su una moda che guarda, affascinata non poco, all’antico. “Le giovani – si legge in nota – adottano semplici abiti ‘en-chemise’, trattenuti in vita da una fusciacca; il modello del ‘cingulum’ delle donne romane sposate, portato alto sotto al seno, dà avvio ad una moda che durerà per trent’anni. I tessuti preferiti sono mussole di cotone, garze di seta, rasi leggeri, bianchi o a disegni minuti, come le porcellane dei servizi da tè”.

Dal XIV – XV secolo fino al Novecento (dietro l’angolo) l’iter espositivo prende avvio dai primi “ricami dei monasteri femminili”, in particolare di area tedesca e della regione del lago di Costanza (lavorati su tela di lino naturale e poi diffusisi, per la povertà dei materiali e per la facilità di esecuzione, anche in ambito domestico – laico, per la decorazione di tovaglie e cuscini) per poi passare a documentare la lavorazione del “merletto” nell’Europa del XVI e XVII secolo che vide protagonisti i lini bianchissimi e la straordinaria abilità delle “merlettaie veneziane e fiamminghe”. In rassegna una scelta di bordi e accessori in pizzo italiani e belgi illustra gli eccezionali risultati decorativi di quest’arte “esclusivamente femminile”, che nel Settecento superò gli stretti confini della casa o del convento e si organizzò in “manifatture”. E proprio l’inizio della “produzione meccanizzata” causò, nel XIX secolo, la perdita di quell’insostituibile virtuosismo nell’arte manuale del “merletto”, che riemerse invece nel ricamo in filo bianco sulle sottili “tele batista” (in trama fatta con filati di titolo sottile) e sulle “mussole” dei “fazzoletti femminili”. Quattro splendidi esemplari illustrano l’alta raffinatezza raggiunta da questi accessori, decorati con un lavoro a ricamo che restò sempre un’attività soltanto al femminile, anche quando esercitata a livello professionale.

L’esposizione si conclude nel XX secolo con uno dei temi che più vedono uniti la donna e il colore bianco nella nostra tradizione, l’ “abito da sposa”, con un abito del 1970, corto, accompagnato non dal velo ma da una avveniristica cagoule (cappuccio), scelta non scontata “che ribadisce la forza e la persistenza del rapporto tra l’immagine della donna e il candore del bianco”.

La selezione di tessuti è accostata nell’allestimento a diverse “opere di arte applicata”, fra cui miniature, incisioni, porcellane e legature provenienti dalle Collezioni del “Museo”. 

In occasione del nuovo allestimento delle Collezioni Tessili, “Palazzo Madama” propone, inoltre, un laboratorio di cucitura in forma meditativa” a cura di Rita Hokai Piana nelle giornate di sabato 15 e 22 marzo, 5 12 aprile,  dalle ore 10 alle ore 13. Tutte le info su: www.palazzomadamatorino.it

Gianni Milani

“Bianco al Femminile”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 2 febbraio 2026

Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; mart. chiuso

 

Nelle foto: “Sala Tessuti” (Ph. Studio Gonella); Caracò, Italia 1750-60; Corpetto, Germania sud-occidentale, 1750-75

Il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale compie 20 anni

Il 21 marzo si festeggiano i 20 anni dalla fondazione del CCR – Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, uno dei principali poli del restauro in Italia e riferimento nel panorama internazionale, con la giornata conclusiva della rassegna di incontri dedicata al valore del restauro dal titolo “Conservazione, ricerca e innovazione”, che ha visto la partecipazione dei maggiori protagonisti della conservazione e del restauro a livello nazionale e internazionale.

A distanza di 20 anni dall’istituzione della Fondazione, una riflessione sul “Valore della conservazione” diventa momento per fare un bilancio rispetto al contributo che il Centro ha offerto nel proprio perimetro di azione e per individuare possibili criteri quantitativi e qualitativi che consentano di misurare l’impatto generato dalle attività di conservazione e restauro dei beni culturali: in termini di recupero e riabilitazione del patrimonio storico artistico, di attivazione educativa e formativa, di creazione di nuove competenze e professionalità, di possibile incidenza sul tessuto economico, produttivo e culturale sulle diverse scale territoriali.

Con l’occasione sarà presentata la ricerca in corso, realizzata in collaborazione con la Fondazione Santagata e sostenuta dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, dedicata al “Valore della conservazione”.

Saranno presenti: Federico Mollicone, Presidente Commissione Cultura della Camera dei Deputati; Luigi La Rocca, Direttore DiT – Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale del Ministero della Cultura; Michele Coppola, Direttore Centrale Arte, Cultura e Beni Storici Intesa Sanpaolo e Direttore Gallerie d’Italia; Michele Briamonte, Presidente Consorzio Residenze Reali Sabaude, Luigi Oliva, Direttore Istituto Centrale del Restauro (ICR) di Roma; Paola Casagrande, già Direttore Regionale Direzione Coordinamento Politiche e Fondi Europei della Regione Piemonte; Alessio Re, Segretario Generale Fondazione Santagata per l’Economia della Cultura di Torino

Seguirà una tavola rotonda moderata dal giornalista e critico d’arte Nicolas Ballario con i soci Fondatori del CCRMario Turetta, Direttore DiAC – Dipartimento per le attività culturali del   Ministero della Cultura; Alberto Cirio, Presidente Regione Piemonte; Stefano Lo Russo, Sindaco Città di Torino e Città Metropolitana di Torino; Fabio Giulivi, Sindaco Città di Venaria; Giulia Anastasia Carluccio, Prorettrice Università di Torino, Marta Bottero, Professoressa Ordinaria, Funzioni aggregate al Prorettore del Politecnico di Torino, Matteo Bagnasco, Responsabile Obiettivo Cultura Fondazione della Compagnia di San Paolo e Annapaola Venezia, Vice Segretario Generale Fondazione CRT.

Nel pomeriggio i componenti internazionali del Comitato Scientifico del Centro incontreranno il pubblico in una sessione dal titolo “Visione e Metodo”, un panorama inedito sul mondo della conservazione, della ricerca e dell’innovazione. Il Comitato riunisce importanti professionalità provenienti dalle più rilevanti istituzioni culturali a livello internazionale.

Corrado Azzollini, Soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino e Direttore Scientifico della Fondazione CCR; Francesca Casadio, Co-Direttore del Centro per gli studi scientifici sulle arti della Northwestern University – Art Institute of Chicago; Mireille Klein, Responsabile del Dipartimento di restauro C2RMF – Ministero della Cultura e della Comunicazione francese; Marco Leona, David H. Koch Scientist in charge of the department of scientific research Metropolitan Museum of Art, New York; Valerie Magar, Manager Unità Programmi ICCROM; Joanna Norman, Director Victoria & Albert Research Institute and National Art Library, London; Massimo Osanna, Direttore Generale Musei, Ministero della Cultura, Roma.

È possibile seguire gli incontri in diretta streaming.

Invece nei giorni di sabato e domenica 22 e 23 marzo il CCR sarà aperto ai visitatori e sarà possibile esplorare i laboratori, accompagnati dagli storici dell’arte, restauratori e scienziati del Centro, andando oltre le porte del nuovo Ristoro delle Arti, il centro visitatori inaugurato lo scorso settembre 2024.

Nello stesso fine settimana, la città di Venaria si animerà grazie anche alla grande festa dedicata alla fioritura dei ciliegi nei giardini della Reggia di Venaria “All’ombra dei ciliegi in fiore”, (per info e biglietti: www.lavenaria.it).

Le celebrazioni proseguiranno in maggio con la partecipazione all’interno del Salone Internazionale del Libro di Torino (15-19 maggio 2025) attraverso incontri diffusi con esperti che affronteranno tematiche diverse, da progetti di conservazione urbana a percorsi di educazione e formazione sulla cultura del restauro.

A fine giugno avrà luogo lo “Young Professionals Forum”, appuntamento di condivisione e scambio nato per stimolare a livello internazionale sinergie tra professionisti, in particolar modo  giovani che qui hanno la possibilità di presentare le proprie ricerche e di confrontarsi con nomi già affermati nel campo. Al Forum, come case history di successo, verranno inoltre invitati i Laureati del corso di laurea che stanno svolgendo attività internazionali presso importanti realtà museali. Per il CCR, nato nel 2005 con figure under 30, i giovani di oggi devono essere i primi ambasciatori della sua attività.

Le celebrazioni si concluderanno in dicembre con l’importante Convegno dedicato a Pinin Brambilla Barcilon, in occasione del Centenario dalla sua nascita. Nota in tutto il mondo per i restauri dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e di altri capolavori dell’arte italiana, Pinin Brambilla è stata la prima direttrice dei laboratori di restauro del Centro e il suo archivio con la documentazione prodotta durante gli anni di attività, riordinato e digitalizzato, è oggi conservato al CCR e fruibile da tutti.

Fondazione nata il 21 marzo 2005, il CCR – Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale è uno dei principali poli del restauro in Italia e riferimento indiscusso nel panorama internazionale. Caratterizzato da un operato che si muove lungo le quattro macro-direttrici della conservazione e restauro, della scienza, della formazione e della documentazione, ha al suo interno nove Laboratori di Restauro, i Laboratori Scientifici e la Scuola di Alta Formazione con un Corso di Laurea Magistrale in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali.

 

Il CCR ha sede nelle settecentesche Scuderie della Reggia di Venaria progettate da Benedetto Alfieri e riprogettate secondo una concezione contemporanea dallo Studio Derossi (1998-2004) in un interessante dialogo tra antico e moderno. L’intero complesso monumentale è patrimonio UNESCO.    

www.centrorestaurovenaria.it