Marco Travaglini
Alla scoperta dei monumenti di Torino / Vittorio Emanuele II, nel corso del tempo, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Il Padre della Patria”
Situato proprio nell’intersezione tra corso Vittorio Emanuele II e corso Galileo Ferraris, la statua che vede come protagonista re Vittorio Emanuele II, si eleva sopra un’area quadrata ad angoli smussati su cui poggia il basamento rivestito da blocchi e lastroni di granito della Balma. Tale basamento si compone di due serie di gradini la cui seconda è interrotta, in corrispondenza degli angoli, da quattro blocchi prismatici su cui sono scolpite le date a ricordo delle guerre per l’Unità d’ Italia: 1848-1859-1866-1870. Questi blocchi fungono a loro volta da sostegno alle quattro aquile in bronzo sostenenti gli stemmi sabaudi.
Sopra le due serie suddette di gradini si eleva il piedistallo sul cui attico stanno,in posizione seduta, quattro grandi statue in bronzo di figure allegoriche tra cui la Pace, la Libertà, l’Indipendenza e l’ Unità (molto dubbia la quarta figura allegorica). Le quattro statue trovano a loro volta appoggio fra i vani delle quattro colonne in stile dorico di granito rosso che sostengono, superiormente, una trabeazione completa con architrave, fregio, triglifi e cornice; sopra questa trabeazione è disteso il grande tappeto in bronzo sul quale si eleva la grande statua del Re.Vittorio Emanuele II è raffigurato in piedi e a testa scoperta: lo sguardo fiero, solenne, rivolto lontano con nella mano sinistra una spada in atto di vigorosa fermezza.
Primogenito di Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, e di Maria Teresa d’Asburgo-Toscana, Vittorio Emanuele II di Savoia nacque a Torino (precisamente a Palazzo Carignano) il 14 marzo 1820. Va curiosamente fatto presente che alcuni storici moderni hanno dato credito all’ipotesi, data la scarsa somiglianza con i genitori e in base ad altre vicende, che Vittorio Emanuele non fosse il vero figlio della coppia reale, bensì un bimbo d’origine popolana sostituito al vero primogenito di Carlo Alberto morto, ancora in fasce, in un incendio nella residenza del nonno a Firenze. La maggior parte degli storici invece esprime dubbi sull’autenticità della vicenda e la confina nell’ambito del pettegolezzo facendo perdere qualsiasi credibilità all’ipotesi dello scambio.
Ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e primo re d’Italia (dal 1861 al 1878), fu anche Principe di Piemonte, Duca di Savoia e Duca di Genova.Dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto, si iniziò a definire Vittorio Emanuele II il re galantuomo o re gentiluomo (appellativo con cui è ricordato ancora oggi), che animato da sentimenti patriottici e per la difesa delle libertà costituzionali si oppose fieramente alle richieste di abolire lo Statuto albertino. Nel corso del tempo, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Il Padre della Patria”.
Vittorio Emanuele II morì improvvisamente, a causa di una polmonite, il 9 gennaio del 1878 all’età di cinquantasette anni. La sua morte suscitò il profondo cordoglio sia della borghesia colta e politicizzata (che aveva partecipato all’avventura risorgimentale), sia dell’esercito di cui il “Re Galantuomo” era stato il capo pragmatico e largamente amato. Con cinque guerre combattute, ventinove anni di regno e uno stato unificato alle spalle, Vittorio Emanuele II fu il simbolo aggregante del Risorgimento italiano, in un paese ancora troppo fragile per sopportare il vuoto istituzionale venutosi a creare con la sua scomparsa.
Il monumento in suo onore fu voluto direttamente da Umberto I che, per riparare alla mancata sepoltura della salma del padre nella basilica di Superga a favore del Pantheon di Roma, comunicò, in una lettera indirizzata alla cittadinanza, l’intenzione di affidare “alla religiosa devozione” dei torinesi “i segni del valore” che il Re aveva conquistato “combattendo per l’unità e l’indipendenza della patria”. Nella stessa lettera Umberto I espresse il desiderio di erigere un monumento che eternasse la memoria del Primo Re d’Italia stanziando, per tale iniziativa, la cospicua somma di un milione di lire.
Venne subito istituita una Commissione tecnica incaricata di promuovere varie iniziative tra cui stilare il Programma di Concorso per il Monumento al “primo re”; il 28 marzo del 1879 la Commissione tecnica, incaricata di esaminare i progetti presentati al concorso, decreta vincitore lo scultore Pietro Costa. Tale decisione suscitò tuttavia, numerose polemiche che si conclusero con una petizione sottoscritta da cinquantadue firme dei maggiori rappresentanti delle Accademie di Belle Arti d’Italia che appoggiarono completamente la scelta della Commissione.
Ma se in meno di diciotto mesi si chiuse l’itinerario che aveva portato alla scelta del progetto, la fase successiva, quella della costruzione, durò circa vent’anni tra disguidi, ripicche e liti che finirono in tribunale. Il 23 novembre del 1896, a quattordici anni di distanza dalla stipula del contratto, Costa scrisse al Sindaco di Torino per giustificarsi dall’accusa “d’essere pigro e negligente” oltreché fortemente in ritardo nella consegna del monumento;nonostante ciò l’artista venne condannato al risarcimento dei danni per inadempienza contrattuale.
Il 15 gennaio del 1898, finalmente la città di Torino entrò in possesso del monumento. Ultimato per le parti bronzee dall’ Officine Costruzione d’Artiglieria di Torino e dall’ ingegnere Prinetti, il monumento venne inaugurato il 9 settembre del 1899 alla presenza dei sovrani, delle autorità cittadine dei principali comuni italiani, nonché degli esponenti della politica nazionale, dell’esercito e dei veterani del 1848. Ci furono tre giorni di festeggiamenti durante i quali Torino ritornò ad essere patriottica e risorgimentale, quasi nostalgica di essere stata (un tempo) capitale d’Italia.
Per quanto riguarda il luogo di collocazione del monumento, va fatto presente che la scelta di posizionarlo nel centro del piazzale, sull’incontro del corso consacrato a Vittorio Emanuele II e corso Siccardi (oggi corso Galileo Ferraris), è stato frutto della Commissione per un ricordo storico nazionale al re “gentiluomo”. L’area circostante il monumento era, nella seconda metà dell’ottocento, una zona in espansione a tipologia residenziale, pronta a recepire gli spunti di una volontà politica che mirava ad attirare a sé il ceto dei notabili e la piccola borghesia emergente. L’operato della Commissione rientrava nell’ambito di quella politica nazionale di costruzione del mito di Vittorio Emanuele II che, facendo ricorso ad attività di propaganda e di educazione “per fare gli italiani” (come disse D’Azeglio), intervenne anche in opere di rimaneggiamento degli spazi urbani e cambiamenti della toponomastica.
Oggi, la statua del Re, sovrasta ancora i tetti delle case dei torinesi dominando con lo sguardo tutto l’arco alpino fino alla magnifica Superga.
(Foto: il Torinese)
Simona Pili stella
I segreti della Gran Madre
Torino, bellezza, magia e mistero
Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.
Articolo1: Torino geograficamente magica
Articolo2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo3: I segreti della Gran Madre
Articolo4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo10: Torino dei miracoli
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
La città di Torino è tutta magica, ma ci sono dei punti più straordinari di altri, uno di questi è la chiesa della Gran Madre di Dio, o per i Torinesi, ël gasometro. La particolarità del luogo è già nel nome, è, infatti, una delle poche chiese in Italia intitolate alla Grande Madre. L’edificio, proprietà comunale della città, venne eretto per volontà dei Decurioni a scopo di rendere onore al re Vittorio Emanuele I di Savoia che il 20 maggio 1814 rientrò in Torino dal ponte della Gran Madre (la chiesa sarebbe stata edificata proprio per celebrare l’evento), fra ali di folla festante. Massimo D’Azeglio assistette all’evento in Piazza Castello. Il dominio francese era finito e tornavano gli antichi sovrani. Il passaggio del Piemonte all’impero francese aveva implicato una profonda trasformazione di Torino: il Codice napoleonico trasformò il sistema giuridico, abolì ogni distinzione e i privilegi che in precedenza avevano avvantaggiato la nobiltà, la nuova legislazione napoleonica legalizzò il divorzio, abolì la primogenitura, introdusse norme commerciali moderne, cancellò i dazi doganali. La spinta modernizzatrice avviata da Napoleone con il Codice civile fu di grande impatto e le nuove norme commerciali furono fatte rispettare dalla polizia napoleonica con un controllo sociale nella nostra città senza precedenti. Tuttavia il carattere autoritario delle riforme napoleoniche relegava i Torinesi a semplici esecutori passivi di ordini imposti dall’alto e accrebbe il malcontento di una economia in difficoltà. Quando poi terminò la dominazione francese non vi fu grande entusiasmo, né vi fu esultanza per l’arrivo degli Austriaci. L’8 maggio 1814 le truppe austriache guidate dal generale Ferdinand von Bubna-Littitz entrarono in città, e prontamente rientrò dal suo esilio in Sardegna il re Vittorio Emanuele I, il 20 maggio dello stesso anno. Il re subito volle un immediato ritorno al passato, ossia all’epoca precedente il 1789, abrogando tutte le leggi e le norme introdotte dai Francesi. Il nuovo regime eliminò d’un tratto il principio di uguaglianza davanti alla legge, il matrimonio civile e il divorzio, e reintrodusse il sistema patriarcale della famiglia, le restrizioni civili riservate a ebrei e valdesi e restituì alla Chiesa cattolica il suo ruolo centrale nella società. Il 20 maggio 1814 fu recitato un Te Deum nel Duomo di Torino per celebrare il ritorno del re, che si fermò a venerare la Sacra Sindone. L’autorità municipale festeggiò il ritorno dei Savoia costruendo una chiesa dedicata alla Vergine Maria nel punto in cui il re aveva attraversato il Po al suo rientro in città. A riprova di ciò sul timpano del pronao si legge l’epigrafe “ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS”, (“L’autorità e il popolo di Torino per l’arrivo del re”) coniata dal latinista Michele Provana del Sabbione.
La chiesa, di evidente stampo neoclassico, venne edificata nella piazza dell’antico borgo Po su progetto dell’architetto torinese Ferdinando Bonsignore; iniziato nel 1818, il Pantheon subalpino venne ultimato solo nel 1831, sotto re Carlo Alberto. L’edificio ubbidiva all’idea di una lunga fuga prospettica che doveva collegare la piazza centrale della città, Piazza Castello, alla collina. La chiesa è posta in posizione rialzata rispetto al livello stradale, e una lunga scalinata porta all’ingresso principale. Al termine della scalinata vi è un grande pronao esastilo costituito da sei colonne frontali dotate di capitelli corinzi. All’interno del pronao vi sono ai lati altre colonne, affiancate da tre pilastri addossati alle pareti. Eretta su un asse ovest-est, con ingresso a occidente e altare a oriente, essa presenta orientazioni astronomiche non casuali: a mezzogiorno del solstizio d’inverno, il sole illumina perfettamente il vertice del timpano visibile dalla scalinata d’ingresso. Il timpano, sul frontone, è scolpito con un bassorilievo in marmo risalente al 1827, eseguito da Francesco Somaini di Maroggia, (1795-1855) e raffigura la Vergine con il Bambino omaggiata dai Decurioni torinesi. Ai lati del portale d’ingresso sono visibili due nicchie, all’interno delle quali si trovano i santi San Marco Evangelista, a destra, e San Carlo Borromeo, a sinistra. Fanno parte dell’edificio due imponenti gruppi statuari, allegorie della Fede e della Religione, entrambi eseguiti dallo scultore carrarese Carlo Chelli nel 1828. Sulla sinistra si erge la Fede, rappresentata da una donna seduta, in posizione austera, con il viso serio, sulle ginocchia poggia un libro aperto che tiene con la mano destra, con l’altra, invece, innalza un calice verso il cielo. Spunta in basso alla sua destra un putto alato, che sembra rivolgersi a lei con la mano sinistra, mentre nella destra tiene stretto un bastone. Dall’altro lato si trova la Religione, raffigurata come una matrona imperturbabile e regale: stringe con la mano destra una croce latina e sta seduta mentre guarda fissa l’orizzonte, incurante del giovane che la sta invocando porgendole due tavole di pietra bianca. I capelli sono ricci, e sulla fronte, lasciata scoperta dal manto, vi è una sorta di copricapo, come una corona, su cui compare un simbolo: un triangolo dal quale si dipartono raggi. Spesso, con un occhio al centro del triangolo, il simbolismo è usato in ambito cristiano per indicare l’occhio trinitario di Dio, il cui sguardo si dirama in ogni direzione, ma anche in massoneria è un importante distintivo iniziatico. Perfettamente centrale, ai piedi della scalinata, è l’imponente statua di quasi dieci metri raffigurante Vittorio Emanuele I di Savoia. La torre campanaria, munita di orologio, venne costruita sui tetti dell’edificio che si trova a destra della chiesa nel 1830, in stile neobarocco.
Entrando nella chiesa ci si ritrova in un ampio spazio tondeggiante e sobrio, c’è un’unica navata a pianta circolare, l’altare maggiore, come già indicato, è posto a oriente, all’interno di un’abside semicircolare provvista di colonne in porfido rosso. Numerose sono le statue che qui si possono ammirare, ma su tutte spicca la figura marmorea della Gran Madre di Dio con Bambino, posta dietro l’altare maggiore, il cui misticismo è incrementato dalla presenza di raggi dorati che tutta la circondano. Nelle nicchie ai lati, in basso, vi sono alcune statue simboliche per la città e per i committenti della chiesa, cioè i Savoia. Oltre a San Giovanni Battista, il patrono della città, anch’egli con una grande croce nella mano sinistra, S. Maurizio, il santo prediletto dei Savoia, Beata Margherita di Savoia e il Beato Amedeo di Savoia. La cupola, considerata un capolavoro neoclassico piemontese, sovrasta l’edificio ed è costituita da cinque ordini di lacunari ottagonali di misura decrescente. La struttura è in calcestruzzo e termina con un oculo rotondo, da cui entra la luce, del diametro di circa tre metri. Sotto la chiesa si trova il sacrario dei Caduti della Grande Guerra, inaugurato il 25 ottobre 1932 alla presenza di Benito Mussolini. La bellezza architettonica dell’edificio nasconde dei segreti tra i suoi marmi. Secondo gli occultisti, la Gran Madre è un luogo di grande forza ancestrale, anche perché pare sorgere sulle fondamenta di un antico tempio dedicato alla dea Iside, divinità egizia legata alla fertilità, anche conosciuta con l’appellativo “Grande Madre”. Iside è l’archetipo della compagna devota, per sempre fedele a Osiride, simbolo della consapevolezza del potere femminile e del misticismo, il suo ventre veniva simboleggiato dalle campane, lo stesso simbolo di Sant’Agata. Si è detto che Torino è città magica e complessa, metà positiva e metà maligna, tutta giocata su delicati equilibri di opposti che sanno bilanciarsi, tra cui anche il binomio maschio-femmina. Questo aspetto è evidenziato anche dalla contrapposizione tra il Po e la Dora che, visti in chiave esoterica, rappresentano rispettivamente il Sole, componente maschile, e la Luna, componente femminile. I due fiumi, incrociandosi, generano uno sprigionamento di forte energia. Altri luoghi prettamente maschili sono il Valentino e il Borgo Medievale, che sorgono lungo il Po e sono anche simboli di forza; ad essi si contrappone la zona del cimitero monumentale, in prossimità della Dora, legata alla sfera notturna e femminile. L’importanza esoterica dell’edificio non termina qui, ci sono alcuni che sostengono ci sia un richiamo alle tradizioni celtiche con evidente allusione a un ordine taurino nascosto tra le parole della dedica: se leggiamo l’iscrizione a parole alterne resta infatti la dicitura: Ordo Taurinus. Ma il più grande mistero che in questa chiesa si cela è tutto contenuto nella statua della Fede. Secondo gli esoteristi, la donna scolpita in realtà sorreggerebbe non un calice qualunque ma il Santo Graal, la reliquia più ricercata della Cristianità, e con il suo sguardo indicherebbe il luogo preciso in cui esso è nascosto. Allora basta capire dove guarda la marmorea giovane -secondo alcuni la stessa Madonna – e il gioco è fatto! Sì, peccato che chi ha scolpito il viso si sia “dimenticato” di incidervi le pupille, così da rendere l’espressione della figura imperscrutabile, e il Graal introvabile. Se non per chi sa già dove si trovi.
Alessia Cagnotto
Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi
Ed eccoci nuovamente giunti al nostro consueto appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Cari amici lettori e lettrici, oggi andremo alla scoperta di uno dei monumenti presenti in una delle piazze più “frequentate” della città: sto parlando di Piazza Castello e del monumento ai Cavalieri d’Italia. (Essepiesse)
La statua è collocata in Piazza Castello sul lato destro di Palazzo Madama, rivolta verso via Lagrange. Il monumento rappresenta un soldato a cavallo su un piedistallo di granito,che poggia su un basamento a gradoni. Il cavaliere dall’aria vigile, scruta l’orizzonte volgendo lo sguardo alla sua destra mentre con il fucile in spalla, con una mano tiene le redini e con l’altra uno stendardo; la posa del destriero e del suo cavaliere è rilassata, lontana dalle immagini stereotipate di nobili cavalieri che caricano al galoppo. Di contorno al basamento vi sono una serie di alto rilievi con fregi militari.
Con il termine Cavalleria si è soliti indicare le unità militari montate a cavallo. Essa ebbe origini molto antiche, venne infatti da sempre impiegata per l’esplorazione dei territori, per azioni in battaglia dove venisse richiesta molta mobilità e velocità nell’attacco e fu anche strategicamente determinante in alcune battaglie. In seguito cominciò ad evidenziare i suoi limiti con il perfezionamento delle armi da fuoco e l’avvento dei treni e degli autoveicoli.
Riformata all’interno dell’Esercito Sardo sin dal 1850, la Cavalleria venne impiegata con l’esercito francese prima in Crimea ed in seguito contro gli Austriaci, ai confini della Lombardia all’inizio della II Guerra di Indipendenza. L’ Arma si conquistò così la fiducia e la stima degli alleati francesi. I Reggimenti combatterono, guadagnando numerose medaglie al Valor Militare, sia a Montebello che successivamente a Palestro e Borgo Vercelli; le battaglie più famose di questa guerra, quella di Solferino e di San Martino (alle porte del Veneto), si combattono con i francesi impegnati a Solferino e i sardo-piemontesi a S. Martino. Dopo il 1861, il Regio Esercito Sardo divenne Esercito Italiano e negli anni seguenti, tutto l’esercito venne riformato e uniformato. La Cavalleria, a partire dagli anni ’70, venne impiegata in Africa, dove furono formati Reggimenti di Cavalleria indigena, ed anche nella guerra italo-turca del 1911-1912.
In seguito il primo conflitto mondiale impose alla Cavalleria l’abbandono del cavallo in modo da adeguarsi alla guerra di posizione, in trincea, dove reticolati e mitragliatrici rendevano impossibile l’uso dell’animale. Verso la fine del conflitto però, la Cavalleria venne nuovamente rimessa in sella: nel 1917 fu impiegata a protezione delle forze che ripiegavano sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Verso la fine della Prima guerra mondiale, la II Brigata di Cavalleria coprì la ritirata della II e della III Armata, comandata dal generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed il 16 giugno 1918 fermò il nemico sul Piave. Questa data fu così importante per gli esiti del conflitto mondiale, che ancora oggi viene celebrata come festa della Cavalleria.
Per ricordare e onorare il valore dell’Arma, nel 1922 a Roma si istituì il Comitato generale per le onoranze ai Cavalieri d’Italia con l’intento di elevare un monumento equestre. Pochi giorni dopo il comitato, presieduto dal Re e dal senatore Filippo Colonna, propose alla Città di Torino di collocare l’opera in piazza Castello, dove era già ricordato il soldato dell’Esercito Sardo; questa proposta venne accolta con orgoglio ed onore dalla Giunta e dal Consiglio Comunale. La realizzazione del monumento venne affidata a Pietro Canonica che si offrì di lavorare gratuitamente, mentre il bronzo (materiale utilizzato per la costruzione dell’opera) fu offerto dal Ministero della Guerra.
Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi. Nel 2008 il monumento ai Cavalieri d’Italia è stato restaurato ed il lavoro di pulitura del bronzo ha riportato finalmente alla luce l’originaria colorazione tendente al verde, una patina data come finitura dallo stesso scultore Canonica.
Simona Pili Stella
Un libro indaga


Srebrenica portava l’antico nome latino di Argentaria che si può tradurre in “città dell’argento”. Prima del 1992 era conosciuta per le terme, l’estrazione di salgemma e le miniere. Poi, dissoltasi la Jugoslavia, la storia si è incaricata di consumare tra quelle montagne della Bosnia orientale l’ultimo genocidio in terra europea dalla fine della seconda guerra mondiale. Più di ottomila (ma è più probabile che il numero si elevasse a circa diecimila) musulmani bosgnacchi vennero trucidati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. L’atroce crimine di massa venne consumato trent’anni fa, tra l’11 e il 21 luglio 1995, dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, il era caduta nelle mani del generale Ratko Mladić. Nel marzo del 1993 Srebrenica era stata proclamata enclave dell’Onu, in virtù della risoluzione 819. In pratica l’intera area doveva essere protetta, difesa. Le cose andarono diversamente quando i serbo-bosniaci misero in atto l’attacco finale. I caschi blu abbandonarono le loro posizioni, consegnarono le armi senza sparare un colpo e si acquartierarono nella loro base nel sobborgo di Potočari. Così, senza muovere un dito, la comunità internazionale volse lo sguardo altrove e quarantamila persone furono lasciate nelle mani delle forze serbo-bosniache e dei paramilitari che tra l’11 e il 13 luglio separarono le donne e i bambini dagli uomini considerati in età militare (dai dodici ai settant’anni), deportando le prime e massacrando in una decina di giorni di sangue e violenza tutti i maschi. Non risparmiarono nemmeno molte donne, soprattutto le più giovani, che vennero prima stuprate e in diversi casi uccise sotto gli sguardi spenti e vuoti dei caschi blu.
Seguendo la logica della cancellazione della memoria e delle identità, gli esecutori dell’eccidio privarono le vittime dei documenti, bruciandoli. Poi gettarono gli uomini, compresi quelli feriti ma ancora vivi, nelle fosse comuni. Alla fine del conflitto, per nascondere le prove del genocidio, queste fosse vennero riaperte con le ruspe dagli stessi carnefici e i resti delle vittime trasportati, orribilmente mutilati, in fosse comuni secondarie, più piccole, o addirittura terziarie. Nel 2003 l’ex Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton inaugurò il Memoriale di Potočari e il grande cimitero. L’anno dopo, il 19 aprile 2004, il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) definì quello di Srebrenica un genocidio. Quasi tre anni dopo, il 26 febbraio 2007, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja negò le responsabilità dirette della Serbia, asserendo che l’unica colpa di Belgrado fu non aver fatto tutto il necessario per prevenirlo. La Corte, con la medesima sentenza negò i diritti al risarcimento per i famigliari delle vittime. Poi vi furono gli ergastoli per Radovan Karadžić e Ratko Mladić e, piano piano, senza mai arrivare fino in fondo per affermare la giustizia, si fece strada il negazionismo e venne steso un certo velo d’oblio su quella tragedia balcanica segnata da delitti, pulizia etnica, stupri di massa. Ora, trent’anni dopo, le coscienze civili di mezzo mondo si stanno ribellando di fronte a ciò che accade nella Striscia di Gaza. Dal 7 ottobre 2023, giorno dei criminali attentati terroristici di Hamas in Israele, a Gaza sono morte più di 60 mila persone a causa degli attacchi israeliani. Tra i morti, più di 15 mila sono bambini, moltissime le donne e gli anziani. Gaza non doveva diventare come Srebrenica ma è andata decisamente oltre. La politica di Netanyahu e dell’estrema destra israeliana è una miscela infernale di violenza, sadismo e persecuzione che ricorda terribilmente il disegno di pulizia etnica perseguito da Radovan Karadžić e Ratko Mladić. A Gaza come a Srebrenica si è aperta una porta sull’inferno e non si può voltare la testa da un’altra parte. In molti, colpevolmente, lo fecero allora con l’indifferenza di chi pensava che quell’orrore fosse “affare loro”, frutto di odi religiosi o etnici nonostante fosse un falso clamoroso perché fede ed etnie non c’entravano nulla in quella tragedia costruita per fini di potere e sottomissione da chi inneggiava, in un delirio ultra nazionalista, alla “grande Serbia”.
Affermare che si deve riconoscere lo Stato di Palestina e porre fine all’occupazione, investendo nella costruzione della pace e della giustizia, per la sicurezza di tutti i popoli di quell’area mediorientale, e che per questo serve urgentemente una conferenza internazionale di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite, sembra pura utopia eppure è l’unica via per uscirne. Non si può far finta di nulla con gli aiuti spesso bloccati al valico di Rafah mentre migliaia di bimbi muoiono di fame, i superstiti che si nutrono di erba e si spostano ogni giorno per sfuggire alle bombe o sono messi nel centro del mirino dei soldati di Tel Aviv. Non è questione nominale, ma di concreta realtà sostenere che nella Striscia di Gaza si sta consumando un genocidio. Ciò che accade è visibile a tutti, esattamente come durante la prima metà della “decade malefica” delle guerre nei Balcani sul finire del secolo scorso, da Mostar a Sarajevo, da Višegrad a Srebrenica. Come allora i giornalisti sono diventati bersagli. Soprattutto i palestinesi. I giubbotti con la scritta Press rappresentano un obiettivo da colpire. E’ la storia che si ripete come al tempo in cui si raccontava con un microfono, un taccuino, una macchina fotografica o una telecamera l’orrore quotidiano delle città assediate sull’altra sponda dell’Adriatico. Hanno ragione i reporter a sostenere che a Gaza fare informazione è un atto di resistenza contro lo sterminio, la distruzione programmata, l’annientamento sistematico di tutto ciò che può servire a produrre e vivere. Anche trent’anni fa a Srebrenica era più semplice morire che sopravvivere. E come allora è intollerabile l’indifferenza di leader e governi europei che vanno costretti ad assumere un’azione decisa affinché pace e giustizia non siano parole vuote.
Marco Travaglini
Luisa Levi: la signora medico
Torino e le sue donne
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile.Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, EmmelinePankhurst, colei che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.
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7 Luisa Levi: la signora medico
Agli albori del mondo, le donne ricoprivano ruoli di guaritrici, curavano i mali dell’anima e del corpo al pari degli uomini, come testimoniano vari reperti delle popolazioni euroasiatiche, africane o azteche. Il brusco cambiamento arriva con l’Inquisizione, che trasforma le conoscenze curative femminili in osceni patti con il maligno e le donne guaritrici in temibili streghe. Da questo momento in poi, per molto tempo, solo gli uomini potevano frequentare le Università e solo i dottori in medicina potevano praticare le arti guaritorie. Unica eccezione fu la scuola di Salerno, all’interno della quale, nell’XI secolo, lavorava Trotula, “sapiens matrona” (“donna sapiente e saggia”), abilissima levatrice proveniente dalla ricca e nobile famiglia de Ruggiero di origine Longobarda. Le donne dovranno aspettare secoli perché le porte delle Università vengano aperte anche a loro, il che accadrà soltanto tra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Se le Istituzioni aprono le porte, l’opinione comune resta serrata e le donne medico devono combattere più degli uomini per veder realizzati i propri obiettivi. Tra le tante “combattenti” ricordiamo Mary Putnam Jacobi: diplomatasi nel 1863 in Farmacia a New York, poco dopo ottiene la Laurea in Medicina al Woman’s Medical College della Pennsylvania; porta avanti la convinzione che per diventare validi medici sia fondamentale avere non solo una buona preparazione scientifica, ma anche una grande compassione per chi soffre. Diventerà portavoce del Movimento Medico Femminile a capo della Working Women’sSociety e dell’associazione per l’Advancement of the MedicalEducation for Women. In Italia, troviamo Maria Dalle Donne, prima docente di Ostetricia nella Regia Università di Bologna, laureatasi in Filosofia e Medicina nel 1799, e dirigente, nel 1804, presso la Scuola delle Levatrici, e Maria Montessori, nata ad Ancona nel 1870: è lei la prima donna italiana a conseguire la Laurea in Medicina e Pedagogia (ma anche in Scienze Naturali e Filosofia). La nostra storia di oggi ha come protagonista una delle tante donne caparbie e preparate che non si è mai arresa di fronte agli ostacoli frapposti dalle ferree regole della società: Luisa Levi. Luisa Levi nasce a Torino il 4 gennaio 1898, diviene medico neuropsichiatra infantile, attenta studiosa di problemi riguardanti la sessualità dell’infanzia. E’ ricordata principalmente poiché è la prima donna medico italiana a pubblicare un lavoro sull’educazione sessuale, intitolato “L’educazione sessuale: orientamento per i genitori”. Scopo del libro è aiutare i genitori a dare un sano indirizzo alla vita sessuale dei loro figli, evitando errori comuni dovuti a pregiudizi. Luisa Levi è figlia di Ercole Raffaele e Annetta Treves, entrambi di religione ebraica. E’
lo zio materno Marco Treves, psichiatra e fratello del noto Claudio Treves, a suscitare in lei il desiderio di diventare medico. Luisa frequenta a Torino il liceo Vittorio Alfieri e in seguito si iscrive, nel 1914, alla tanto desiderata Facoltà di Medicina presso l’Università degli Studi di Torino. Nel suo primo anno di corso stringe amicizia con Maria Coda, l’unica altra donna frequentante. Luisa segue nel corso degli studi il laboratorio di Anatomia e Istologia Normale e quello di Clinica Medic
a, rispettivamente presso gli studi di Romeo Fusari e di Camillo Bozzolo e Ferdinando Micheli. La giovane donna riuscirà ad ottenere i premi “Pacchiotti” e “Sperino” per le massime votazioni conseguite negli esami speciali e nella discussione della tesi: “Sopra un caso di endocardite lenta”, con cui si laurea l’8 luglio 1920, conseguendo il massimo dei voti e la lode. Luisa è donna non solo di alta cultura ma anche molto coraggiosa: durante la prima guerra mondiale è infermiera volontaria presso l’ospedale territoriale della Croce Rossa Italiana di Torino, in cui presta servizio come aspirante ufficiale medico nel laboratorio psico-fisiologico dell’Aviazione, diretto da Amedeo Herlitzka. Dopo alcuni anni in qualità di assistente presso diverse cliniche, nel 1928 lavora con il titolo di medico per le malattie nervose dei bambini presso l’ospedale pediatrico Koelliker di Torino, dando così inizio alla sua carriera di neuropsichiatra infantile. Nel 1927 si reca a Parigi per perfezionarsi in malattie mentali e malattie nervose. Sebbene la sua formazione sia ricca di riconoscimenti e nonostante l’ottima preparazione, Luisa incontra non poche difficoltà ad essere assunta nelle diverse cliniche psichiatriche, dove, in caso di pari merito, le vengono preferiti i suoi colleghi maschi. La dottoressa non si arrende e nel 1928 vince un posto, dedicato a sole donne, bandito dai manicomi centrali veneti per la colonia medico-pedagogica di Marocco di Mogliano, fondata da Corrado Tummiati. Negli anni successivi pubblica diversi articoli sulla mente dei bambini e sulla loro rieducazione. Le peripezie di Luisa, però, non sono finite e dopo un anno dall’assunzione il direttore amministrativo la induce a dare le dimissioni. Nel 1932 viene accettata nella Casa di Grugliasco, dove rimane fino all’emanazione delle leggi razziali. Durante la seconda guerra mondiale, privata del lavoro, si ritira nella campagna di Alassio, di proprietà dei genitori, e qui si dedica a lavori agricoli. Dopo l’8 settembre 1943 si rifugia con la madre a Torrazzo Biellese, dove vive sotto falso nome. Qui, grazie al Comitato Femminile di Ivrea, collabora attivamente come medico della settatantaseiesima Brigata Garibaldi. Nel secondo dopoguerra, determinata a portare avanti il suo impegno scientifico e politico, Luisa Levi entra in Unità Popolare e fa parte della sezione PSI “Matteotti” di Torino; diventa poi membro attivo dell’UDI (Unione Donne Italiane) e si iscrive alla Camera Confederale del Lavoro della città subalpina. Continua a dedicarsi alla neuropsichiatria infantile dopo aver conseguito la libera docenza con la tesi su “Infanzia anormale” nel 1955. Dopo una vita passata a lottare, trova finalmente riposo proprio nella città da cui era partita: si spegne, infatti, a Torino nel dicembre del 1983.
Alessia Cagnotto
Palazzo Madama svela alla Città la sua ricca Collezione di manoscritti e miniature raramente esposte al pubblico
Dal 23 maggio all’8 settembre
Partiamo dai numeri: 20 codici miniati, 10 incunaboli e un ricco fondo di 80 tra fogli e “miniature” ritagliate (“cuttings”), databili fra il XIII ed il XIV secolo e appartenenti all’importante Collezione del “Museo” di piazza Castello, raramente esposta al pubblico per l’estrema delicatezza delle opere. Fra le più preziose in assoluto, il celebre codice delle “Très Belles Heures de Notre Dame di Jean de Berry” (noto anche come “Heures de Turin – Milan”) con miniature del fiammingo Jan van Eyck, mai più esposto al pubblico dal 2019. E’ per davvero un campionario d’arte di stupefacente preziosità, raccontata attraverso secoli e secoli di grande storia, il progetto espositivo “Jan van Eyck e le miniature rivelate”, in corso a “Palazzo Madama” da venerdì 23 maggio a lunedì 8 settembre, sotto la curatela di Simonetta Castronovo (Conservatrice del “Museo”) e realizzato in partnership con il Dipartimento di “Studi Storici” dell’“Università di Torino”. “Il progetto, sulla base degli studi appena conclusi da parte dell’‘Ateneo torinese’ – sottolinea Castronovo – intende quindi svelare e illustrare al pubblico un patrimonio che pochi conoscono, affiancando alle vetrine una grafica che, oltre a inquadrare ciascun volume e ciascun frammento nel giusto contesto geografico e stilistico, apra anche degli approfondimenti sia sulle tecniche di realizzazione dei manoscritti e i materiali impiegati, sia sulle biblioteche nel Medioevo e nel Rinascimento e sulla circolazione dei libri in questo periodo”.
L’iter espositivo si articola in sei sezioni cronologiche: dal “Duecento – Trecento” fino al “Cinquecento”, passando per il “Quattrocento” in Francia e nelle Fiandre, dove troviamo il già citato codice “Les Très Belles Heures de Notre Dame de Jean de Berry”, commissionato intorno al 1380 dal duca Jean de Berry, fratello del re di Francia, e che per una ventina d’anni impegnò diversi artisti, fino ad arrivare, negli Anni Venti del Quattrocento, attraverso diversi colpi di scena e passaggi di proprietà, nei Paesi Bassi alla bottega dei fratelli Hubert e Jan van Eyck (Maastricht?, 1390 – Bruges, 1441), pioniere quest’ultimo dell’arte fiamminga, nonché perfezionatore della tecnica a olio, che gradualmente sostituì in Europa l’uso del colore a tempera. Dai Paesi Bassi, il “Codice” approdò in Piemonte nel XVII secolo, diviso in due frammenti, confluiti, il primo, nella Biblioteca di Vittorio Amedeo II di Savoia e, il secondo, nella Biblioteca del conte Francesco Flaminio d’Agliè. Agli inizi dell’Ottocento, quest’ultimo fu acquistato dal marchese Gian Giacomo Trivulzio per la sua celebre “raccolta milanese” e ceduto (senza non poche “beghe” diplomatiche) al “Museo Civico” di Torino solo nel 1935, insieme al famoso “Ritratto Trivulzio” di Antonello da Messina. Di qui, il titolo “Heures de Turin – Milan”. Splendida e, per quei tempi, “rivoluzionaria”, nella minuta precisa trattazione del “vero” e nel contrasto dei piani prospettici e dei chiaroscuri, la scena della “Nascita del Battista” non meno che la “Messa dei morti”, ambientata “nella vertiginosa verticalità di una cattedrale gotica che sfonda i bordi della cornice dipinta”.
Fra le altre opere di grande valore, ricordiamo, ancora gli “Statuti della Città di Torino” del 1360, oggi conservati nell’“Archivio Storico” del Comune, con i primi ordinamenti che regolavano la vita cittadina, nonché i rapporti del Comune con i conti di Savoia; quindi, due Statuti di Corporazioni medievali, la “Matricola degli orefici” e quella dei “Cordovanieri” di Bologna, e infine una “Bibbia” del 1280, autentico capolavoro del Duecento bolognese. Proseguendo, al “Gotico” internazionale e lombardo appartengono una serie di frammenti provenienti da raffinati “Libri d’Ore” e “Antifonari” legati al gusto della corte dei Visconti. Preziose (accanto alle opere di van Eyck) anche altre testimonianze dell’arte fiamminga e franco fiamminga, con nomi che vanno da Simon Marmion ad Antoine de Lonhy, pittore borgognone poi attivo tra Savoia, Valle di Susa, Torino e Chieri nell’ultimo quarto del Quattrocento. Stupendi, per chiudere l’iter espositivo, il rinascimentale “Messale” del cardinale Domenico della Rovere miniato da Francesco Marmitta e il cosiddetto “Libro di Lettere Astrologiche” (1550), manuale di calligrafia, forse realizzato per il giovane Emanuele Filiberto di Savoia, con straordinarie iniziali a inchiostro, ancora di ispirazione medievaleggiante.
Davvero una mostra evento. Che fa onore alla Città e al suo Antico “Museo Civico”.
Gianni Milani
“Jan van Eyck e le miniature rivelate”
Palazzo Madama – Corte Medievale, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it
Fino all’8 settembre
Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; martedì chiuso
Nelle foto: Jan van Eick “Heures de Turin – Milan” (“Nascita del Battista” e “Battesimo di Cristo”), 1420-’24; Simonetta Castronovo; Francesco Marmitta “Messale del cardinale Domenico della Rovere”, 1490-‘92
Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorato ai cavi elettrici, me nel contempo le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si delinea unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti: in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.
1. Torino capitale… anche del cinema!
2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo
3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici
4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio
5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente
6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa
7. Torino policulturale: Porta Palazzo
8.Torino, la città più magica
9. Il Turet: quando i simboli dissetano
10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro
1-Torino capitale… anche del cinema!
“Torino è grande! Torino è bella”, lo gridava Sandro Replay alle serate Parhasar, e vediamo quanti di voi, cari lettori, sorridono continuando la cantilena che quasi tutti i “veri” torinesi hanno pronunciato goliardicamente almeno una volta, certo ormai un po’ di tempo fa.
Vi ho “sbloccato un ricordo” perché in questo articolo vorrei raccontarvi di Torino sotto veste di capitale, tuttavia non d’Italia (1861 – 1865), ma della Settima Arte, che proprio qui vede i suoi natali, grazie a personalità come Vittorio Calcina e Arturo Ambrosio.
È il 1895, nel negozio di ottica di Arturo Ambrosio viene esposto il Kinetoscopio di Edison, parente prossimo del celeberrimo cinematografo Lumière, strumento che proietta immagini in movimento, creando quella magia immortale che illude l’osservatore e lo inganna, trasportandolo in luoghi e momenti inaspettati attraverso rappresentazioni fittizie.
Anche se alcuni attestano una prima proiezione nel mese di marzo 1896, presso il Caffè Romano di piazza Castello, la versione ufficiale vuole che tale avvenimento si fosse svolto il 7 novembre dello stesso anno, presso l’Ospizio di Carità di via Po 33.
Lasciamo stare i cavilli, la rivoluzione cinematografica è ormai nata e da subito stupisce e destabilizza gli osservatori increduli; le immagini scorrono su un formato di 1,60 mt per 1,29 mt -quasi quanto alcune televisioni odierne-, i filmati hanno breve durata, come attesta “La Bohémienne dei bébès”, una delle prime pellicole trasmesse, con protagoniste otto bambine con i grembiulini bianchi che ballavano la polca.
L’impatto è talmente sconvolgente che ad esso seguono altri due primati: la prima proiezione con un pubblico pagante – qualche mese più tardi rispetto al primo evento gratuito- e – decisamente diversi anni dopo, nel 1971- la nascita del primo cinema d’essai in Italia, il Cinema Romano, situato nella Galleria Subalpina, oggi rinominato Lux. E siccome non c’è due senza tre, nel 1983, Torino si conferma città del cinema con l’inaugurazione del cinema Eliseo, il primo multisala della penisola.
Ma andiamo per ordine: il 30 aprile 1911 si svolge nel capoluogo piemontese l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, una manifestazione imponente che espone numerosi cinematografi nei diversi padiglioni, a dimostrazione del fatto che già nel 1908 a Torino si girava ben il 60% della produzione filmica italiana, senza tener conto che a partire dal 1910 la casa di produzione Ambrosio distribuisce su larga scala i noti film “serie nera”, una sorta di storie gialle impreziosite dai drammi personali dei personaggi.
Pare incredibile, ma l’America all’epoca guardava verso l’Italia con stupore ed invidia, non solo per la grande macchina dell’industria cinematografica, ma anche per i divi e le dive che il grande schermo rendeva idoli indiscussi.
Sono gli anni del bianco e nero e del cinema muto, tutto è incentrato sulle movenze degli attori, gli sguardi, la gestualità estremizzata e teatrale, gli attori divengono “Stars”, impongono mode, dettano regole non scritte, infrangono i cuori dei giovani.
È il caso della bella Mary Cléo Terlanini, nota per aver recitato in “Spergiura!”, o di Lydia Borrelli, particolarmente amata dal pubblico maschile torinese, che addirittura “moriva” per il suo fascino, mentre le donne la imitavano a tal punto da far nascere una moda basata su un atteggiamento di emulazione totalizzante nei confronti della bella attrice, il “Borellismo”. Francesca Bertini, “charmante” e gracile, invece era l’incarnazione della “diva” per eccellenza, si dice infatti che pretendesse un abito nuovo e diverso per ogni scena girata, ovviamente cucito su misura dalla sua sarta personale, e che terminasse di lavorare alle 17.00 del pomeriggio per prendere il té in un grande albergo. Notata addirittura dalla Fox, Francesca preferisce alla grossolana America un amorevole banchiere svizzero, Alfred Paul Cartier.
Dietro i volti iconici e ben truccati degli interpreti in primo piano, si svolge il duro lavoro dei macchinisti, dei truccatori, degli scenografi, dei musicisti e di tutti coloro che finiscono nel dimenticatoio dei titoli di coda, eppure Vittorio Calcina, indifferente al rischio di non passare alla gloria, non si arrende ed elabora le prime pellicole con regia torinese, tra di esse si annovera un filmato realizzato presso il Castello di Monza, con protagonisti re Umberto I e consorte, i quali dimostrano una discreta curiosità per questa nuova tecnologia. Il girato viene trasmesso nella Birraria in via Garibaldi 10, luogo in cui si svolgono numerosi spettacoli diurni e serali, anche se il primo locale effettivo e stabile, in cui i film verranno proiettati periodicamente, sarà l’Edison, in via delle Finanze – ora via Cesare Battisti-.
Nel frattempo il lungimirante Arturo Ambrosio parte per una gita in montagna, carico di una macchina da presa donatagli da uno dei fratelli Pathé – i creatori dell’omonima società cinematografica, nata a Varennes, in Francia- con la quale gira il primo film prodotto a Torino: La corsa automobilistica Susa-Moncenisio. È l’inizio del successo per Arturo, che grazie alla riuscita del suo operato, apre uno studio di posa nel giardino di casa sua – via Nizza 187- dedicandosi alla realizzazione di film comici, drammatici e diversi documentari.
La nascita della Settima arte porta con sé lo sviluppo del sonoro e della comunicazione senza fili, è tutta una tecnologia brulicante di scoperte e sviluppi, che d’un tratto portano alla realizzazione di Cabiria, un vero e proprio kolossal, sceneggiato da Gabriele D’Annunzio e passato alla storia per essere stato il film più lungo, costoso ed innovativo dei tempi del cinema muto.
Impossibile non temporeggiare su tale argomento, tanto più che il temibile dio Moloch ancora ci osserva, incatenato, dall’interno del Museo del Cinema, situato presso la Mole Antonelliana.
Tra il 1913 e il 1914 Torino non invidia nulla alla celebre Hollywood, la stessa pellicola di Cabiria è nota negli Stati Uniti come “the daddy of spectacles”, ossia il “papà di tutti gli spettacoli”: la vittoria è garantita.
Giovanni Pastrone, il regista, propone un modello di spettacolo innovativo, che si differenzia dal cinema prodotto in precedenza, sotto molteplici punti di vista come la durata (tre ore e dieci minuti), il budget esorbitante (un milione di lire-oro), gli effetti speciali, i movimenti di carrello e l’uso espressivo della luce, senza dimenticare la Sinfonia del fuoco composta da Ildebrando Pizzetti e l’accompagnamento in sala di coro e orchestra, per le proiezioni più prestigiose. È l’opera d’arte “totale”, non stupisce a questo punto la collaborazione con D’Annunzio, il quale provvede alla stesura delle didascalie letterarie ed inventa il nome “Cabiria”, ossia “nata dal fuoco”.
Le scene del kolossal vengono girate in molteplici zone tra Torino, Tunisia, Sicilia, le Alpi, i laghi di Avigliana, Valli di Lanzo e all’interno di Villa Pastrone – di proprietà del regista-.
Della musica invece si occupa Manlio Mazza con la breve ma intensa Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti.
La prima si svolge il 18 aprile 1914, al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e in contemporanea al Teatro Lirico di Milano. Le innovazioni del film quali lampade elettriche per il chiaroscuro, scenografie ricostruite in cartapesta, il carrello per muovere la cinepresa sulla scena e la tecnica della sovrimpressione, donano fama immediata a Cabiria, la critica rimane benevolmente impressionata dall’opera, così come il pubblico, tanto che il kolossal resterà in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York. È bene non dimenticarsi che proprio Cabiria è stato il primo lungometraggio della storia ad essere proiettato alla Casa Bianca.
Ben si collega a questi gloriosi inizi il progetto di costruzione di un museo del cinema italiano, idea portata avanti a partire dal 1941 da Maria Adriana Prolo, con il sostegno artistico dello stesso Giovanni Pastrone e con l’aiuto del giornalista Francesco Pasinetti.
Sarà tuttavia necessario attendere il 1995 affinché la Mole Antonelliana venga scelta come sede ultima della grande esposizione, proprio in occasione del centenario della nascita del cinema; per tale evento collaborano l’architetto torinese Gianfranco Gritella e lo scenografo svizzero François Confino, il progetto in seguito si amplia e si modifica, accrescendo di pari passo fama e apprezzamenti, tanto che nel 2000 il museo viene visitato da oltre due milioni di visitatori.
Già conosciuto a livello internazionale, nel 2004, con il film “Dopo Mezzanotte” di Davide Ferrario, il Museo del Cinema di Torino tocca l’apice della notorietà, mentre due anni dopo viene ulteriormente restaurato e rinnovato in occasione dei XX Giochi Olimpici invernali; l’allestimento si arricchisce di postazioni multimediali e interattive, tre nuovi ambienti dedicati al western, al musical e alla fantascienza.
È proprio negli anni 2000 che Torino festeggia il suo personale legame con il cinema, grazie all’inaugurazione del suggestivo apprestamento già citato di François Confino, il 20 luglio dello stesso anno, ma anche perché nel medesimo giorno viene costituita la “Film Commission Torino Piemonte”, con lo scopo di promuovere Torino ed il Piemonte come locations cinematografiche e televisive.
Vent’anni dopo il capoluogo è ufficialmente nominato Capitale del Cinema 2020. È in tale occasione che si sottolinea la numerosa varietà di enti, associazioni, istituti e laboratori che si contraddistinguono per eccellenza nel panorama cinematografico nazionale ed europeo e che hanno sede proprio qui, nella città attraversata dal Po e ombreggiata dal Monviso. Sempre nel 2020 si svolge “Torino Città del Cinema 2020. Un film lungo un anno” , un progetto ambizioso, sostenuto da Città di Torino, Museo Nazionale del Cinema e Film Commission Torino Piemonte, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, in collaborazione con Regione Piemonte, Fondazione per la Cultura Torino, media partner Rai. L’iniziativa continua a crescere e a coinvolgere ulteriori proposte, che nel tempo hanno contribuito a fondere l’invenzione del grande schermo con il territorio torinese, a tal proposito è impossibile non citare l’ideazione de “I luoghi del cinema”, piano che prevedeva la realizzazione di allestimenti impattanti ed immersivi in alcuni specifici angoli della città.
È bene a questo punto fare i conti con il nostro snobismo torinese e riconoscere il ruolo più che rimarchevole che Torino ed il Piemonte hanno assunto nel mondo del cinema, nonché la loro notevole rilevanza dal punto di vista dello sviluppo dell’industria cinematografica, dello sviluppo di talenti e professionalità e delle ricadute in termini di promozione, anche internazionale, dell’immagine della città e dell’intero territorio.
Vi invito dunque, cari lettori, a tornare ad andare più spesso al cinema, magari a vedere qualche produzione nostrana senza scetticismi o giudizi a priori, non solo per l’aria condizionata, ma perché siamo ormai talmente abituati alla comodità delle piattaforme da divano, che ci siamo scordati della meraviglia e della vera magia del grande schermo.
D’altronde è da tempo che il cinema ci insegna a guardare, ad ascoltare e a sentire, ci apre al confronto, ci fa affacciare su mondi distanti, ci racconta grandi storie, e anche se imparare costa fatica, sarà sempre meglio che restare inscatolati in una comoda e preconfezionata “routine”.
ALESSIA CAGNOTTO