Domenica 2 ottobre, ore 16
Teatro Concordia
MADAMA BUTTERFLY
Al Teatro Concordia di Venaria Reale (TO) una tra le più note ed apprezzate opere in forma di concerto.
Madama Butterfly è un’opera in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, definita nello spartito e nel libretto “tragedia giapponese”, che mette in scena le inquietudini dell’animo femminile.
È la storia di un ufficiale della marina degli Stati Uniti, F.B. Pinkerton, che, sbarcato a Nagasaki, per vanità e spirito d’avventura si unisce in matrimonio, secondo le usanze locali, con una geisha quindicenne di nome Cio-Cio-San – termine giapponese che significa Madama (San) Farfalla (cio-cio), in inglese Butterfly – acquisendo il diritto di ripudiare la moglie anche dopo un mese. Così, infatti, avviene e Pinkerton ritorna in patria abbandonando la giovanissima sposa. Ma questa, innamorata e tenace, pur struggendosi nella lunga attesa accanto al bambino nato da quell’unione, continua a ripetere a tutti la sua incrollabile fiducia nel ritorno dell’amato. Quella della protagonista è una figura fragile e tormentata che trova nelle regioni più nascoste del proprio animo la forza di uscire dalle convenzioni e trovare la libertà nell’abbandono del figlio e della vita.
Madama Butterfly al Teatro Concordia verrà eseguita in forma di concerto, con introduzione a cura di Gualtiero Ristori. Lo spettacolo è un recupero delle date programmate il 10 maggio 2020, 7 febbraio 2021 e 6 febbraio 2022 e rinviate causa Covid.
Domenica 2 ottobre, ore 16
Madama Butterfly
Regia di Gualtiero Ristori
Interpreti: Laura Maria Romo Contreras (Cio Cio San), Alessandro Fantoni (F.B. Pinkerton), Cristiana Emoli (Suzuki), William Allione (Sharpless), Roberto Caccamese (Goro), Pietro De Fino (lo zio Bonzo), Mario Gaudino (il principe Yamadori). Maestro al pianoforte Paolo Grosa.
Biglietti: intero 20 euro + d.p. – ridotto 18 euro + d.p.

Questo è il quadro profetico di “Siccità”, ultimo film di Paolo Virzì, catastrofico affresco di questa epoca catastrofica, mosso a dovere dal montaggio di Jacopo Quadri. Scritto a otto mani (con il regista, Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e Paolo Giordano – “La solitudine dei numeri primi” – e sarebbe interessante sapere quale degli sceneggiatori abbia seguito questa traccia piuttosto che quella), il regista livornese torna a uno di quei suoi, un tempo totalmente riusciti, film corali (“Ferie d’agosto” in testa, con quei due gruppi familiari su opposte posizioni politiche aveva tutt’altro spessore, “Tutta la vita davanti” altro successo), coglie con la sua macchina da presa gli affetti bruciati e aridi, la disperazione, la miseria, l’incessante “non me ne frega più di niente”, la fatica di vivere dei suoi personaggi: che hanno in sé il pericolo o decisamente il difetto infelicemente presente di essere troppi, irrisolti, sbiaditi, confusi, approssimativi, di riempire di un peso eccessivo per colpa di un bulimico script il lungo percorso della storia. Di storie, alcune con qualche riuscita in più – i ritratti dolorosi del tassista Valerio Mastandrea, strafatto, che guida in straripante sonnolenza il suo mezzo tra le ombre dei genitori o del politico per cui ha un tempo lavorato, che ripete le chiacchiere di sempre, che glorifica un paese che al contrario sta andando allo sfascio -, della dottoressa Claudia Pandolfi, attrice matura e mai come qui incisiva o di Elena Lietti, ottima, che cerca di reinventare la propria esistenza con una nuova avventura -, altre decisamente buttate via, sciupate – penso al commerciante Max Tortora, un impermeabile lercio addosso, buttato sul lastrico, che si trascina di angolo in angolo con il suo pacchetto di fatture non pagate, pronto a denunciare ogni cosa in tivù o alla superficialissima presenza di Monica Bellucci, da cancellare in quattro e quattr’otto, mentre ci chiediamo con che misura qualcuno lo scarso maggio le abbia dato un David di Donatello alla carriera, mah! -: le intenzioni possono apparire eguali a quelle del vecchio Altman di “America oggi” o dell’insuperato “Nashville” o del Cronenberg di “Crash” o del Inarritu di “Babel”, ma in quei titoli c’era tutta la robustezza dello scavo psicologico, lo sguardo profondo e la misura giusta, appropriata, determinante per ogni personaggio, la scrittura esatta che era ben lontana dall’appesantire la vicenda o dal renderla a tratti superficiale, quadri di perfezione difficilmente raggiungibili.

Chiara De Carlo