società- Pagina 9

Spazio Nonni alla Fondazione Paideia

Da sempre figure di riferimento nella crescita e nell’educazione dei bambini, i nonni di tutta Italia vengono festeggiati il 2 ottobre, con una ricorrenza divenuta nazionale nel 2005. Figure insostituibili nell’infanzia dei piccoli nipoti, i nonni costituiscono un aiuto imprescindibile all’interno del nucleo famigliare, e questo è doppiamente vero quando in famiglia è presente un bimbo con disabilità. La Fondazione Paideia, che da oltre trent’anni sostiene le famiglie con bambini disabili, evidenzia l’importanza di riconoscere un supporto specifico non solo ai bimbi ma anche all’intero nucleo famigliare, per questo nelle sue sedi di Torino e Milano organizza incontri di formazione, informazione e confronto dedicati a genitori, fratelli e nonni. A ottobre, in occasione della festa dei nonni, riparte il progetto Spazio Nonni, gli appuntamenti rivolti ai nonni di bambini e bambine con disabilità. Nascono per offrire, a partire da temi molto specifici, momenti di riflessione e confronto tra pari. Ogni incontro prevede un tema specifico, comunicazione, giochi pratici, uso della tecnologia e suggerisce alcuni strumenti per comprendere al meglio i propri nipoti.

Giuseppe e Luigia, nonni che da tempo frequentano il percorso, raccontano: ”Ci siamo resi conto presto che nostra nipote aveva qualcosa di diverso dagli altri bambini, ma non sapevamo esattamente di cosa si trattasse. Non avevamo mai sentito parlare di autismo prima della diagnosi. Confrontarci con gli altri nonni è servito per farci vedere i problemi come una opportunità, può essere anche un modo vicendevole di farsi coraggio. Oggi riflettiamo sul fatto che, conoscendo nostra nipote, ci sembra di aver conosciuto un altro lato degli altri. Quello che abbiamo capito della nostra storia è che conoscere di più fa bene. Fa cercare soluzioni nuove, capire come approcciarci ai nostri nipoti, immaginare strategie migliori per comunicare e entrare in contatto con i bambini. Abbiamo anche capito che bisogna dar spazio a questi argomenti affinché diventino parte del senso di inclusione quotidiana”.

“Qualche anno fa – speiga Fabrizio Zucca, psicologo e psicoterapeuta della Fondazione Paideia – abbiamo avuto modo di riflettere sulle esperienze dei nonni all’interno di un gruppo per famigliari; oltre ai papà, che sono stati i nostri primi destinatari, c’erano anche uno zio e due nonni, e abbiamo compreso quanto fosse delicato il ruolo dei nonni all’interno della famiglia di un bambino e di una bambina con disabilità. I nonni si ritrovano a ricoprire due ruoli, quello di genitore di un figlio che si ritrova a gestire l’impatto con la disabilità e quello di nonni di un nipote con disabilità, e dei suoi fratelli e sorelle. I nonni vorrebbero saperne di più , a volte sono molto preoccupati, ma cercano di restare un po’ in disparte per non invadere, sanno che bisogna dar tempo alla mamma e al papà a loro volta di capire meglio. Questo percorso nasce per dare ai nonni un sostegno pensato per loro, un’occasione in cui possono condividere esperienze con altri nonni dal vissuto simile”.

I prossimi appuntamenti dedicati ai nonni, alla Fondazione Paideia, sono il 23 ottobre, il 4 dicembre 202, il 19 febbraio, 9 aprile, 21 maggio 2025.

Orario: 9.30 – 11.30

Fondazione Paideia, via Moncalvo 1 Torino

 

Mara Martellotta

Sharenting. La condivisione delle immagini dei bambini sui social

I  rischi connessi

Mentre mangiano o giocano, quando sono al mare o insieme ai loro amici, le foto dei bambini spopolano su internet, sui social, sui profili Facebook o Instagram . Questa volonta´ di condivisione ´ certamente un gesto di affetto e di orgoglio da parte di genitori, dei nonni e di tutti coloro che li amano, ma spesso e’ una rischiosa e inopportuna sovraesposizione delle vita dei minori in un luogo virtuale non del tutto sicuro, la rete informatica.

Il termine sharenting, la fusione dall’inglese tra share (condividere) e parenting (genitorialita’), coniato da poco in America, ci spiega, appunto, questa abitudine molto diffusa ovvero quella di postare con frequenza immagini di piccoli uomini e donne creando, il piu´delle volte, un involontario racconto digitale della loro vita.

Prescindendo dalla questione che riguarda la mancata consapevolezza da parte dei bambini sul fatto che la loro esistenza venga resa pubblica, ci sono altri risvolti legati a questa consuetudine che possono rivelarsi davvero drammatici, tra questi spicca l’appropriazione e l’ utilizzo improprio delle immagini che spesso sfocia in vere e proprie azioni illegali e deprecabili.

Questa “moda” e’ all’attenzione del Garante della Privacy che gia´ nella Relazione annuale del 2021 ha proposto di estenderne la tutela rispetto alla questione del cyberbullismo.

Spesso le foto dei minori sono accompagnate da informazioni sensibili come il nome, l’eta´ e il luogo di appartenenza, che rendono ancora piu´semplice il lavoro di chi potrebbe impossessarsene con cattive intenzioni.

Il Garante della Privacy riassume cosi´ i rischi dello sharenting:

Violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali e sensibili del minore ogni volta che si pubblica, senza il suo consenso, un’immagine sui social network, così come stabilito dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Mancata tutela dell’immagine del bambino che subisce la perdita del controllo sulle proprie informazioni con conseguenze sulla creazione della sua identità digitale odierna e futura. I contenuti postati online, infatti, restano e permangono a disposizione di chiunque.

Esiste poi il rischio delle ripercussioni psicologiche che potrebbero iniziare a manifestarsi nel momento in cui i bambini, crescendo, cominciano a navigare autonomamente. Se i loro genitori non hanno provveduto a tutelare la loro immagine e la privacy, i bambini dovranno fare i conti con quanto è stato pubblicato senza il loro benestare e immagini molto intime e private come quella del bagnetto, ad esempio, potrebbero andare nelle mani di chiunque.

Tra i rischi peggiori c’e´ senz’altro quello della pedopornografia. Alcune immagini di bambini in situazioni private, infatti, possono essere rubate, manipolate e inserite nelle squallide pagine digitali dei siti per pedofili. L’addescamento, infine, e´un’altra oscura possibilita´che si prospetta a causa delle immagini condivise, ma anche delle informazioni che le accompagnano, utili mezzi per creare ganci per avvicinare i minori online.

Il Garante invita a porsi diverse domande prima di condividere le foto dei propri figli: mio figlio sarebbe contento di avere sue foto postate? E´una azione sicura per la sua presente e futura identita´online?

Si tratta di problemi reali, di rischi concreti perche´ la rete, sfortunatamente, e´popolata anche da persone dalla scarsa cifra morale alla ricerca non solo di immagini da collezionare ma anche in attesa che qualche minore sprovveduto caschi nella sua rete con inevitabili e nefaste conseguenze.

MARIA LA BARBERA

Fonte: www.garanteprivacy.it

L’amico è…

Nel 1983 Dario Baldan Bembo, mostrandosi poeta prima che autore, scrisse la canzone “Amico è (L’inno dell’amicizia)”.

E’ l’amico è

una persona schietta come te

che non fa prediche

e non ti giudica

fra lui e te divisa

due la stessa anima

Però lui sa

l’amico sa

il gusto amaro della verità.

Ma sa nasconderla

e per difenderti

un vero amico anche bugiardo è.

Ma parliamo, appunto, di quarant’anni fa; nell’epoca attuale, al contrario, l’amicizia è stata citata a sproposito, sminuita dai social, vanificata da smartphone e tecnologia, cercata solo da chi segue ancora valori tradizionali.

Il proverbio “L’amico si vede nel momento del bisogno” si presta bene anche ai nostri tempi: solo che oggi va interpretato come una persona che non vedi per lungo periodo ma quando ha bisogno si ricorda di te e si fa nuovamente vivo.

Chi mi conosce sa che io periodicamente faccio un inventario delle amicizie: se sono degne di tale nome rimangono tali, altrimenti sono destinate a finire in cantina: non vengono dimenticate, ma diventano presto inutili.

Nel mio libro “Ventiquattro sfumature di vita” parlo proprio di questo: amicizia intesa come rapporto di scambio tra quanti sono come noi, hanno le nostre stesse vedute e ci danno ragione; l’amicizia, in realtà, è l’esatto opposto. De Andrè, Guccini e Bertoli nelle canzoni (ma non sono gli unici), Don Gallo nelle prediche hanno saputo testimoniare tutto ciò distinguendosi dalla massa.

Nel capitolo sull’amicizia parlo proprio di come nei decenni io abbia scremato le amicizie, talvolta mettendo alla prova i “candidati” per capire se fossero interessati alla mia amicizia o ad avere qualche servo sciocco in più.

Con alcuni mi sono finto sciupafemmine, squattrinato, senza auto, etilista e, com’era prevedibile, molti di loro si sono allontanatiperché non rispondevo ai loro canoni, non ero “utile” e non facevo fare loro bella figura in società.

Chi, al contrario, cercava una persona che li ascoltasse, con cui passare un week end al mare, o una serata al pub o anche solo due chiacchiere in famiglia mi è rimasto vicino perché quello potevo offrire loro: dopo 40, 50 e in alcuni casi 56 anni molti di loro sono ancora miei amici.

L’esempio eclatante è quello di un amico la cui figlia di chiamò dicendo che il padre era a casa con la febbre altissima, non poteva fare nulla da solo ma lei era in ferie (200 km) e non poteva venire; andai tutti i giorni per una settimana a portargli la spesa, cercandodi alimentarlo, cambiai le lenzuola sudate e arieggiai la casa fino a quando fu autosufficiente. Svariati anni dopo, rientrato lui in Italiadopo alcuni anni di lavoro all’estero, scoprii che si sarebbe sposato di lì a poco e mi invitò “verbalmente”; nel periodo del matrimonio mio padre si aggravò (e morì poco dopo) e non potei partecipare al suo matrimonio: non mi perdonò e chiuse ogni rapporto con me. Di certo se lo incontro per strada agonizzante, lo scavalco.

Poi c’è ancora un’altra sottospecie di amico d’interesse: quello che sta con te fin quando pensa di primeggiare nel confronto, che pensa di uscirne vincente nelle uscite a due, perché vali meno di lui, sei meno bello, meno ricco, meno tutto. Quando poi si sveglia dal sogno e si rende conto che hai molti altri valori per i quali, e grazie ai quali, lo hai spodestato dal trono di paglia allora ti blocca su whatsapp, si cancella dal gruppo di compagni di scuola e, in generale, sparisce da ogni forma di socializzazione.

Ai tempi del liceo, in particolare, ero circondato da figli della Torino bene che potevano spendere cifre enormi in una sera, guidare a 20 anni auto di lusso e, in generale, permettersi un tenore di vita lontano dai miei standard. Quando, a distanza di pochi anni, ci siamo rincontrati il loro atteggiamento è diventato di chiusura, di blocco non potendo più mostrare la loro superiorità economica e sociale (su quest’ultima nutro ancora oggi seri dubbi)e realizzando che io avevo raggiunto molta più fama e notorietà diloro.

Una riflessione, dolorosa ma oggettiva, mi ha portato a considerare con spietata lucidità che non erano veri amici, che non avevo perso nulla di importante, che anche il miglior divertimento offerto con secondi fini diventa pessimo rispetto ad un’offerta sincera, anche se molto umile.

Ho quindi coltivato le amicizie meritevoli, divertendoci nei momenti lieti e prestandoci mutuo soccorso in quelli tristi,provando gioia per le amicizie autoeliminatesi che non sanno cosa si sono perse.

Con gli anni ho imparato ad apprezzare gli inviti sinceri, il bicchiere di vino offerto senza fronzoli su una tovaglia rammendata, piuttosto che l’evento che dimostra palesemente di essere stato organizzato “pro domo sua” e non capisci quando scatterà la trappola.

I social hanno veicolato un concetto di amicizia lontanissimo dall’accezione originale del termine: basta chiedere l’amicizia a qualcuno e che quel qualcuno la accetti per essere classificato“amico” pur non conoscendosi e non avendo mai scambiato due parole e ciascuno non sa nulla dell’altro, nemmeno se la foto del profilo corrisponda realmente all’identità dichiarata.

I genitori dovrebbero, intanto, non portare all’esasperazione i figli mettendoli in continua competizione (sportiva, scolastica, sociale) con i propri compagni facendoli diventarehomo homini lupus”; poi noi stessi dovremmo renderci conto che lo specchio mostra soltanto il nostro aspetto esteriore, non quello che gli altri percepiscono: se pensiamo di essere “l’ombelico del mondo” mentre siamo soltanto “l’ano del quartiere” continueremo a infilare una delusione dietro l’altra.

Siamo davvero sicuri di essere meglio di chi ci circonda? Siamo realmente convinti che gli altri possano solo essere nostri allievi anziché i nostri insegnanti, magari in qualcosa di importante?

Sergio Motta

Empatia. Sentire, comprendere e accettare gli altri senza giudicare

“Ti capiva fin dove volevi essere capito, credeva in te fin dove ti sarebbe piaciuto credere in te, e ti assicurava di avere ricevuto da te esattamente l’impressione migliore che speravi di dare” diceva Francis Scott Fitzgerald. Questa è l’empatia, l’ inestimabile capacità di accogliere e sentire l’altro, di comprendere le sue emozioni e conoscere la sua esperienza senza calarsi nel giudizio o attivare una valutazione. 

E’ una facoltà abbastanza in controtendenza con il contemporaneoin contrasto con uno scenario sociale e culturale dove l’autocelebrazione, la continua competizione e l’egocentrismo sono le nuove virtù di riferimento e dove ascoltare l’altro anteponendo i suoi bisogni ai nostri, seppur episodicamentesembra un indicatore di  antiquata debolezza. Tuttavia qualcosa si è mosso, proprio in questo ultimo periodo questa gentildonna vestita di altrui sensazioni e conoscenza si è presentata alla nostra porta. L’esperienza di questo virus vissuta in condivisione,  la chiusura, il senso di impotenza, l’incertezza e il disorientamento che questo “veleno” ha portato con sé hanno stimolato la nostra capacità di  “coinvolgimento empatico”. Eravamo tutti lì, e parzialmente lo siamo ancora, a riorganizzarci la vita, il tempo, il lavoro, praticando rinunce e aspettando pazientemente che tutto finisse. Questa avventura ci ha costretto a “sentirci” di più, ci ha messo in una inedita posizione di comprensione.

Sapevamo perfettamente cosa provavano gli altri, in che situazione fossero, quali erano le difficoltà giornaliere da affrontare, sia emotive che pratiche. Bisogni, speranze, frustrazioni e nuove strategie di sopravvivenza ci hanno unito inevitabilmente e collocato sulla stessa lunghezza d’onda.Ecco cosa è l’empatia, non solo la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, ma avere ugualmente cognizione di ciò chel’altro sta vivendo, possedere le informazioni necessarie che ci garantiscano di poter  comprendere appieno la sua condizione di vita. Non solo implicazioni di tipo emotivo o sentimentali dunque, ma anche un impegno di tipo cognitivo, come afferma Lori Gruen autrice del bellissimo libro “La terza via dell’empatia”, e un lavoro continuo di aggiustamento e “calibrazione” del nostro esercizio empatico.

Pensare infatti che l’attività percettiva di cui siamo detentori sia innata o  esclusivamente connaturata è un errore, quest’ultima necessita di un lavoro giornaliero di ricerca, di sintonizzazione e rivisitazione, questo per non cadere in una eccessiva complicità sensoriale, tipica delle persone molto sensibili, o scadere, al contrario, nella completa e mancata identificazione e immedesimazione con il prossimo. Questa “percezione morale” va alimentata dunque, nutrita e sviluppata. Una mano ce la possono dare gli animali afferma la Gruen,che, capaci molto più di noi di entrare in comunione percettiva con i loro simili, sono in grado di partecipare emotivamente alla loro vita soddisfacendo così bisogni di assistenza e vicinanza. La loro spiccata  predisposizione allosservazione del comportamento altrui e la conseguente spinta all’ identificazione li rende maggiormente empatici degli appartenenti alla categoria del genere umano.

Dalla nostra storia recente dunque, dai fatti che ci hanno reso protagonisti involontari e impauriti, si rende necessario comprendere che abbiamo bisogno di empatia, di reciprocità, di scambio emotivo e conoscitivo. Al netto di ogni retorica e lungi dal conseguimento di facili adesioni cariche di sentimentalismi, dobbiamo convincerci che viaggiare abbandonati sul nostro binario, escludendo dalla nostra vita ogni corrispondenza con l’altro da noi, non può che portaci ad una malinconica solitudine.

Maria La Barbera

Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio “sotto accusa”

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticcima ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

 

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

Progettata nel 1817 e terminata nel 1825, Piazza Vittorio Veneto, è uno dei luoghi più conosciuti e suggestivi di Torino.
Passeggiando per limmenso spiazzo o camminando distratti sotto i portici mentre si osservano le vetrine, quasi non ci si accorge che latmosfera muta seguendo il sole: di giorno pare dessere su unimmensa terrazza che si affaccia sul Po e sul verde della collina, di sera ci si ritrova in un salotto borghese, aggraziatamente illuminato dai lampioni impero con braccio a cornucopia, edificati negli anni Sessanta, e ridondande di risate e chiacchiericcio.
Chissà se anche i ragazzi e le ragazze che indossavano velette o redingote si rivolgevano alla zona con lappellativo familiare di Piazza Vitto, ma quel che di sicuro non è cambiato da allora, sia che si tratti degli adolescenti del primo Novecento, o della giovanissima Gen Z, è che in questo enorme spiazzo porticato si veniva e si continua a venire- per gozzovigliare e spettegolare.
Lo dimostrano i numerosi locali oggi presenti sul territorio, quali La Drogheria, Soho o il Tr3nd, perennemente strabordanti di ragazzi chiassosi e comitive spensierate, ma lo testimoniano anche i bar storici, molti dei quali non sono più presenti sul territorio, ma hanno accolto i grandi personaggi torinesi prima che il loro nome fosse impresso nella Storia, e chissà se Gioberti avrà mai pianto damore al Gran Corso o da Biffi, oppure se un serioso Gobetti avrà mai alzato troppo il gomito presso il Caffè del Gas, pioniere dellilluminazione a idrogeno.


I tempi cambiano, le città si modernizzano, ma per fortuna certe cose non possono cambiare. Ce lo ricorda limmortale Caffè Elena, aperto da circa 130 anni dal 1889- interamente decorato in stile liberty, il famigerato bar in cui Giuseppe Carpano ha messo a punto la ricetta del suo Vermouth motivo per cui sulla porta dingresso campeggia la storica insegna originale in vetro del Vermut Carpano dellOttocento-.
Tuttavia oggi non vi parlo, cari lettori, di Piazza Vittorio come luogo più chiacchieratodi Torino, la nomino in questa lista di articoli perché tale località sfoggia un suo particolare primato, anche se non è quello che ogni ogni torinese ha sentito dire almeno una volta nella sua vita, ossia che Piazza Vittorio è la piazza più grande dEuropa.
Mi spiace deludervi, gentili compatrioti, ma non temete, c’è la soluzione anche per questa spinosa disputa.
La verità è che i primati sono questione di dettagli, come continua ad insegnarci questa società sempre più volta alla competizione ed al primeggiare ad ogni costo.
La nostra Piazza Vitto-benché ampia 39.960 mq (360 metri di lunghezza e 111 metri di larghezza massimi)- non è né la più estesa dEuropa, né tantomeno la più vasta di Torino il record appartiene a Piazza della Repubblica- il suo primato è più specifico: si tratta dello slargo dotato di porticipiù grande del Vecchio Continente.
Quindi, amici Torinesi, se qualcuno osasse mai contraddirci in tal senso, inneggiando alle mastodontiche dimensioni di altri luoghi, come ad esempio Piazza della Parata di Varsavia, Piazza Carlo di Borbone a Caserta, Place de la Concorde a Parigi o ancora Karlovo náměstí, la piazza più grande di Praga, siate pronti a replicare con puntualità.
Al di là dei record, ed evitando le ovvie quanto scontate battute sul sempiterno desiderio di gareggiare in dimensioni – aspetto tenuto in gran considerazione già dalle torri dei comuni medievali fino ai SUV oggi parcheggiati in seconda fila- è opportuno sottolineare il grande valore storico-artistico, ambientale e architettonico del luogo.
Piazza Vittorio Veneto, così nominata dal 1919, volendo onorare la località legata alla vittoria nella prima guerra mondiale -in origine intitolata a Vittorio Emanuele I- è un perfetto esempio di soluzione edilizia neoclassica, stile più che presente nellestetica del capoluogo, oltre al Liberty e al Barocco.
La piazza rappresenta inoltre un brillante accomodamento progettuale atto a risolvere il problema del raccordo con l’esedra barocca di Via Po e il forte dislivello tra i due capi del medesimo spiazzo. È larchitetto Giuseppe Frizzi, a partire dagli anni Venti dellOttocento, a redigere un disegno ben strutturato, basato su cortili in comune tra più proprietà, ospitanti originariamente rimesse, scuderie, laboratori artigiani, progetto a cui dobbiamo lattuale aspetto del luogo. Detto in modo più semplice, larguto architetto riesce a nascondere visivamente il fatto che, da via Po al ponte, esiste un dislivello di sette metri.
Quello che attualmente si presenta come uno dei cuori pulsanti della movidadella città, nonché esempio di eleganza e sciccheria, sia a livello edilizio che di avventori, un tempo era un territorio poco salubre, destinato a barcaioli e lavandaie. Ma si sa dai diamanti non nasce niente, dal letame nascon i fior.

Tutto ha inizio nel lontano 1663, con la costruzione della Contrada di Po, progetto che però non conduce a grandi miglioramenti; è necessario attendere i numerosi interventi che si succedono dai primi decenni dellOttocento, che interessano personalità come Claude-Yves Joseph La Ramée Pertinchamp, Ernesto Melano (1792-1867), per arrivare poi allassetto definitivo, ideato appunto da Giuseppe Frizzi.
Altra peculiarità del luogo è il suo collegamento, tramite il ponte Vittorio Emanuele I, alla Gran Madre di Dio, uno dei principali luoghi di culto della città, costruito su esempio del Pantheon romano, anchesso, come la dirimpettaia piazza, in stile neoclassico.
Per la gran parte del XIX secolo tuttavia la zona viene utilizzata principalmente per scopi prettamente militari, soprattutto in epoca fascista, quando lampio spazio è considerato più che opportuno per le adunanze dellesercito.
Purtroppo è necessario ricordare anche i momenti meno gloriosi della storia: nonostante la bellezza del territorio e la valenza aggregativa per la cittadinanza, sappiamo che la violenza della guerra non ha scrupoli per niente e nessuno, così tra il 1942 e il 1943 i bombardamenti distruggono la maggior parte degli edifici, sia quelli abitatiti sia le strutture commerciali, che tuttavia verranno poi ricostruiti in epoca più recente.
Oltre alla gloria apportata dal suo primato indiscusso, la piazza si arricchisce di dettagli e aneddoti storici, che ne esaltano ulteriormente linsito valore, come comprova il pilastro presente al numero civico 12, su cui è annotato il ricordo dellastronomo Giovanni Plana, qui deceduto nel 1864, oppure la lapide situata al numero civico 23, posta in alto tra due finestre e dedicata alla rimembranza del soggiorno torinese del poeta romantico-risorgimentale Giovanni Prati.
Per diversi anni, prima che anche festeggiare divenisse qualcosa di così complicato, la piazza è stata sede centrale dei grandi Carnevali del capoluogo, capeggiati da Gianduja, la maschera torinese per eccellenza. Particolarmente noto resta lanno 1886, quando si svolge il Terzo Congresso delle Maschere italiane, evento caratterizzato da giostre, padiglioni, cortei mascherati. La gran macchina delle feste resiste in piazza Vittorio fino agli anni Ottanta del Novecento, quando si inizia a decidere che la felicità può essere dannosa per larredo urbano, le grandi processioni dapprima vengono spostate, per valorizzare larchitettura del luogo, in seguito vengono quasi del tutto soppresse per altre motivazioni che non è il caso di approfondire.
Anche lo stesso Farò” – o Falò– della Festa Patronale di San Giovanni un tempo si svolgeva qui, invece che nella sede attuale altrettanto spettacolare- di Piazza Castello.
Restano lì in piazza per ora- i fuochi artificiali accesi sempre durante la festa del Patrono, lungo il tratto del fiume Po, essi illuminano rombanti il Monte dei Cappuccini, il ponte, limmensa Piazza Vittorio, accendono gli sguardi di chi ancora si vuole stupire dei colori che fluttuano nel cielo notturno, ravvivano una città unica nel suo genere, che, come tutte le dame, talvolta si fa impaurire dagli anni che passano, e si dimentica di difendere la sua sempiterna bellezza.

 

La solastalgia, il disagio creato dai cambiamenti ambientali

Coniato dal filosofo Glenn Albrecht dell’universita’ di Newcastle in Australia, “solastalgia” e’ un neologismo che deriva dalla fusione di “solace” e “nostalgia”, che insieme creano  la nostalgia della conforto. È un termine che indica il senso di malessere che si genera quando l’ambiente circostante viene maltrattato, danneggiato e deturpato.  A dar vita a questa “patologia del luogo” sono fenomeni climatici estremi come tempeste e alluvioni, ma anche fuoriuscite di petrolio e altri disastri causati dall’uomo. Quando i territori a cui apparteniamo, quelli delle nostre radici, non sono piu’ riconoscibili ai nostri occhi e alla nostra memoria questo puo’ causare stress, ansia e malessere.

Ci si sente come se quei luoghi, che rappresentano la nostra identita’ ci fossero stati portati via, si crea un senso di smarrimento dovuto alla trasformazione della nostra casa, di quello spazio che ha la funzione di rifugio e di sicurezza sia fisica che psico-sociale. Albrecht comincio’ a parlare di solastalgiariferendosi alle vicende dell’ Upper Hunter Valley che vennemodificata, meglio dire stravolta, a causa delle  operazioni di estrazione mineraria  che avevano causato nei suoi abitanti importanti problemi di umore, rabbia e senso di frustrazione.


Gli interventi dell’uomo sull’ambiente naturale, sempre piu’spesso, hanno risvolti funesti non solo sul sistema ecologico, ma anche sugli esseri umani che lo vivono e che non lo riconoscono piu’ come loro habitat originario. Questo fenomeno nostalgico, sfortunatamente, non e’ piu’ ricollegabile unicamente a singoli eventi, ma  lo si puo’ trattare a livello globale a causa della massiccia attivita’ di antropizzazione che incede inarrestabile e di frequente in maniera irrispettosa. Quest’anno siamo rimasti tutti sorpresi dal caldo record e innaturalmente protratto al sud e dai violenti temporali al nord che hanno avuto il potere di distruggere paesaggi naturali e urbani; ognuno di noi guarda a questi fenomeni estremi con preoccupazione perche’ compromettono la possibilita’di previsione, di poter pianificare  molte attivita’, ma soprattutto creano la  sensazione di non essere al sicuro nel proprio ambiente.Si da’ origine cosi’ alla “ecoansia” che produce molti dubbi sul futuro, impedisce di progettare soprattutto ai giovani che gia’ da tempo hanno cominciano a ribellarsi. Diversi sono, infatti, gli interventi attivi di ragazzi, conosciuti e non, che alle conferenze dell’Onu o  alle manifestazioni in piazza con determinazionedenunciano lo sfruttamento del pianeta,  urlano la loro  paura per il futuro  chiedendo uno stop all’utilizzo indiscriminato e dannosodel nostro pianeta. Da una parte il progresso dall’altra la necessita’che questo sia sostenibile e riguardoso, generazioni a confronto sull’avvenire, ma di sicuro un malessere ecologico sempre piu’diffuso nel presente.

MARIA LA BARBERA

Anni ’70, basket e politica nell’oratorio salesiano di Barriera

COSA SUCCEDEVA IN CITTA’ / La genialità si “annida” in tutte le attività dell’uomo. Inventare qualcosa che prima non c’era e che dopo cambia radicalmente la prospettiva. Don Bosco è annoverabile in questa categoria di uomini

Torino Capitale del pensiero e dei Salesiani. Soprattutto azione concreta con gli oratori e con la formazione. Oratori in tutta la città: il Martinetto San Luigi, ovviamente Valdocco con una città della solidarietà all’interno di Torino.

Rebaudengo al San Paolo ed il più grande in assoluto, Giovanni Agnelli fondatore della Fiat. Come il più piccolo San Gaetano. Per noi l’oratorio per eccellenza era il Michele Rua o dir si voglia l’ Oratorio Monterosa. Cuore pulsante, i cortili. Si entrava in un altro mondo. Apertura alle  14,30 e chiusura alle 19. In estate pure al mattino, e si usciva alle 20. Tre spiazzi. Nel primo cortile la facevano da padrone le “Gamale” in ferro che avevano un palo su cui ruotavano dei triangoli in cui ci si sedeva roteando: ameni giochi e come basi i fazzoletti. Sempre  presente Don Martano, vigile ed attento. Eravamo convinti che avesse 100 anni. Il campo di calcio, dove giocarono anche delle ragazze al baseball. Lo sport femminile fu un evento memorabile. Tre cortili con i campi di basket, precisamente dove giocavamo a pallacanestro tutti i sacrosanti giorni. Se poi pioveva, nessun problema, ci trasferivano sotto i portici.  Il canestro era bassissimo. Pazienza, bastava non tirare da fuori, ma ci si divertiva. Osceno il pallone che Don Martano ci dava: liso che la camera d’ aria usciva da un buco.

Ma con le figurine Panini vinsi un pallone, socializzato immediatamente. Giocavamo sull’asfalto. Vinsi persino un titolo nazionale a Rimini, categoria Ragazzi, Polisportiva Giovani Salesiani. Scoprii che gli oratori Salesiani era sparsi in tutta Italia. Dalla Puglia a Milano passando da Napoli e Caserta. Sicuramente una potenza nel settore giovani. C’ era anche il dovere del catechismo. Lì, almeno io, sono stato debolissimo. Una lezione e poi non mi hanno più visto. Nessuno è perfetto. Anni ’70 vento anche di  politica per i Salesiani. Qualcuno di loro virava a sinistra. Don Bosco non si sarebbe stupito, lui che del sociale ne faceva un vanto. Gli spararono perfino. Uomo scomodo e uomo di Chiesa, quella Romana per capirci che, nel secolo diciannovesimo non brillava per lungimiranza ed apertura. Probabilmente gli spararono i primi socialisteggianti a cui dava fastidio per il suo intervento nel sociale. Lui di fatto preso in mezzo tra Savoia ed il Papato. Lui che voleva essere fedele a tutti e due con una spiccata propensione per Roma. Tornando agli anni ’70, arrivò Don Giorgio, giovane, appassionato di Basket e per quel che mi ricordo già di sinistra.

L’ amico Renato ha corretto questo mio ricordo: “Diciamo, Patrizio, vicino alle esigenze del mondo del lavoro”. Renato è sempre stari puntiglioso. Don Giorgio era arrivato nel posto giusto. Barriera di Milano capitale storica della classe operaia. Cosi nel cinema parrocchiale il cineforum organizzato da ex Giovani studenti Salesiani. Dopo, l’ immancabile dibattito, ed i nostri interventi per orientare a sinistra il pubblico presente. Non si spostava un voto perché erano tutti orientati ma ci si riconosceva capendo che eravamo nello  stesso corso d’acqua. E non solo. Una delle primissime Coop sociali a Torino si chiama Valdocco fondata proprio nell’Oratorio Valdocco. Il centro del centro del mondo Salesiano. Così dal Basket all’impegno politico eravamo dentro un pezzo di Storia di Torino e, perché no, d’Italia.

 

Patrizio Tosetto

Foto Museo Torino

Volontario ma non troppo

Da circa cinquant’anni la figura del volontario, in Italia particolarmente ma non solo, è diventata parte integrante di ogni contesto sociale, dalle associazioni agli enti locali, dalla pubblica assistenza ad altri servizi essenziali.

La motivazione ufficiale è che il volontario sente il bisogno di offrire la propria opera, gratuitamente, a quanti ne abbiano bisogno: quella ufficiosa è che grazie ai volontari, le istituzioni risparmiano cifre da capogiro nonostante il gettito fiscale dei contribuenti permetterebbe, o richiederebbe, l’utilizzo di personale retribuito.

Ovviamente il volontario ha, rispetto ai dipendenti ed ai collaboratori retribuiti, una sola differenza: la retribuzione, appunto.

Per il resto è necessario sia assicurato contro gli infortuni, ed in alcuni casi contro patologie contratte in servizio, sia iscritto ad un apposito registro, venga periodicamente aggiornato e altro ancora.

Il problema è reperire le persone che vogliano, volontariamente appunto, offrire la loro opera: dopo alcuni decenni di sviluppo progressivo, il volontariato sta ora patendo la crisi dovuta ad alcuni fattori: in primo luogo il lockdown ha fortemente penalizzato le persone, volontari in primis, demotivandoli, disaffezionandoli dalla loro missione. La crisi di valore, poi, in cui la nostra società sta navigando ha fatto il resto: incapacità di socializzazione, di relazionarsi con altri, pigrizia diffusa, dipendenza da alcool rendono difficile mantenere gli impegni assunti, allontanando i volontari dall’ente in cui prestavano servizio.

Alcune associazioni, come i donatori di sangue, patiscono questa situazione in modo particolare: è palese che se il tuo stile di vita non è corretto non potrai donare il sangue, e questo è particolarmente vero per i giovani, nuove leve della donazione (a 65 anni non si può più donare).

Vi sono ovviamente alcune meritevoli eccezioni: i c.d. figli d’arte (figli di volontari del pubblico soccorso, dei Carabinieri o della Polizia di Stato) che prestano servizio volontario presso le varie Croce Verde, Rossa o Bianca, o l’Associazione Nazionale Carabinieri o della Polizia di Stato, orgogliosi di proseguire una tradizione ereditata; allo stesso modo alcuni ragazzi, di entrambi i sessi, capiscono l’utilità di prestare servizio presso questo o quell’ente, non soltanto per il senso civico connesso ma perché può di essere di aiuto nella carriera di studi.

Spesso, invece, si assiste a scimmiottature di volontariato in associazioni tipo proloco o che organizzano eventi di paese, che dovrebbero essere il fulcro di quell’evento, la macchina organizzatrice, ma sono soltanto un coacervo di elementi scarsamente produttivi, spesso in lite tra di loro, che creano solo confusione anziché risultati.

Anche in questo caso torniamo all’incapacità di relazione tra i giovani (che, diventando adulti, non la acquisiscono di sicuro), alla scarsa motivazione trasmessa dei genitori (e dagli altri educatori a seguire) che portano i ragazzi ad essere egoisti (nell’accezione originale del termine) o che qualsiasi cosa serva “c’è papà che paga”.

Fin dai tempi dello scoutismo ho percepito il lavoro di squadra, non solo in senso sportivo, come un vantaggio che ognuno di noi ha perché ci permette di valutare le nostre capacità e confrontarle con quelle degli altri, di paragonare le conoscenze ed acquisirne di nuove e, unendo le forze, moltiplicare il risultato atteso.

Ogni qual volta ho partecipato come volontario a qualche evento (terremoto in Irpinia, incendi in Liguria, frane in Piemonte o altro) ho percepito la mia partecipazione come un contributo, minimo, erogato alla comunità in cui ero in quel momento, senza riferimenti a denaro, etnie, ceti sociali o simpatie.

Ho valutato che queste persone, questi luoghi necessitassero di un intervento per scongiurare il peggio o per arginare il problema, e mi sono impegnato per quanto era in mio potere.

Consiglio ai genitori di far aderire i figli, fin da piccoli, a qualche forma di volontariato, dalla distribuzione di vestiti in chiesa alla raccolta di cibo nei supermercati, dallo scoutismo alla pubblica assistenza alla protezione civile o alla donazione di sangue: i bambini non si spezzano, non si ammalano più di chi sta tutto il giorno sulla poltrona, anzi, e non perdono di valore; gli adolescenti, poi, rischiano di diventare individui sociali, che sanno relazionarsi con i propri simili, che agiscono di concerto per la vita in società.

Ma il rischio maggiore è che diventino Persone con la P maiuscola e che possano essere migliori delle ultime generazioni.

Sergio Motta

Manca un mese a Terra Madre – Salone del Gusto: tutte le novità

Un viaggio culinario senza confini tra identità, culture e comunità  

Cereali africani, frutti sudamericani e salse asiatiche: le sfumature della Natura in scena a Torino dal 26 al 30 settembre

Cosa fa di Terra Madre Salone del Gusto 2024 il più grande evento internazionale dedicato al cibo buono, pulito e giusto e alle politiche alimentari? A quasi un mese dalla 15esima edizione, dal 26 al 30 settembre al Parco Dora di Torino, è giunto il momento di scoprire alcuni degli oltre tremila protagonisti provenienti da 120 paesi che animano la 15esima edizione: contadine e allevatori, delegati dei popoli indigeni, cuochi, giovani attiviste, espositori del Mercato e produttrici dei circa 180 Presìdi Slow Food. Dal Giappone alle Filippine, dall’Ucraina a Taiwan, dagli Stati Uniti al Messico, dall’austriaca Carinzia all’Araba Alava nei Paesi Baschi, il viaggio di Terra Madre scandito dal claim We are Nature mostra come il cibo rappresenti una parte integrante dell’identità di territori e comunità, esplorando tecniche e tradizioni che resistono e si evolvono nel tempo.

Tra Laboratori del GustoAppuntamenti a Tavola e degustazioni nella Cucina dell’Alleanza, non mancano le occasioni per assaggiare sapori nuovi. Si parte dall’Africa con il fonio e la moringa, un grano antico e una pianta ricchi di proprietà benefiche, principali ingredienti dell’insalata indigena preparata da Wisdom Abiro, giovane cuoco a capo del Ghana Food Movement, una rete di agricoltori, cuochi, ricercatori, nutrizionisti e imprenditori, uniti per valorizzare il potenziale del cibo ghanese. L’Alleanza dei cuochi di Slow Food in Lesotho propone invece un laboratorio in cui i piatti  della tradizione, come il nyekoe e il lipabi, sono presentati insieme a creazioni innovative che utilizzano gli ingredienti indigeni in chiave moderna. Tra questi spiccano prodotti dell’Arca del Gusto, come diverse varietà di legumi – fagioli e lenticchie – e cereali – grano, sorgo rosso e bianco.

Presente anche una forte rappresentanza dall’America Latina, dove i sapori vibranti del platano, frutto amidaceo originario delle regioni tropicali e pietra miliare della cucina tradizionale, hanno nutrito e ispirato intere generazioni. A cucinarlo, in un laboratorio che spazia tra diverse versioni e creazioni, Carlos Estevez Jennifer Rodriguez, coordinatori dell’Alleanza Slow Food dei cuochi di Repubblica Dominicana e Colombia. In un altro Laboratorio del Gusto produttori ed esperti del Sud America raccontano le mille sfumature del cacao, con un approccio multisensoriale che coinvolge gusto, tatto e olfatto. Oltre al cioccolato in purezza, si degusta anche il pozol, una bevanda a base di mais e cacao, consumata in genere solo nel sud del Messico e in America Centrale. Nello spazio allestito dall’Ateneo di Pollenzo, l’alumna dell’Università di Scienze Gastronomiche Abril Macías presenta la rivista gastronomica Chiù e guida il pubblico alla scoperta delle bevande dell’America Latina. In degustazione due specialità locali: il miske, la bevanda alcolica distillata ecuadoriana ricavata dall’agave andina, e la chicha, la tradizionale bevanda fermentata dell’America Latina, ottenuta dal mais.

Ci si sposta poi tra Europa e Asia con l’Alleanza Slow Food dei cuochi turca, rappresentata a Torino da Serhan Hasdemir e Tülay Bayraktar Saygılı. A Terra Madre portano due piatti che mixano tecniche tradizionali e metodi contemporanei. Dalla cucina, l’antalya piyazi, un’insalata calda di fagioli, e un rotolo di formaggio dell’Arca del Gusto con noci di Kaman e Reyhan (un tipo di basilico viola), polvere di ceci tostati, fichi secchi bardacık e salsa di fichi freschi. Numerosa anche la partecipazione di Slow Food Corea, che a Parco Dora insieme a KORIA, Associazione Culturale Koreani Italiani Adottivi, propone un’esperienza interattiva alla scoperta delle salse fermentate della tradizione del Paese – doenjang, pasta fermentata di soia, e gochujang, salsa piccante di peperoncino –, in accompagnamento a kimchi e doenjang-guk, un tipo di zuppa tradizionale. All’ingresso dello spazio dell’Arabia Saudita i visitatori sono accolti da datteri della varietà Ajwa e caffè tradizionale al cardamomo, prima di scoprire e assaggiare preparazioni che mettono in risalto la biodiversità del Paese.

 

Ma a Terra Madre il percorso di visita non si esaurisce in momenti conviviali che mettono in luce culture e comunità differenti: la cinque giorni è l’occasione per far incontrare e dialogare realtà tanto lontane quanto simili in obiettivi e aspirazioni. Tra questi, i pescatori di Callao, in Perù, e i mitilicoltori del Mar Piccolo di Taranto, uniti dalla volontà di valorizzare l’ambiente e i territori in cui vivono e lavorano nel rispetto delle tradizioni culturali. Al loro confronto segue una cena speciale, che abbina il profumo della regina dei Presìdi pugliesi, la cozza nera tarantina, e il ceviche peruviano, dichiarato Patrimonio immateriale UnescoUn esempio di come aromi e sapori diversi possono creare un connubio perfetto, ma anche di come una nuova idea di cucina può diventare ponte fra culture e strumento di integrazione. Lo dimostrano anche gli eventi organizzati da Slow Food Ucraina, che nel proprio stand racconta la storia di Kateryna ed Eros, vincitori del premio Slow Cheese 2023 come progetto di solidarietà internazionale, e presenta Bread for peace, nato per sostenere gli agricoltori ucraini di piccola scala nella regione di Leopoli, dove contribuisce alla sicurezza alimentare della parte più vulnerabile della popolazione.

Potete scoprire qui il programma dei principali spazi internazionali confermato a oggi.

 

Immersa nella campagna di Rivoli, Villa La Maggiorana ospita la Cena Off preparata da Sean Sherman, celebre chef indigeno noto per il suo impegno nella rivitalizzazione e promozione della cucina nativa americana. Conosciuto anche come the Sioux chef, a Terra Madre duetta con Linda Black Elk, illustre etnobotanica e profonda conoscitrice delle piante indigene, e Alexis Nelson, nota raccoglitrice di ingredienti selvatici, per unire i sapori del Nordamerica ai prodotti che offre la campagna italiana.

 

Oltre la tavola: uno sguardo internazionale tra Mercato, spazi espositivi e Arene 

 

Produttori di pani, farine e prodotti da forno, salumi, formaggi, paste secche e ripiene, riso, oli extravergini, cioccolato, tè e infusi, conserve ortofrutticole e ittiche: a Terra Madre si può fare un giro del mondo insieme a 600 produttori. Tanti esempi concreti di un cibo che sia piena espressione della relazione tra essere umano e natura: dallo zafferano puro dell’Afghanistan alle specialità a base di papavero di Pemak in Slovacchia, fino gli amari della distilleria statunitense Eda Rhyne. Tra i Presìdi Slow Food, le ostriche nate dai mari di Bretagna e di Charent dell’azienda francese Earl La Belle de Penerf, i formaggi irlandesi a latte crudo di Gylde Farm Produce, dai Paesi Bassi il gouda artigianale stravecchio di Boeren Goudse Oplegkaas e i prodotti a base di maiale Euskal Txerria di Urdapilleta dalla Spagna.

A Parco Dora i personaggi di rilevanza internazionale non animano solo i banchi del Mercato. Li troviamo in alcuni spazi espositivi come quello della Slow Food Coffee Coalition, dove, in una miscela perfetta di didattica e convivialità, si tostano e si assaggiano diverse tipologie di caffè insieme a caficultores provenienti da Cuba, Messico, Honduras, Colombia, Perù, Malawi, Uganda, India, Tailandia e Filippine. E anche negli incontri in programma nelle tre Arene, che vedono delegati, attiviste ed esperti approfondire il rapporto con la Natura da molteplici punti di vista. Tra questi, Dave Goulson, dal Regno Unito, professore di scienze naturali e ambientali all’Università del Sussex che per la sua opera di difesa degli insetti in via di estinzione nel 2010 ha vinto il premio di innovatore sociale dell’anno assegnato dal Biology and Biotechnology Research Council; dagli Usa, Alice Waters, cuoca e saggista, attivista per l’educazione alimentare e proprietaria del celebre Chez Panisse di Berkeley, che nel 1996 ha creato il progetto Edible Schoolyard, un orto adiacente la cucina della scuola coltivato dagli alunni; Sandor Ellix Katz, tra i massimi conoscitori della fermentazione, definito dal New York Times come «una delle poche rock star della scena gastronomica americana», e Larissa Mies Bombardi, ricercatrice e docente brasiliana ora in esilio in Belgio a causa delle crescenti minacce dovute alla pubblicazione, nel 2017, dell’Atlas Geografía del Uso de Plaguicidas en Brasil y Conexiones con la Unión Europea.

Terra Madre Tips
Info utili: orari e location
Catalogo espositori: l’elenco in continuo aggiornamento
Il calendario degli eventi: giorno per giorno
I Presìdi Slow Food: italiani e internazionali

A spasso per Parco Dora: l’itinerario

Torino Over

Non c’è un età giusta per chiudere con l’attività lavorativa e riprendersi la vita, ma c’è un’età anagrafica che fa da barriera, quella soglia che ti fa sentire vecchio ma che ti dà anche dei vantaggi e non solo economici.
Da qui l’idea di creare una rubrica  per segnalare le opportunità per chi ha raggiunto questo traguardo e godersi oltre il vantaggio di poter dire, traguardo raggiunto, anche tutte quelle piccole soddisfazioni di poco conto ma che sembrano coccole o attenzioni e non guastano.
Nella nostra rubrica andremo a scoprire le aziende più sensibili ai cosiddetti “anziani” anche se noi preferiamo usare il termine “over”.
Andremo a caccia di consigli ed occasioni e se vorrete collaborare segnalandoci iniziative saremo ben lieti di pubblicare le vostre segnalazioni ed esperienze scrivete a Iltorinese.TorinoOver@gmail.com, per ora a nome della redazione vi auguriamo buone vacanze
L ‘appuntamento è per la prima settimana di settembre.

Gd