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Paparazzi

Chi di noi non ricorda il film “Ecco noi per esempio”, dove Clic (Adriano Celentano) scatta fotografie in qualsiasi situazione giungendo, durante una rapina, a perdere un occhio perché preso di mira mentre scattava?

Un altro film, “Paparazzi” in chiave diversa mostra anch’esso come alcuni soggetti, per lavoro, fotografino di continuo qualsiasi scena si pari loro davanti, con tutto ciò che questo comporta.

Ho scritto volutamente “per lavoro” perché per alcuni versi potrebbe essere un’attenuante, un giustificativo del fatto che questi professionisti fotografano ogni situazione da loro ritenuta interessante, vendibile, adatta al gossip senza preoccuparsi di cosa ne pensi chi viene fotografato.

A me succede spessissimo, soprattutto durante eventi religiosi o caratterizzanti aventi luogo nel Comune che amministro, o in quelli dove vengo invitato come Amministratore, dove i cittadini (particolarmente le donne, ad onore del vero) fotografano ciò che forma oggetto dell’evento (ciclisti, processione, alpini, auto d’epoca, ecc) ma anche chi si trova nei paraggi, così per essere sicuri di non perdersi nulla.

A me personalmente, anche in ossequio al fatto che i personaggi pubblici sono fotografabili (in ambito pubblico) senza particolari restrizioni, non da fastidio, anzi è bello potersi rivedere negli scatti poi pubblicati, ma non sarebbe un’idea malvagia chiedere se una persona gradisca essere fotografata o no.

Ricordo che un anno, alla parata del 2 giugno a Torino, mentre mi accingevo a fotografare i reparti in formazione (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, ecc.)  chiedendo ad alcuni poliziotti il consenso, una di essi mi fece segno che non gradiva essere fotografata e, doverosamente, la esclusi dall’inquadratura.

E’ pur vero che se ho qualcosa da nascondere non vado in un luogo affollato, specie in un Comune dove si conoscono tutti, ma è pur vero che vorrei sapere quale fine faranno gli scatti che mi riprendono, per quale motivo tu stia scattando.

Solitamente, se non si tratta di personaggi pubblici (politica, spettacolo), o per motivi di ricerca scientifica o per diritto di cronaca, la pubblicazioni di foto e video deve essere autorizzata da una liberatoria che il soggetto fotografato rilascia al fotografo e/o a chi diffonderà l’immagine. Va notato che, anche in presenza di una liberatoria, l‘immagine non può ledere l’onorabilità di una persona: se mi fotografi con i pantaloni macchiati e metti, come didascalia, “così povero da non avere i soldi per il detersivo” è palese che tale foto mi stia offendendo e, dunque, potrà partire da parte mia una richiesta di risarcimento.

E’ anche vero che ultimamente le persone hanno un livello di litigiosità mai visto in precedenza, per cui se uno pensa di essere fotografato, pur in un contesto più ampio, prima si infuria e, eventualmente, solo dopo chiede di visionare gli scatti fatti (ledendo a sua volta la privacy del fotografo).

Sostengo che, in ogni ambito, la tolleranza e l’educazione sono in grado di dirimere il 90% delle contestazioni, usando buon senso, empatia, ironia e autoironia e, in ultima analisi, non pensando che gli altri vogliano sempre fregarti o che siano tutti più scemi di te, perché spesso chi ti dimostra il contrario è alto 2 metri e picchia come un fabbro.

Se io dovessi impedire ai miei amici di pubblicare le foto che mi scattano in gita, in vacanza, a cena ridurrei a tutti il piacere dirivivere l’evento anche nei giorni successivi, magari ridendo dell’espressione ebete di qualcuno o dei chili in più di qualcun altro, me compreso si intende.

Questo, a mio parere, si inserisce in un quadro molto più ampio di intolleranza in generale che nasce dal non sopportare il cane che abbaia 3 volte di fila, spazientirsi se la comanda al ristorante tarda 5 minuti, passa per il cartello “Divieto di giocare nel cortile” che va di moda da alcuni anni nei condomini, per arrivare alle aule giudiziarie intasate di cause, promosse quasi sempre da chi non conosce la legge e si stupisce, dopo anni di iter, che il giudice gli abbia dato torto.

Sicuramente “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria non è stato letto a sufficienza; di certo è ora di riscriverlo. 260 anni fa il libro venne inserito nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che esso indicava tra reato e peccato. Ora il vero peccato è fomentare i reati.

Sergio Motta

Il Tubolario, dissacrante gioco di parole degli anni ’80

Sul finire degli anni Settanta, con la legge 833 del 1978, venne istituito il servizio sanitario nazionale. In seguito a quella che, a buon diritto, è ricordata come la vera e grande riforma sanitaria italiana, cominciarono a circolare una marea di piani sanitari regionali e locali infarciti di frasi ripetitive, roboanti e, come capita spesso, incomprensibili ai più.

Due professori, dotati di uno spiccato senso dell’ironia, ribellandosi a quest’alluvione di parole e di  frasi inutili, inventarono il GAPS, acronimo che stava per “Generatore Automatico Piani Sanitari”.Il professor Marco Marchi dell’Istituto di Biostatistica ed Epidemiologia dell’Università di Pisa e il prof. Piero Morosini, direttore di laboratorio dell’Istituto Superiore di Sanità, grazie alla notizia della loro “invenzione” si guadagnarono la prima pagina del Corriere della Sera.

La Tecnogiocattoli Sebino, ditta bresciana famosa per aver prodotto il famoso bambolotto “Cicciobello ( e anche i suoi  fratelli multietnici: Cicciobello Angelo nero e Cicciobello Ciao-Fiù-Lin, dai tratti somatici tipicamente orientali) li contattò all’inizio degli anni ’80 per sviluppare l’idea e dar vita al Tubolario, riadattando le frasi del Gaps, sostituendo i termini ed i riferimenti  squisitamente sanitari con la finalità di poterlo proporre in un linguaggio più “politichese”. La confezione che  venne messa in vendita (su licenza dei due inventori) consisteva in una scatola contenente tre tubi con riferimento ad altrettanti temi : il linguaggio politico-sindacale, le frasi d’amore e un gergo sportivo (in particolare riferito al mondo del calcio). Di quei “tubolari” ne furono vendute migliaia di copie. In seguito, anche per problemi legati alla corresponsione dei diritti d’autore ( che furono negati a Marchi e Morosini per l’uso collaterale del tubo quale contenitore di cioccolatini) il rapporto con la fabbrica di giocattoli di Cologne si concluse senza lo sviluppo di altre versioni del gioco, com’era nelle intenzioni originarie. Durò poco la storia, ironica e dissacrante, del “Tubolario”, gioco intelligente che prendeva di mira l’abitudine assai diffusa ad esprimersi per frasi fatte, luoghi comuni, ed altre forme più o meno omologate di discorso che caratterizzano il linguaggio specialistico di politici, giornalisti ed altri personaggi che, spesso, gicano con le parole per comunicare senza dire niente che possa comprometterli.

Un esempio? Ecco una frase del “Tubolario”: “L’indicazione della base/ persegue/ il ribaltamento della logica preesistente/in una visione organica e ricondotta a unità /evidenziando ed esplicitando /in termini di efficacia e di efficienza / l’adozione di una metodologia differenziata”. Non male, vero? Eccone un’altra: “Il nuovo soggetto sociale/ presuppone/ un organico collegamento interdisciplinare/con criteri non dirigistici/fattualizzando e concretizzando/nei tempi brevi, anzi brevissimi/un indispensabile salto di qualità”. Le frasi,organizzate sotto forma di un discorso dall’apparenza logica, di fatto non esprimono un bel niente, ma danno la sensazione di volerlo fare. Il “Tubolario”, realizzato con l’uso di una settantina di brevi periodi stampati su sette cilindri rotanti, consentiva, a chi avesse deciso di utilizzarlo, di improvvisare un numero imprecisato di frasi ad effetto, senza mai dire niente di concreto. Nonostante ormai sia un oggetto di culto, sentendo alcuni dei protagonisti dei talk show televisivi (termine di lingua inglese che significa, tanto per essere pignoli, “spettacolo di conversazione o programma di parole”), parrebbe che non sia stato relegato nel baule dei ricordi ma venga tutt’ora usato con disinvoltura.

Marco Travaglini

‘Bruno Barbey, gli Italiani’, a Palazzo Falletti di Barolo dal 12 settembre

Dal 12 settembre prossimo Palazzo Falletti di Barolo ospiterà, fino all’11 gennaio 2026, la mostra fotografica dedicata a Bruno Barbey, in collaborazione con Magnum Photos e l’archivio Bruno Barbey.

L’esposizione, che si intitola “Bruno Barbey. Gli Italiani” è  prodotta da Ares e nasce da una selezione eseguita dallo stesso artista,  nato in Marocco nel 1941 e deceduto a Parigi nel 2020, una selezione composta da un centinaio di fotografie in bianco e nero scattate tra il 1962 e il 1966.

Si tratta di una mostra di fotografie che raccontano l’Italia all’epoca del cosiddetto miracolo economico, immagini di un’Italia, quella degli anni Sessanta del secolo scorso, vista attraverso le istantanee di Bruno Barbey, fotografo francese di origini marocchine, uno dei maestri di Magnum Photos che, in oltre cinquanta anni di  carriera, ha documentato conflitti internazionali e mutamenti sociali in tutto il mondo.
Tra il 1962 e il 1966, poco più che ventenne, Bruno Barbey ha esplorato la penisola italiana in tutta la sua estensione, al volante del suo maggiolino  Volkswagen, documentando una società in completo mutamento, da una parte ancora fiaccata dalla guerra, ma dall’altra già rinvigorita da nuove speranze, con il Nord lanciato verso il sogno metropolitano e il Sud che procedeva a fatica nella ricostruzione.
Bruno Barbey costruisce un vero e proprio affresco visivo di un’Italia in via di trasformazione, sospesa tra modernità e tradizione, tra sviluppo economico e tensioni sociali. Il suo approccio, profondamente empatico e mai invadente, riesce a cogliere l’essenza vera degli italiani nel loro senso di comunità, nella loro teatralità, resilienza e gioia di vivere.
Attraverso i suoi ritratti di mendicanti, aristocratici, suore, bambini di strada, ci ha restituito uno dei reportage più vividi dell’Italia degli anni Sessanta.
“Gli Italiani” di Bruno Barbey rappresentano un documento prezioso, capace di far rivivere un passato recente con uno sguardo nuovo e di far riflettere sull’identità culturale del nostro Paese. Il centinaio di fotografie in bianco e nero che compongono la mostra sono state selezionate dall’artista poco prima della sua scomparsa.

Mara Martellotta

Virologo sarai tu!

In preparazione di questo articolo ho postato su un social il seguente quesito: “Il virus HIV non si trasmette attraverso le zanzare perché… ecc ecc; ma il West Nilus?”

Un quesito che qualsiasi persona con un QI di almeno 25 interpreterebbe come una domanda a risposta libera, con possibili risposte tipo “il West Nilus invece si” oppure “si, perché sono due virus differenti”.

Apriti cielo: tutte le risposte, nessuna esclusa, sono state insulti alla mia persona perché “basta leggere un qualsiasi libro di virologia per saperlo” oppure “perché non ti documenti invece di scrivere ca**ate”?

Al di là del fatto che alcuni di loro li conosco personalmente e almeno uno di loro farebbe meglio a tacere visto che uno di loro è stato bocciato ad un esame di medicina per aver confuso il clostridio del tetano con quello del botulino, il vero problema è la presunzione di onniscienza che aleggia su molte, troppe persone. Sicuramente pur fingendo di sapere tutto di medicina sono ignoranti come caprette tibetane (e chiedo scusa ai caprini per averli paragonati a loro) sulla maggior parte delle altre materie ed è evidente come la nostra società abbia perso anni e soldi a produrre una generazione di perfetti deficienti, nell’accezione originale del termine, cioè portatori di deficit.

Il problema non è che abbiano insultato me, perché la figuraccia l’hanno fatta loro, quanto piuttosto il fatto che queste persone forse, ma spero di no per l’umanità, occupano posti di rilievo dove l’umanità, l’empatia, la comprensione e immedesimarsi nell’altro sono, o dovrebbero essere, una dote sine qua non.

Forse sono seguaci del Marchese del Grillo che soleva dire “Io sono io, e voi non siete un c…” ; insegno da 27 anni e la prima cosa che ho imparato è che se vuoi comprensione devi comprendere, se vuoi attenzione devi darla; offendere chi, a prima vista, sembra non conoscere una cosa che per loro è basilare fa si che, nemmeno molto avanti nel tempo, saranno sottoposti alla gogna di essere loro dall’altra parte, a fare figuracce quando un qualsiasi professionista, appena più intelligente e professionale di loro, se li mangerà in un boccone. Di sicuro nella vita troverai sempre qualcuno che ne sa più di te, perché non si smette mai di imparare.

Credersi i migliori in assoluto non soltanto porta a fare figuracce quando trovi uno più esperto di te in un altro campo, ma crea una enorme frustrazione in chi dopo anni si accorge di non essere nessuno.

Il “Miles gloriosus” di Plauto, “La volpe e l’uva” di Esopo e “La maschera da tragedia” di Fedro sono ottimi insegnamenti per ridimensionare l’ego ipertrofico di alcuni leoni da tastiera, sempre che conoscano i classici latini e, soprattutto, che sappiano che i latini non sono dei lati piccoli.

Sergio Motta

Le biblioteche storiche di Torino, patrimonio dei cittadini

Il Salone del libro è  importante per Torino, ma anche per l’Italia tutta. L’affluenza e’sempre in aumento e questo vuol dire che leggere è una attività fondamentale a cui non si rinuncia, fortunatamente; attraverso i libri ci arricchiamo, sono uno strumento essenziale per la nostra crescita intellettuale,  morale e spirituale, ogni volume che leggiamo lascia una traccia, sempre.

Torino e’ nota anche per le sue diverse e straordinarie biblioteche e alcune, oltre che rappresentare luoghi di culto per il lettore e lo studioso, rivestono una grande importanza storica e monumentale.

Tra le molte esistenti eccone alcune molto importanti, simbolidella Torino dedita alla cultura e alla formazione.

Biblioteca Reale conserva circa 200.000 volumi, una ricchezza voluta da Carlo Alberto di Savoia-Carignano. La prestigiosa collezione di volumi e disegni importanti come i 13 autografi di Leonardo Da Vinci e il suo Codice del Volo degli uccelli. Nel 1942 venne inaugurata la nuova sede con importanti e preziosi arredi, dopo la Seconda Guerra Mondiale divento’ una biblioteca pubblica. Fanno parte del complesso museale anche il Palazzo reale, L’Armeria, la Cappella della Sindone, la Galleria Sabauda, il Museo di Antichità e i Giardini Reali.

Biblioteca Nazionale Universitaria

Fondata all’incirca nel 1723 per volontà di Vittorio Amedeo II di Savoia che realizzò l’accorpamento della raccolta del Comune, quella della Regia Università e i libri della corona, oggi e’ una biblioteca statale pertinente alla direzione del Ministero della Cultura. Nel 1957 comincio’ l’edificazione della sede attuale, in piazza Carlo Alberto, che terminò nel 1973 con il trasferimento del patrimonio dai locali di via Po, dove si sviluppò il grave incendio del 1904 che distrusse molte delle 4.500 unita’ presenti. Nella collezione attuale troviamo manoscritti in lingua ebraica, in greco, in latino, 1600 incunaboli che ci riportano agli albori della stampa e quindi alle meta’ del 1450, incisioni e disegni di inestimabile valore.

Archivio di Stato

Composto da 4 sezioni e’ risultato di una storia secolare che in origine era il Tesoro di carte dei Conti Savoia risalente al XII  secolo anche se  i primi atti che ne documentarono l’esistenza sono del XIV.

La biblioteca oggi e’ suddivisa in 3 settori: quella antica che custodisce volumi dal Medioevo al 1800, la nuova che contiene libri fino al 1930 circa e la corrente che arriva all’epoca attuale.

Sono conservati anche periodici, riviste scientifiche, dossier e studi culturali italiani e stranieri stampati dal 1593 fino ai giorni nostri.

Biblioteche Civiche Torinesi

Con 18 sedi in citta’ e punti di servizio in  2 ospedali e  3  carceri, le Biblioteche Civiche Torinesi rappresentano un patrimonio  condiviso di saperi e  un ponte tra culture e generazioni. Sono a disposizione oltre 500.000 libri, un tesoro di inestimabile di ricchezza culturale messo a disposizione dei cittadini. Spiccano tra le varie sedi edifici storici come Villa Amoretti, il Mausoleo della Bela Rosin o Andrea della Corte e altri piu’ moderni come il Dietrich Bonhoeffer, Natalia Ginzurg e poi il Bibliobus che sosta ogni giorno in diverse parti della citta’. Oltre alla consultazione e al prestito librario la biblioteca organizza eventi, corsi e laboratori dedicati alle varie fasce d’eta’ e diversi gruppi di lettura.

Centro Studi Piemontesi

La biblioteca  e’ nata nel 1969 in concomitanza con la fondazione del centro stesso che raccoglie volumi relativi alla cultura piemontese come la sua storia, la letteratura, il teatro, l’economia, l’arte, la civilta’.  La racconta e’ di circa 18.000 volumi moderni e 400 edizioni antiche, con un catalogo in costante aggiornamento anche in digitale su cui sono gia’ stati caricati 8.000 libri. E’ articolata in differenti fondi particolari legati ai maggiori  donatori come Mario Becchis o Renzo Gandolfo.

Centro Gobetti

Con una collezione, tra monografie e opuscoli, di 75.000 testi il centro e’ specializzato su alcune figure e correnti della cultura e della politica italiana del Novecento, sulla vicenda nazionale dall’Unità ai giorni nostri e sulla storia del pensiero politico contemporaneo. E’ un punto di riferimento per gli studiosi dell’antifascismo in chiave liberaldemocratica, per i cultori del pensiero di Piero Gobetti, Ada Prospero e Norberto Bobbio. Dal 1998 il centro e’ inserito nel Sistema Bibliotecario Nazionale e nel 2016 alcuni dei fondi librari sono stati trasferiti al Polo al ‘900 insieme a una parte della sua biblioteca generale.

Maria La Barbera

Fuga dalle città

Se confrontiamo i residenti di Torino di dieci anni fa con quelli attuali, salta subito all’occhio come la popolazione sia diminuita notevolmente a causa dell’emigrazione verso i Comuni della provincia (o della Città metropolitana).

Nel 1951, all’inizio dell’immigrazione dal sud Italia, Torino aveva719.000 residenti, per giungere nel 1974 alla cifra di 1.203.000 residenti. Da allora tale numero è andato via via calando per arrivare alla fine del 1° decennio di questo secolo a poco più di 910 mila, scendendo ancora fino alla cifra di 840 mila dell’inizio di quest’anno.

Va notato che Milano, a contrario, pur avendo subito un calo nel periodo post boom economico questo non è stato così marcato e, anzi, per i prossimi 15 anni è previsto un aumento dei residenti.

Considerando che l’immigrazione da altri Paesi si attesta soprattutto nelle grandi città per ovvie ragioni di occupazione, scuola, ecc. è evidente che questa emorragia di popolazione abbia cause ben precise che non solo non sono risolte, ma non accennano a migliorare.

In un’intervista formulata a cittadini migrati da Torino verso la valle di Susa, il Canavese, la valle di Lanzo e l’astigiano, è emerso come la molla che li ha spinti a migrare sia stato soprattutto il costo degli appartamenti, spesso insostenibile per le famiglie monoreddito o numerose.

Un secondo motivo è sicuramente legato alla percezione di insicurezza che il nostro capoluogo ha come triste primato: minigang anche nelle zone auliche della città, clochard talvolta fastidiosi e desertificazione delle attività commerciali rendono sgradevole girare, specie nelle ore notturne, particolarmente per le donne, per chi sia solo o per i più giovani e gli anziani.

La scarsa pulizia delle strade e la difficoltà di trovare un parcheggio sono soltanto due degli altri motivi che hanno spinto i torinesi a migrare.

Per contro, è ovvio, chi ha deciso di migrare si trova a dover affrontare problemi di altro tipo: difficoltà di trasporto, specie da Canavese e valle di Lanzo, insufficiente offerta sanitaria perché gli ospedali sono pochi e sottodimensionati, traffico intenso specie su alcune direttrici.

Se da un lato è opportuno, anzi necessario, farsi due conti razionalmente e capire cosa andiamo a guadagnare a fronte di ciò che peggiorerà, dall’altro gli Enti locali devono valutare bene il fenomeno e capire come evitare disagi, anche gravi, caricando troppo un ospedale e svuotandone altri, intasando successivamente alcune strade.

I Comuni, come Torino, i cui investimenti in sicurezza, pulizia etrasporti non conseguono gli obiettivi desiderati, devono aver ben presente che meno spenderanno meno introiteranno, perché molti cittadini migreranno in altri Comuni riducendo sempre più il gettito fiscale.

L’incapacità gestionale di alcune Amministrazioni locali ha come unico risultato il peggioramento ulteriore del bilancio comunale, con il rischio di arrivare al default; basta, infatti, un evento imprevisto e il commissariamento è alle porte.

Basterebbe intervistare i propri cittadini, analizzare il trend degli ultimi 20 anni e capire non solo cosa sia successo e cosa stia succedendo, ma anche come intervenire finché si è in tempo.

Oppure? Continuare a svuotare la città.

Sergio MOTTA

Forza Mamme! Con Specchio dei Tempi

“Un lavoro, una direzione. Grazie a chi ci ha creduto”

Un importante gesto di vicinanza concreta è arrivato per cinquanta donne sole con figli, alle prese con situazioni di forte fragilità economica e lavorativa. Grazie al progetto Forza Mamme!, promosso da sette anni da Specchio dei tempi, e alla collaborazione con Agenzia Piemonte Lavoro, molte di loro hanno ritrovato fiducia, competenze e nuove opportunità.

Nei mesi scorsi, i Centri per l’Impiego di Torino hanno accompagnato le partecipanti in un percorso costruito su misura: laboratori per imparare a scrivere un curriculum, prepararsi a un colloquio, valorizzare le proprie esperienze. Poi, incontri individuali, orientamento professionale, job club e scouting aziendale.

Un aiuto concreto per rimettere insieme i pezzi di una quotidianità difficile e aprire uno spiraglio verso l’autonomia. Alcune mamme hanno sostenuto colloqui di lavoro, altre hanno avviato tirocini, iniziato corsi di formazione o pensato a un progetto imprenditoriale.

Un percorso possibile grazie alla fiducia reciproca e al lavoro di squadra. «Sostenere una mamma significa investire su un’intera famiglia – ha ricordato Andrea Gavosto, consigliere delegato di Specchio dei tempi – e quindi su tutta la comunità».

Specchio dei tempi continuerà a seguire queste donne anche nei prossimi mesi, accompagnandole passo dopo passo nel cammino verso il futuro. Un cammino che è possibile solo grazie alla generosità di chi sceglie di restare accanto a chi ha più bisogno.

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Spaghetti di Baviera

Quanti di noi, recandosi all’estero per lavoro o in vacanza, assaggiano i cibi e le bevande tipiche, magari ottenuti da cibi e sostanze a noi sconosciute?

Vi sono due scuole di pensiero al riguardo: una sostiene che sia corretto, e culturalmente preferibile, assaggiare i cibi tipici, come pure sforzarsi di imparare almeno i saluti nella lingua locale (o, perlomeno, parlata in loco) per apprendere la cultura del Paese che ci ospita; una seconda scuola ritiene che se non sappiamo cosa contengano i piatti locali, come siano cucinati e come abbinarli sia meglio cercare di procurarsi i piatti che conosciamo.

Inutile dire che io abbraccio sine conditio la prima filosofia: in Marocco ho assaggiato il cammello, in Turchia i panzerotti di montone conditi con kefir, in Romania a colazione la ciorbă de legume, una minestra di verdure condita con panna acida, e in Albania, sempre nella prima colazione in un mengjezore, ho mangiato testina di vitello marinata con riso pilaf accompagnati da vino rosso, nella Repubblica Dominicana ho mangiato presso una famiglia indigena nel parco nazionale del Este e così via nei vari Paesi del mondo in cui sono stato.

Personalmente, poiché ritengo che se viaggio per piacere e, dunque, ho scelto io di farlo, è perché voglio conoscere i luoghi, la cultura locale e, con essa, la cucina, la musica, i balli, gli abiti, la religione e molto altro.

Se poi ci si vanta di aver viaggiato nei Caraibi senza essere mai usciti dal villaggio, dove ci hanno scaricati col bus proveniente dall’aeroporto, allora forse è meglio non raccontare nulla delle vacanze; se, invece, si resta nel villaggio il tempo necessario a dormire ma si vuole conoscere tutto (o quasi) del posto in cui ci si trova, allora ecco che si potranno cercare i ristoranti locali, ci si documenterà prima di partire, chiederemo all’agenzia di viaggio o sul web e poi si deciderà con cognizione di causa.

Non è detto che i cibi che assaggeremo, la musica che ascolteremo o i profumi che sentiremo ci entusiasmino, ma almeno potremo parlare dopo aver provato, avendo sperimentato anziché farsi condizionare dai pregiudizi.

Anni fa, in un viaggio per i mercatini di Natale a Innsbruck, due mie vicine di autobus stavano decidendo dove andare a pranzo una volta giunte a destinazione; fortuna (loro) volle che proprio dove il bus ci scaricò ci fosse un ristorante che serviva cannelloni di magro, lasagne alla bolognese e altre specialità italiane; io ed i miei amici preferimmo un chiosco dove ordinammo brezeln salati, wurstel e crauti, birra per concludere con una fetta di apfelstrudel.

Terminato il viaggio risalimmo sul bus e, curioso di conoscere l’esperienza delle mie vicine, chiesi loro come fosse andato il pranzo: candidamente, una di loro rispose che avevano trovato un ristorante italiano (e già lo sapevo…) dove avevano ordinato cannelloni di magro ma che non erano rimaste soddisfatte perché poco gustosi e, forse, neppure freschissimi; aggiunsero che non avevano niente a che vedere con quelli che mangiavano a Torino.

Per educazione non dissi cosa pensavo.

Lo stesso vale per quanti vengono nel nostro Paese e ordinano chele di granchio fritte accompagnate da cappuccino oppure spaghetti alla carbonara bevendo latte. Forse non hanno osato chiedere consigli, forse non sanno abbinare correttamente cibi e bevande, fatto sta che perdono alcuni aspetti importanti della cultura di un Paese, il nostro nel caso specifico.

Un amico, spesso in Senegal, raccontava che quel Paese era uno dei pochi in Africa dove si cucinava, perché gli altri si limitavano a cuocere i cibi; non sono in grado di avvalorare o confutare questa sua tesi, ma avendo mangiato spesso a casa di nigeriani, etiopi, somali o senegalesi posso dire che sicuramente hanno nei confronti della cucina un approccio diverso rispetto al nostro. Forse mangiano per vivere, mentre noi viviamo per mangiare. La compagna finlandese di un mio amico potrebbe vivere a minestrina e hamburger ogni giorno senza sentire la necessità di variare.

Quello che, però, rovina alcuni di noi è l’attaccamento morboso per le nostre tradizioni, forse sarebbe meglio chiamarle abitudini, al punto di ritenerle le migliori, le uniche accettabili e degne di essere mantenute, senza pensare che i popoli che hanno conquistato il nostro Paese si sono convertiti alla nostra cucina tradizionale e non il contrario, che le influenze arabe, catalane, francesi, tedesche, greche e slave hanno lasciato nella nostra cultura culinaria solo tracce perché gli invasori hanno mutuato le tradizioni presenti facendole loro.

Dunque, perché non provare ciò che i Paesi offrono a tavola? Potremmo scoprire che anche i cibi più insoliti rispecchiano i nostri gusti o, addirittura, che li preferiamo. Spero di andare presto in Vietnam; un amico che vi è stato ha assaggiato le tarantole femmina, preferibili ai maschi per la presenza delle uova gustosissime. Se avesse ragione?  Se non resterò soddisfatto non ripeterò l’esperienza. 

Sergio Motta

L’ipertrofia dell’ego

A chi non è capitato di incontrare persone che si consideravano Dio e, invece, erano poco più di un manichino che respira?

Periodicamente cerco nuove modelle per i corsi di fotografia che organizzo annualmente e, talvolta, anche fotografi per affiancarmi in alcune attività.

Ed ecco che, tra le molte schede visionate, salta sempre fuori la top model “due camere e cucina” che mette subito le cose in chiaro: “Ho iniziato a posare da poco ed ho ancora molto da imparare. Non poso in TF (sistema di collaborazione dove fotografo e modella lavorano entrambi gratuitamente a vantaggio reciproco, NdA) ma poiché sta diventando un lavoro chiedo di essere retribuita.”

A parte il fatto che dovrebbero mettere almeno alcune foto descrittive del genere che intendono trattare (fashion, glamour, nudo, gothic), per quale motivo uno dovrebbe rischiare fotografando chi non possiede capacità professionali anziché andare sul sicuro con modelle di provata esperienza?

Una volta contattai una di queste non-modelle che nella scheda aveva tre foto, di pessima qualità, e pochissime note personali: le scrissi chiedendo quali esperienze avesse maturato e se potesse inviarmi almeno altre 2-3 immagini dove si vedesse meglio il viso e la figura intera.

La risposta fu sintomatica del disagio mentale che questa ragazza stava attraversando: “Le foto le mando a chi dico io, se ho scritto che sono carina devi fidarti. Per privacy non posso diffondere le mie esperienze.”

Chissà se avrà mai lavorato in seguito?

Allo stesso modo altre modelle, agli inizi della loro “carriera” precisano subito che trattandosi di lavoro effettuano soltanto servizi retribuiti, salvo contraddirsi scrivendo di aver scattato, poche volte, e solo con fotoamatori.

O, ciliegina sulla torta, quando precisano che posano solo dietro compenso ma non rilasciano liberatoria, il che significa che scatto, mi guardo le foto e penso quanto io sia fortunato ad averla potuta fotografare, peccato però non poterla mostrare né usare per lavoro.

E’ palese che molte, troppe, fanciulle pensano che posare per professione sia divertente, gratificante, al contrario del lavoro impiegatizio o della cassiera, faticoso, mal retribuito, a sopportare i malumori dei clienti.

Non pensano, nella loro superficialità, che essere modella di professione sia uno dei lavori più faticosi se svolto bene e se hai la fortuna di diventare qualcuno: tralasciando le modelle che viaggiano nei vari continenti che hanno problemi di jet lag, di lingua, di doversi adattare a clima e alimentazione diversa, anche una modella nostrana deve fare sacrifici continui.

Non fare tardi la notte se l’indomani ha uno shooting, altrimenti sarà distrutta, non bere né mangiare in eccesso se no addio linea, rinunciare a feste, viaggi e feste in famiglia se ti chiamano per posare.

Stiamo parlando di modelle vere, quelle che hanno studiato pose, comunicazione prossemica, che sanno recitare con la mimica; per le altre il selfie allo specchio del bagno è già tanto.

Ma finché ci saranno sedicenti fotografi che scattano con ogni essere che respiri, ci saranno non-modelle che si ritengono bellissime, simpatiche, professionali e che sono in grado di rifiutare il fotografo.

Dulcis in fundo le modelle che citano categoricamente i generi trattati (praticamente tutti quelli “non proibiti”) precisando di non chiedere altro. Salvo poi aggiungere “per quanto non indicato scrivere in privato”.

Sergio Motta

Dalla costellazione del Leone a quella della macchina elettrica

LE MERAVIGLIE DEL CIELO STELLATO…

DI Gianluigi De Marchi *

C’è ancora, nel terzo millennio, chi crede che la vita di ognuno di noi sia condizionata dalle stelle e dai pianeti, che con i loro influssi regolano amore, salute e lavoro (i tre campi in cui tutti vorrebbero sapere in anticipo cosa succederà).

La fideistica convinzione di costoro si basa su fatti inoppugnabili: un nato sotto il segno del Toro (animale focoso) sarà molto attivo, chi è nato sotto il segno dei gemelli (doppi) avrà un carattere inaffidabile e bipolare, e così via.

E quando Marte passa nel nostro segno zodiacale ne subiremo l’influsso negativo, saremo irascibili e litigiosi perché Marte è il dio della guerra; mentre quando passa Marcurio,porremo cogliere favorevoli occasioni perché Mercurio è il dio del commercio…

Ma pensate per un  attimo a questo dettaglio: se gli antichi avessero chiamato il pianeta Marte con il nome Bacco, il passaggio del corpo celeste avrebbe provocato ubriacature collettive? E se Venere si fosse chiamata Diana, non avrebbe condizionato gli amori ma l’esito delle cacce al cervo?

Ma non finisce qui.

Le costellazioni che influenzano i nostri destini sono 12, e prendono il nome dalla fantasia degli antichi che, guardando il cielo stellato, si erano dilettati ad unire le varie stelle formando delle figure più o meno credibili.

Ad esempio la costellazione del Leone è formata da Regolo, Leonis, Algieba, Adhafera, Ras Elased Borealis e Ras Elased Australis, ed ha la forma di un trapezio con una specie di falce sovrastante. Chi le diede il nome vide il leone di Nemea (animale invincibile della mitologia greca ucciso da Ercole in una delle sue celebri “fatiche”). Andate a vederla sul web, sfido chiunque a riconoscere un leone e non  una giraffa…

E guardando la costellazione del Sagittario (formata da Kaus Australis, Nunki, Axilla, Kaus media, Kaus borealis, Al Nasl, Arkab, Rukbat e Albaldah) si vede più una barchetta di carta o una teiera che non il mitico centauro lanciatore di frecce.

Le costellazioni ufficialmente riconosciute dagli astronomi sono 88, ma solo 12 regolano il nostro destino, le altre sono comprimarie i cui influssi contano meno del due di bastoni con briscola denari.

Eppure il grande astronomo Lalande aveva classificato alcune formazioni stellari dalla forma accattivante cui aveva dato nomi come il Gatto, il Cammello e, nell’emisfero australe, l’Ape. Un altro astronomo, Bode,  battezzò invece la Macchina elettrica, l’Officina tipografica e il Telescopio, nomi moderni anziché mitologici.

Niente da fare, non  contano nulla, peccato; perché nascere sotto il segno della macchina elettrica consentirebbe un sacco di risparmi energetici a tutti i fortunati protetti dalla costellazione…

* Giornalista e scrittore

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