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Tavola rotonda: “Non con la violenza”

Il Coordinamento interconfessionale regionale “Noi siamo con voi” in collaborazione con il Comitato per i diritti umani e civili del Piemonte organizza la tavola rotonda “NON CON LA VIOLENZA” presso il Centro culturale italo arabo Dar al Hikma di Via Fiochetto, 15 Torino per il giorno mercoledì 19 luglio h 18.00.

Interverranno:

  • Sara Zambaia, Consigliera regionale e vice Presidente del Comitato per i diritti umani e civili della Regione Piemonte.

  • Giovanna Pentenero, Assessore Comune di Torino al lavoro, attività produttive, coordinamento politiche per la multiculturalità

  • Giampiero Leo, portavoce del Coordinamento interconfessionale regionale “Noi siamo con voi” e vice presidente del Comitato per i diritti umani e civili della Regione Piemonte

  • Esponenti di diverse Confessioni Religiose e Associazioni della società civile

Modera: Younis Tawfik , Presidente del Centro culturale Dar al Hikma

L’iniziativa si pone in continuità con il desiderio di un dialogo costante e duraturo di pace e solidarietà, per una riconciliazione e interazione tra le diverse culture – in cui l’identità vengano rispettate, ma rappresentino stimolo e arricchimento reciproco – e per un maggior coinvolgimento delle e dei giovani “nuove cittadine/i di origine straniera.

La Città di Torino, la Regione Piemonte e la comunità piemontese in generale, rappresentano già un esempio positivo in questa direzione. Non sarebbe, però, ne saggio ne lungimirante ignorare cosa sta avvenendo oltralpe, nonché le crescenti situazioni di disagio emergenti anche nel nostro Paese.

Per dare una risposta il più possibile adeguata a queste problematiche, riteniamo che sia necessario fare un passo in avanti nel rafforzamento di una grande alleanza “educativo-sociale” rivolta al bene comune e a tutte le persone e realtà presenti sul nostro territorio. Fondamentali, quindi, le “Politiche Pubbliche” di competenza dello Stato e di tutti gli altri livelli istituzionali, ma anche il protagonismo e la collaborazione proattiva delle associazioni, delle moschee, della Chiesa, delle varie comunità e realtà religiose, civili e sociali.

Tutte componenti, quelle succitate, primarie per la promozione di processi di integrazione e prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione, ghettizzazione e diffusione della criminalità.

Un lavoro dunque paziente, costante, intenso volto alla costruzione di una società più giusta e più umana nel rispetto di ognuno e della legalità. Dunque rigorosamente col metodo della condivisione, della responsabilità civica e della fraternità e, assolutamente ……”NON CON LA VIOLENZA”

Elena Basteris la vincitrice della borsa di studio di Amazon

Politecnico di Torino. Dedicata alle materie STEM


Elena Basteris ha 20 anni e da Cuneo ha deciso di trasferirsi a Torino per frequentare il Politecnico con la valigia colma di passione per l’informatica e per le materie scientifiche, interessi che coltiva da quando era bambina. Oggi è al primo anno di Ingegneria Informatica al Politecnico di Torino.

Dal 2018 – anno di inizio del progetto – a oggi, sono 19 le giovani meritevoli premiate con una borsa di studio della durata di 3 anni, del valore di €6.000 all’anno.

 

 Elena Basteris, studentessa del corso di Laurea in Ingegneria Informatica al Politecnico di Torino, è la vincitrice della quinta edizione di “Amazon Women in Innovation”, la borsa di studio promossa e finanziata da Amazon per supportare e incentivare le giovani studentesse universitarie appassionate di materie STEM.

La giovane meritevole – insieme alle vincitrici degli altri cinque atenei italiani coinvolti nell’iniziativa di Amazon – usufruirà di un finanziamento di €6.000 per l’anno accademico 2022/23, con possibilità di rinnovo nei successivi due anni, oltre al supporto di una mentor, ossia una manager di Amazon che possa aiutarla a sviluppare competenze utili per il lavoro futuro come, ad esempio, le tecniche per creare un curriculum efficace o affrontare un colloquio di lavoro.

La borsa di studio è parte del programma “Amazon nella Comunità” e mira ad aiutare le giovani studentesse di discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) ad avere successo nell’economia digitale ed essere d’esempio per le tante altre ragazze che vogliono intraprendere questi percorsi di studi.

Oltre al Politecnico di Torino, gli Atenei italiani che hanno aderito all’iniziativa sono stati l’Università degli Studi di Cagliari, il Politecnico di Milano, l’Università degli Studi di Napoli Federico II,  l’Università degli Studi di Palermo e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.

Chi è la vincitrice di “Amazon Women in Innovation” per il Politecnico di Torino

Elena Basteris ha 20 anni e da Cuneo ha deciso di trasferirsi a Torino per frequentare il Politecnico con la valigia colma di passione per l’informatica e per le materie scientifiche, interessi che coltiva da quando era bambina. “Sono al primo anno di Ingegneria Informatica al Politecnico di Torino e ho già superato tre esami. L’informatica è sempre stata la mia vera passione, per questo anche sulla scelta dell’Università non ho mai titubato”.

Se anche gli interessi, così come i tratti somatici, siano ereditari, non è ancora dato saperlo, eppure Elena non ha dubbi che la passione per le discipline scientifiche l’abbia ereditata dal suo papà: “Mio padre è un ingegnere di professione e insegna matematica e fisica a scuola. Sono cresciuta in un contesto molto stimolante, che mi ha permesso di approcciarmi allo studio delle materie scientifiche con curiosità e passione, e credo che mi abbia consentito di avere una marcia in più”.

Guardando al futuro, Elena è molto ottimista: “Il settore dell’Informatica offre numerose opportunità di crescita, personale e lavorativa. Ad oggi non so ancora quale sarà la mia specializzazione, ma una cosa è certa: una volta laureata desidero trovare un lavoro che mi permetta anche di viaggiare e di conoscere culture diverse”.

“Amazon Women in Innovation”: dal 2018 a oggi

“Amazon Women in Innovation” nasce nel 2018 e, per il quinto anno consecutivo, continua a supportare e incentivare le giovani studentesse universitarie appassionate di materie STEM. Quest’anno, con l’aggiunta dell’Università degli Studi di Palermo e dell’Università Federico II di Napoli, coinvolge sei Atenei, a conferma del successo riscontrato nel corso delle precedenti edizioni. Con le premiazioni annunciate oggi, dal 2018 il progetto ha premiato 19 giovani meritevoli attraverso l’erogazione di 19 borse di studio.

I ladri di tempo

Mesi fa scrissi un articolo sui vampiri energetici, cioè quelle persone che ti succhiano letteralmente l’energia, a loro uso e consumo, non curandosi di come tu ti senta dopo e, soprattutto, non tenendo in conto i consigli che tu hai elargito su loro pressante richiesta.

Solitamente sono amici o colleghi, qualche volta parenti, che hanno sempre un problema in più di quanti ne abbia tu, che chiedono aiuto sotto forma di telefonata, incontro urgente, visita a casa nostra, come se da quell’evento dipendesse la loro esistenza; quando, poi, hai suggerito loro quella che ti pare essere la soluzione migliore, quando hai spostato un appuntamento se non addirittura un week end di relax si allontanano da te come se nulla fosse successo o, peggio ancora, lamentandosi di non aver ricevuto supporto adeguato.

Alla pari con questi vampiri vi sono i ladri di tempo; persone anch’esse dedite a occupare parte del vostro tempo, ma in maniera diversa.

I ladri di tempo sanno selezionare le persone a cui approcciarsi: non importa cosa voi stiate facendo o come voi stiate; per loro conta soltanto che dedichiate loro del tempo e lo pretendono in forma garbata, subdola.

Se hanno un appuntamento solitamente arrivano in ritardo, così da privarvi del tempo di attesa (che avreste dedicato ad altro), pretendono che dedichiate loro del tempo come se fosse un diritto divino e, ciò che è peggio, si palesano improvvisamente prendendovi letteralmente alla sprovvista.

Mentre i vampiri succhiano la vostra energia sottoponendo i vostri neuroni ad uno stress enorme, i ladri di tempo possono anche essere portatori di notizie buone o, quanto meno, non drammatiche; non essendo prevista la loro comparsa, però, vi obbligano a riformulare tutti i vostri impegni, dall’uscita per fare la spesa, all’appuntamento galante, al colloquio di lavoro perché, per loro, contano solo sé stessi.

Solo molto attenti ad individuare la preda; con voi non hanno orario e qualsiasi momento va bene. Se avete un appuntamento con loro possono anche tardare di mezz’ora o un’ora, perché sanno che li aspettate; se, invece, devono prendere un treno o un aereo, hanno prenotato una visita medica, devono andare in un negozio verso l’ora di chiusura saranno puntualissimi, più di un orologio atomico; non dipende, dunque, da loro ma da voi, che li avete abituati troppo bene.

Tutti noi ne conosciamo alcuni e l’unico modo per insegnare loro qualcosa è neutralizzarli.

Quando non esistevano ancora i cellulari, io ed altri amici ci trovavamo sotto casa di uno di questi amici per la gita fuori porta domenicale. Questo ragazzo, sotto la cui casa ci trovavamo, è una delle persone più puntuali che conosca: concedeva al massimo 10minuti di ritardo dopo di che andava via e chi c’era c’era; chi arrivava e non trovava più nessuno, non potendo contattarci perché, come ho detto, non esistevano i telefoni mobili se ne tornava a casa o organizzava qualcos’altro e la volta dopo arrivava addirittura in anticipo.

I ladri di tempo solitamente non hanno una vita realmente impegnata, sono solo disordinati ed egoisti; posso capire un medico in visita domiciliare che non può prevedere con esattezza l’ora in cui verrà da noi, e infatti non ci dà un appuntamento preciso, posso capire un agente di commercio che non sa quanto traffico troverà per strada e che genere di ordine gli effettueranno i clienti, ma un amico che esce di casa a centro metri da casa nostra, ci raggiunge a piedi, magari di domenica mattina e riesce a giungere con 20 minuti di ritardo significa che non ha rispetto di noi e delle nostre esigenze. Se nelle piccole cose si comporta così, figuriamoci quando gli viene realmente chiesto un impegno, un sacrificio come si può comportare.

Il buonismo che ci ammanta e che è nel DNA di molti di noi ci porta ad accettare, anzi a subire, questi comportamenti che spesso incontriamo anche nel pubblico impiego e che si incrociano con la procrastinazione, di cui ho scritto mesi fa.

Una psicologa che conosco ammetteva che lei sarebbe puntuale fino all’ora di uscire di casa; poi, vedendo che ha ancora qualche minuto, riesce sempre a fare qualcosa che la porta a giungere immancabilmente in ritardo anche di 1 ora sull’orario di appuntamento.

Menomale che dovrebbe aiutare gli altri a risolvere i problemi.

Sergio Motta

Rotary, ecco il bilancio sociale del Distretto 2031

Circa 2600 soci nel territorio piemontese e valdostano e oltre 47 milioni di ore di volontariato erogate in un solo anno dal Rotary International. Questo è uno dei risultati che emergono dal bilancio sociale appena diffuso del Distretto 2031 del Rotary International, diffuso in tempi record, a soli 10 giorni dalla chiusura dell’anno rotariano, avvenuta il 30 giugno scorso. Il bilancio sociale, strumento di valorizzazione delle iniziative di servizio e delle azioni benefiche svolte all’interno delle comunità, redatto grazie al prezioso supporto del Team di ricerca guidato dal Prof. Paolo Biancone, all’interno del Dipartimento di Management “Valter Cantino” dell’Università di Torino, riassume tutte le attività intraprese dai Rotary Club dell’Alto Piemonte (province di Torino, Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli) e dai club della Valle D’Aosta durante l’anno rotariano 2022/2023 e offre un’identità utile soprattutto ai giovani che si avvicinano al Rotary attraverso i percorsi di Interact e Rotaract. Questo strumento comunicativo unisce elementi come la passione, il senso civico, il benessere della comunità, il coraggio, l’amicizia e la generosità verso il prossimo, indipendentemente dalla sua categoria.
Le iniziative svolte dal Distretto rotariano a favore dei territori sono riconducibili a diverse aree, tra cui:
• Promozione della pace: con iniziative di volontariato in Turchia e in Siria.
• Promozione della salute: con azioni mirate al supporto delle persone con disabilità, della
SLA, del Parkinson, della cura contro il cancro e della poliomielite.
• Protezione di madri e bambini: attraverso il sostegno a reparti ospedalieri pediatrici.
• Sostegno all’istruzione: mediante la costruzione di aule multisensoriali, la lotta alla violenza
sulle donne e il contrasto al cyberbullismo.

• Sviluppo delle economie locali: con iniziative di supporto ai beni culturali, agli enti del terzo settore, all’educazione finanziaria e all’impresa, ad esempio attraverso il progetto del Microcredito.
• Tutela dell’ambiente.
• Supporto alle popolazioni internazionali in occasioni di eventi drammatici come terremoti e
guerre.
Per ulteriori informazioni e per consultare il Bilancio Sociale completo, si prega di visitare il sito web del Distretto 2031 del Rotary al sito web: https://rotary2031.org/distretto-2031/

Mary, dolce Mary. E gli “orchi” di casa / “Facce da scuola” 7

COSA SUCCEDE(VA) IN CITTA’

Quarant’anni fa, a Vallette … I “migliori” anni della mia scuola

 

Gianni Milani

Mary sorrideva poco. Non rideva mai. Erano soprattutto i suoi occhi azzurri, due azzurre richieste d’aiuto nel volto pallido e paffuto incorniciato da riccioli biondi lasciati liberi di vagolare senza troppa cura, a raccontare agli altri qualche briciola di serenità. Mai di gioia. Mai di felicità. Mary, anni ’80, la incontrai e fu mia allieva nell’allora succursale della “Levi” (oggi succursale del Professionale “Beccari”), in via Parenzo – corso Molise, fra quei palazzoni tutti uguali e ognuno per sé, sulla linea di confine fra le “nuove” Vallette e il più antico borgo di Lucento. Per tutti e tre  gli anni delle Medie fu affiancata e seguita da un’insegnante d’appoggio. Tempi lunghi d’apprendimento, difficoltà a seguire con attenzione le lezioni: questo (più o meno) dicevano di lei, le aride note dello scolastico burocratese. Avrei, avremmo poi tutti capito il perché di quella situazione. Ancora oggi penso spesso a quella dolce ragazzina dai riccioli biondi e dagli occhioni azzurri, sempre caparbiamente tristi. Anche nello sforzo, raro in verità, di un sorriso che sembrava partire per caso, quasi per farti un piacere. E che durava pochissimi secondi. Allora, anche per lei, sembrava aprirsi una fetta di cielo azzurro, di paradiso o meglio di non inferno. Poi tutto ritornava nel buio dell’inutilità e della tristezza, nella solitudine e nelle paure di giorni neri e tutti tragicamente uguali. Marchiati a fuoco dalla crudeltà degli uomini. Negati all’infanzia, all’amore inutilmente cercato (forse preteso con urla sotterranee, mai fatte affiorare e gridate al cielo), a quell’amicizia e comprensione neanche più desiderate e, anzi, sfuggite per un senso di vergogna che era invece infima miseria d’altri. Di chi a lei, piccolo angelo, avrebbe dovuto regalare a piene mani affetto, protezione, coccole e carezze e gioia e puri giochi d’infanzia. E non l’inferno chiamato “casa”. Era lì il segreto che martoriava la dolce Mary. Segreto di cui venni a conoscenza, qualche anno dopo, con la spietata crudezza della notizia di cronaca. E ne fui travolto, come da un treno in piena corsa. Di botto. Senza il tempo di scansarmi. Senza il tempo delle domande, dei perché, dei se l’avessi intuito e dei  ma potevo intuirlo? Non ricordo la sua mamma. A chiedere notizie di lei a scuola venivano spesso il padre e il fratello, un ragazzone alto e grosso che dimostrava – lui come il babbo – di tenerci per davvero a che Mary, attraverso la scuola, potesse raggiungere quel grado di istruzione che ad entrambi non era stato dato, quasi certamente, di guadagnare. E, proprio per questo, non lesinavano rimbrotti alla piccola, “colpevole” di scarsi progressi e di poco impegno sul piano della scolarità. Già … scarsi progressi e poco impegno. Compiti assegnati e non fatti. Libri di rado aperti e, ancor meno, studiati. Interrogazioni mute.

Le mani intrecciate dinanzi al grembo, in posizione di preghiera. O di autodifesa (lo immaginai più tardi), il viso a terra, nessuna volontà di avanzare qualsivoglia giustificazione. Che, pure, c’era, cara dolce Mary, e grande come una casa. Impensabile allora, ma uscita allo scoperto dopo anni, quando qualcuno (un’assistente sociale forse o una psicologa o un’insegnante più brava/o di me) riuscì ad entrare nell’antro buio di una vita fatta a pezzi e sconvolta proprio da chi più di altri doveva esserne fiero ed integerrimo guardiano. Quel padre. Quel fratello. Proprio loro che, ai colloqui con gli insegnanti, neppure si facevano scrupoli di lesinarle aspri rimproveri per quei risultati didattici non ancora pienamente raggiunti, come insistevano, barbosamente e inutilmente, a riferire gli insegnanti, fra di loro anch’io. Ottuso, incapace di leggere i messaggi veri di quei tristi sorrisi e di quegli ostinati mutismi. Di individuare i mostri che alla piccola avevano rubato l’innocenza dei suoi pochi anni. Il fatto venne allo scoperto. Gli “orchi” arrestati. La notizia sbattuta sulle prime pagine dei giornali. L’ho detto, fui come travolto da un treno in corsa. Cosa poteva dare alla scuola una bambina come Mary quotidianamente “violentata” e privata di quello spazio di sogni, di cure, di giochi innocenti e di amore domestico, di cui avrebbe dovuto aver parte piena la sua giovane vita? A lei la scuola poteva invece dare molto. E ho paura che abbia invece fatto poco (o forse con troppo ritardo) per lei. Di lei mi resta, ancora oggi, l’immagine di quel corpo chiuso al mondo, di fronte a una lavagna tutta nera, oggetto inutile e privo di segni. Quel viso paffutello. Quei riccioli biondi. E quei dolcissimi occhioni azzurri incapaci e senza voglia d’alzarsi al cielo. E di chiedere, una volta almeno una volta, Mary, uno straccio d’ aiuto. “Ehi, guarda c’è Mary – diceva anni fa (mi ci sono imbattuto in questi giorni per caso) una canzone dei ‘Gemelli DiVersi’, una sorta di ‘preghiera laica’ pop-rap, non certo il mio genere musicale preferito, che mi ha fatto sobbalzare ritrovandoci in pieno quel nome e quella storia che ti appartengono fino in fondo – Mary è tornata alla stazione … stringe la mano a due persone … Bacia il suo uomo e la bimba nata dal suo vero amore/ Con quel sorriso che dà senso a tutto il resto … Mary ha un’anima ferita, un’innocenza rubata/ Sa che la vita non è una fiaba/ Ma ora Mary è tornata una fata/ Cammina lenta, ma sembra che sia contenta … Una sfida eterna l’aspetta, ma non la spaventa”. Vorrei davvero fossi tu, quella Mary. Mary, dolce Mary. Oggi donna, oggi moglie, oggi mamma. Chissà? La vita restituisce, a volte, i sogni malamente rubati. Perché non sperarlo?

Gianni Milani

Avvenne oggi tanti anni fa: 11 Luglio 1899 nacque la FIAT, Fabbrica Italiana Automobili Torino

 

Per chi porta nel cuore e nelle vene la bella pedemontana Torino, per nascita, per storia familiare o per adozione, oggi, 11 Luglio è una ricorrenza importante perchè da quel giorno del 1899 un evento che al momento non parve così rilevante cambiò per sempre la storia della città, del Piemonte e superò di molto i confini italiani.


Nacque la Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino, una Casa automobilistica che è diventata il gruppo industriale privato e finanziario più importante del 900. Le sue vicende, il suo sviluppo, i passaggi gestionali, la storia della famiglia Agnelli, le trasformazioni e ciò che oggi rimane del grande colosso è noto a tutti. Soffermiamoci sugli inizi, in quella Torino di fine 800 con la sua storia monarchica, i suoi palazzi, i suoi salotti, i suoi tanti personaggi politici che hanno fatto l’Italia, i suoi portici, i suoi caffè storici ed i tanti suoi volti differenti e mutevoli nel corso dei secoli. Nel 1898 era stato fondato l’Automobile Club di Torino da sei amici tra cui il senatore Agnelli, segretario. Si stava già ben delineando la vocazione automobilistica del capoluogo piemontese. Il passo successivo fu l’idea, con in testa Emanuele Cacherano di Bricherasio ed altri amici, tutti notabili torinesi, di fondare la Fiat che fu ciò che avvenne quell’11 Luglio nel seicentesco Palazzo Bricherasio nella centralissima Via Lagrange al numero civico 20, dove venne firmato l’atto di costituzione della nascente società con un capitale iniziale di 800.000 lire che, detto così sembra poca cosa ma che ad oggi significherebbero 3,6 milioni di Euro. Un’impresa coraggiosa e lungimirante, al limite con il sogno più avveniristico per quell’epoca.

Allo stabilimento di Corso Dante del 1900 seguì il famoso complesso del Lingotto che entrò in funzione nel 1923. E’ un periodo di inarrestabile e fortunata espansione sotto la presidenza del senatore Agnelli nel 1920 affiancato da un giovane Vittorio Valletta. E Torino diventa così la città dell’automobile, nasce la forza lavoro che impiega intere generazioni, molti dalle campagne si trasferiscono in città, il mutamento è grande, dal Sud gli arrivi si susseguono, la macchina Torino è in pieno movimento. Nel 1966 entra in scena il giovane Gianni Agnelli, intelligente, bello, affascinante che sta a Torino come il Duomo sta a Milano. Al funerale di suo padre Edoardo la bara fu portata a spalla dai capi-reparto del Lingotto con la bandiera della Fiat ” Cielo, mare, terra “. Torino perderà quella fama di città dell’automobile grigia, austera e triste, che peraltro non le è mai appartenuta, soltanto nel 2006 grazie ai Giochi Olimpici invernali che le resero il suo vero volto facendola conoscere al mondo in tutta la sua bellezza, unicità ed accoglienza.

Enzo Biagi, nel suo libro “Cara Italia” scrivendo di Torino disse:” Nel Piemonte la Fiat ha sostituito i sovrani, di qui è partita l’industrializzazione ed il miracolo economico”. Terra geniale e tenace, tutto il resto è storia !

Patrizia Foresto

Addio grafologia?

La grafologia è una scienza, spesso considerata parente povera della psicologia, che con questa ha molti legami, come pure consociologia e criminologia.

Molti di noi pensano che la grafologia consenta unicamente di risalire all’autenticità di una firma, se cioè sia realmente stata apposta da chi dice di averlo fatto, se sia una copia o se sia una contraffazione vera e propria.

In realtà la grafologia è molto di più. Dal segno lasciato dall’autore su un foglio di carta si evincono moltissimi elementi: dalla dimensione delle lettere e la loro direzione (dritte? inclinate e da che parte?), la continuità del tratto o le interruzioni, la pressione del tratto sul foglio, l’aspetto complessivo dello scritto (ordinato? disordinato?) e molto altro ancora.

Occorre innanzitutto considerare che la scrittura, pur composta da elementi inconsci e indicatrice del carattere dell’autore, risente molto della cultura di chi scrive: una bassa scolarizzazione traspare da una scrittura infantile, incerta, talvolta fluttuante; senza arrivare alla calligrafia com’era uso nelle scuole prima del secondo conflitto mondiale, una persona dotata di cultura superiore mostra solitamente una grafia regolare, leggibile, ordinata. Fanno eccezione a questa regola i medici, per ragioni che sfuggono all’umana comprensione.

La scrittura, tuttavia, è un’arte che va coltivata: quando si sta molto senza scrivere (è il caso di chi abbia avuto l’ingessatura ad un arto o, per ragioni varie, non abbia scritto per lungo tempo) la grafia cambia, in peggio, rendendo incerto il tratto, producendo lettere deformi ed una grafia complessivamente disordinata.

Ma, e qui veniamo al titolo dell’articolo, quanti scrivono ancora a mano oggi? Non intendo la lista della spesa (spesso abbreviata che solo chi l’ha scritta è in grado di comprenderla) o il promemoria appicciato al frigo, ma una cartolina, una lettera, il rendiconto di un evento.

Ai seminari a cui ho partecipato nel corso di qualche decennio e, poi, a quelli di cui sono stato relatore ho notato che il numero di quanti prendevano appunti diminuiva drasticamente col passare degli anni: un tempo, con le sedie dotate di piano laterale per scrivere, si riempivano pagine e pagine di appunti; ora basta un semplice registratore vocale del costo di 30 euro per avere sempre a portata di mano la registrazione e, grazie al convertitore “speech to text”, creare il file di testo da quell’audio.

Le cartoline e le lettere non esistono più, persino le ricette mediche sono interamente digitali; se escludiamo la firma sui contratti si possono contare sulle dita di una mano le cose che ancora compiliamo manualmente.

Come fare quindi a verificare l’autenticità di un documento? L’autenticità di una firma?

La tecnologia, nel 99% dei casi, modifica le cose non compiendo solo un’azione peggiorativa: non compiliamo più manualmente un documento, ma lo inviamo via mail e tramite i dati dei server di posta si può risalire all’identità della persona. Falsifichiamo una firma ma la scansioniamo con cura: le stampanti lasciano un codice invisibile sul foglio stampato dal quale si può risalire quanto meno a chi abbia acquistato la stampante o dove essa si trovi.

Quando la grafologia era massimamente applicata non esistevano i social: su questi ultimi non si scrive a mano, non si firma nulla nel senso classico del termine ma sono forse più eloquenti dello scritto manuale.

Pensate soltanto alle foto che postiamo, a cosa scriviamo, a quali post mettiamo (o no) il like, chi siano i nostri amici, come commentiamo i post altrui, a quali gruppi siamo iscritti, su quali pagine siamo attivi e molto, molto altro ancora.

Al di là dell’indicazione pura e semplice di “ansioso”, “romantico”, “immaturo” o altre caratteristiche desumibili da un’analisi grafologica, l’alone che ci circonda sui social è di gran lunga molto più eloquente di quanto non lo sia la scrittura a mano. Quasi sempre le aziende alle quali presentiamo domanda di assunzione fanno un giretto sui social per vedere che tipi siamo: se scrivo peste e corna degli imprenditori, se sono un rivoluzionario in pectore molto difficilmente verrò contattato; allo stesso modo gli inquirenti che stiano investigando su un reato per il quale siamo indagati verificheranno se, sui social e più in generale in rete, vi siano elementi che possano concorrere all’ipotesi accusatoria.

Pertanto, mentre ricordiamo la grafologia come una scienza lentamente in via di estinzione, facciamo attenzione a ciò che scriviamo e facciamo sui social perché per 12 mesi quei dati restano disponibili a chiunque possa chiederne (tramite la Magistratura) l’accesso; inoltre, se una lettera di vecchio stampo mandata ad un giornale (è un esempio) per accusare Tizio integra il reato di diffamazione, diffamare qualcuno sui social diventa più grave perché l’enorme numero di persone raggiungibile costituisce un’aggravante (art. 595 comma 3 C.P.).

Dunque, se proprio non riuscite a non insultare o diffamare qualcuno sul web il consiglio è di stare lontano dal pc, o la voglia vi passerà quando vi arriverà l’informazione di garanzia.

Sergio Motta

Fake news: come si costruiscono facilmente

Chi di voi conosce la storia del Paradiso terrestre, in cui Adamo ed Eva vivevano tranquillamente a sbafo dell’Onnipotente finché il serpente non tentò la donna inducendola a cogliere la mela dall’albero, addentarla ed offrirla al suo uomo scatenando l’ira di Dio?

Tutti hanno alzato la mano, senza rendersi conto che si tratta di una clamorosa bufala o, come si usa dire oggi con termine più raffinato, una fake news.

 

Michelangelo-Il peccato originale

Non si discute sulla veridicità o meno della creazione del mondo descritta dal libro della Genesi, ma dei dettagli dell’episodio.

Leggiamo la Genesi: “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. (Genesi 2,9). Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti». (Genesi 2, 16-17). Il serpente (definito dal testo sacro la più astuta delle bestie selvatiche), instillò il dubbio in Eva che“vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò.(Genesi 3, 1-7).

Qualcuno ha letto la parola “mela” nel testo? No, si parla genericamente di un frutto; l’identificazione nella mela è un tipico caso di fake news, un abbellimento di una scena altrimenti anonima che non attira più di tanto l’attenzione. E probabilmente si tratta di un errore di trascrizione, l’albero del bene e del “male” è diventato l’albero delle “mele”.

Nonostante che 5.000 anni fa non esistesse Internet o Facebook, l’immagine della mela si diffuse e divenne la norma nelle rappresentazioni pittoriche, scultoree, letterarie.

La scelta della mela fu aiutata dalla tradizione: si pensi a Paride che dà in premio ad Afrodite (scegliendola come la più bella tra le dee dell’Olimpo), una mela.

L’immagine del peccato originale con Eva, Adamo, il serpente e la mela è diventata una fake news accettata da tutti gli artisti (Michelangelo, Domenichino, Masolino, Tiziano, Rubens, e tanti altri).

Insomma, basta un nonnulla e il falso si impone sul vero, soprattutto oggi, con la diffusione

rapidissima e incontrollata delle notizie.

Vogliamo ricordare le fake più diffuse?

 

 

 

La Terra è piatta: è la base di tutte le teorie “anticonformiste”, sostenuta da una percentuale stimata nel 10% della popolazione, convinta ancora oggi che, arrivati alle colonne d’Ercole o giù di lì il mondo finisca e si precipiti nel vuoto, come il mitico Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno di Dante. Inutile spiegare che migliaia di studiosi, astronomi, fisici, hanno dimostrato il contrario (sono tutti al soldo dei “poteri forti” che hanno modificato la realtà imponendo una dittatura geografica); inutile far vedere le immagini satellitari dalle quali si vede chiaramente che il mondo è una sfera che ruota su se stessa (montaggi televisivi).

 

L’uomo non è mai stato sulla Luna: le partenze dei vari razzi lanciati da Cape Canaveral, le passeggiate sul suolo lunare, le orbite intorno al nostro satellite sono spezzoni di film girati ad Hollywood con attori che non hanno mai volato neppure su un elicottero.

Avviso per chi ci crede: sappiate che è una fake news, ma non come credete voi: il fatto è che in realtà i film sono stati girati a Cinecittà da Checco er pataccaro…

 

Il Covid non esiste: il virus che ha causato milioni di contagiati, milioni di morti, bloccate le economie del pianeta è un’invenzione delle grandi case farmaceutiche (le famose “big pharma”) ,che hanno trovato il modo di fare miliardi di dollari vendendo vaccini.

Vaccini che fra l’altro (qui la fantasia dei creatori delle fake news tocca il suo massimo) sono, a seconda della fantasia, acqua distillata, oppure misteriose soluzioni che provocano tremende malattie a lungo termine, oppure contengono microchip che a breve ci condizioneranno grazie a comandi lanciati attraverso la rete 5G, oppure renderanno sterili tutte le donne europee e americane, in base ad un piano di dominio del pianeta da parte di Xi Jing Ping.

E allora vi segnalo, per fare bella figura, la fake news più bella che ho inventato io, grazie alla quale potrete intrattenere tutti i vostri amici lasciandoli a bocca aperta: Cristoforo Colombo non è mai sbarcato in America!

Sissignori, la vita del navigatore genovese è stata manipolata.

In realtà Cristoforo era un povero mozzo, orfano di entrambi i genitori, che voleva navigare, ma nessun capitano lo accettava nella ciurma perché era un ubriacone che girava da una taverna all’altra ingurgitando Barbera e Sciacchetrà fino a stramazzare per terra. Un giorno, disperato, si unì ad un gruppo di altri alcolizzati, salì su un veliero, buttò a mare l’equipaggio e salpò verso occidente. Naturalmente, siccome a bordo scorreva più vino che acqua nel Po, la nave procedette a zig zag fino a fare naufragio sull’isola d’Elba. Qui Cristoforo s’inginocchiò, benedisse il cielo per non essere affogato, e, ancora sotto i fumi dell’alcol, iniziò a scrivere le sue memorie, farneticando di avventurosi viaggi nell’oceano verso terre inesplorate. Il diario finì misteriosamente nelle mani della regina di Spagna Isabella che lo gabellò come documento storico per mettere le mani sul nuovo continente

Non ci credete?

Andate su Internet, troverete tutti i dettagli che vi consentiranno di collocare Colombo vicino a tutti gli altri “falsari” della realtà, da Galileo Galilei e Newton ad Armstrong e Aldrin, da Sabin e Fleming a Burioni e Crisanti.

E se andrete in vacanza all’Isola d’Elba, non dimenticate di andare a visitare la spiaggia di Portoferraio sulla quale Colombo fece naufragio…

Gianluigi De Marchi 

demarketing2008@libero.it

Gemelle di 94 anni: ricordi di scuola a Torino

Caro direttore, ho messo giù alcune note di Vita dettatemi da mia mamma e dalla zia, gemelle di 94 anni il 20/5 scorso.

Giovanna Seghesio
“Noi che …. Il 1°Ottobre inizia la Scuola e nell’anno scolastico 1935/36 la 1^Elementare alla Cesare Battisti Torino (San Paolo).
 Alle 8 ogni mattina, la Messa dello Scolaro. A Natale si legge e si scrive con penna e pennino, il calamaio incorporato nel piano del banco sotto il quale si pone la cartella in cuoio o crosta che durerà 5 anni. Grembiule e fiocco, scarpe lucide e capelli raccolti. In Primavera la signorina Maestra si sposa e ci vuole, piccole damigelle, alle sue nozze con l’abito bianco, coroncina e borsina della 1^Comunione, fatti da mamma Benedetta (Dina), sarta. I Genitori danno carta bianca ai nostri Maestri/Educatori, sicuri della loro competenza ed autorevolezza per la nostra Istruzione/Educazione. La pagella è trimestrale, le materie 15 circa, incluse Disciplina (Condotta) e Igiene e cura della persona. Le valutazioni sono: Lodevole/Buono/Sufficiente/etc. Il Sabato mattina, grandi pulizie dell’Aula con cera, strofinaccio e olio di gomito!
E’ bello stare insieme, studiare, lavorare e giocare. Si Inizia a capire il valore delle persone che ci stanno vicino e ci aiutano a crescere e a formarci. La II^ Guerra Mondiale non ci permetterà di proseguire gli studi come avremmo voluto! A Dogliani, nelle Langhe, sfollate per 3 anni dai nonni materni…nel cuore la nostra Torino dove papà lavora, la Scuola, i Maestri e i  Compagni. Nelle lunghe sere al suono della fisarmonica di Beppe cantiamo. Il Rosario: si prega e si accennano piccole recite teatrali con pesanti mantelle e vecchi cappelli in feltro…”

Quando la vacanza intelligente è stare a casa

Circa 3 mesi fa, su queste colonne, scrissi a proposito delle vacanze invitando i lettori a non seguire la moda che di anno in anno detta nuovi canoni ma a pensare a ciò che realmente dovrebbero essere: vacanze, dal latino “vacantia”, cioè cose (uffici, incarichi) prive di un titolare perché assente.

Ma guardiamo cosa fa la maggior parte di noi durante le vacanze: anziché approfittarne per imparare qualcosa di nuovo, conoscere nuove culture e nuovi idiomi (o migliorare quelli conosciuti) ci si accontenta di immergersi nella italianità di qualche villaggio situato qua e là nel mondo uscendo, quando va bene, per un safari che ricorda molto quello di Paolo Villaggio nel film “Dove vai in vacanza?”

Se escludiamo qualche uscita fuori dal villaggio, la vita nei villaggi vacanze è identica ovunque ci si trovi: Africa equatoriale, Caraibi, Sardegna, Calabria, Maghreb o Egitto e, cosa ancora peggiore, per non far soffrire la distanza da casa gli animatori sono spesso italiani.

Viene da domandarsi che senso abbia andare a migliaia di chilometri da casa per poi restare chiusi nel villaggio a imparare i balli latino-americani (nella palestra vicino casa l’insegnante era portoricano, qui nel villaggio è italiano), a giocare a pallavolo, subire tornei di burraco e bere alcolici come se non ci fosse un domani perché è tutto “all inclusive”.

Io ho cominciato a viaggiare all’età di 13 anni, ovviamente con viaggi organizzati specie nei Paesi dell’ex patto di Varsavia, ma dopo il pernottamento tutto il giorno si stava in giro a comprendere la vita reale del luogo, musei, negozi, ristoranti, incontrare un dissidente appena rimesso in libertà e, in generale, ogni cosa che permettesse di comprendere davvero la vita e la cultura del luogo.

Col passare degli anni, e l’aumento della curiosità, sono via via andato nei Paesi scandinavi, in Turchia, in Tunisia ed in Marocco, ma sempre limitando la permanenza in hotel al pernottamento e cercando di scoprire cosa vi fosse nelle medine, al Gran Bazar di Istanbul, nei sexy shop di Copenhagen o come si trasformi piazza Jamaa el Fna al tramonto.

Solo viaggiare in questo mondo ci permette di comprendere la diversità e accettarla come confronto, come paragone tra ciò che abbiamo e siamo e ciò che vediamo nel luogo in cui ci troviamo.

Quando nel 1998 arrivai a Dürres, diretto a Shkoder, durante la guerra civile mi meravigliai di come un popolo così vicino a noi fosse così diverso, da non avere corrente elettrica per circa 8 ore al giorno, dove pochissimi avevano la TV, dove il frigorifero era un optional perché la corrente mancava continuamente, dove di notte le strade erano totalmente al buio e dove, quando chiedevi di visitare una località al confine col Montenegro (che allora era parte della Serbia) venivi accompagnato da un autista fornito di Kalashnikov.

Ora non pretendo che tutti abbiano il coraggio o la voglia di visitare un Paese in quel modo, ma solo chi ha visto l’Albania di fine anni 90 può apprezzarne oggi l’ospitalità, la ricettività turistica e la bellezza dei luoghi.

Lo stesso potrei dire di Capo Verde o della Repubblica Domenicana, dove vedi bambini di meno di 10 anni tagliare col machete la canna da zucchero per darla ai turisti in cambio di 1-2 euro, turisti che ignorano che quei bambini sono tutti haitiani, sieropositivi, e che se si tagliano saranno medicati come potete immaginare.

Solitamente i turisti vedono solo quello che vogliono vedere o vanno dove fa loro comodo: dal turismo sessuale nei Paesi asiatici, ai safari per cacciare un animale che non potranno mai importare nel loro Paese o raccogliendo squaletti o sabbia che alla dogana ti verrà immancabilmente sequestrata e perciò dovrai pagare sanzioni “mica da ridere”.

Se non si ha la capacità (o la voglia o l’intelligenza, vedete voi) di visitare un luogo rispettandone non soltanto la cultura e le leggi, ma soprattutto l’ambiente e le consuetudini meglio stare a casa, andare a qualche chilometro da casa magari in bicicletta risparmiando, oltre a soldi e fatica, una figura “da italiano in gita” come canta Paolo Cante in “Bartali”.

Mentre sto scrivendo mi trovo in Catalunya per tenere una conferenza sulla differenza tra erotismo e sesso, tra seduzione edadescamento: ho notato con piacere che i catalani accolgono con piacere i turisti ma sono ancora più felici se i turisti rispettano le tradizioni catalane e si adattano a usi e consuetudini locali.

La cosa incredibile è che ormai tutti cerchino su internet ogni notizia, dalle più importanti a quelle più banali ma pochissimi, in previsione delle vacanze estive, si documentino sui luoghi che andranno a visitare, che ancora meno pensino a frequentare uno dei tanti corsi di lingua straniera almeno per salutare, chiedere una strada, ordinare al ristorante o spiegare un problema al medico dell’ospedale.

Mentre si cerca di sembrare superiori all’interlocutore, sproloquiando in un linguaggio fatto di storpiature (Totò, Peppino e la malafemmina insegna) ed aiutandoci con la nostra tipica gestualità italiana, si viene in realtà presi per i soliti ignoranti che vogliono viaggiare ma non sanno uscire dal condominio, che anche per una vacanza di pochi giorni non vivono se non mangiano pasta, pizza, pane e altre specialità italiane e, in aggiunta, pretendono che tutto il mondo si adegui a loro anziché al contrario com’è giusto che sia; mi reco spessissimo in Francia e, pur conoscendo solo approssimativamente la lingua, ordino in francese al ristorante, dal benzinaio, al supermercato: solitamente mi rispondono istintivamente in italiano. Capita sovente che qualche italiano entri al ristorante parlando esclusivamente italiano e, in aggiunta, con un modo di fare piuttosto buzzurro: chissà perché la stessa cameriera che mi ha trattato benissimo apostrofa i buzzurri con un “Desolé, nous ne parlons pas italien”.

Se proprio fate fatica ad adattarvi al posto in cui vi recate restate in casa perché spesso, anche nel nostro Paese, siete comunque fuori luogo.

Sergio Motta