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Torino, dopo il lockdown: la sfida del mondo dei giovani

Passeggiare oggi nel centro di Torino e percorrere alcuni suoi viali che, nel loro andamento, ricordano quelli parigini più caratterizzanti, suscita una sensazione strana.

 

Se una persona potesse, come per miracolo, astrarsi dalla dimensione temporale e venire catapultata in questo spazio, senza aver vissuto il recente passato di un lockdown durato più di due mesi trascorsi in isolamento, vivendo l’emergenza sanitaria dovuta al Covid 19, credo che percepirebbe, in egual maniera, qualcosa di diverso ed anomalo rispetto al volto abituale che una città come Torino presenta nella sua quotidianità.

Passando accanto ad una pianta di gelsomino in fiore o ad un giardinetto in cui qualche sparuto bambino gioca, sorvegliato a distanza da un genitore, o due timidi fanciulli si scambiano tenere parole su di una panchina, timorosi di tenersi per mano, si comprende che la normalità, cui si era abituati e che si dava troppo per scontata, non è ancora ritornata. E non bastano certo i negozi di lusso del centro o i coiffeur riaperti a far ritrovare il sorriso, soprattutto sul volto delle persone che non siano più adolescenti. Le si incontra per strada, alcune, magari all’ora dell’uscita dal lavoro, mentre camminano solitarie verso il tragitto di casa, altre mentre fanno movimento o running in centro (magari per cercare di mantenersi in forma o forse per esorcizzare, attraverso questa attività, paure accumulate in mesi di isolamento e di timore del contagio).

Le persone cosiddette di mezza età (anche se il termine non è, forse, quello più appropriato), penso siano, in effetti, quelle che, almeno ad osservarle camminare per strada, pur con le dovute eccezioni, quelle che appaiono meno aggregate e più preoccupate. Il sorriso lo si coglie più evidente, invece, sui volti dei giovani, spesso studenti che hanno a disposizione del tempo libero dallo studio e che ne approfittano per ritrovarsi e distrarsi per passeggiare in centro e guardare qualche vetrina.

La sfida di affrontare un evento traumatico, quale quello che è stato rappresentato dalla pandemia da Coronavirus, ha richiesto la messa in campo di energie e di capacità che in molti di noi erano nascoste e che non eravamo forse neanche così consapevoli di possedere. Tra queste soprattutto la cosiddetta “resilienza”, che ci ha posti in un atteggiamento attivo di cambiamento di fronte alle difficoltà da affrontare nell’emergenza, riorganizzandoci a partire proprio dalla quotidianità.

Oggi, nella cosiddetta Fase 2, è richiesta, soprattutto, in un periodo di graduale riapertura al mondo, ma ancora di convivenza con il virus, flessibilità e capacità di mettersi in ascolto delle proprie emozioni, senza reprimerle. In questo credo che i giovani siano molto più avvantaggiati rispetto agli adulti, perché meno strutturati in schemi preordinati di tipo sociale o borghese e più aperti, come è  tipico dell’età che stanno vivendo. Osservandoli camminare per strada, la sensazione che ho percepito è che abbiano saputo mettere in campo, pur in un momento difficile come quello che hanno trascorso nel lockdown ( di lontananza fisica dalla scuola e di lezioni online), una rinnovata capacità di relazioni umane e di solidarietà. La capacità naturale propria dei giovani e giivanissimi di creare gruppi e stare in gruppo, se sicuramente può far paura oggi in una fase 2 a molti governanti, giustamente preoccupati di far osservare il distanziamento, può essere valutata come un valore autentico di gettare ponti verso l’altro e verso il prossimo, come una sfida che oggi essi lanciano al mondo adulto che, da questo lockdown, sta uscendo più impaurito rispetto al passato e, spesso, più chiuso in se stesso e meno solidale.

Mara Martellotta

In collaborazione con http://www.pannunziomagazine.it/

(Foto: Diocesi di Torino)

L’esempio di Tobagi quarant’anni dopo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Sono passati 40 anni dall’omicidio del giornalista del “Corriere della Sera” Walter Tobagi, ammazzato da un gruppo terrorista minore  dell’area eversiva della sinistra, composto anche da giovani di buona famiglia che uscirono dal processo con pene ridicole rispetto ad un omicidio così barbaro, collaborando e dissociandosi 

Tobagi era un mite, un tollerante, un giornalista indipendente che non si lasciava condizionare , ma era sempre alla  ricerca della notizia e dell’approfondimento. Tra i tanti giornalisti settari degli Anni Settanta che fecero della demagogia militante la loro missione, il cattolico e simpatizzante socialista Tobagi seppe distinguersi nettamente. I suoi articoli erano delle analisi lucide e spassionate. Celebre quella in cui sondò la “pancia” della provincia lombarda  nel 1976, mettendo in evidenza la rabbia della gente comune verso la politica alla vigilia del Governo di unità nazionale. Un preannuncio di quello che dieci e più  anni dopo sarebbe stato il successo della Lega in Lombardia.
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Tobagi ebbe il coraggio di scandagliare nel profondo le formazioni terroristiche, mettendone in evidenza errori, personalismi, mancanza di strategia politica. Fu simile a Carlo Casalegno che ebbe il coraggio di scrivere del terrorismo e della violenza come arma politica inaccettabile. Ambedue pagarono con la vita. Proprio nel  1980 Mario Soldati, neo presidente del Centro” Pannunzio”, lo invitò ad aprire ad ottobre la nuova stagione del Centro che vedeva in lui un esempio  di giornalismo fuori ordinanza. La morte il 28 maggio impedì quell’incontro che nella Torino ancora insanguinata dal terrorismo  sarebbe stato un atto di coraggio e un colpo a certo intellettualume giornalistico e universitario torinese ambiguo sul tema del terrorismo, malgrado la morte di Carlo Casalegno. Tobagi vide e denunciò la zona grigia che era attratta dai terroristi e, sotto sotto, simpatizzava con essi.  Anche certi ambienti milanesi radical- chic dimostrarono la loro
pochezza quando venne gambizzato Indro Montanelli. Erano ambienti  legati allo stesso “Corriere”  come Giulia Maria Crespi proprietaria della testata. Tobagi rilevò anche come veniva perseguitata la destra vista come il male assoluto da abbattere e verso cui era giustificata e persino doverosa la violenza come dimostrò “Lotta continua” in tante occasioni non ultima quella dell’Angelo Azzurro  dove fu vittima un giovane studente lavoratore arso vivo dalle molotov lanciate da personaggi che ancora oggi pretendono , come se niente fosse accaduto, di ricoprire ruoli pubblici .  Di fronte ad un grave episodio di intolleranza (ma poi ci furono anche dei morti tra i missini) nei confronti di un giovane di destra,  Tobagi andò a intervistare due coscienze dell’Italia civile: Arturo Carlo Jemolo e Norberto Bobbio. Riporto le loro dichiarazioni perché indicano la scelta della democrazia e della tolleranza che è il lascito più grande di Tobagi. Jemolo disse: <<Qualunque pensiero politico è libero e legittimo, anche se discordante con la Costituzione, purché non inciti direttamente al crimine >>. E Bobbio a sua volta disse <<Non riesco a vedere  una ragione plausibile per trattare il fascista in modo diverso da qualsiasi altra persona >>.
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Lezioni rimaste inascoltate che ci indicano il   metodo  liberale della tolleranza praticato in quegli anni solo da Marco Pannella. Nel maggio del 1978 lo conobbi di sfuggita in un convegno del “Mulino” a Bologna in cui si discuteva del compromesso storico e  il mio amico e maestro Nicola Matteucci prese le distanze da altri suoi colleghi cattolici progressisti,  aperti a quell’ipotesi nefasta che avrebbe creato in Italia la “Repubblica conciliare”  di cui parlava Spadolini. Me lo ricordo molto diverso da tanti giornalisti che conoscevo. Se non fosse stato ucciso a 33 anni, sarebbe stato un nuovo Ronchey senza l’esperienza internazionale e la cultura di Alberto, ma uguale a lui nello scrupolo nel cercare e controllare le notizie per rispetto della verità e dei lettori. Sarebbe potuto diventare un ottimo direttore del “Corriere della Sera” come Piero Ostellino , anche se dubito che una direzione Tobagi sarebbe potuta durare molto. Certo sarebbe potuta essere una direzione totalmente opposta a quella di Piero Ottone che aprì alla demagogia il giornale che fu di Luigi  Albertini. Il suo fu un esempio che i giornalistini che imperversano nelle televisioni con il loro becero e arrogante protagonismo, non conoscono e non saprebbero praticare per mancanza di professionalità, di cultura  e di umiltà. Ricordo un piccolo particolare forse insignificante per molti ma per me allora illuminante. Tobagi portava la cravatta in tempi in cui ci si presentava in tv in maniche di camicia come si fa oggi, dimostrando trascuratezza e spavalderia anche nel modo di vestire oltre che di parlare e di scrivere.  Un elemento piccolo piccolo certo, ma manifestazione di uno stile che in quegli anni si era perso del tutto.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Pacchi alimentari, a Volpiano 300 famiglie assistite

Per accedere al servizio è necessario presentare domanda

A partire da mercoledì 27 maggio la consegna dei pacchi alimentari alle persone in difficoltà economica di Volpiano, che hanno fatto richiesta Comune, viene effettuata esclusivamente al mercoledì mattina, dalle 8.30 alle 11.30 nel salone parrocchiale dell’Oratorio San Giuseppe (via Re Arduino 6), e non più al lunedì e al venerdì.

L’iniziativa è cominciata lunedì 6 aprile per alleviare le situazioni di disagio conseguenti all’emergenza Coronavirus ed è gestita dal Comune in collaborazione con la Caritas, nell’ambito della convenzione tra l’ente, la parrocchia e l’Unione Net, facendo seguito alle indicazioni del governo. Ad oggi sono circa 300 le famiglie che vengono assistite, tramite la fornitura di pacchi alimentari contenenti prodotti provenienti dalla colletta alimentare e dagli acquisti effettuati con i fondi comunali e statali.

Commenta il sindaco di Volpiano Emanuele De Zuanne: «Siamo soddisfatti che le scelte fatte al principio di questa emergenza ci consentano oggi di continuare ad erogare questo servizio con i fondi iniziali, senza ricercare nuove forme di finanziamento, perché per molte persone è ancora necessario ricorrere a questo strumento per superare le difficoltà, e ringrazio i volontari che si stanno impegnando affinché la distribuzione dei pacchi alimentari avvenga regolarmente».

Assembramenti: per le Frecce sì, nei ristoranti no

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  / Appare davvero irresponsabile la decisione del ministro della Difesa di far sorvolare delle città italiane ancora in lotta con il Coronavirus   dalle “Frecce tricolori”

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Forse voleva essere un segno di serenità, di ripresa  e anche di patriottismo condivisibile, ma a Torino, ad esempio, questa sorvolata ha avuto effetti devastanti con assembramenti vietati che contraddicono la severità adottata nei confronti di cinema e teatri chiusi e che, se riapriranno, dovranno soggiacere a norme difficilmente praticabili. Gli stessi ristoranti combattono per la loro sopravvivenza a causa di restrizioni spesso incompatibili con i locali. In questo caso ogni norma contenitiva non è stata fatta rispettare.
In piazza Vittorio, sul ponte Vittorio, nella stessa via Po e soprattutto sui gradini della Gran Madre c’ è stato un affollamento del tutto illegale ,molto peggiore della già deprecabile  movida provocata da giovani che arrogantemente e impietosamente ritengono che il virus colpisca solo gli anziani. Cosa ha deciso il presidente della Regione, cosa il prefetto, cosa il questore, cosa il sindaco di Torino (che adesso si lagna tardivamente)? Sembra nulla per prevenire quanto è accaduto. Ma andava fatto un  rapido passo presso il ministro per evitare il sorvolo del tutto non necessario.I torinesi non avevano bisogno di “Frecce tricolori”, ma di più mascherine e tamponi, di più efficienza delle strutture sanitarie. E invece è stata loro offerta un’occasione che può allargare il contagio. Una situazione davvero incomprensibile ed emblematica dello sbandamento della fase 2. Se il 3  giugno non potremo recarci in Liguria, dovremo dir grazie a chi non ha prevenuto atti e violazioni davvero irresponsabili che hanno dimostrato l’immaturità di parte dei torinesi, ma soprattutto di chi dovrebbe impedire che accadano fatti come questo.
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(foto C. Bernardinelli)

Azienda torinese chiede i danni alla Cina

Causa alla Repubblica Popolare Cinese ed in solido al Laboratorio di Wuhan intentata da una società torinese

Parte da Torino una causa civile intentata da una società torinese verso la Repubblica Popolare Cinese ed in solido verso il Laboratorio di Wuhan per la richiesta di risarcimento danni.

“Per conto di una società torinese di trasporto su gomma – spiega l’avvocato Alex Gilardini del Foro di Torino – ho notificato, insieme al collega avvocato Francesco Curro’ del Foro di Roma, in collaborazione con lo studio legale statunitense Berman Law Group, un atto di citazione per richiesta danni alla  Repubblica Popolare Cinese, al suo Ministero della Sanità Pubblica, al Ministero dell’Amministrazione dell’Emergenza ed al Ministero degli Affari Civili della Repubblica Popolare Cinese, al Governo della Provincia di Hubei, al Governo della Città di Wuhan ed all’Istituto di Virologia della medesima città, oltre che alla sua Accademia Cinese delle Scienze”.

“La suddetta domanda giudiziale – precisa l’avvocato Alex Gilardini – pari ad euro 1.371.145 ,50 è  stata calcolata considerando il mancato guadagno subito dal cliente nei mesi di lockdown, dovuti all’emergenza sanitaria causata dal Covid 19. Nell’atto di citazione, anche grazie al materiale ricevuto dallo studio legale statunitense (che negli States ha già avviato molteplici azioni similari contro le istituzioni cinesi) si vuole dimostrare sia la responsabilità della Repubblica Popolare Cinese nel non aver prontamente diffuso la notizia della pandemia, che avrebbe evitato una così letale diffusione del virus, sia la medesima responsabilità che fa capo all’Istituto di Virologia di Wuhan per non aver parimenti prestato le dovute attenzioni”.

“Ritengo – conclude l’avvocato torinese Alex Gilardini – che nessuna causa finora in Italia sia stata radicata in solido contro sei istituzioni cinesi e contro il laboratorio di Wuhan prima di questa”.

Mara Martellotta

Covid – 19, raccolta fondi del Comitato Aurora

Il Coordinamento nasce da un’idea dell’Associazione Arteria Onlus sostenuta da ActionAid Italia, in collaborazione con Cecchi Point, AuroraLAB del Politenico di Torino, Centro Studi Sereno Regis e Cooperativa Labins. Aderiscono associazioni, comitati, singoli cittadini e insegnanti di Aurora che dall’inizio del lockdown si sono mobilitati per cercare di dare risposte ai bisogni della popolazione di Aurora.

 

Riceviamo e pubblichiamo – L’obiettivo è sperimentare nuove forme di collaborazione tra realtà e cittadini attivi di Aurora e Porta Palazzo, favorire lo scambio di idee, mappare i bisogni della popolazione attraverso la condivisione di informazioni tra le realtà socio-educative che partecipano al Coordinamento e in raccordo con i Servizi territoriali.

In queste settimane, diverse associazioni hanno dato sostegno alimentare e di beni di prima
necessità a più di 700 nuclei, molti con minori a carico, del quartiere Aurora e delle aree
limitrofe.

Sono stati consegnati ad alunni dell’Istituto comprensivo Torino II, 280 pacchi di materiale
didattico (libri e materiali di cancelleria) rimasto chiuso nelle scuole.

Nell’I.C. Torino II circa 700 allievi su 1100 seguono la didattica a distanza utilizzando
esclusivamente un cellulare, quasi sempre di proprietà di un genitore, e in condivisione
con altri fratelli.

Per far fronte a questi bisogni, il Coordinamento promuove l’avvio di una raccolta fondi, per
l’acquisto di beni di prima necessità destinati alle persone più fragili del quartiere, in
particolare chi non ha ancora avuto accesso alle misure di sostegno attivate dalle istituzioni
(buoni spesa, pacchi degli snodi), compresi i soggetti “invisibili”, come le persone senza
residenza e senza documenti.

Oltre che all’acquisto di cibo e beni di prima necessità – con un’attenzione ai prodotti per la
prima infanzia – i fondi serviranno anche per acquistare prodotti di cancelleria e device
tecnologici (es. connessioni internet), per facilitare l’accesso alle attività didattiche a
distanza.

La proposta gestionale del fondo vuole essere innovativa: sarà infatti un fondo comune
gestito dalle associazioni del Coordinamento in modo collegiale.

Servirà a sostenere le attività delle diverse organizzazioni che, dall’inizio dell’emergenza,
hanno riorganizzato la propria attività avviando in modo autonomo diverse iniziative di
raccolta fondi destinate all’acquisto e alla distribuzione di cibo e beni di prima necessità da
distribuire alle famiglie di Aurora.

E possibile donare sul conto corrente dedicato intestato a Associazione Fuori di Palazzo –
Banca CRS – IBAN IT79U0630501000000110158062
info: www.cecchipoint.it – coordinamentoaurora2020@gmail.com

In questo momento di grande difficoltà noi volontari, nel nostro piccolo, cerchiamo di
collaborare andando incontro alle esigenze di tante famiglie in situazione di disagio
economico nell’affrontare le problematiche quotidiane, non solo per quanto riguarda la spesa
ma anche cercando di coinvolgere la società con donazioni di materiale utile per le attività
scolastiche dei più piccoli. Denise – volontaria dello Spazio Alimentare Cecchi Point.

Grazie alla collaborazione di volontari e maestre ed alle azioni di coordinamento condotte, si
è potuto far fronte, almeno in parte, ad una situazione del tutto inaspettata che ha lasciato
alunni, famiglie ed insegnanti sospesi nell’isolamento e privi, molto spesso, di riferimenti e
risorse. L’intervento (…) ha fatto sì che a moltissime famiglie e bambini del territorio
provenissero aiuti di vario genere. È stato possibile recuperare e recapitare i libri scolastici e
reperire fondi e strumentazioni per le famiglie prive di devices (per la didattica online).
Liliana Bono – insegnante di Scuola Primaria presso ICTorino2.

PARTECIPANTI AL COORDINAMENTO:
Casa del Quartiere Cecchi Point, Fondazione di Comunità Porta Palazzo, Arteria,
Educadora, Eco dalle Città, Ufficio Pastorale Migranti, ASAI, Camminare Insieme,
Associazione Pakistan Piemonte, ACFIL , Panafricando, Mosaico, Associazione Islamica
delle Alpi, Comitato CCQA, AuroraLAB – Politecnico di Torino, Piemondo – progetto VivoIn –
Rete di Comunità Barriera/Aurora, Comitato Oltrelabarriera, CasArcobaleno, insegnanti delle
scuole del quartiere, Almaterra, ARQA, Zhi Song, Fondazione UCI, Collettivo Ultramondo,
Bricocenter Via Cigna, Eatnico, YEPP Porta Palazzo, coabitazione Sorgente – Acmos,
Comunet Officine Corsare, Frati Madonna di Campagna, Spazio Alimentare del Cecchi
Point, Fuori di Palazzo, Officine Creative Torino, QuintaTinta, Videocommunity, Tekhnè,
Associazione Gambiani Torino, Orizzonti in Libertà – Casa Umanista

Il virus che ha contagiato la giustizia mette a rischio i diritti dei cittadini

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni / La situazione del CSM  e non solo, ma anche quanto avviene al Ministero della Giustizia, appare sconcertante. Giletti nella sua trasmissione televisiva domenicale ha ulteriormente documentato opacità scandalose emerse  da nuove  intercettazioni.

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Sembra quasi paradossale che i sostenitori delle intercettazioni a strascico siano divenuti essi stessi vittime di un sistema barbaro che viola ogni privacy  e che l’attuale ministro ha ulteriormente potenziato.
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La guerra selvaggia e senza esclusione di colpi , per correnti politiche e per bande tribali, al CSM per la spartizione dei posti appare da oltre un anno uno scandalo vistoso a cui non si è posto rimedio con lo scioglimento dell’attuale CSM. Torna alla memoria che il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ebbe il coraggio di sospendere la delega al vicepresidente del CSM  Giovanni Galloni, un democristiano di sinistra arcigno e giustizialista, e di mandare i Carabinieri a Palazzo dei Marescialli dove ha sede il CSM. Cossiga cercò come capo del CSM di arginare lo strapotere dei magistrati, denunciandone in alcuni casi  anche la faziosità politica. Poi si dimise da Presidente della Repubblica e l’Italia ebbe la disgrazia di avere un presidente ex magistrato nella persona di Oscar Luigi Scalfaro che sostenne il pool di Milano, Borrelli e Di Pietro che distrussero per via giudiziaria l’assetto democratico del Paese che solo gli elettori avevano il diritto di cambiare. La Magistratura si sostituì al potere sovrano del popolo con un’azione in cui le regole inquisitorie adottate portarono  a dei suicidi : incarcerare le persone perché confessassero fu la regola di comportamento dei giudici milanesi sostenuti da Scalfaro e da tanti giornalisti faziosi.  Il coraggio di Cossiga non bastò a fermare la furia giustizialista che ottenne il massimo appoggio del Quirinale con Scalfaro  presidente il quale non fu mai super partes. Oggi vanno ricordate queste pagine di storia, auspicando che ci siano interventi rapidi, decisi e severi soprattutto in Parlamento a tutela di una giustizia giusta. Le mozioni di sfiducia contro il ministro Bonafede non sono passate, ma gli errori gravi e le sue scelte demagogiche non possono essere archiviate. Oggi la Giustizia in Italia vive anch’essa una pandemia, ma le vittime sono i cittadini e i loro diritti.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

La libertà è una camminata veloce (senza mascherina)

Sabato.
Metà pomeriggio.
Come al solito di corsa e trafelata.
Con la vita che faccio devo camminare almeno un po’ nel week end.

Parto come un fulmine dopo aver spiegato ad un amico che una camminata veloce non è la stessa cosa di una passeggiata. In effetti la camminata veloce, che è una attività motoria intensa, è spesso confusa con la “classica passeggiata” che rappresenta invece una mera forma ricreativa.

E lui le confonde continuamente e mi distrae.
Sono in fondo alla via quando mi accorgo di essere uscita senza mascherina.
Ahimé!…

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La libertà è una camminata veloce (senza mascherina)

Il vissuto psicologico della Pandemia

Ciò con cui siamo chiamati a raffrontarci in questo determinato periodo storico, come individui e come società, la pandemia, può essere delineato come un evento a portata traumatica collettiva.

Ognuno di noi, infatti, può rinvenire tra i propri vissuti interiori la paura della morte, propria o dei propri cari, il senso di precarietà e di incertezza sul futuro, dovuti allo spettro della recessione economica, la percezione costante del pericolo collegata allo stato di emergenza; siamo sottoposti ad uno stress continuativo, al quale contribuiscono significativamente e concretamente anche la sottrazione della nostra autonomia, le limitazioni alla nostra libertà e la deprivazione sociale.

Il trauma generalmente viene inteso come un avvenimento che supera le nostre capacità di significarlo e di reagire ad esso, qualcosa che impegna le nostre difese in maniera eccessiva e che irrompe bloccando il flusso regolare del nostro essere nel mondo; ciò che può essere messo in discussione è, in questi casi, il senso di continuità del nostro Sé, cioè la sensazione di essere sempre noi stessi al di là dello scorrere del tempo e dell’avvicendarsi di differenti contesti, si tratta quindi di una caratteristica fondamentale del Sé, sulla quale poggia la nostra stessa identità e la nostra esistenza.La pandemia, con tutto ciò che essa implica, porta però anche con sé delle peculiarità rispetto ad altri eventi a valenza traumatica collettiva, come ad esempio la guerra, e rispetto all’esperienza che facciamo di essa; infatti la minaccia di cui si fa portatrice è invisibile, il nemico non può essere riconosciuto e affrontato direttamente ma può celarsi dietro chiunque, quindi chiunque può essere, di fatto, il nostro nemico; inoltre lo stato di emergenza non può essere delimitato, la sua durata  è indefinita, la minaccia è quindi impercettibile e perenne. Questi presupposti di per sé pongono sotto forte tensione il nostro funzionamento mentale, mettendo a dura prova il nostro assetto psicologico. La vulnerabilità umana diventa la protagonista, a scapito del senso di controllo e dell’illusione di onnipotenza che caratterizzano peculiarmente l’uomo contemporaneo, provocando una ferita narcisistica che ci impone di misurarci con il limite e ci consegna incertezza, smarrimento e frustrazione. Ad un livello più profondo, ciò con cui dobbiamo confrontarci nel nostro vissuto psicologico è l’angoscia di morte, il senso della caducità intrinseca alla condizione umana, che il pericolo imminente e invisibile del virus ci presenta davanti agli occhi con prepotenza, senza darci la possibilità di ignorarla; angoscia di morte che è abitualmente rimossa dagli individui in condizioni di “normalità”, per favorire un assestamento psichico ottimale. Ciò che accade è che l’ansia e la paura scaturenti da tale situazione intrapsichica possono andare incontro a varie strategie difensive, come ad esempio: negazione, scissione, evitamento, intellettualizzazione, rimozione, con conseguenze più o meno funzionali ed adattive, in base alla loro modalità di utilizzo e al perdurare di esse nel tempo, due condizioni in base alle quali può strutturarsi il trauma.

Nel tempo però, necessitiamo alla base di un’elaborazione psicologica più complessa ed efficace, che implica un lavoro mentale più articolato ed impegnativo. In generale potremmo dire che è necessario andare oltre la posizione schizo-paranoide della psiche ed accedere a quella depressiva, all’interno della quale è possibile il superamento dei meccanismi di difesa arcaici e il rinvenimento dell’”altro da sé”, in una posizione più evoluta, attraversando e compiendo cioè la fase dell’elaborazione del lutto. Elaborazione del lutto innanzitutto per i nostri morti, che ci è stata significativamente e concretamente impedita nell’impossibilità di dar luogo al rito dei funerali, ma, simbolicamente, elaborazione del lutto per ciò che era, in tutti i vari ambiti possibili del mondo che è stato colto dalla pandemia, cioè dal punto di vista sociale, culturale, economico, relazionale. Il punto fondamentale da cui partire è l’accettazione della perdita, e questo passaggio non può e non deve essere evitato, perché è la base necessaria per una rinascita e una ripartenza possibili, che siano individuali e collettive. Vi è nell’integrazione degli aspetti psichici e della realtà più sgradevoli e dolorosi la possibilità intrinseca dell’evoluzione, aspetti che nel momento in cui vengono rifiutati, non ci permettono, invece, di venire a patti con essi. Soltanto tale posizione della mente può prepararci ad affrontare il “nuovo”, può consentirci di procedere tangibilmente ed utilizzare quelle che possono rivelarsi delle effettive opportunità di crescita, mantenendo una prospettiva aperta rispetto alle differenti possibilità insite nel nostro futuro più o meno prossimo; la nostra disposizione deve quindi e innanzitutto assumere in sé stessa il cambiamento e farsi carico dell’imprevedibilità che in questo momento ci viene imposta ma che di per sé è una dimensione intrinseca alla condizione umana, con cui dobbiamo costantemente misurarci. Può venirci in aiuto, a tal proposito, un’attitudine di cui parla Bion (1967) : la “capacità negativa” , che è una condizione che dovrebbe far propria l’analista rispetto alla tecnica analitica, ma che in generale riguarda la capacità di stare nell’incertezza, che comporta anche il tollerare la rinuncia ad una soluzione salvifica, ad un’inquadratura definitiva e razionale e quindi all’illusione di dominio e di controllo, accettando il dubbio, la problematicità e lo smarrimento, ma rimanendo, nel contempo, nel processo della conoscenza, con la consapevolezza dei suoi limiti e delle sue contraddizioni, permettendo così il mantenimento di un funzionamento psichico vitale, nel voler comprendere e reagire. Tale auspicabile iter può tuttavia non venire proprio intrapreso o può interrompersi in più fasi, generando disturbi d’ansia e depressivi, o amplificando i disturbi già presenti. Bollas (2018) mette in evidenza, come nella Seconda Guerra Mondiale la capacità di percepire la perdita fu alterata e si tramutò in uno stato di “malinconia misconosciuta” e inconscia, il lutto irrisolto finì quindi per trasformarsi in disperazione, disorientamento e rabbia, anche se apparentemente sembrava non esserci alcun contatto con il dolore per la perdita di alcun che; soluzione esemplificativa della tipologia di individui “normopatici”, di cui tratta l’autore.

Dalla prospettiva di non bloccare la processualità insita nel vissuto psichico sollecitato dalla pandemia, e rinunciando ad un’idealizzazione del passato e del futuro come immagini statiche nelle quali si cristallizzano gli aspetti proiettati dei nostri desideri non ancorati all’esperienza che siamo chiamati a vivere nel presente, potremmo prendere ispirazione per recuperare l’opportunità di pensare e ri-pensare al nostro futuro pur non potendolo programmare in maniera abituale; eppure, come abbiamo visto, le limitazioni da un certo punto di vista possono essere viste come delle opportunità, infatti se da una parte l’isolamento forzato e la deprivazione sociale portano con sé sicuramente un aumento del malessere psicologico, dall’altra, la frenata negli impegni lavorativi e sociali e l’interruzione del comportamento consumistico, rappresentano anche una dilatazione temporale che ci conduce a doverci confrontare con delle dimensioni intrapsichiche, a favorire processi mentali introspettivi e trasformativi, riprendendo delle questioni e tematiche rimaste sullo sfondo, perché troppo occupati e inghiottiti dalla frenesia delle occupazioni quotidiane, per permetterne lo sviluppo. In effetti gli accadimenti esterni di tipo traumatico stimolano la riattivazione di conflitti intrapsichici, complessi irrisolti e aree del Sé dissociate che riappaiono nell’esperienza individuale cercando una nuova occasione per essere riconosciute ed analizzate. Questo tanto atteso ricominciare sembra quindi poter prendere forma a partire da un confronto con se stessi che può diventare l’occasione per ristabilire finalmente le proprie priorità, nell’ottica di una resilienza che non si realizza soltanto nella forma di una resistenza agli eventi, ma in un mutamento interiore conseguente all’aver affrontato una situazione in prima persona ed  individuabile proprio in una modifica della nostra autoconsapevolezza; e questo processo può mettersi in moto e compiersi solo come esito di una nostra scelta, sapendo anche che non sarà un percorso privo di ostacoli e di turbamento, ma forse davvero soltanto ciò che ci scuote nel profondo e che ci mette alla prova fino ai nostri limiti, può generare trasformazione.

Nel realizzare il percorso delineato, un posto importante deve essere riservato all’altro, transitando da una visione individualista e narcisistica ad una collettivistica e di partecipazione. Creando dei ponti tra noi e l’altro , infatti, riscoprendoci uniti e simili,  possiamo provare a dividere questo fardello troppo gravoso da portare in solitudine; il cambiamento non accade da soli, e, come individui, siamo naturalmente interdipendenti ed è questa caratteristica che adesso può venirci in aiuto, senza scadere in forme moralistiche e decontestualizzare di solidarietà, ma connettendoci nel presente, nel nostro ambiente relazionale più prossimo, anche attraverso connessioni digitali, se sono quelle di cui possiamo adesso servirci per mantenere vivo il legame con l’altro. A tal proposito, dice Bion: “e così il catalizzatore che fa emergere l’esperienza emotiva è il legame tra un essere umano e l’altro. È da questa esperienza emotiva che poi prenderà il via un processo di pensiero o una scarica. Senza i legami non ci sarebbe nessuna esperienza emotiva. E senza di essa nessuno sviluppo del pensiero. Essi sono quindi la pietra delle fondamenta senza la quale non ci sarebbe nessun edificio”. Quale circostanza migliore di questa, quindi, per scoprire o riscoprire l’imprescindibilità dei legami? In quanto esseri umani le relazioni sono ciò che ci costituisce in quanto tali, ed è soltanto all’interno di relazioni che possiamo r-esistere e ri-conoscerci, ri-identificarci e ri-stabilire la continuità del sé messa in pericolo dalla pandemia. In definitiva, ognuno di noi può decidere se e come costruire un senso, dare significato alla condizione che stiamo vivendo e riconnettere il proprio vissuto attuale con la propria storia passata e futura, come parte integrante di un tessuto relazionale in cui rispecchiarsi, ritrovando in questo modo noi stessi e gli altri attraverso il tempo.

Antonella Basile

psicologa clinica

Contatti:
antonellabasile.psy@gmail.com
351 776 8555

Settembre Nero

PAROLE ROSSE  di Roberto Placido / Da cinquant’anni evoca e viene usato per indicare situazioni tragiche in ricordo di quanto successe in Giordania nel lontano 1970. E’ quello che succederà dal prossimo 1 settembre alla scuola italiana.

Perché è sempre più chiaro che il prossimo settembre la nostra scuola non riaprirà. La pandemia di Covid 19 ne ha amplificato i problemi, i ritardi e le difficoltà. Molti hanno pensato di potere risolvere tutto con il cosiddetto DAD ( didattica a distanza ). Ma anche con l’insegnamento a distanza si sono evidenziati ed acuiti i problemi delle diverse “Italie”. Banda larga inesistente in molte realtà, impreparazione degli insegnanti e delle scuole e un numero elevato di ragazzi senza PC (computer) o Tablet. Un’indagine effettuata a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio ha evidenziato che, tra i bambini da 6 a 10 anni, il 61% non ha effettuato nemmeno un’ora di didattica online.

Ed ancora, un terzo delle famiglie non possiede un computer e di conseguenza le linee di ADSL sono ancora meno. In questo quadro bisogna poi sottolineare tutte quelle famiglie che hanno due se non tre figli in età scolastica con la necessità di fare lezione alla stessa ora e magari con l’aggiunta di uno dei genitori in tele lavoro da casa ed il computer è solo uno. Questa situazione porta alla mente la famosa “ Lettera ad una Professoressa” di Don Milani “ Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Anche perché a distanza non è scuola, è un surrogato e cioè una …ciofeca. Il digitale e la tecnologia sono un elemento complementare dell’istruzione e non un fondamento. Meno male che , a ricordare questo importante aspetto ci hanno pensato un gruppo di intellettuali, sedici, tra i quali il filosofo Massimo Cacciari, che hanno sottoscritto un documento che chiede e ricorda che il futuro della scuola non è il DAD che, tra l’altro, aumenta le disparità ed elimina la socialità che è uno degli elementi fondamentali dell’istruzione e della formazione dei ragazzi. Insomma la scuola non è più il presidio della Nazione. Funzione prima svolta dall’esercito fino a quando c’è stata la leva obbligatoria. La Nazione è rimasta così senza presidio, sguarnita. In questa fase, può sembrare incredibile, spesso si sono distinti negativamente una parte del corpo docente e soprattutto il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina. Approdata in Parlamento dopo essere stata paracadutata, dal suo capo cordata Luigi Di Maio, da Biella, dove insegnava, a Torino e poi posta, casualmente, alla guida del ministero di Viale Trastevere in seguito alle dimissioni del suo predecessore Lorenzo Fioramonti. Da quel ministero, ritenuto una volta “ di peso” e ad appannaggio della vecchia Democrazia Cristiana, sono passati oltre una trentina di ministri, politici e tecnici di grande prestigio come Aldo Moro, tre futuri Presidenti della Repubblica come Antonio Segni, Oscar Luigi Scalfaro e, l’attuale, Sergio Mattarella fino ad uno dei più recenti e prestigiosi, accademico e linguista, Tullio De Mauro.

Anche da questi dati si percepisce la distanza siderale tra quei ministri e quello attuale ed i guai della nostra scuola. Un ministro, Lucia Azzolina, che in più di un’occasione ha dimostrato l’assoluta inadeguatezza ed incapacità. Lo si può chiedere agli assessori regionali all’istruzione, lasciati, nello sconcerto generale, improvvisamente da soli nel bel mezzo di una riunione. La coalizione di governo ed il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte si dovrebbero porre il problema, urgente, della sua sostituzione. Così sono passati tre mesi senza impostare una strategia complessiva che coinvolgesse le regioni, che hanno la delega sulla materia, i comuni e le città metropolitane che hanno la responsabilità della manutenzione degli edifici delle scuole superiori. Un piano anche ambizioso che sfruttasse l’emergenza per recuperare i tagli e la mancanza di finanziamenti degli ultimi anni. La sbornia aziendalista dell’ultimo decennio ha colpito duramente sia la Sanità, e ce ne siamo drammaticamente accorti in questa circostanza, che l’Istruzione. Un piano che preveda il recupero di edifici scolastici in disuso e da mettere in sicurezza, attrezzature e reti informatiche, ed un numero adeguato di docenti. Proprio sui docenti, in una situazione di emergenza, stiamo assistendo ad un braccio di ferro tra i partiti della maggioranza per l’assunzione di 32.000 docenti e cioè se farlo per titoli, assumendo i precari che già insegnano oppure, come prevede la legge, per concorso. In tutto questo rimane una certezza, a settembre non ci saranno. Così, un governo che ha fatto riaprire e ripartire praticamente tutto, aziende, bar, ristoranti, impianti sportivi, palestre e parrucchieri, che ha dato soldi, in qualche caso a pioggia, dalle Partite Iva ai Tatuatori, non ha riaperto le scuole e gli ha dato le briciole in termini di finanziamento. Dei 55 miliardi stanziati alla scuola , con l’immane lavoro da fare sono stati destinati solo 1,45 miliardi. Cioè molto meno della percentuale che riceve normalmente e che da tutti è ritenuta ampiamente insufficiente. Pochi, non maledetti e che nemmeno riusciranno a spendere entro settembre. Insieme al ministro ha segnato il passo dimostrando insufficienza, ritmi inadeguati ed una generale impreparazione la struttura burocratica del ministero.

Rimasta più con i piedi e la mente al secolo scorso ed alle circolari ministeriali a cui seguivano, immancabilmente, le circolari esplicative che lasciavano il dubbio se inviate perché si rendevano conto di scriverle in maniera incomprensibile e se ritenessero dirigenti e funzionari delle scuole incapaci di capire. Tra dirigenti, , CTS (comitato tecnico scientifico), Consiglio Superiore dell’Istruzione ed una pletora di consulenti hanno prodotto, poco, lentamente e male. Hanno favorito la riluttanza di molti docenti, un’indagine parla del 70% contraria a riprendere l’insegnamento diretto, adducendo l’elevata età media degli insegnanti. Sconsigliando le sessioni d’esame in diretta. Fortunatamente invece si faranno. Mi chiedo ma quei docenti vanno a fare la spesa, affollano le parrucchiere, vanno per negozi o per strada? Perché , rispettando le norme, non possono fare gli esami? Per inciso l’INAIL ( Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) ha classificato la scuola, insegnanti compresi, a rischio medio-basso. E cosa dire di quegli insegnanti che hanno interrotto velocemente l’aspettativa quando hanno scoperto che le lezioni si svolgevano online?! Così molti precari sono rimasti a casa senza lavoro. Senza dimenticare la levata di scudi per fare tutte le vacanze pasquali quando le scuole erano chiuse da settimane. Al ministro, a tutto il suo ministero, consulenti compresi, gli italiani chiedono e vogliono sapere, ed hanno cominciato a farlo anche con manifestazioni nelle principali città, se dal 1 settembre i bambini delle materne, i ragazzi delle elementari e medie e gli studenti delle superiori avranno un aula sicura ed un insegnante.

Forse qualche bonus in meno e qualche aula ed insegnante in più non guasterebbero. Ritornando sugli esami, poteva essere, quella di fare ritornare le classi quinte delle superiori, un quinto degli studenti, e le classi terze delle medie, un terzo degli studenti, quanto prima a scuola proprio i vista degli esami, un segnale di funzionamento e di preparazione per tutta la scuola e per tutto il paese. Invece con ritardi, scuse e resistenze è andata, purtroppo, come sappiamo. Lo stesso Sindacato deve decidere se difendere, in alcuni casi, rivendicazioni corporative o lanciare ed attuare un’alleanza con gli studenti e con le famiglie che invece rischiano di essere lasciate sole nella gestione dei figli. Una struttura inefficace unita ad un ministro privo di autorevolezza e preoccupata più di fotografarsi e rilanciare commenti con personaggi discutibili e controversi oppure di rispondere, senza capirne il senso vero, ad un Tweet della simpatica e brava Sabina Guzzanti, non possono e non sono in grado di affrontare la sfida ed i problemi che ha davanti la nostra scuola. Sarebbe necessario un grande sforzo, una grande capacità ed intelligenza organizzativa e strategica per recuperare spazi, edifici, insegnanti, per fare partire la scuola in sicurezza, anche in prossimità delle famiglie. Un settore strategico per il presente e per il futuro del nostro paese non può essere abbandonato a se stesso. Non si possono penalizzare intere generazioni. In queste condizioni il primo settembre la scuola, nel senso tradizionale, non riprenderà e sarà una vera tragedia. Ecco il perché di un titolo così evocativo, tragico e funesto.