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L’eclissi liberale

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Valerio  Zanone nel dicembre 2015, poco tempo prima di morire, mi scrisse una mail in cui mi diceva che il nostro mondo liberale forse era finito. Una confessione quasi incredibile per uno che aveva dedicato la vita al liberalismo. C’era chi esagerando e, forse, ironizzando lo chiamava il nuovo Benedetto Croce, come il mio amico Mario Altamura.

Non era Croce, ma sicuramente era un uomo di rara sensibilità intellettuale e culturale. A cinque anni di distanza quella conclusione amara di Valerio, forse anche anche condizionata dalla grave malattia che lo porterà alla morte, si rivela più attuale che mai 

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Il Governo Conte è quanto di più illiberale ci possa essere. E nessuno esprime più una linea liberale autentica e dal vocabolario politico è scomparso l’aggettivo liberale. Forse è rimasto qualche cattolico liberale che non è certo Renzi. I grillini nelle loro diverse versioni sono illiberali per definizione, in particolare sulla Giustizia. Il PD si è spostato verso una sinistra che vorrebbe allearsi stabilmente con i grillini. L’opposizione è egemonizzata da forze sovraniste e populiste che hanno un retrogusto profondamente illiberale.  Forse con qualche reminiscenza liberale è rimasta Emma Bonino che pure ha abbandonato la lezione liberale di Pannella. Invecchiando, come il vino, migliora ogni giorno. Qualche volta in Senato Emma fa sentire la sua voce, ma è isolata. Un’altra voce, in questo caso istituzionale , è il Presidente del Senato Elisabetta Casellati, donna davvero super partes che difende i princìpi dello Stato liberale. La “terza forza” laica, liberale, socialista della Prima Repubblica si è totalmente dissolta. E anche il centro è totalmente scomparso. E’ ricomparso un bipolarismo zoppo in cui il centro non c’è più. E questo è un male grave perché le democrazie liberali hanno il loro baricentro -scusate il bisticcio – proprio al centro. Vent’anni fa anche gli ex comunisti si dichiaravano liberali . Oggi nessuno usa più quell’aggettivo che storicamente è anche un sostantivo. E’ davvero morta l’idea liberale ? Io non lo penso. Lo dico da storico e non da liberale. L’idea liberale è destinata a risorgere dopo le confusioni dei tempi calamitosi che viviamo. Lo stesso periodo della pandemia ci ha mostrato il valore della libertà e i limiti illiberali di una decretazione d’urgenza che scavalca il Parlamento e che, rara avis, l’ex presidente del Senato Pera ha colto con un suo intervento molto autorevole. La rivista “Libro aperto” fondata da Giovanni Malagodi e diretta magistralmente  da Antonio Patuelli rappresenta il presidio più importante della cultura liberale intesa crocianamente come pre-partito. Patuelli è il garante di una continuità liberale che fa ritrovare insieme  donne e uomini che vivono il liberalismo in modo diverso. La sua rivista ripercorre con fedeltà la storia del pensiero liberale e dei suoi esponenti più importanti . Senza questa rivista i liberali si sarebbero dispersi in mille rivoli. Rappresenta qualcosa di simile a ciò che fu “ Il Mondo” di Mario Pannunzio. A tenere viva la fiaccola sotto il moggio sono le Scuole di liberalismo di un liberale duro e puro come Enrico Morbelli.  Molti giovani le frequentano e i liberali superstiti dai cinquanta in giù quasi sempre provengono dalle Scuole di Morbelli,come ad esempio, Nicola Porro. Persino le due Fondazioni intitolate ad Einaudi non seguono da tempo le “prediche inutili” del Maestro di Carru’. Ma l’idea liberale non può morire. Non saranno due o tre untorelli di sinistra e di destra a farla dissolvere. E’ la storia stessa dell’Europa e dell’Occidente a dircelo, al di là delle sbandate sciovinistiche e di un’economia finanziaria attualmente egemone che è la rovina dell’Europa. L’idea insopprimibile della libertà – diceva Croce durante il fascismo – è destinata a vincere. Era per Croce la religione della libertà.
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L’isola del libro

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Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Natasha Solomons  “Casa Tyneford”    -Neri Pozza –  euro 18,00

Se avete amato il precedente “I Goldbaum” della scrittrice inglese, non perdetevi questo romanzo che vi trascina nelle vicende agrodolci della giovane protagonista, sullo sfondo di un’incantevole campagna inglese, con il rimbombo della Seconda Guerra Mondiale.

Lei è la 19enne Elise Landau, vive a Vienna in una famiglia dell’alta borghesia ebraica, coccolata figlia della stella dell’Opera Anna e del noto scrittore Julian. A incombere sulle loro esistenze ci sono l’antisemitismo e il presagio del conflitto. Siamo nel 1938 all’indomani dell’Anschluss, l’annessione tedesca dell’Austria, che non promette niente di buono.

Per metterla in salvo i genitori la mandano in Inghilterra, dove lavorerà come cameriera nella splendida dimora, affacciata sul mare, del signore del luogo Mr. Rivers.

Gli inizi sono difficili, lei non è abituata a servire, semmai il contrario e, soprattutto, patisce la solitudine e la lontananza dalla famiglia il cui destino è incerto, in attesa di fantomatici visti per l’America.

Poi le cose cambieranno.

C’è molto di Dowton Abbey in queste pagine sospese tra, da un lato, la vita della nobiltà inglese con i suoi rigidi ruoli e riti e, dall’altro, le giornate faticose della numerosa servitù ai comandi di rigorosi maggiordomo e governante.

Un ritratto storico-romanzato dell’Inghilterra prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale che spariglierà le carte e finirà per decretare i destini dei protagonisti e della splendida Tyneford. Centrali sono le figure del riservato padrone di casa Mr. Rivers e dell’esuberante figlio Kit, entrambi consapevoli che Elise, per nascita ed educazione, è molto più di una domestica.

Nel romanzo ci sono l’amore, la tragedia e soprattutto la narrazione del viale del tramonto di uno stile di vita che perde smalto e patrimoni. E vi entrerà nel cuore Elise, giovanissima ebrea viennese trasportata oltre la Manica, vista con sospetto dal governo britannico al deflagrare del conflitto. Un’eroina piena di sentimento e coraggio, romantica, forte, coraggiosa tenace e leale. E a Tyneford l’attende un futuro di cui non anticipo nulla, ma state pur certi che vi sorprenderà…

 

David Grossman  “La vita gioca con me”    -Mondadori –    euro 21,00

In questo romanzo lo scrittore israeliano travalica il confine tra vita vera e finzione letteraria. Si ispira all’esperienza di Eva Panic Nahir, personaggio importante nell’ex Jugoslavia. Partigiana comunista, croata ed ebrea, che sotto Tito fu rinchiusa nel buco nero della prigione di Goli Otok, poi emigrò in un kibbutz israeliano. Morta qualche anno fa, è la protagonista di un documentario israeliano del 2003.

Grossman l’ha conosciuta, ha raccolto la sua storia, poi l’ha romanzata in un affresco familiare attraverso tre generazioni di donne.

Sono Vera (Eva), Nina e Ghili che si ritrovano nel kibbutz per festeggiare i 90 anni di Vera. E’ l’inizio di una drammatica resa dei conti che affonda gli artigli nelle vite delle protagoniste e transita nelle immagini di un documentario che Ghili – cineasta mancata e figlia abbandonata di Nina- gira sulla complicata storia della famiglia: intrisa di scelte drammatiche, distacchi, dolorose assenze e ritorni… che scoprirete strada facendo.

E sullo sfondo c’è l’ispirazione continua a Eva (nel romanzo è Vera) che ha davvero vissuto una storia d’amore come ce ne sono poche. Il suo primo marito, Rade, si suicidò nel 1951, mentre era prigioniero dei servizi segreti di Tito, accusato di tradimento. Un gesto sul quale Eva s’interrogherà tutta la vita, rimproverandogli di non essere stato in grado di sopportare le torture come aveva fatto lei. Per difenderlo, era stata condannata ai lavori forzati e costretta ad abbandonare la figlia di soli 6 anni. Una forzata rinuncia al ruolo materno che Grossman racconta intrecciandola al travagliato vissuto delle altre donne e degli uomini che animano questo romanzo.

 

Candice Fox   “Il buio non fa rumore”    -Piemme-    euro   17,90

Candice Fox è una delle gialliste di maggior successo in Australia. Ha 39 anni, vive a Sydney, ha esordito nel 2014 e vinto per ben due volte un prestigioso premio per la narrativa gialla. Da allora è sempre in vetta alle classifiche.

Molteplici le ragioni del suo successo e ve ne accorgerete leggendo questa storia ambientata in un’Australia dove non si avverte l’eco del turismo; ma siamo tra oceano e paludi nella costa orientale a nord di Sydney, insidiose e infestate dai coccodrilli. E’ Crimson Lake, lontano da tutto, dove è possibile raccogliere i cocci del passato e ricominciare lontano dal clamore di scandali e aule giudiziarie.

Due sono i protagonisti principali. Ted Conkaffey, con un passato da semplice poliziotto a Sydney e una famiglia che amava; poi il destino si è messo per traverso e lui nel giro di un attimo è stato accusato di aver rapito e abusato di una 13enne. E’ libero per mancanza di prove, ma la sua vita è andata in pezzi ed è inseguito da sospetti e ignominia.

Amanda Pharrell è un personaggio un po’ borderline, tatuaggi spalmati su tutto il corpo, piena di tic e manie strane. Lei in carcere c’è stata per 10 lunghi anni, accusata di avere pugnalato a morte una compagna di liceo. Scontata la pena è ripartita da zero aprendo un’agenzia investigativa.

Due anime tanto inquiete e travagliate non possono che trovarsi, riconoscersi e unire le loro forze per risolvere l’intricato caso della scomparsa di uno scrittore.

Ed ecco la formula vincente di una coppia di investigatori fuori dagli schemi, abilmente miscelati  nella trama con adolescenti rabbiosi, tipi loschi di vario genere, poliziotti che travalicano la legge e un’anatomopatologa dal fiuto infallibile. Preparatevi a uno psico-thriller con continui colpi di scena e un finale mozzafiato.

 

Autostrade per la Liguria, troppi cantieri frenano il turismo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / L’Autostrada dei Fiori e l’Autostrada Savona – Torino e viceversa  sono difficilmente percorribili a causa dei continui cantieri che generano code. Da Albenga a Savona occorre circa un’ora 

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E’ evidente che le criticità di quei percorsi autostradali sono arrivate tutte insieme all’attenzione dei  concessionari che forse avevano sottovalutato la manutenzione. Certamente appare strano che non abbiano colto i tre mesi di pandemia per lavorare su autostrade deserte. In  in questo modo si intralcia il recupero del turismo. Solo il vice sindaco di Alassio si è mosso tempestivamente nella direzione di chiedere adeguati interventi. La Liguria e’ già stata penalizzata gravemente perché isolata dal Piemonte e dalla Lombardia  da  dove proviene  la maggioranza dei suoi turisti. In molte realtà liguri quasi a fine giugno non hanno ancora programmato iniziative turistico- culturali, se non escludendo i grandi eventi che  provocano assembramento. Un minimo di coraggio e di fantasia sarebbe necessario perché chi arriverà da luglio vorrebbe avere un calendario sia pure  minore  di manifestazioni. Bisogna che tutti si risveglino dal letargo del lockdown  che ci ha salvati ma ha distrutto l’economia. Appare più preparata la città di Loano e le realtà del Levante. Per avere turisti bisogna offrire calendari di incontri , sia pure ridotti ,ma ricchi di valore. L’idea che i ricchi vadano al ristorante e i poveri sulla passeggiata con un ghiacciolo ci fa tornare tristemente agli Anni Cinquanta dove brillava solo Bordighera con il Salone internazionale dell’umorismo, scomparso ormai da molti anni.
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I liberali e il ’68

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Solo pochi liberali ebbero consapevolezza di ciò che stava accadendo. Nel 1968 ero nella Gli, la Gioventù liberale italiana, che era sempre un po’ più a sinistra di Malagodi 

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Chiesi a Fabrizio Chieli segretario della Gli torinese quale posizione avrebbero dovuto mantenere gli universitari liberali dopo che le rappresentanze dell’Intesa – il Parlamentino universitario – erano andate dissolte. Non seppe o non volle darmi un orientamento preciso, non sembrava pronto ad affrontare il tema della contestazione, forse anche  perchè, ormai, era fuori dall’Università e non coglieva ciò che stava accadendo a Palazzo Campana.
Anche il Gruppo Universitario  “Viva Verdi !“ di matrice risorgimentale capitanato da Luigi Rossi di Montelera non  capì che la contestazione avrebbe travolto ogni democrazia rappresentativa in nome di una finta democrazia assembleare che giungeva all’assemblea permanente e alle occupazioni notturne. Anche una donna intelligente come Nicoletta Casiraghi destinata ad una bella carriera nel PLI e nelle istituzioni mi sembrò poco interessata e in parte anche sedotta dal femminismo sessantottino. Vista la situazione con pochi amici e colleghi della Facoltà di lettere misi in piedi “Riforma democratica  universitaria” che da un lato affermava la necessità di riforme e dall’altro rivendicava il rispetto del metodo democratico, costantemente violato dai contestatori. Ebbi anche degli scontri verbali con Luigi Bobbio uno dei capi della contestazione. Poi la scelta del dare vita al  Centro Pannunzio mi distolse da quell’impegno, anche se volli fare egualmente una manifestazione in piazza Solferino che venne disturbata dai contestatori. Sempre nel 1968 alcuni comunisti mi aggredirono in un comizio a Porta Palazzo, sfasciandomi in pochi minuti il palco dal quale stavo parlando. Al contrario certe posizioni attirarono l’attenzione  e la simpatia dei più autorevoli  docenti  della Facolta’ di Lettere, dal preside Gullini a Franco Venturi. Lo stesso Giovanni Getto mi scrisse una letterina. Il centro Pannunzio assorbi’ i temi di Riforma democratica universitaria che confluì nel centro Pannunzio. Si creò allora nell’anno dello scontro tra generazioni un’alleanza tra giovani studenti e professori importanti del nostro Ateneo proprio attorno al Centro Pannunzio che difese le ragioni della serietà della scuola contro le  derive del facilismo. Poi si giunse al terrorismo e ad un impegno ferreo  e tempestivo contro le “sedicenti BR“. Ci fu anche un rapporto con il Generale dalla Chiesa. Il PLI si accorse della contestazione molto in ritardo ed alcuni suoi giovani esponenti finirono nella stessa contestazione. Solo in un successivo convegno nazionale della Gli a Sarnano Malagodi in persona cercò  di analizzare il fenomeno del ‘68  in chiave liberale, vedendo nella stessa contestazione qualche elemento  di liberalismo. Parlò di “ Libertà nuova“, dimostrando la sua cultura politica anche in quell’occasione, ma apparve una presa di coscienza tardiva. Malagodi non colse il potenziale di violenza che di lì’ a poco si sarebbe tradotto in gruppi come “Lotta continua“ e poi nel vero e proprio terrorismo. Neppure Zanone dal 1976  Segretario del PLI  fu convincente sul tema. Forse solo il Centro Pannunzio con la presidenza di Mario Bonfantini e poi di Luigi Firpo seppe fare i conti con i problemi della scuola e dell’Universita’. Soprattutto Firpo si schierò decisamente contro la degenerazione facilistica del ‘68 e del 27 garantito. Poi dal 1974 nacque il rapporto con Montanelli e con il “Giornale“. Furono anni difficili, anche di violenza e di paura, ma non aver mollato allora,   è  oggi motivo di legittimo orgoglio o almeno rende la nostra coscienza tranquilla.
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Osservati da più dimensioni: spiriti e “guardiani di soglia”

Torino, bellezza, magia e mistero     Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e “guardiani di soglia”

A Torino si ha il sospetto di essere sempre osservati, e forse non è solo un’impressione, dato che nella città ci sono più di dieci mila telecamere. Ma non è unicamente la tecnologia a tenere sotto controllo i Torinesi: fessure e fori misteriosi si aprono a terra, ai bordi delle strade, simili a occhi demoniaci, come le fenditure presenti in via Lascaris, inoltre, dall’alto sembrano controllarci incessantemente quegli strani mostri che numerosi si affacciano dalle pareti delle case, quegli esseri grotteschi ed inquietanti, sempre attenti, e sempre enigmatici. Essi sono visibili soprattutto sui palazzi più antichi, caratterizzati dalla presenza di un particolare elemento ricorrente: mascheroni in stucco, collocati sull’architrave dei portoni oppure sopra o sotto i riquadri delle finestre. Sono i “guardiani di soglia”, e hanno un valore altamente allegorico. Simboleggiano il confine tra il dentro e il fuori, ciò che si può vedere e ciò che deve restare nascosto, e impediscono che entrino in casa persone o presenze indesiderate. Come mai hanno un aspetto bislacco? Davanti ad una figura stravagante non si può trattenere un sorriso, ma così facendo, tutte le intenzioni bellicose svaniscono, e la casa è al sicuro da eventuali malignità. Ma se ci fosse ancora qualcun altro che ci osserva? Qualcuno che noi non possiamo vedere, che ogni tanto ci pare di percepire. Qualcuno che forse ci guarda come fossimo delle ombre con cui non si può interagire?


Torino pullula di spiriti, è sovraffollata di fantasmi che parrebbero non voler abbandonare la meravigliosa città nemmeno varcata l’ultima soglia. C’è chi sostiene di aver visto una strana vecchia in via XX Settembre, chi invece, sempre nella stessa strada, una coppia di fantasmi, deceduti probabilmente nel 1861, in un incendio, tesi nella ricerca dei loro parenti; al Municipio c’è un fantasma che muove gli oggetti ed emette strani rumori; ancora, in via della Basilica, ogni 10 del mese, compare una donna avvolta in una particolare luce, a chi la incontra chiede di essere perdonata di non si sa quale peccato. Presso la Basilica Mauriziana si aggira lo spirito di Pietro Cambiani, un inquisitore assassinato il 2 febbraio 1365; Piazza Palazzo di Città è infestata dal fantasma di un cordaio che si è impiccato legandosi alla sporgenza di un tetto, pare sia un ectoplasma dispettoso, che fa cadere le cose appoggiate al davanzale. Al Castello del Valentino, nelle notti fredde e buie, si può sentire il cocchio di Madama Cristina, trainato da cavalli infernali imbizzarriti, lo si può intravvedere nell’ombra correre fino a gettarsi nel fiume per poi sprofondare. In via San Francesco da Paola c’è il malinconico spirito della “Bela Caplera” (Bella Cappellaia); ancora degli spiriti regali sono stati avvistati presso la Chiesa della Consolata, forse Maria Adelaide di Savoia, mentre Filippo d’Agliè è solito aggirarsi al Monte dei Cappuccini.

L’elenco è ancora lungo. Luci improvvise nella notte, voci che si perdono tra le vie più strette, oggetti che si spostano, anime che non si arrendono a doversi distaccare da questo mondo. E in questa moltitudine di spiriti vi sono anche delle vittime di tragiche storie d’amore, come quella della figlia di “Monsù Druent”, vissuta a Palazzo Barolo. Elena Matilde Provana di Druento, figlia del conte Giacinto Antonio Ottavio Provana di Druento, si sposò con suo cugino, il marchese Gerolamo Gabriele Falletti di Castagnole, il giorno 3 febbraio 1695. Il matrimonio combinato si trasformò, come in una bella favola, in un matrimonio d’amore, tuttavia i due protagonisti non riuscirono ad avere il loro lieto fine. Il giorno delle nozze avvenne un doppio infausto presagio: crollò un pezzo dello scalone del palazzo e la sposa perse la collana che le era stata regalata dalla duchessa Anna Maria di Orléans. Nonostante gli avvertimenti del destino, la cerimonia non venne interrotta. Dall’unione dei due nacquero tre figli. Successe poi che “Monsù Druent” non volle pagare la dote della figlia e se la riprese in casa. Elena impazzì dal dolore e il 24 febbraio del 1701 si suicidò lanciandosi dalla finestra del primo piano. Quell’anno c’era molta neve e il colpo si attutì, la donna non morì sul colpo, ebbe il tempo di essere riportata nel palazzo e di spirare distesa su una panca di pietra che si trovava nell’androne.

Anni dopo, Ottavio Giuseppe Provana, uno dei figli di Elena, incaricò l’architetto Benedetto Alfieri di ristrutturare l’edificio, quest’ultimo, memore dell’infausto avvenimento, decise di inserire per ornare le finestre delle teste di putti, tutti sorridenti, tranne uno, quello posto sotto la finestra da cui si buttò la giovane sventurata. Ogni fantasma degno di nota compare con la luna piena, e quello di Elena non è da meno. Si dice che in quelle circostanze il suo spirito si aggiri, ancora dolorante per le sventure patite in vita, per le sale di Palazzo Barolo, alcune volte in compagnia dello spirito di Silvio Pellico, (1789-1854), anche lui inquilino dell’edificio, dopo la prigionia nella fortezza dello Spielberg.

Con le più che numerose testimonianze di chi giura di aver visto o sentito “qualcosa”, viene quasi naturale crederci. Una delle testimonianze più ravvicinate avvenne nelle gallerie sotterranee della cittadella: un bambino, durante una classica visita guidata, si era staccato dal gruppo e si era perso. Il piccolo aveva iniziato a correre lungo gli angusti corridoi, in preda al panico, finché un gentile signore non lo accompagnò cortesemente fino all’uscita. Un signore con la divisa settecentesca del battaglione Lyonnais. Ma le storie di fantasmi sono innumerevoli, alcune ci commuovono, altre ci fanno paura, perché gli spiriti sono come le persone, alcuni buoni e altri un po’ meno, ma tutti bisognosi di essere compresi.

Alessia Cagnotto

Mai mischiare giudizi morali e giudizi penali

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Le giornate a tema ormai sono del tutto svalutate e inflazionate. Ne hanno create per tutte le occasioni anche le più strampalate, ma ieri 17  giugno era la giornata dedicata alle vittime degli errori giudiziari. E’ tornata alla mente naturaliter la figura di Enzo Tortora, condannato a dieci anni in base a pentiti indegni di essere creduti da magistrati che non pagarono mai per i propri errori, ma anzi fecero carriera 

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Francesca Scopelliti, la sua compagna, ci ha costantemente ricordato il martirio di Tortora che solo il coraggioso Pannella seppe denunciare con coraggio. Zanone che era segretario del PLI, il Partito di Tortora, ebbe paura e lo lasciò solo. Enzo lo definì non senza ragione “il farmacista di Pinerolo“ che guardò al tornaconto immediato senza comprendere la grande battaglia liberale che si doveva combattere per Tortora e la giustizia giusta.
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E ovviamente va ricordato Bruno  Contrada che fu una vittima della mala giustizia anche più di Tortora e che qualcuno vorrebbe illusoriamente senatore a vita, nominato da Mattarella che mai – credo- penserebbe di onorare un grande servitore dello Stato come Contrada. Ma oggi la giornata deve anche farci  ricordare Palamara e le correnti che hanno inquinato la magistratura, minandone l’ indipendenza che non è un diritto dei magistrati, ma un dovere dei magistrati  nei confronti dei cittadini. Il pm di Palermo Di Matteo che inquisì  Napolitano per una presunta trattativa Stato- Mafia e che ora è al CSM , ha parlato di clima mafioso nella spartizione delle cariche all’interno della Magistratura. Una dichiarazione che se fosse stata detta da altri, sarebbe apparsa  un oltraggio alla Magistratura, perseguibile penalmente. Anche il caso  di Carminati,  liberato dal carcere dopo cinque anni per i ritardi giudiziari, deve farci meditare. Lo accusarono di mafia, ma un tribunale ha dichiarato che non era mafioso. Oggi è libero perché le regole devono essere uguali per tutti, anche per Carminati. La legge dovrebbe essere uguale per tutti e non sarà certo Giletti o il ministro Bonafede a farmi cambiare idea. I giudizi morali sono importanti, ma nulla hanno a che fare con quelli giudiziari. Carminati lo detesto, ma i suoi diritti sono sacri e inviolabili. Un liberale la pensa così. Che piaccia o non piaccia. Guai a tradurre  sul piano penale dei giudizi morali. Saremmo all’ Inquisizione laica, la peggiore possibile. La Giustizia che piaceva a Calamandrei, a Leone, a Cossiga, a Denicola e a Carnelutti per non dire a Beccaria, ne uscirebbe violentata per sempre.
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Giorello che praticò il dubbio laico

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La morte improvvisa e crudele del filosofo Giulio Giorello dopo due mesi di ricovero a Milano per Coronavirus, quasi subito dopo  la sua dimissione dall’ospedale rende ancora più duro il distacco da un maestro della cultura filosofica italiana che ha molto spaziato nella sua ricerca, anche se di  lui restano  soprattutto l’epistemologo e il filosofo della scienza  di altissimo valore.

Come ha detto Cacciari, liberò dal vecchio positivismo e dall’ideologismo marxista la ricerca  filosofica. Allievo di Ludovico Geymonat, era andato oltre il maestro. Bobbio una volta mi disse che Geymonat viveva soprattutto di certezza ideologiche , mentre noi laici siamo attratti dai dubbi.
Giorello ha praticato il dubbio laico, anche se non ha mai accettato la distinzione bobbiana tra  la laicità e il laicismo, quest’ultimo In contraddizione con lo spirito laico amato dal filosofo torinese. Giorello aveva un’idea forte del laicismo, per dirla con un’espressione cara a Nicola Abbagnano e al suo discepolo Giovanni Fornero. Discussi con lui di questi temi, ma fu difficile dialogare. Quando pubblicai un libro su Cavour e i rapporti tra Stato e Chiesa con Girolamo Cotroneo in cui liberammo Cavour da  certe ipoteche anticlericali e massoniche, gli spedii una copia, invitandolo a presentare il libro insieme a Raimondo Luraghi, ma non accetto’. In un’altra occasione gli spedii la nuova edizione del “Perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce, ma si limitò a ringraziare. Era molto difficile il  nostro dialogo , pur partendo da posizioni che affermavano il valore della tolleranza .  Fu un neo illuminista molto convinto, fu quasi a suo modo un nuovo Voltaire . Anche con Augusto Viano che ebbe posizioni assai vicine a lui, fu difficile il dialogo negli ultimi anni perché considerava la religione una sorta di idola tribus da rifiutare. Anche Giorello ebbe un atteggiamento simile. Io mi sono nutrito di Ruffini, di Bobbio, di Jemolo, di Passerin e facevo difficoltà a sintonizzarmi con Giorello il cui anticlericalismo ateizzante appariva una costante . In più ero amico di Marcello Pera  come lo ero stato di Francesco Barone , due figure quasi  antitetiche rispetto a Giorello Il suo libro “Di nessuna Chiesa . La libertà del laico” rappresenta assai bene il suo pensiero. Marco Pannella parlò di laici credenti e non credenti, un modo altro di affrontare il tema della laicità. Al contrario del Maestro Geymonat che polemizzò duramente con Popper, difendendo la società chiusa sovietica, Gioriello  fu per la società aperta popperiana, ma il liberalismo del pensatore austriaco gli fu sostanzialmente estraneo. Resta di lui una grande opera scientifica  destinata a restare e una inesausta passione civile, unita ad una grande coerenza. Giorello e’  stato un chierico alla maniera di Benda che non ha tradito . La libertà e ‘ stata l’animatrice del suo lavoro. Anche come divulgatore giornalistico e’ stato straordinario per la sua chiarezza esemplare . Rispetto a tanti marxisti vecchi e nuovi che hanno monopolizzato la filosofia italiana per decenni Giorello è stato capace di autonomia. Anni luce dai torinesi teorici del “pensiero debole“ passati  in tarda età, armi e bagagli, al marxismo. Mi sarebbe piaciuto leggere di un suo dialogo con Papa Francesco così distante dal clericalismo. Invece di Eugenio Scalfari che ha monopolizzato quel rapporto Giorello più di ogni altro avrebbe potuto portare il  confronto ad un livello molto alto che ci avrebbe arricchiti tutti, credenti e non credenti.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Tracy Chevalier  “La ricamatrice di Winchester”   -Neri Pozza-  euro 18,00

Dura la vita per le “donne in eccedenza” rimaste nubili dopo la strage di uomini compiuta nella Grande Guerra. E’ questo lo scenario dell’ultimo romanzo dell’autrice del bestseller “La ragazza con l’orecchino di perla”. Ancora un affresco storico ambientato nell’inglese Winchester nel 1932. Protagonista è la 38enne Violet Speedwell che, dopo la morte del fidanzato in guerra, sembra irreparabilmente destinata al zitellaggio perenne; prospettiva poco allettante in una società basata sul matrimonio come unico sacro-santo destino del genere femminile.

Violet però non si rassegna all’idea di un’esistenza buia e desolante, punta invece sull’indipendenza e l’emancipazione.

Ok, l’amore della sua vita è caduto in trincea, ma non vuol dire che anche lei deva vedere finita la sua vita. E’ tenace e coraggiosa, il primo passo che compie è allontanarsi da una madre piagnucolosa e soffocante, inacidita dalla morte del marito e del figlio primogenito. Violet non si lascia incastrare dai suoi ricatti emotivi, lascia la casa natia di Southampton e si trasferisce a Winchester.

Trova lavoro come dattilografa in una compagnia di assicurazioni, divide una casa con coetanee scostanti e fa i conti con l’esiguo stipendio che a malapena le consente di sopravvivere.

Per il sesso si affida agli incontri casuali nei bar con “gli uomini dello  sherry”, ma anela a ben altro. Strategica è la sua decisione di entrare nel gruppo di volontarie che negli anni 30, sotto la guida di Louisa Persel, ricamavano cuscini per la cattedrale di Winchester. Lei, che non aveva mai preso un ago in mano, decide di imparare perché vuole creare qualcosa che le sopravviva.

La sua storia incrocia quella di altri personaggi: come  l’amicizia con altre donne “in eccedenza”, effervescenti come Gilda e Dorothy, e l’intesa con il campanaro della chiesa che ha perso un figlio in guerra e deve gestire una moglie impazzita dal dolore.

 

Jane Harper  “L’uomo perduto”   – Bompiani –   euro  19,00

L’Australia assolata e dal caldo rivente è lo struggente fondale sul quale si muovono i personaggi tormentati di questo splendido noir. E’ il terzo romanzo della scrittrice di radici britanniche (nata a Manchester nel 1980), ma cresciuta a Melbourne dall’età di 8 anni, Jane Harper. Il suo libro di esordio “Chi è senza peccato” si era guadagnato il premio come miglior poliziesco australiano nel 2017, e “L’uomo perduto” non è da meno.

Inizia con il ritrovamento del cadavere di Cameron Bright in un punto dell’outback dal nome suggestivo “la tomba del Magazziniere” (scoprirete la storia tragica che c’è dietro) a miglia di distanza da tutto, in una torrida estate del Queensland, che lì coincide col Natale.

Cosa è successo a questo stimato proprietario di una stazione di bestiame -fratello di mezzo tra Nathan e Bub- che aveva ereditato la proprietà di famiglia? La morte di Cam è davvero inspiegabile. Sul cadavere bruciato vivo e disidratato dal sole non ci sono segni di lotta o altro che spieghi una fine del genere. Ma allora perché un esperto fattore come lui, nato e cresciuto in quella terra ostile, si sarebbe allontanato dall’auto piena di acqua? Suicidio?

Lo scoprirete leggendo, così come vi avventurerete nei segreti e nei tormenti della famiglia Bright. A partire dal padre violento. Poi il primogenito Nathan sul quale pesa una colpa mai condonata dagli abitanti dell’immaginaria cittadina di Balamara e dai suoi stessi familiari. Per arrivare al più piccolo dei fratelli, Bub, che da anni sogna di andarsene lontano da quella fattoria piena di dolore, col sogno di diventare cacciatore di canguri e rifarsi una vita. Ma soprattutto scoprirete chi era davvero Cameron, il suo passato e il suo modo di condurre l’esistenza e gli affetti…e tenetevi forte perché nulla sarà come sembra all’inizio.

 

Simonetta Fiori  “La testa e il cuore”   – Guanda –   euro 17,00

Cosa legava coppie famose dell’Olimpo artistico e culturale della levatura di Liv Ullmann  e  Ingmar Bergman, Boris Pastor e Rada Preml, Dario Fo e Franca Rame o Raffaele La Capria e Ilaria Occhini?

Ve lo svela la giornalista di Repubblica Simonetta Fiori in queste pagine scandite in 30 storie di unioni famose e uniche, nelle quali grandi menti e grandi cuori si sono incontrati.

Attraverso le interviste ai protagonisti sopravissuti ricostruisce menage affascinanti e spesso complicati in un alternarsi di alti e bassi, abbandoni e ritorni, i primi incontri e i tasselli sui quali poggiavano sodalizi incredibili.

Ci sono coppie letterarie, compresa quella dello scrittore portato via dal Covid 19 dopo lunga agonia, Luis Sepúlveda e la poetessa Carmen  Yáñez, intervistati nel giugno 2018. Un colpo al cuore leggere oggi il loro racconto della storia d’amore mai finita: passata attraverso un primo matrimonio, golpe militare e dittatura, lontananza e ricongiungimento in un secondo matrimonio che solo la morte ha potuto spezzare.

Con grazia e sensibilità Simonetta Fiori vi fa entrare nelle vite affettive di personaggi non solo letterari come Alberto Moravia e l’inafferrabile Carmen Llera, o Rosetta Loy e Cesare Garboli (per citarne alcuni).

Vi conduce anche nel vissuto di coppie del cinema, come quella di Mario Monicelli e Chiara Rappacini; della musica, con Fabrizio de André e Dori Ghezzi; del teatro, con Giuliana Lojodice e Aroldo Tieri,… e tante altre.

Scoprirete vezzi, sentimenti, abitudini, caratteri opposti che si amalgamano oppure deflagrano in rotture, amori tormentati che diventano amicizie incrollabili. Come quella che condusse l’attrice Liv Ullmann al capezzale del regista -forse più geniale di tutti i tempi- Ingmar Bergman, e che lei, oggi splendida 80enne, descrive così:

«Sapevo che Ingmar non stava bene, ma non era così grave. Eppure una mattina di luglio 11 anni fa, sentii all’improvviso che dovevo correre a Fårö. Noleggiai un aereo privato…..Entrai nella sua stanza, lui era già assopito. Gli presi la mano e gli dissi alcune cose su di noi…Non so se abbia sentito, forse la sua anima si. Sono stata l’ultima persona a vederlo. E’ morto quella notte».

 

 

L’eredità di Montanelli

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Gad Lerner approdato al “Fatto” perché  ha rotto con Molinari e “Repubblica” adesso si esercita a scrivere su Montanelli dopo  che il suo nuovo direttore ha difeso il grande giornalista, citando perfino Angelo Del Boca che ha detto che un vero razzista non avrebbe mai sposato una donna africana 

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Lerner giunge a scrivere che Travaglio stesso è l’erede di Montanelli. E lo  stesso Travaglio credo pensi di esserne l’erede. La realtà è ben diversa perché l’esperienza della “Voce” fu una parentesi non fortunata di Montanelli in cui prevalsero i giacobini  alla Travaglio, sempre combattuti dal maestro: un giornale nato male e vissuto peggio che Montanelli decise di chiudere per tornare ad un ”Corriere della Sera“ mutato  rispetto a quando lo aveva lasciato, sbattendo la porta.
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Posso testimoniare che quando Montanelli ricevette il Premio Pannunzio nel 1991 a Torino si fece accompagnare solo da Paolo Granzotto e non volle nessun altro, anche se dalle fotografie scattate ai tavoli del ristorante scoprii  anni dopo che ad un tavolo dietro una colonna del Ristorante Arcadia  in fondo alla sala si era imbucato  a cena un giornalista non invitato e che allora nessuno conosceva: il giovane, futuro direttore del “Fatto“. Montanelli che io conobbi nel 1987  e che invitai a parlare nel 1988 per ricordare Pannunzio nell’Aula del Consiglio Regionale del Piemonte mai mi parlò di altri giornalisti. Solo una volta mi parlò- molto male – di Marcello Staglieno destinato dopo anni a diventare mio amico. Montanelli criticò Staglieno, non immaginando cosa farà a capo della cultura del “Giornale” Caterina Soffici una vera e propria infiltrata di sinistra. In realtà nessuno può pretendere di essere il continuatore di un fuori classe come Montanelli o come Pannunzio. Basterebbe pensare ai giudizi severissimi che Indro espresse sulla Magistratura per rendersi conto che mai avrebbe potuto condividere la concezione barbara della Giustizia esibita dal “Fatto” come un marchio di fabbrica inquisitorio e profondamente illiberale.
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Appare strano come abbia fatto a promuovere Travaglio un uomo come Giovanni Arpino  nei confronti di Montanelli. La vedova di Arpino non riuscì mai a capacitarsi dell’abbaglio del marito. Montanelli fu unico ed irripetibile come lo fu Pannunzio e gli imitatori devono rassegnarsi a ruoli marginali. E’ la stessa cosa che accadde con Bobbio che non ebbe l’arroganza di creare una sua scuola, una scelta che rivela la sua grandezza e la sua superiorità, come evidenziò Marcello Gallo. I presunti bobbiani o continuatori si rivelarono subito inadeguati rispetto al maestro e finirono nell’oblio. Gad Lerner, dopo aver insultato Montanelli, sembra fare un po’  di marcia indietro perché il suo nuovo fondatore e direttore si ritiene un montanelliano doc o addirittura il nuovo Montanelli. Lerner gli antepone però  Giorgio Bocca perchè, pur essendo stato fascista, fece il partigiano, ma qui si tratta non di valutare l’antifascismo resistenziale (Montanelli fu  comunque incarcerato a San Vittore), ma il giornalismo ed è fuor di dubbio che Montanelli sia stato superiore a Bocca che specie negli ultimi anni si rivelò faziosissimo. La statua di Montanelli viene difesa persino dal Presidente milanese dell’Anpi,  anche se  bisognerà attendere  l’Anpi nazionale che dantescamente “giudica e manda“  all’inferno i reietti che non si uniformano alle sue ideologie e alle sue vulgate.
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“La stampa” ha relegato in un piccolo pezzo, con una  piccolissima fotografia la notizia dell’ imbrattatura del monumento  a Montanelli che – apprendiamo –  sul piano estetico non piace a Travaglio, ma incontra i gusti di Lerner. Una scelta simile  a quella che fece quel giornale quando venne ferito dalle Br Montanelli e la notizia venne derubricata come il ferimento di un giornalista anonimo. Un errore che il direttore Arrigo Levi riconobbe, quando lo invitai a ricordare Carlo Casalegno al Liceo d’Azeglio. Imbrattare con vernice rossa Montanelli ci fa riandare ad un clima che non avremmo voluto rivivere. Quello dell’intolleranza becera del ‘68, dell’autunno caldo e dei primi Anni 70. Poi arrivò il terrorismo. Speriamo che si fermino alle parole e alla vernice. Certo,  sono degli strani antirazzisti che praticano la violenza delle parole  e dei simboli per affermare le loro idee, ammesso  che ne abbiano.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Stati Generali, Colao degradato

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni / Si aprono con grande solennità gli Stati Generali sull’economia che dureranno dieci giorni. Siamo a metà giugno  e il Governo Conte occupa altri preziosi dieci giorni per ascoltare anche  quelli che ai tempi di Craxi erano chiamati nani e ballerine. Verranno sentiti personaggi come Farinetti  e Fuksas  che non credo possano dare un vero e spassionato contributo ad un dibattito, come si può evincere dalla loro esperienza professionale

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C’è una regia mediatica volta a dare l’idea che adesso (cioè in grandissimo ritardo) ci si voglia aprire al confronto, sempre negato alle opposizioni che oggi vengono accusate da uno sprovveduto commentatore di essere “aventiniane”, quasi ci fosse Mussolini al governo. La commissione Colao creata ad hoc ha prodotto un documento di aria fritta come l’avrebbe definita Ernesto Rossi che non fu solo un polemista, ma anche un grande economista.
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Colao si è distinto per avere proposto di tassare il contante , un’idea ossessiva della peggiore sinistra. Il Super Manager, tanto venerato nei mesi scorsi come il salvatore della Patria, è stato degradato ad essere uno dei tanti partecipanti all’evento  romano che, tra l’altro, avrà dei costi significativi che in tempo di crisi sarebbe interessante conoscere. Nessun paese europeo ha fatto qualcosa di simile, ma tutti hanno deciso con rapidità le misure necessarie a contenere la crisi e tentare di rilanciare l’economia L’Italia si manifesta incerta, mentre il suo sistema economico produttivo e commerciale sta crollando. Il documento Colao non è piaciuto e rimarrà un piccolo libro dei sogni. Un’altra caratteristica degli Stati Generali a porte chiuse è la mancanza di trasparenza. Tutto deve essere pubblico. Un capo del governo che ha fatto un uso sproporzionato della Tv, non può non garantire la massima trasparenza dei dibattiti, consentendo di poterli seguire in tv o almeno in streaming, uno stile caro ai grillini delle origini. Ma forse in questa segretezza si nasconde la negatività maggiore di un’operazione  meramente cosmetica che vorrebbe sostituirsi al Parlamento  in questi mesi quasi  totalmente svuotato delle sue funzioni, sancite costituzionalmente, senza che nessuno abbia alzato la voce. Dare l’idea di non saper decidere, di volere elemosinare idee, è un ennesimo errore ed è un colpo alla credibilità dell’ Italia anche in vista della trattativa europea. Può essere una passerella mediatica, accuratamente studiata dal suo ufficio stampa, per il presidente Conte che a malapena riesce a mediare tra il Pd e i Cinquestelle. Abbiamo un governo che si regge sulla tragedia del Coronavirus, sempre che i magistrati di Bergamo non lo mandino a casa con un avviso di garanzia ,anche se le parole della magistrata che è andata ieri a Palazzo Chigi, è apparsa molto cerimoniosa  è tranquillizzante con il presidente e i ministri. Non ci sono ragioni vere per gli Stati Generali,  se non  quelle di prendere e perdere altro tempo prezioso. E’ un segno della grande confusione in cui viviamo , unici in Europa. Ma forse Conte e il suo eccezionale ministro degli Esteri vogliono proprio essere unici in Europa . Una scelta che tende ad isolarci come un paese  il cui governo non è in grado  di decidere il futuro dell’Italia. L’Italia soffre anche l’anomalia incredibile di avere un ministro all’economia laureato in lettere che viene considerato, non si sa perché, un grande economista. I governi precedenti scelsero tutti persone competenti, il Conte bis ha messo in quella casella, comunque decisiva ,un ex comunista che ragiona ancora con certi pregiudizi ideologici obsoleti, come ha dimostrato  vistosamente da Vespa nei giorni scorsi. I latini dicevano “Mala tempora currunt”, gli Italiani di oggi ricorrono agli insulti e alle imprecazioni più volgari per esternare un disagio che è sempre più evidente e che sta determinando tensioni sociali molto più gravi di quelle che portarono il re Luigi XVI, dopo gli Stati Generali francesi alla ghigliottina. Il
furore popolare non guarda in faccia nessuno e manifesta gli istinti più bassi e violenti dell’uomo . Una lezione che non va mai dimenticata.
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