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Torino e i suoi musei. Palazzo Madama

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Con questa serie di articoli voglio prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che desidero proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM (Galleria d’Arte Moderna)
7 Castello di Rivoli
8 MAO (Museo d’Arte Orientale)
9 Museo Lombroso- Antropologia Criminale
10 Museo della Juventus

 

3 Palazzo Madama

Ci si vede “al Cavallo”. Negli anni più alternativi della mia adolescenza, uno dei luoghi di ritrovo più gettonati per gente “strana” era proprio sotto il massiccio cavaliere a dorso del suo fiero destriero, parte del ben più ampio monumento memoriale, dedicato al Generale Emanuele Filiberto e ai caduti della prima guerra mondiale, che si innalza dietro Palazzo Madama.
Ecco, facciamo conto di esserci dati appuntamento lì, ora dirigiamoci verso la meta di oggi: una rilassante passeggiata all’interno e all’esterno del peculiare edificio di Palazzo Madama.
Siamo nel cuore pulsante di Torino e la regale costruzione è una perfetta sintesi architettonica di duemila anni di storia della città. Le origini dell’edificio risalgono all’età romana, nel I sec. d.C., la costruzione sorge infatti sulle fondamenta delle porte di accesso alla città , in corrispondenza del decumano maximo di Augusta Taurinorum. Due torri incorniciavano quattro grandi aperture ad arco, destinate all’entrata e all’uscita dall’urbe, verso est e verso Roma.  Nel corso del Medioevo la porta fu trasformata in fortilizio e adibita a funzioni difensive, fino alla ristrutturazione promossa da Filippo d’Acaia nei primi decenni del XIV sec., quando l’edificio prese le forme di un vero e proprio castello, con due nuove torri addossate a quelle romane e un cortile interno porticato.
Incorporata nella costruzione è la Porta Decumana, risalente al I sec. d.C. e inizialmente formata da due torri di sedici lati che delimitavano quattro ingressi ad arco: due centrali per i carri e due laterali per i pedoni.

All’inizio del XIII sec. la Porta Decumana fu inglobata in una struttura difensiva addossata esternamente al muro romano, chiudendo le arcate di attraversamento. La nuova porta per il passaggio pubblico, Porta Fibellona, è ancora oggi visibile lungo la scala che porta al piano fossato. È l’unica porta medievale di Torino sopravvissuta agli ampliamenti della città. È costituita da un arcone a doppia ghiera laterizia, impostato su sostegni in pietra di recupero. L’arco a tutto sesto imita il modello della vicina porta romana inserendosi in un contesto di rinascita e riutilizzo dell’antico.
Alla fine del XIII sec. il castello di Porta Fibellona passa al ramo dei Savoia d’Acaia. Nel 1317 Filippo I d’Acaja avvia un radicale intervento di ricostruzione del vecchio edificio ridimensionando la funzione militare a vantaggio di quella di rappresentanza. Fa innalzare due nuove torri di pianta quadrata accanto a quelle romane e realizza una struttura porticale intorno al cortile centrale. Giacomo d’Acaja fa abbattere le abitazioni di alcuni privati che confinavano con l’edificio verso la città, ampliando la piazza davanti al castello.
Tra il 1402 e il 1418 il principe Ludovico d’Acaja raddoppia i volumi del castello di porta Fibellona, e associando alle antiche funzioni di difesa quelle di residenza cortese. Si costruiscono nuove torri verso levante collegate al piano terra dall’ampia «sala magna bassa» (sala Acaia) ritmata da quattro pilastri centrali di sostegno. Nella corte trecentesca viene tamponato il porticato verso nord per ricavare una nuova sala ( sala Staffarda).Il capomastro piemontese Giacomo da Santhià realizza una torre ottagonale con scala a chiocciola elicoidale (viretum) che serviva per collegare i diversi piani del castello.

Nel 1638 Cristina di Francia, diviene reggente dello Stato a seguito della morte del marito Vittorio Amedeo I di Savoia ed elegge il vecchio castello Acaia a sua stabile residenza di rappresentanza. Elemento cardine della campagna di lavori da lei promossa fu la copertura dell’antica corte medievale a cielo aperto. Questo spazio viene trasformato in un salone voltato su pilastri di pietra di Chianocco, e viene ricavata una grande sala per le cerimonie al piano nobile. In seguito progetta il riallestimento e la decorazione delle stanze del suo appartamento con affaccio privilegiato verso piazza castello. La grande balconata diviene lo scenario per assistere alle feste e alle pubbliche cerimonie promosse dalla corte, tra cui l’Ostensione della Sindone.
Il castello divenuto palazzo fu l’oggetto di protagonismo della seconda Madama Reale: Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours. Nel 1688 inizia il rinnovamento della decorazione degli interni e tra il 1718 e il 1721 l’architetto Filippo Juvarra porta a termine la nuova facciata e lo scalone. Si tratta di esigenze di nuove funzionalità cerimoniali: l’angusta scala a chiocciola situata nella torre sud dell’antico castello Acaia era inadeguata alle nuove necessità e non all’altezza di un apparato di accoglienza degno della duchessa. L’interno dello scalone viene ideato da Juvarra come una scenografia costruita in un unico grande spazio aperto e permeabile alla luce.

Dopo questa lunga spiegazione si è fatta l’ora di entrare. A questo punto ci si imbatte nel celebre e scenografico scalone, definito uno dei capolavori dell’architettura europea, realizzato tra il 1718 e il 1721 per volere di Maria Giovanna Batista di Savoia-Nemours da Filippo Juvarra, (Messina, 7 marzo 1678 – Madrid, 31 gennaio 1736), architetto e scenografo italiano, uno dei principali esponenti del Barocco, che operò per lunghi anni a Torino sotto le direttive di casa Savoia.
Impossibile non immaginarsi regali e sfarzose sfilate su e giù per quei gradini antichi ed eleganti, abiti ingombranti, guanti leggeri che si appoggiano al mancorrente marmoreo, un continuo cicaleggio che non si discosta poi molto dall’odierno brusio insistente di turisti e visitatori. Mentre sono così sognante, una maschera gentilmente mi ricorda le mie origini plebee, e mi indica la biglietteria sulla sinistra, lontana dallo storico ingresse regale, da sempre precluso alla gente comune.

All’interno, la collezione è divisa in Arti decorative, (sala delle maioliche e delle porcellane, la Sala Atelier, la Sala Vetri); Barocco, (percorso cronologico e stilistico delle collezioni tra Sei e Settecento presentato negli antichi appartamenti delle Madame Reali); Gotico e Rinascimento, (sculture, dipinti e oggetti preziosi realizzati tra XIII e XVI sec. Quattro secoli di cultura figurativa piemontese dall’arte gotica al Rinascimento); Medioevo, (percorso cronologico sullo sviluppo stilistico e iconografico della scultura piemontese in pietra dal dodicesimo al tredicesimo secolo).
Una volta entrata, mi rendo subito conto che la meraviglia va ricercata nei lussuosi ambienti, più che negli oggetti esposti, seppur preziosi e particolari.
Degni di nota sono gli stalli lignei del coro provenienti dall’Abbazia di Staffarda (Cuneo), mirabilmente intagliati ma maestri artigiani purtroppo ignoti. A colpirmi sono le bislacche creature che si sporgono dagli stipiti e si affacciano minacciosi verso i visitatori; si tratta di creature fuoriuscite dalle pagine dei “Bestiari”, testi particolarmente diffusi in epoca medievale, contenenti brevi descrizioni di animali (reali e immaginari), accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla Bibbia. L’origine remota di questi libri, che oggi hanno importanza più che altro storica, è da ricercarsi, per il mondo occidentale, in antichi volumi, come l’opera greca “Il Fisiologo” (cioè “lo studioso della natura”) che offriva l’interpretazione degli animali e delle loro caratteristiche in chiave simbolica e religiosa (quindi, per esempio, il leone, re degli animali, è associato a Cristo).

Prima di perdermi tra le belle sale ai piani superiori mi imbatto in quella che forse è l’opera più nota contenuta all’interno del Palazzo: “Ritratto d’uomo” di Antonello da Messina, databile al 1476, opera di cui colpisce l’acutezza psicologica dello sguardo, l’ironica bocca sorridente e il realismo dei dettagli anatomici.
Proseguo per il mio percorso e decido di perdermi tra le sale riccamente adornate, come la Sala delle Feste o quella delle Quattro Stagioni e con grande forza d’animo mi costringo a non toccare i preziosi broccati che ricoprono le pareti. La residenza è senza dubbio un gioiello architettonico, prezioso e minuziosamente decorato, come dimostrano tutte le aree che lo costituiscono: la luminosa veranda e il Gabinetto Rotondo, chiamato anche “Stanza dei Fiori”, alle cui pareti sono appesi i ritratti della famiglia reale.
Numerose sono le mobilie che mi accompagnano nella passeggiata museale, firmate Piffetti, genio ebanista parigino, abilissimo nell’utilizzare materiali assai complessi da lavorare, come l’avorio. Eppure tra le molte realizzazioni del maestro artigiano, una mi colpisce profondamente, si tratta del modellino di un planetario, realizzato tra il 1740 e il 1750, detto anche “orrery”, dall’inglese Charles Boyle, che fece realizzare il primo strumento di questo genere nel 1704. Si tratta di un modello meccanico che riproduce la configurazione del sistema solare come era conosciuto all’epoca e i moti dei pianeti e dei loro satelliti intorno al Sole. Il cerchio esterno è articolato in tre registri, di cui due sono divisi in 360 parti con i dodici simboli dello zodiaco e uno centrale che scandisce i 365 giorni dell’anno.

Nel prezioso oggetto la scienza si mescola alla superstizione e alla magia, quasi una graziosa provocazione che invita i visitatori a riflettere sull’impossibilità di dividere nettamente realtà e misticismo.Ed è proprio con questo pensiero che mi avvio a concludere la visita, ma prima di uscire “a riveder le stelle” mi accingo a prendere l’ascensore panoramico, che porta fino ad una delle torri: da qui mi affaccio sulla bella Torino, vedo l’elegante collina e le montagne che si sfumano all’orizzonte, Palazzo Reale è illuminato dal sole che al tramonto si tinge di rosso, le persone passeggiano, corrono, si aggirano frettolose. Forse, come me, stanno per tornare a casa e, dopotutto, “la casa di ogni torinese è il suo castello.”

Alessia Cagnotto

Torino e i suoi musei. Il Castello di Rivoli

Torino e i suoi musei

Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

7 Il Castello di Rivoli

La collezione di arte contemporanea presente al Castello di Rivoli è sicuramente rivolta agli esperti e ai “dottoroni” della contemporaneità, ma anche ai profani più coraggiosi. A questi prodi consiglio di arrivare a destinazione scarpinando su per la salita –non troppo ripida- che porta fino alla sommità della collina, dove sorge l’ex residenza sabauda e da dove si può godere una splendida vista su Torino. L’edificio, progettato da Juvarra su commissione di Vittorio Amedeo II di Savoia, sorge sulle fondamenta di un castello risalente all’XI secolo.
Nel Seicento, Carlo Emanuele I decise di edificare nel luogo in cui era nato un grande palazzo, il progetto fu seguito da Ascanio Vitozzi e di fatto portato avanti da Carlo di Castellamonte, che però non riuscì a terminare i lavori e lasciò incompleta la parte centrale dell’edificio comprendente l’atrio e gli scaloni d’onore.
All’inizio del XIX secolo la proprietà divenne un onere eccessivo per i Savoia che lo diedero in affitto al Comune di Rivoli, il quale in un secondo momento riuscì ad acquistarlo.
Inizialmente il castello servì da alloggio per le guarnigioni militari e solo nel lontano 1978 l’edificio venne risanato e ristrutturato, e le strutture preesistenti furono messe in relazione con materiali moderni. Nel 1984 il Museo d’Arte Contemporanea Castello di Rivoli apre al pubblico le sue trentotto sale, la cerimonia d’inaugurazione fu affidata alla mostra “Ouverture”, curata dall’allora direttore del Museo Rudi Fuchs, con l’intento di proporre un modello di collezione internazionale articolata tra gli storici ambienti del primo e del secondo piano.
Il mio consiglio, prima di entrare, è proprio quello di riprendere fiato, fare anche una breve passeggiata attorno all’edificio, guardare giù dal muretto che perimetra la collina e il cortile del castello, giocando a riconoscere le vie e i quartieri della città che dall’alto sembra fatta con i “Lego”.

Ci vuole un particolare stato di rilassatezza per accettare che un cavallo appeso sia in effetti un’opera d’arte e non una maldestra citazione de “Il Padrino”.
Purtroppo riconosco che la quotidianità non mi permette di andare a visionare quanto spesso vorrei le esposizioni temporanee presenti a Rivoli, anche se cerco di non perdermene troppe. Tuttavia, nonostante siano passati alcuni anni, la mostra “mia preferita” rimane “MAdRE” (2014), di Sophie Call. Un doppio percorso, unito e contrapposto giocato sul dialogo di due importanti progetti: “Rachel, Monique” e “Voir la mer”. Ricordo ancora vividamente quanto mi avessero colpito quegli schermi giganti su cui erano proiettati i filmati dedicati alle persone di Istanbul che avevano visto il mare per la prima volta. Erano volti emozionati, segnati dall’incredulità, inondati da un sentimento intenso ed ingombrante come l’acqua che stavano scoprendo, nonostante vivessero in una città circondata dal mare. Un mare azzurro-blu, che accomuna e accoglie ma che può anche travolgere e distruggere, un elemento complesso dunque che chiama in causa emozioni e sentimenti contrastanti. L’opera di Sophie Call è delicata e straziante, volta ad indagare temi quali il distacco, la rottura amorosa e l’intimità. Una delle artiste contemporanee che apprezzo di più, una donna coraggiosa che non teme di esporre opere come “Silenzio”, particolare realizzazione costituita da un’edicola in legno contenente una fotografia alla cui base è applicata una targa in metallo con la seguente incisione: ‹‹ Ogni volta che mia madre passava davanti all’Hotel Bristol, si fermava, si faceva il segno della croce e ci pregava di tacere: “Silenzio, diceva, è qui che ho perso la mia verginità” ››. Ma lasciamo il 2014 e torniamo a noi. Una delle peculiarità del Castello di Rivoli sta nello stretto rapporto che gli artisti riescono ad instaurare con il Museo, specificità che non solo permette agli stessi autori di scegliere quali opere esporre, ma ha comportato la realizzazione di grandi installazioni permanenti ideate dagli artisti appositamente per la Residenza. L’attività museale si fonda su quattro concetti cardine: aderenza all’attività museale, rilevanza internazionale, attenzione alle più attuali ricerche e la selezione di “masterpiece” nella produzione di ciascun artista. Le opere della collezione permanente sono collocabili tra gli anni Sessanta fino ai giorni nostri e sono riconducibili all’Arte Povera, (dalla Transavanguardia al Minimal), alla Body Art e alla Land Art, fino alle più recenti tendenze artistiche.

Visitare il Castello di Rivoli significa mettersi in gioco, costringersi ad aprire la mente ad un mondo diverso e purtroppo troppo spesso distante, è un’esperienza totalizzante, che chiama in causa tutti i sensi e costringe i visitatori a cambiare punto di vista, ad ammettere che non si ha sempre ragione. L’arte contemporanea ci sfida apertamente a fare “tabula rasa” e ad ascoltare altre versioni ed opinioni, attraverso la ricerca di significati che non sono mai quello che sembrano.
Tra la moltitudine di artisti spicca lui, “l’appenditore di banane” più incompreso al mondo, nonché uno degli artisti più ricchi e discussi della scena odierna.
Maurizio Cattelan utilizza nelle sue opere un approccio critico che si muove nella direzione dell’avanguardismo novecentesco, corrente artistica sviluppatasi nel XX secolo, nella convinzione che la vita futura possa acquisire un senso immanente e assoluto e successivamente venga messa in crisi dal capitalismo e dal crollo delle ideologie.
Togliamoci subito il dente e proviamo a dire due parole su quest’ultima opera (“Comedian”) che sembra proprio una costosissima presa in giro. Non ci siamo andati lontano in effetti, poiché l’artista voleva proprio provocare, con l’ennesimo gesto ironico, quel meccanismo inarrestabile che senza troppe riflessioni ha subito riconosciuto il titolo di “capolavoro” ad una banana attaccata con un pezzo di scotch. Ci siamo tutti arrabbiati, ma forse perché ci siamo sentiti colpiti nel vivo: l’opinione comune si è irritata, rifugiandosi dietro frasi cliché che riconoscono l’arte solo nei maestri rinascimentali, barocchi ed ottocenteschi, ossia “quando gli artisti sapevano disegnare”. Ma così ci si dimentica che da Duchamp in poi ciò che conta sono l’idea ed il gesto. L’idea dietro “Comedian”? Azzerare tutte le idee, far emergere il vuoto assurto a meccanica indiscussa, riflettere nichilisticamente sulla condizione dell’oggetto artistico, portato al livello di merce consumistica pagata a peso d’oro secondo quanto imposto dal mercato.

Cattelan da sempre vuole fondere vita e arte, realtà e finzione, attraverso azioni sempre più mass-mediatiche e stranianti come “A perfect Day”, “Hollywood”, “La rivoluzione siamo noi”, la teatrale “Him”. L’artista si comporta secondo lo standard della notizia televisiva, le sue opere fanno scandalo e di conseguenza fanno notizia, trasformandosi in informazioni di tendenza. Lo dimostrano installazioni come “La nona ora”, statua di Giovanni II colpito da un meteorite, esposta proprio in Polonia, presso la Galleria Zacheta di Versavia nel 2001, oppure “L.O.V.E.” acronimo di “libertà, odio, vendetta, eternità”, più comunemente conosciuta come “Il Dito”, una scultura in marmo di Carrara posta di fronte a Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa Milanese, che raffigura una mano intenta nel saluto romano con però tutte le dita mozze tranne una, quella del medio. La scultura si trasforma in un gesto irriverente, reso ancora più ironico dallo stile classico e monumentale che dialoga con l’architettura del ventennio del Palazzo Mezzanotte e se la prende con il mondo della finanza. Forse la più scandalosa rimane l’installazione del 2004, “Tre bambini impiccati in Piazza XXIV Maggio”, lavoro decisamente disturbante, costituito da tre manichini di bambini a piedi scalzi e con gli occhi sbarrati, impiccati ad una quercia. Lo stesso autore aveva così controbattuto alle critiche della cittadinanza: “La realtà che vediamo in questi giorni in TV supera di molto quella dell’opera. E quei bambini hanno gli occhi aperti: un invito a interrogarsi”.

A Rivoli ci si imbatte subito nell’ironia dell’artista, poiché dove c’è la biglietteria si trova “Il bel paese, 1994”, un enorme tappeto circolare, gigantografia dell’omonimo formaggio: il lavoro rimanda all’espressione che Dante e Petrarca avevano riferito all’Italia, che qui si concretizza in un tappeto continuamente calpestato e sporcato dai visitatori.
Realizzazione dedicata alla crudeltà umana è “Charlie don’t surf” del 1997, il cui titolo è una citazione del film “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, relativa alla scena in cui gli americani distruggono un villaggio per poter accedere ad una spiaggia e fare “surf”. Si tratta di una scultura di un bambino seduto ad un banco di scuola, appositamente messo di schiena ed apparentemente diligente, se ci si avvicina ci si accorge che l’innocente è forzatamente immobilizzato da due matite conficcate nelle mani.
Nello stesso anno Cattelan realizza “Novecento”, il celebre cavallo imbalsamato e appeso al soffitto mediante un’imbragatura. Si tratta di un’inedita “natura morta” in cui prevalgono senso di insicurezza, fallimento e impossibilità di azione.

Non c’è quindi sempre da ridere, bensì occorre riflettere. A criticare siamo bravi tutti.

Alessia Cagnotto

Torino e i suoi musei. Il museo della Juventus

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Torino e i suoi musei
Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

10 Museo della Juventus

I goliardici Gem Boy cantavano –E tutti si faceva il coretto- “Ma in Holly e Benji tutto è normale anche il Giappone vince il mondiale”, ridendo sia per la non eccessiva bravura della nazionale nipponica, sia perché “cosa c’entra il calcio con il Paese del Sol Levante?” Ed ecco l’errore: nell’ XI sec. a.C, proprio in Giappone si praticava il “Kemari”, simile al “cuju” cinese, un gioco militare che fungeva da addestramento e il cui scopo era quello di mandare un pallone ripieno di capelli e piume in una zona definita da due canne di bambù, utilizzando solamente i piedi. Un manoscritto del 50 a.C. attesta le dispute tra Cina e Giappone giocate attraverso lo “Ts’u-Chu”, (altro nome per “Cuju”).

Il “Kemari”, ancora praticato in alcuni luoghi, è più antico di circa cinquecento anni rispetto al “Cuju” e consiste nel passarsi tra giocatori un involucro di cuoio contenente una vescica d’animale gonfiata, senza che questo tocchi terra. A nostra discolpa possiamo dire che anche in Grecia, a partire dal IV sec. a.C., era praticato uno sport, antenato del calcio e del “rugby”, chiamato “episkiros”. Il gioco, che a Sparta seguiva modalità abbastanza violente, non faceva parte delle discipline olimpiche dell’epoca, ma era comunemente diffuso su tutto il territorio. Ad Atene, presso il Museo Archeologico, è conservato un bassorilievo raffigurante un uomo che gioca all’“episkyros”, l’immagine non ha nulla a che invidiare alle figurine collezionabili, è forse solo leggermente più pesante. A Roma il gioco si trasforma nell’ “harpastum”, (da “arpazo”, che in greco significa “strappare con forza”. È il noto letterato latino Marziale, (I sec. d.C.) che ci descrive le due tipologie di palloni usati nell’Impero, “pila paganica”, utilizzata perlopiù dai contadini e la “fillis”, prediletta dai legionari. È probabile che proprio i soldati che si trovavano nei “limes” abbiano importato lo sport nei territori dominati da Roma, fino a diffonderlo anche in Inghilterra.

In epoca medievale, nella Francia del nord, si afferma la “soule”, vero e proprio antenato dello sport che oggigiorno guardiamo in TV.  Alla “soule” si giocava di domenica, dopo la liturgia; le squadre vedevano contrapporsi villaggi rivali o diversi status sociali, (sposati contro celibi, ad esempio) e lo scopo era lanciare la palla all’interno di un edificio del villaggio avversario, in genere una chiesa, la grandezza del campo era variabile e poteva in alcuni casi comprendere fossati e zone paludose.  È dunque ben più antico degli anni Sessanta il ritornello di Rita Pavone, e forse già allora le fidanzate dei giocatori si lamentavano. Tale sport, la “soule”, è descritto dalle fonti come un gioco troppo violento, secondo quanto attestano le varie “lettere di remissione”.

È arrivato il momento di gongolare: il Rinascimento italiano “docet” anche in questa situazione. Nella Firenze medicea si praticava il “calcio fiorentino”, attività ludica decisamente prediletta dalla comunità toscana. Si tenevano, infatti, incontri ufficiali tra i partiti dei Verdi e dei Bianchi, nel campo prestabilito della Piazza di Santa Croce, al termine dello “scontro” i vincitori si appropriavano delle insegne avversarie. Ogni squadra era formata da 27 giocatori: coloro che stavano sulla linea degli “innanzi” avevano il compito di attaccare, vi erano poi gli “sconciatori”, i “datori innanzi” e, infine i “datori indietro”. Questa la definizione della Crusca risalente al XVIII secolo: “È calcio anche nome di gioco, proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata con una palla a vento, somigliante alla sferomachia, passata dai Greci ai Latini e dai Latini a noi.” Ogni anno la città di Firenze ricorda quelle partite antiche attraverso una fedele ricostruzione storica in costume. Ho finito la mia premessa e ora , come si suol dire, “per me sono dolori”, perché già so che i lettori granata chiuderanno la pagina immantinente. L’excursus storico mi è servito come larga scusa per invitarvi allo Juventus Museum di Torino.

Il Museo si colloca tra la curva Nord e la Tribuna Est dell’Allianz Stadium, siamo in via Druento, vicino all’area della Continassa tra Vallette e Barriera di Lanzo.
La monumentale opera, coordinata dall’architetto torinese Benedetto Camerana, è stata concepita secondo moderni standard tecnologici e interattivi. L’esposizione, insieme multimediale e classica, venne inaugurata il 16 maggio 2012. Al suo interno è raccontata e documentata la storia della Juventus, che però viaggia in parallelo con le vicende di Torino e i fatti storici italiani, con focus sugli avvenimenti del XIX secolo. Tutta l’esposizione è bilingue, in modo da garantire una semplice fruizione autonoma ai visitatori, che hanno a disposizione non solo un’eventuale spiegazione in inglese ma anche l’universale uso della multimedialità. Il complesso museale è diviso in cinque aree. “La Juve segna”, come ci suggerisce il nome, è un salotto ellittico alle cui pareti sono proiettati i video dei “gol” segnati dalla squadra; la “Sala principale” invece è suddivisa a sua volta in più zone, una dedicata alla fondazione e all’evoluzione storica del club, un’altra dove sono visibili i modelli degli stadi, quello del Campo Juventus, lo Stadio Comunale e l’Allianz Stadium. Vi è poi una simpatica sezione costituita da ologrammi interattivi degli storici allenatori della squadra, come Trapattoni e Lippi. In quest’area si trova anche un totem dedicato alle vittime della strage di Heysel, ed è sempre qui che vengono allestite le mostre temporanee.

“Il tempio dei Trofei” è il luogo dove sono esposti, sotto luci stroboscopiche, i trofei ufficiali vinti dalla squadra. “La sfera”, complementare alla mostra “Fratelli d’Italia”, presenta immagini di giocatori juventini convocati alla Nazionale A. “La squadra”, invece, è la sala storica, tutta dedicata al primo club bianconero; chiude il Museo la sala “Fino alla fine” dove è visibile una video installazione della durata di sei minuti che mostra il tragitto dei giocatori dagli spogliatoi al campo. Al Polo della Juventus è consigliabile andare in compagnia di altri juventini, in modo che ognuno possa incrementare e scambiare le più vivide emozioni con l’amico di squadra del cuore. Se vi sentite coraggiosi, andateci pure con la vostra fidanzata, sappiate però che quest’ultima potrebbe vendicarsi portandovi nei negozi di moda vicinissimi al Museo. Come concludere questo pezzo propriamente di parte, forse con un intramontabile cliché. Diciamolo allora: “Ah come gioca Del Piero!”

Alessia Cagnotto

I musei di Torino. La Gam

Torino e i suoi musei

Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.
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1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus
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6 La GAM

Tra i musei torinesi, la GAM (Galleria Civica d’Arte Moderna) è sicuramente la mia preferita. Si trova in via Magenta 31, edificio dalla forma più che riconoscibile, ma per i più distratti un inequivocabile indizio è offerto dall’imponente opera di Penone, intitolata “In limine”, realizzata in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia su commissione della Fondazione De Fornaris. La monumentale opera dell’artista, posta
di fronte alla GAM, funge simbolicamente da ingresso al Museo. La scultura è stata inaugurata dal Presidente Giorgio Napolitano il 18 marzo 2011, ed è di diversi materiali: marmo di Carrara, bronzo, tiglio ed edera. È lo stesso Penone a spiegare la sua opera: “Nasce con l’intenzione di creare un segno che indichi il passaggio dalla spazialità della città alla spazialità sacrale del museo, nelle cui opere risiedono valori e significati che motivano la nostra esistenza. Ogni volta che si varca la sua porta ritroviamo il passato e ci proiettiamo nel futuro”. La Galleria fa parte della Fondazione Torino Musei, che comprende il MAO, Palazzo Madama, il Museo Civico d’Arte Antica e il Borgo e la Rocca medievali. La storia della collezione inizia nel 1863. Torino fu la prima città in Italia a promuovere una raccolta pubblica di arte moderna. Tale raccolta stava inizialmente con altri reperti di Arte Antica in un edificio presso laMole Antonelliana.
Dal 1895 al 1942 la collezione fu esposta in un padiglione in corso Siccardi (ora corso Galileo Ferraris) che rimase distrutto durante i bombardamenti angloamericani durante la II Guerra Mondiale. Nello stesso luogo iniziò la costruzione dell’edificio progettato da Carlo Bassi e Goffredo Boschetti, inaugurato nel 1959. Le opere vennero poi spostate in Via Magenta 31, dove sono fruibili ancora oggi. Nel 2009 la collezione è stata riorganizzata senza più seguire la successione cronologica delle opere esposte, bensì una trama logica di “Veduta, Genere, Infanzia e Specularità”. In seguito alla nuova riorganizzazione del 2013, in occasione del 150º anniversario delle collezioni GAM, sono stati istituiti i percorsi “Infinito”, “Velocità”, “Etica e Natura”. Il patrimonio della Galleria si compone di oltre 47.000 opere tra dipinti, sculture, installazioni e video.
Il primo ricordo che ho della GAM risale al periodo delle elementari, quando le maestre ci avevano portato a vedere una mostra sul “Puntinismo”, a cui era seguito un divertente laboratorio creativo che ci invitava a sperimentare la tecnica pittorica. Non so che cosa avrebbe pensato dei nostri piccoli risultati Pellizza da Volpedo, ma rammento che ci eravamo divertiti tutti moltissimo. Credo che la GAM sia la Galleria che ho visitato più volte, non solo per godermi le mostre temporanee, sempre interessanti e conformi ai miei personali interessi, ma perché penso mi abbia silenziosamente accompagnato verso il percorso interiore che mi ha condotto prima ad amare l’arte, poi ad apprezzarla ed
infine a concepirla come il mezzo di comunicazione a me più affine.
In quelle che ora sono coloratissime sale espositive, il visitatore si trova a confrontarsi con diverse tipologie di opere artistiche, spaziando tra le varie epoche, fino a doversi per forza scontrare con alcune opere contemporanee, che scherzosamente potrei definire “di ostica comprensione”.
Ad oggi il piano interrato è dedicato al contemporaneo, il primo piano al Novecento e il secondo all’Ottocento.Certo è che l’arte contemporanea non è di immediata fruizione, i lavori artistici vanno contestualizzati con precisione e spiegati e, per comprenderli appieno, ci vogliono pazienza, sforzo intellettuale e competenza, tuttavia una volta capito il meccanismo non si torna più indietro: si spalanca la possibilità di un mondo di riflessioni e opinioni, un aiuto e una marcia in più per avvicinarci alla complessa realtà in cui viviamo.
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Vi propongo alcune opere.
“Orange Car Crash” (5 Deaths 11 Times in Orange) (Orange Disaster), serigrafia di acrilico su tela, realizzata nel 1963 da Andy Warhol. Siamo negli anni Cinquanta del Novecento, Warhol è affascinato dai New Dadaisti Jasper Johns e Robert Rauschemberg, i quali utilizzano un innovativo procedimento artistico che prevede la rappresentazione della quotidianità banale e ordinaria, tendente ad una pittura asettica, calibrata sulle immagini trasmesse dalla pubblicità. Ne consegue uno stravolgimento del ruolo dell’artista, che non interpreta più la realtà ma semplicemente la ripete meccanicamente come in un infinito processo industriale, specchio della società di massa. A partire dagli anni Sessanta, Warhol abbandona la pittura per la serigrafia, tecnica decisamente più impersonale e replicabile e che calza a pennello con la nuova poetica che l’artista decide di abbracciare fino alla morte. Nel 1963 egli realizza il ciclo “Death and disaster”, che riproduce
fedelmente la prima pagina del “New York Mirror” del 4 giugno 1963, dedicata al terribile disastro aereo in cui perirono 129 persone. L’artista estrapola un frammento di realtà e lo inserisce in un contesto diverso, estetico, dove i valori vengono sfalsati e il significato originario si disperde. Il soggetto viene replicato più e più volte, in tal maniera l’artista crea una sorta di assuefazione visiva che comporta uno svuotamento di significato della sequenza, è così che Warhol prova a contrastare le forti emozioni della vita. Altro autore che genera grandi dubbi negli spettatori è Lucio Fontana, uno degli esponenti del filone “signico” dell’Arte Informale, insieme a Capogrossi, Wols e Mathieu. L’artista affronta il problema dello spazio pittorico, arrivando a perforare o tagliare la tela, come esplicano i “Concetti spaziali” degli anni Cinquanta; il suo segno è un’azione che rende unica l’opera d’arte, determinando lo spazio in maniera univoca. Si tratta di tele monocrome caratterizzate da uno o più tagli disposti o casualmente o secondo un ordine regolare. Attraverso i tagli si concretizza uno spazio tridimensionale, in cui le ombre generate dalle fenditure sono reali. L’osservatore è così invitato ad entrare nello spazio del quadro, ad andare oltre, in una dimensione infinita. In questa serie viene meno la distinzione tra pittura, scultura e spazio dell’osservatore.
Fontana realizza poi il ciclo delle “Attese”, la cui titolazione si riferisce al tempo che intercorre tra l’ideazione dell’opera e il momento fondamentale del taglio; questi lavori si rifanno ad un atteggiamento contemplativo, vicino alle tematiche dell’arte metafisica. Alla GAM sono esposti vari elaborati di Fontana, tra cui il giallo “Concetto spaziale” del 1952.
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Siccome tre è il numero perfetto, vorrei parlarvi ancora di uno degli esponenti più importanti dell’Arte Povera e che amo profondamente: il pugliese Pino Pascali. È stato artista eclettico, scultore, scenografo e performer; nei suoi lavori, caratterizzati da una visione ludica dell’arte, emergono elementi facilmente
riconducibili alle sue radici mediterranee, come i campi, il mare e la terra. Alcune elaborazioni assomigliano ad enormi giocattoli, ad esempio la serie delle “armi”, realizzate con materiali di recupero quali metalli, paglia e corde; altra serie assai nota è quella volta a riproporre le icone ed i feticci della cultura dei consumi. Alla Galleria è esposta l’opera realizzata nel 1964, “Omaggio a Billie Holiday”. Tale lavoro fu esposto alla V Rassegna di Arti Figurative di Roma e del Lazio nell’aprile del 1965 e vuole essere una celebrazione della strabiliante cantante di colore. Ci troviamo dunque davanti ad un oggetto ambiguo e di difficile comprensione, definibile sia come scultura dipinta sia come pittura tridimensionale; si tratta di un gigantesco parallelepipedo nero sulla cui parte superiore sovrastano due enormi labbra rosso fuoco, l’opera, dal sorprendente effetto erotico, simboleggia i tratti di una figura femminile drasticamente schematizzata attraverso una procedura che da una parte ricorda i lavori di Tom Wesselmann e dall’altra rimanda inconsciamente alla scultura africana che Pascali tanto amava. La GAM ospita tantissime opere relative a celebri autori, tra i quali Giulio Paolini, Marc Chagal, Modigliani, Rama, Burri, Merz, Hans Harp, Capogrossi e molti altri, e ognuno di essi meriterebbe un degno approfondimento, ma siccome questa non è la giusta occasione, non vi rimane, cari lettori, che andare a curiosare di persona.
Alessia Cagnotto 

8 settembre 1943, oggi una riflessione serena è possibile

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Anche quest’anno il Comune di Torino ha programmato una cerimonia al cimitero monumentale per l’anniversario dell’8 settembre 1943, quando l’ Italia del tutto impreparata si trovò a far fronte all’armistizio  annunciato dagli Alleati all’improvviso e firmato nei giorni precedenti a Cassibile. Ha senso storico celebrare quel giorno? Sorgono legittime perplessità

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In primis fu un giorno in cui lo Stato italiano sembrò essersi sgretolato insieme all’Esercito lasciato allo sbando.Segnò la rottura con la Germania nazista, non la morte della Patria,come è stato sostenuto in modo errato, ma certamente la sua eclissi. Non fu un  “tutti a casa“ come nel film di Alberto Sordi perché una parte dell’Esercito cercò di resistere e una parte di militari cercò di riprendere le armi nella guerra di liberazione.

Il governo Badoglio, pur in condizioni difficilissime che avrebbero comportato la possibilità di errori da parte di chiunque nel tentativo di far uscire l’ Italia dalla guerra a fianco di Hitler, non fu all’altezza del compito e neppure gli alti comandi militari lo furono. Forse solo il Maresciallo Enrico Caviglia sarebbe stato in grado di affrontare l’arduo compito. L’ episodio eroico di Cefalonia non fu in realtà un atto di Resistenza, ma fu un massacro di Italiani lasciati in balia di se’ stessi. Una parte di responsabilità fu degli Alleati che annunciarono intempestivamente l’armistizio, prendendo in contropiede le autorità italiane. Passare dall’alleanza con Hitler al versante opposto senza danni era impossibile, specie per un paese dove Mussolini era ancora visto come un mito da tanti italiani che non condivideranno  il  “tradimento“ dell’ alleato tedesco. Salvare capra e cavoli era impossibile, ma certamente dal 25 luglio all’ 8 settembre l’’ Italia non fu in grado di prepararsi all’Armistizio in modo adeguato. Il governo non seppe fronteggiare un compito arduo,ma ineludibile, quello di contenere l’invasione dell’esercito tedesco in Italia. Forse non era possibile farlo, ma non fu seriamente tentato. Così ci fu la fuga di Pescara del Governo  e del Re, un altro episodio molto controverso. Il modo in cui avvenne la fuga non fu certamente eroico e forse il Re si giocò la Corona,  trasferendosi in territorio italiano non ancora occupato, preservando Roma dalla sua distruzione come avverrà a Montecassino. Ma quel trasferimento inglorioso avvenuto alla chetichella come era inevitabile, salvò l’ Italia, il re che aveva salvato l’ Italia a Peschiera nel 1917 durante la Grande Guerra, salvò un’altra volta l’ Italia a Pescara, trasferendo il governo e salvando la continuità dello Stato. Un atto eroico di  resistenza forse avrebbe salvato la Corona, ma avrebbe impedito allo Stato italiano di riaversi dopo il tracollo ,ricostituendo il suo esercito. L’8 settembre non è una data esemplare da celebrare perché l’ Italia in guerra, anche in quella maledetta guerra, fu migliore di quella che apparve quel giorno di settembre, considerato simbolicamente come il giorno della resa. E’ una data da cui partire per una serena riflessione storica che a 77 anni di distanza è possibile. Dopo quella data, la guerra non ebbe termine ma riprese con italiani schierati dalla parte del Regno del Sud (su cui scrisse pagine importanti e dimenticate  Agostino degli Espinosa) e dalla parte di Mussolini alleato della Germania, quando il duce creò la Repubblica Sociale: fu la Resistenza, ma anche la guerra civile che lasciarono  tracce indelebili nella storia italiana successiva.

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No al moralismo populista

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IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni / La questione del referendum sul taglio dei parlamentari è questione squisitamente politica, con risvolti chiaramente costituzionali.

La coscienza non c’entra nulla e il Pd, che si è convertito di recente al  sì al taglio, non può contemporaneamente dirsi per il sì e lasciar liberi i suoi elettori.

 

Un partito politico, specie un partito che afffonda le sue radici nel vecchio PCI,  non può, su una questione del genere, oscillare per motivi di governo e di trasformismo.  E questo vale  anche per il centro-destra che pavidamente ha votato la legge e oggi riscopre in parte le ragioni del no. Guardando ai parlamentari attuali, esclusi pochissimi, verrebbe voglia di mandarli a casa con un taglio che impedisca  a molti di tornare. Ma chi ci dà la garanzia che verranno ricandidati i migliori? Nessuno, perché i parlamentari restano designati dai partiti e messi in ordine di preferenza. Il ritorno alla preferenza nessuno lo vuole. Il risparmio rappresentato dal taglio è minimo, semmai bisognerebbe tagliare l’indennità e abolire i rimborsi spesa. In ogni caso il taglio riduce la rappresentatività del Parlamento sia in sede territoriale sia in rapporto alle minoranze. Non sono un fanatico del no, ma non riesco a capire i partiti politici che si schierano e poi danno libertà agli elettori. Amalia Guglielminetti parlava di vergini folli, adesso si potrebbe parlare, come ha detto un’amica giornalista, di vergini incinte. La politica appare davvero finita e quindi la stessa democrazia è in crisi. I referendum non ammettono il ni, bisogna scegliere. Neppure su divorzio ed aborto, dove era  realmente in gioco la coscienza dei credenti e  la laicità dello Stato, vennero fatte scelte ambigue, forse obbligati da Pannella che era il leone che ruggiva in difesa dei referendum. In ogni caso va respinto il populismo moralistico di stampo qualunquistico che da Giannini a Stella confondono  la  Politica con la casta. L’unica cosa giusta della legge sul taglio  è  quella di contenere i senatori a vita in carica e non consentire ad ogni presidente di nominare senatori che possono alterare le maggioranze  parlamentari in modo penoso con senatori a vita che sorreggevano il governo Prodi. La legge avrebbe dovuto abolire e non ridurre i parlamentari eletti all’estero, un’esperienza non riuscita, anche se apparentemente giusta. I parlamentari venuti dall’estero si sono rivelati trasformisti e mediocri. In ogni caso chi non paga le tasse in Italia non deve poter votare. La legge del taglio è errata e demagogica. La cultura liberale non può non schierarsi con chiarezza per il No

 

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Covid ed etica della responsabilità

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni/

Marco Revelli che con gli anni migliora sempre rispetto agli anni ruggenti della sua giovinezza, ha scritto un magistrale articolo su “La Stampa“, denunciando come a Cuneo si facciano ordinanze per impedire certi spazi della città ai clochard, citando persino un passo di Baudelaire che si commuove di fronte ad un padre con due figlioletti che vedono, sgranando gli occhi, un bel caffè parigino. 
Certo è inumano essere così insensibili da non vedere certe realtà e volerle respingere sotto il tappeto. Non è solo il marxista Revelli a sentire così, ma anche chi è credente e anche chi possegga un’etica laica e solidale. Solo l’egoismo edonista può chiudere gli occhi e voler allontanare da sè certi spettacoli poco edificanti e poco piacevoli. Il sindaco di Cuneo Borgna ha replicato, elencando le iniziative messe in atto dal Comune  per affrontare il problema dei senza tetto. Ma ha anche aggiunto che ci sono dei limiti invalicabili oltre i quali non si può andare. E‘ la famosa etica della responsabilità che deve animare i pubblici amministratori, mentre l’etica dei principi è quella che anima i poeti come Baudelaire o comunque le singole persone. Anch’io provo grande pena per queste persone indigenti che si sono trovate senza casa. Ma cosa può fare un Comune oltre un certo limite? Eppure bisognerebbe fare di più per un fatto che Revelli ignora: il Covid 19. Il virus espone queste persone al contagio ed esse possono esserne veicolo. Siamo un Paese dai mille problemi irrisolti perché in epoche normali abbiamo fatto troppo poco ed oggi ci troviamo montagne di realtà irrisolte che il povero Sindaco di Cuneo non può certo risolvere da solo. Appendino lascia invadere via Roma dai senza tetto, ma non mi risulta che  Revelli ne abbia mai scritto.

Arrigo Levi, addio all’ultimo grande direttore

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La morte di Arrigo Levi priva il giornalismo dell’ ultimo grande direttore e di uno degli ultimi giornalisti di alta professionalità e di sicura onestà intellettuale. Ci siamo conosciuti e frequentati durante tutto il suo periodo di direzione alla  “Stampa”, un periodo funestato dal terrorismo e dalla morte di Carlo Casalegno, vicedirettore del giornale e vittima delle Br.

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Levi era andato volontario nella prima guerra – arabo israeliana nel 1948 in difesa dello Stato di Israele, un’ idea che mantenne coerente per tutta la sua vita, cantando, in fin di vita, in ospedale, l’Inno di Israele. Era un uomo di respiro  internazionale e credo che il clima torinese un po’ provinciale gli stesse stretto anche se cercò di dialogare con la città.
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 Volle continuare l’opera di Alberto Ronchey  di cui fu successore, nell’aprire il giornale a contributi e idee diverse, rispetto ad un principio liberale che egli sentiva profondamente. Tra i nuovi collaboratori ci furono Manlio Brosio e Aldo Garosci. Chiese delle vignette al grande Mino Maccari, creando una speciale terza pagina della domenica.  A presentarmelo durante un pranzo al “Cambio” fu il direttore uscente Ronchey  che volle raccomandargli il <<suo Pannunzio >> che durante la direzione di Levi  divenne luogo prediletto degli incontri fantasiosi del Conte di Cavour immaginati da Stefano Reggiani su idea Ferruccio Borio. Credo che gli stesse stretta una parte di redazione e un’altra parte che fiancheggiava i terroristi rappresentasse una vera spina nel fianco. Fu lui a non volere la direzione di “Stampa sera“ , covo di estrema sinistra, che fino ad allora aveva per direttore lo stesso giornalista che dirigeva l’edizione del mattino. Aveva tra i suoi redattori uno dei più grandi giornalisti, Vittorio Messori, che forse non poté valorizzare come avrebbe meritato. Stiamo già sentendo con fastidio  le voci dei giornalistini egocentrici e narcisisti che si autodefiniscono  il  braccio destro” del direttore e ne tessono le lodi post mortem.  Ricordo che quando Gheddafi chiese la sua testa per un elzeviro scherzoso di Fruttero e Lucentini, il Centro “Pannunzio” fece affiggere un manifesto in tutta Torino di solidarietà a Levi. Conservo una sua lettera molto affettuosa di ringraziamento. Poi il  rapporto continuò durante il settennato di Ciampi alla presidenza della Repubblica. Ebbi più consuetudine con Gaetano Gifuni, segretario generale, ma spesso mi sentii anche con Levi che una volta venne su mio invito a ricordare Casalegno insieme al direttore Marcello Sorgi al liceo d’Azeglio durante la presidenza di Giovanni Ramella.  Mi permisi nel mio intervento di definire Casalegno un moderato, considerando che altri lo ritenevano impropriamente uomo di destra. Moderato, dissi, in opposizione ad estremista. Levi non accettò questa tesi e sostenne che Carlo era un <<estremista della democrazia >>, una tesi  che lasciò perplessa  la vedova di Carlo Dedy  che condivideva le mie idee. Poi alla cena al “Cambio” che seguì nacque un confronto molto affettuoso ma vivace tra Dedi e Levi su Casalegno. In seguito parlammo noi due a lungo di Ciampi di cui era Consigliere: mi disse di lui delle cose molto affettuose e intime che rivelano la grandezza umana ed intellettuale del Presidente di cui ho scritto in un mio libro. Poteva apparire strano che una grande penna del giornalismo internazionale rinunciasse alla scrittura per servire un Capo dello Stato, ma capii che Levi lo fece, sentendolo come una missione civile. Prima di tutto è stato un grande italiano fedele alle Istituzioni della Repubblica. E  anche come tale gli va reso grazie.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Torino dei miracoli

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 10: Torino dei miracoli

Torino è talmente magica che c’è spazio anche per i miracoli.
Data: 29 aprile 1644. Alla periferia di Torino, in riva al Po, nell’attuale C.so Casale 195, c’era solo un pilone votivo dedicato alla Madonna. Nei pressi si trovava un mulino ad acqua, e lì si stavano dirigendo Margherita Mollar e la figlia di 11 anni. Mentre la madre affidava al mugnaio il sacco di farina, la figlia si allontanò per giocare in riva al fiume. In un attimo la piccola cadde nell’acqua, la corrente la stava trascinando via tra le sue grida spaventate e le urla terrorizzate della madre. Quando tutto sembrava ormai perduto, la mamma della piccola, disperata, non trovò sostegno se non nell’invocare un’altra Madre. Ed ecco il miracolo: una bianca signora comparve sull’acqua, prese per mano la bambina e la accompagnò fino alla riva. Il prodigio ebbe larga eco e per volontà della reggente Maria Cristina di Francia, nello stesso luogo, l’anno seguente venne eretta una chiesa che fu aperta ai fedeli il 25 maggio del 1645, chiamata ancora oggi “Madonna del Pilone”.

Dunque, se i miracoli non avvengono qui a Torino, dove è conservata la Santa Sindone e dove pare sia nascosto il Santo Graal, allora dove dovrebbero avvenire? Andando indietro nel tempo, l’urbe augustea fu sede di un altro avvenimento soprannaturale, conosciuto come il miracolo del SS Sacramento. Siamo nel 1453, la Francia e il Ducato di Piemonte-Savoia sono in guerra, Renato d’Angiò vuole riconquistare il Regno di Napoli e, per nascondere la vera motivazione dello scontro, addita l’unione tra Carlotta di Savoia e il figlio di re Carlo VII, Luigi. Proprio in questo periodo turbolento e tumultuoso, l’esercito piemontese saccheggiò Exilles, senza risparmiare la chiesa del paese, da cui alcuni soldati sottrassero l’ostensorio con l’ostia consacrata. Quegli stessi uomini, il 6 giugno, festa del Corpus Domini, tornarono in città, a Torino, per vendere la merce rubata e ricavarne qualche soldo. Accadde a questo punto che il mulo che trasportava la refurtiva decise di sdraiarsi, facendo così cadere giù dalle borse tutto il bottino: gli oggetti rotolarono rumorosamente a terra, attirando l’attenzione della gente, invece l’ostia consacrata fuoriuscì dal sacco aleggiando nell’aria e risplendendo come un piccolo sole.

Nel trambusto un sacerdote alzò il calice verso l’ostia, e questa si inserì al suo interno, il calice venne portato in processione nella cattedrale di S. Giovanni. Ben undici persone confermarono l’accaduto, firmando un documento ufficiale andato ovviamente perduto. Sul luogo in cui accadde il miracolo venne dapprima eretta una colonna, poi un’intera chiesa, denominata Corpus Domini.  Anche l’unica prova tangibile dell’avvenimento è andata distrutta, l’ostia, venerata per anni, fu consumata per ordine della Santa Sede, “per non obbligare Dio a fare un continuo miracolo, conservandola intatta”.  Pare che l’avvenimento divino abbia ispirato molti uomini a dedicarsi a Dio e all’aiuto del prossimo; se sia stato per questo motivo o meno, è indubbio che nel XIX secolo il Piemonte abbia dato i natali a religiosi illustri e magnanimi, come Don Bosco, Cottolengo o Cafasso.  Proprio a Torino si tenne, nel 1953, il Congresso Eucaristico Nazionale, in cui intervenne colui che in futuro sarebbe stato Papa Giovanni XXIII. Certo queste storie appartengono ad un tempo in cui nessuno avrebbe messo in discussione la veridicità di tali avvenimenti, quando fede e magia impregnavano la quotidianità e davano rapide ed esaustive risposte per quasi ogni cosa, e c’era una frase, un ritornello, un’esclamazione adatta a chiedere aiuti divini o per scongiurare il malocchio.

“Sant’Antòini pien ëd virtù, fame trové lòn ch’a l’hai përdu”, e subito venivano fuori le chiavi, le penne, gli occhiali e tutti quegli oggetti che costantemente “non si vogliono” far trovare; per il meteo valevano i “di’d marca”, decisamente più veritieri ed immediati delle applicazioni sui cellulari; e per essere pronti ad ogni evenienza bastava fare attenzione ai pruriti, per esempio se dava fastidio il palmo della mano destra presto sarebbero arrivati dei soldi, al contrario “sente’l nas a smangè, a l’é quaidun ch’a veul rusé”; attenzione invece ai bambini che sentivano i genitori dire “i-t l’as la schin-a ch’a t’smangia!” E poi badate alle orecchie, “oria drita paròla mal dita, oria manca paròla franca”.  Tempi tanto lontani che pure non se ne vanno, perché gli usi si sono radicati nei nostri comportamenti, essi continuano a vivere nei nostri gesti quotidiani, solo che non ne conosciamo il vero significato. Quante volte diciamo “salute” a chi starnutisce, è una semplice reazione di cortesia, no? Affatto, sono dei demoni che solleticano il naso, in modo che l’anima esca dal corpo, e allora ecco l’esortazione di augurio, affinché i satanassi si allontanino e lascino in pace il malcapitato. Possiamo allora giocare a fare meno gli scettici, e finché ci sarà ancora un innamorato pronto a staccare i petali di una margherita chiedendo “m’ama, non m’ama”, la magia sarà con noi, almeno un pizzico, a consigliarci come agire in queste nostre esistenze così razionali.

Alessia Cagnotto