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Pannella, i novant’anni del Gandhi italiano

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Oggi, 2 maggio, Marco Pannella avrebbe compiuto novant’anni. Dieci anni fa promossi il festeggiamento nazionale per i suoi ottant’anni a Torino al circolo della Stampa. Fu uno straordinario pomeriggio bipartisan in cui politici di colori  politici diversi resero omaggio a Marco che concluse l’incontro con un grande discorso.

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Ci conoscemmo nel 1969, quando stava per andare in porto la battaglia per il divorzio, quando entrai giovanissimo nella LID. Sostenemmo insieme la battaglia per il referendum sul divorzio nel 1974 quando facemmo tanti comizi insieme.
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La battaglia di Marco era una battaglia laica, rispettosa dei credenti, che affermava la laicità dello Stato come garanzia per la libertà di coscienza di tutti i cittadini. Fu difficile farlo comprendere ad una parte di italiani bacchettoni e familisti . La Legge Fortuna -Baslini non era una legge libertina,ma una legge seria,rigorosa e liberale che non intendeva intaccare i valori della famiglia ,ma trovare soluzioni ai naufragi matrimoniali e alle nuove coppie dopo i naufragi. Pannella era un uomo libero che spese il suo patrimonio famigliare a sostegno delle battaglia in cui credeva: una rara avis in assoluto. Una caratteristica che andrebbe ricordata come titolo di straordinaria benemerenza civile. La politica per lui era una scelta nobile da affrontare a viso aperto, pagando sempre di persona. Era un vero liberale, da giovane era stato monarchico come ero lo ero stato anch’io. Una volta parlammo del re Umberto II che anche Pannella aveva conosciuto e che considerava un grande re che seppe nel 1946, partendo, evitare una guerra civile tra Italiani. Da vero liberale vedeva nella Monarchia una garanzia di laicità per l’Italia.
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Era un laico rispettoso dei credenti: è lui che inventò la formula dei laici credenti e non credenti,riprendendo una visione che fu di uomini straordinari come Arturo Carlo Jemolo.
Rifondò nel 1963 il partito radicale di Pannunzio che si era dissolto  e riuscì a portare in Parlamento un partito minoritario che con Pannella riuscì ad imporsi. Fu il Felice Cavallotti del Novecento.
Molte conquiste civili si devono alle battaglia di Pannella. Pannunzio preparò il terreno sul piano culturale con “Il Mondo”, Pannella tradusse in politica alcune idee laiche, andando oltre l’élitismo pannunziano, andando oltre il laicismo. Sicuramente Marco ha anche commesso degli errori, ma nessuno potrà  mai mettere in dubbio la sua buona fede. Era un cavaliere che seppe battersi senza armi né armatura,con l’esempio  della non  violenza e della tolleranza.
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E’ stato il nostro Gandhi. A Roma ci incontravamo a prendere un cappuccino insieme in piazza del Pantheon. Riuscimmo a cenare una sola volta perché spesso stava praticando il digiuno.
Parlavamo di tutto. E Pannella fu l’unico politico capace di parlare con tutti,senza mai sottrarsi al confronto delle idee anche per strada. Una volta parlammo di Renzo De Felice  e del fascismo. Pannella era favorevole alla storiografia defeliciana attaccata violentemente dalla sinistra. Arrivò a dirmi una verità scomoda  che nessuno allora avrebbe  avuto il coraggio di affermare. Mi ricordò  un’idea di De Felice, secondo cui tra i tanti danni del fascismo c’era anche da considerare l’intolleranza e la delegittimazione dell’avversario   che il fascismo trasmise come eredità  anche ai non fascisti e agli antifascisti. Un’idea che Flaiano aveva sintetizzato in una battuta : i fascisti si dividono in due tipologie: i fascisti e gli antifascisti.  Marco aggiunse  che non erano stati solo i fascisti a trasmettere la loro intolleranza agli antifascisti, ma che quel  demone nasceva anche dal marxismo -leninismo intriso di violenza, di odio e volontà di distruggere i nemici di classe.  I professionisti della rivoluzione di stampo leninista  erano, se possibile, anche più violenti dei fascisti.
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Erano anni in cui questi discorsi erano impraticabili. Ricordo Marco per tanti motivi di cui ho scritto in passato, dedicandogli un capitolo nel mio libro “Figure dell’Italia civile”, ma questo ricordo che ho citato  ha una particolare intensità perché rivela che Marco era un cavallo di razza che non accettava il morso e sapeva galoppare nelle praterie della libertà  incurante del conformismo settario.
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Coronavirus: “Fazio ammette i problemi e i ritardi del Piemonte”

Grimaldi: “Ma molte domande restano aperte. Grimaldi (LUV): dove sono andati e dove andranno gli anziani non autosufficienti dimessi dagli ospedali?”

 

“Fazio ammette: male il Piemonte su tamponi, DPI, vigilanza attiva e RSA. E aggiunge che si poteva avere più coraggio, come la Toscana e il Veneto, ma che non siamo peggio della Lombardia e se non ci fossero state le RSA oggi saremo messi meglio. È un po’ come avere 4 in matematica, italiano e latino e dire che senza insufficienze saremmo stati promossi. In ogni caso il Commissario ha dato ragione alle opposizioni e alle denunce dell’Ordine dei medici e smentito le parole sul Premier e sul Ministro della Sanità” – dichiara il Capogruppo di Liberi Uguali Verdi, Marco Grimaldi, al termine della seduta odierna della Commissione Sanità alla presenza dell’ex ministro Ferruccio Fazio.

“I dati allarmanti del Piemonte” – ha commentato Grimaldi rivolgendosi a Fazio – “non sono solo legati al trend delle Rsa, per questo, per poter avviare la nuova fase, bisogna rispondere ad alcune domande: chi sono i nuovi positivi? Come si farà accelerare la macchina della vigilanza attiva? Utilizzeremo e come le case della salute? ”

“Se si pensano nuove strategie” – ha aggiunto Grimaldi – “bisogna capire se le precedenti erano sbagliate: che cosa non ha funzionato nella vigilanza attiva e nel rapporto con i medici di famiglia? Chi si è ammalato durante il lockdown a parte gli anziani delle Rsa? Come sono state contagiate persone?”

Nel rispondere alle domande, il Commissario Fazio ha ammesso che il Piemonte avrebbe potuto fare di più su tamponi, DPI e vigilanza attiva e che sono mancate buone pratiche messe a punto in altre regioni.

“Ma resta un’altra domanda aperta” – conclude Grimaldi: – “dal 20 febbraio ad oggi non c’è stata un’idea chiara sulla collocazione dei malati Covid non autosufficienti, nel primo mese di sicuro è avvenuto il disastro che tutti conosciamo. Ma anche ora dove stanno andando e dove andranno gli anziani non autosufficienti risultati positivi e usciti dalla terapia intensiva?”

I cattolici, la messa e i clericali…

IL COMMENTO  di Giorgio Merlo / Sulla riapertura delle Chiese e soprattutto la celebrazione della Messa, in Italia si è aperto un dibattito che, come capita alcune volte, rischia di scivolare negli “opposti estremismi”. Certo, mai la Chiesa italiana aveva dovuto affrontare un’emergenza del genere. Ed è, pertanto, del tutto naturale che ci siano delle incomprensioni e delle difficoltà nell’affrontare, e risolvere, un problema che supera e che va al di là di qualsiasi protocollo burocratico e regolamentare.

Detto questo, però, almeno due anomalie non possiamo non evidenziarle. Da un lato lo strano e singolare abbinamento della Chiesa e dell’esercizio della messa domenicale e quotidiana con un qualsiasi esercizio commerciale. E lo dico con tutto il rispetto dovuto, come ovvio e scontato per l’esercizio commerciale o per la sala da gioco. Una scivolata, forse dettata dalla fretta e dalla confusione che caratterizzano questi giorni frenetici che, però, ha rischiato di far deragliare l’intera questione.

Dall’altro, e nel pieno rispetto della dura e del tutto legittima, nonchè comprensibile, posizione espressa dal vertice della Cei, abbiamo anche assistito ad un clericalismo di ritorno di chi si fa ancor più interprete e custode di ciò che dicono i Pastori. È appena sufficiente leggere i commenti su alcuni grandi organi di informazione per rendersene conto. Sono quelle figure che nelle diverse fasi storiche hanno alimentato e attraversato il movimento politico e culturale dei cattolici italiani. Carlo Donat-Cattin li chiamava negli anni ‘80 i “sepolcri imbiancati” e Mino Martinazzoli, con altrettanta ilarità, li definitiva semplicemente “ i cattolici professionisti”. Verrebbe da dire, seppur senza enfasi, nulla di nuovo sotto il sole. Per fortuna, però, esiste ancora la categoria della “mediazione”. Anche nell’area cattolica italiana, curiale e non. E ne è testimone, oggi, una significativa ed importante intervista apparsa su “Repubblica” del vescovo della mia città, Pinerolo, mons. Derio Olivero. Un vescovo colpito dalla tremenda malattia contemporanea e che ne è uscito recentemente guarito. Un messaggio, quello del vescovo piemontese, ispirato dalla prudenza e dal rispetto rigoroso nelle norme e delle regole in materia sanitaria e di contenimento della malattia da un lato, ma dettata anche da una profonda ed intensa spiritualità da praticare quotidianamente. Nella messa domenicale sicuramente, ma anche nella preghiera di tutti i giorni, nel rapporto con Dio e anche nella riscoperta della fede da parte di tante persone che devono forzatamente convivere con questa situazione di isolamento sociale ed umano. E poi è arrivata la puntualizzazione di Papa Francesco, senza alzare la voce e senza bandiere durante l’omelia mattutina nella Chiesa di Santa Marta. Poche parole, senza interferenze e senza altezzosità, ma vere e dettate dalla sola esigenza di rispetto per le decisioni e le scelte degli organismi tecnici e politici in materia sanitaria da un lato e la salvaguardia, al contempo, della fede e dei suoi riti dall’altro. Quella che, in altri tempi – anche se il principio è sempre valido – si chiamava semplicemente “cultura della mediazione”. Ecco come si può smorzare una polemica nata quasi dal nulla. Anche se comprensibile in un contesto turbolento come quello che stiamo vivendo. Una piccola lezione per il futuro. Che si ripresenterà, e per l’ennesima volta, come la storia e l’esperienza ci insegnano.

Coronavirus, le visiere di “Azione”

Riceviamo e pubblichiamo / Il Comitato di Azione della Circoscrizione 2 di Torino, grazie alle nuove tecnologia di stampa in 3D, ha realizzato visiere che ha distribuito gratuitamente a medici di base, pediatri, personale sanitario della Circoscrizione Mirafiori-Santa Rita.

Molti di questi medici hanno ringraziato e chiesto di divulgare questa lodevole iniziativa ad altri medici interessati a ricevere la visiera. “Come comuni cittadini, ma volenterosi di dare una mano concreta al nostro personale medico, in prima linea in un momento così difficile abbiamo sostenuto l’iniziativa del nostro associato Antonio Fidelibus che con la sua stampante 3D riesce a stampare le visiere” -dichiara Antonio Lanci, referente per la Circoscrizione 2 di Torino per #Azione (il nuovo partito di Carlo Calenda ndr) Continua lo stesso Lanci : ”Ci siamo autotassati, per cui le stiamo fornendo gratuitamente al personale medico a Mirafiori e Santa Rita; possiamo produrne solo poche unità al giorno, ma valutiamo altre richieste di visiere protettive da parte del personale medico”. Personale medico eventualmente interessato, può farne richiesta ad Antonio Fidelibus, (fidelibus.antonio@atecos.com)

Piemonte in #Azione – Sanità Torino In #Azione
Gabriele Molinari (comitato promotore Azione nazionale)
Claudio Lubatti (comitato promotore Azione nazionale)
Antonio Lanci (comitato Torino Circoscrizione 2 in Azione)

Ruffino (Fi): “Il Mes? Ok, ma va speso subito per opere strutturali”

Il Mes è un’opportunità, non certo un regalo, che l’Europa mette a disposizione di quei Paesi, come l’Italia, più duramente colpiti dalla pandemia

Se proprio vogliamo metterla sul piano dell’orgoglio nazionale, è bene che sia un prestito e non un’elemosina che si fa al socio indigente. Una massa tanto importante di denaro va spesa, presto e bene, per ammodernare o costruire le infrastrutture del sistema sanitario da troppi anni abbandonate.

Capisco le ragioni di chi suggerisce di sfruttare i circa 37 miliardi di euro per abolire l’Irap perché l’imposta sul reddito delle attività produttive è una zavorra nei bilanci d’impresa. Faccio notare che l’Irap è una misura strutturale mentre il prestito, della durata decennale, va rimborsato e il fisco dovrà poi coprire le mancate entrate dell’Irap. La pressione fiscale va ridotta e in misura anche consistente. Due sono le vie per farlo: creare uno spazio fiscale nel bilancio pubblico italiano e, dall’altro lato, fare opera di pressing sull’Europa perché una quota importante del Recovery Fund sia realmente un aiuto a fondo perduto. L’Europa della solidarietà non avrà altre occasioni: o si manifesta adesso o non sarà più l’Europa.

Daniela Ruffino, deputata di Forza Italia

I Verdi: “Riaprire solo attività in sicurezza”

Riceviamo e pubblichiamo una nota dei co-portavoce regionali dei Verdi-Europa Verde Piemonte Tiziana Mossa e Alessandro Pizzi

L’emergenza sanitaria in atto in Italia, sta mettendo a dura prova la stabilità economica delle famiglie. Moltissime persone prima dell’inizio dell’epidemia, con grandi difficoltà, riuscivano, nonostante la crisi economica, ad arrivare più o meno a fine mese. Ora non più. I soldi annunciati dal Governo Italiano non sono ancora arrivati a chi ne ha fatto richiesta e tutto questo sta creando non pochi malumori nella popolazione.

È assolutamente necessario dare risposte quanto più immediate possibili alle persone più bisognose con sussidi momentanei, sgravi fiscali, soldi a fondo perduto per piccole e medie imprese attraverso procedure più snelle che mai. La chiusura forzata delle attività (come bar, ristoranti, parrucchieri, commercio al dettaglio) e delle industrie sparse lungo lo stivale, non possono reggere per troppo tempo il colpo di questa pandemia. Detto in altri termini più brutti: “Chi non muore di coronavirus, rischia di MORIRE di FAME.

Per questo, come Verdi – Europa Verde Piemonte, capiamo ed è giusto usare la ‘prudenza ‘in un periodo difficile come quello che stiamo attraversando, ma è assolutamente inaccettabile che, in Piemonte come altrove, alcuni negozi utili alla collettività, debbano restare chiusi ancora sino a giugno.

Chiediamo, anzitutto, che LE SOLE aziende o attività commerciali IN GRADO di far RISPETTARE le distanze di sicurezza e di GARANTIRE tutte le protezioni necessarie, DEVONO AVERE la POSSIBILITÀ di RIAPRIRE il 18 maggio prossimo.
Ci vuole, dunque, un cambio di passo drastico, la nostra regione ha bisogno di ripartire in sicurezza e in fretta, per SFAMARE chi ha fame.

La scelta della Giunta Cirio di vietare ancora oltre il 4 maggio, il servizio di take away, lo troviamo inaccettabile. È così che si tutelano le piccole imprese, le piccole attività?

Quindi noi Verdi sosteniamo e ci uniamo alla protesta dei tanti commercianti che ieri si sono riuniti in un flash mob a Torino ed in tutto il Piemonte.

#VogliamoUnPiemontecheRiparte #InSicurezza 

“Salviamo “Tuttosport”, patrimonio del territorio”

“Sostengo le richieste del Comitato di Redazione: l’emergenza da Covid-19 non diventi pretesto per un ridimensionamento che sarebbe deleterio da tutti i punti di vista. Solidarietà ai giornalisti e alle loro famiglie”

Mi oppongo a qualsiasi strumentalizzazione della crisi in corso, che non può e non deve diventare occasione per operare strategie di ridimensionamento aziendale a qualsiasi livello.

“Tuttosport” non è solo un prodotto editoriale, ma un patrimonio del nostro territorio e la fonte di reddito di tante famiglie. Un patrimonio da valorizzare con strategia e investimenti. L’editore ritiene che l’ulteriore riduzione dell’organico redazionale (già sostanzialmente dimezzato in meno di quindici anni) che il ricorso alla Cassa Integrazione in Deroga comporta sia compatibile non dico con lo sviluppo e la progettualità, ma con la realizzazione di un prodotto editoriale di qualità e capace di stare sul mercato?

La situazione è preoccupante. Non possiamo permetterci l’ulteriore ridimensionamento di questa testata. La mia vicinanza ai membri della redazione e alle loro famiglie è assoluta. La politica si faccia sentire. L’emergenza coronavirus non diventi un pretesto per smantellare.

Silvio Magliano – Capogruppo Moderati in Sala Rossa e a Palazzo Lascaris.

Monitoraggio sulle gare d’appalto Covid

Da Palazzo Lascaris / Gare d’appalto per l’emergenza Covid al centro della discussione odierna in Commissione Legalità, presieduta da Giorgio Bertola. In particolare, i consiglieri regionali hanno concordato di procedere in conformità con l’ordine del giorno dello scorso 7 aprile (primo firmatario Diego Sarno, Pd), che l’Assemblea ha votato all’Unanimità: prevede la “realizzazione di un monitoraggio delle gare d’appalto e delle spese della Regione Piemonte e degli enti strumentali ad essa collegati, effettuate con carattere d’urgenza”.

Un lavoro congiunto della Commissione Legalità e della Giunta regionale, quindi, per il quale oggi sono state messe le basi. Sarno stesso ha insistito sulla opportunità di acquisire consulenti esterni che possano valutare le procedure adottate, mentre Marco Grimaldi (Luv) ha proposto di partire con un’audizione di Antonio Rinaudo, responsabile Area Legale dell’Unità di Crisi della Regione.

È intervenuto anche Sean Sacco (M5s), sottolineando come spesso gli appalti delle Asl siano di difficile comprensione e quindi l’assoluta necessità di approfondimenti per queste procedure d’urgenza.

Valter Marin (Lega) ha ricordato la sua esperienza nel Cda di Torino 2006 e il sistema di trasparenza e verifica preventivo, adottato per i Giochi. “Potremmo partire da quella base, che ha dato buoni risultati”, ha chiarito.

Favorevole a quest’azione di trasparenza amministrativa si è detto anche Domenico Rossi (Pd), che nel giorno in cui si ricorda Pio La Torre, ha posto l’accento sull’attenzione all’utilizzo dei beni confiscati alle mafie.

In conclusione, il presidente Bertola ha riassunto i prossimi passi della Commissione: “Contattare il Dottor Rinaudo e Scr. Chiederemo la presenza di un componente di Giunta nella prossima seduta, per avviare il confronto. E soprattutto, chiediamo tutti i documenti e i dati necessari per il monitoraggio degli appalti, prima della prossima Commissione ”. Al di là del tema Covid-19, verrà anche organizzata un’audizione dell’Associazione legalità organizzata.

Il regionalismo alla prova del coronavirus

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Tra le tante cose che scricchiolano in Italia di fronte al virus che non arretra, quella che appare più inadeguata (oltre al Governo centrale) è la struttura regionale che compie proprio quest’anno cinquant’anni che forse non sarà il caso di festeggiare, ma semmai per riflettere criticamente sul regionalismo

Durante le elezioni politiche del 1968 non venne discusso abbastanza il progetto di istituire le Regioni a Statuto ordinario, che vennero varate nel 1970 con le prime elezioni regionali abbinate a quelle amministrative. Le Regioni erano un dettato costituzionale da rendere operativo  e come tali erano considerate dai partiti di centro-sinistra. La loro realizzazione fu uno dei momenti qualificanti dell’incontro tra democristiani e socialisti.

Anche i repubblicani, Ugo La Malfa in testa, erano convinti regionalisti sull’onda della tradizione federalista di Carlo Cattaneo che era favorevole ad unire l’Italia e non  a dividerla come altri avrebbero voluto da Finocchiaro Aprile in Sicilia dopo la II Guerra Mondiale a Miglio e Bossi tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nuovo. Solo i missini, i monarchici e i liberali si opposero. I primi due essenzialmente per ragioni di principio perché ostili al federalismo in quanto tale. I liberali con Malagodi in particolare avanzarono delle serie  ed articolate obiezioni sulle ripercussioni possibili anche in base al non  entusiasmante funzionamento delle Regioni a Statuto speciale già istituite. Bilanciare le competenze tra Stato e Regioni  si rivelò subito un problema difficile da risolvere e la spinta negativa del secessionismo bossiano portò alla riforma del titolo V della Costituzione che creò di per sé ,in tempi “normali”, un contenzioso tra Stato e  Regioni affidato al giudizio della Corte Costituzionale. Malagodi vedeva il pericolo di spezzare il Paese che non aveva una grande storia unitaria alle spalle,ma era ancora afflitto dal forte divario tra Nord e Sud. Inoltre, vedeva le Regioni con dei “confini” delineati da una sommatoria di province,come un qualcosa di obsoleto. La vera struttura portante della storia italiana erano le Province la cui eliminazione parziale ha solo creato nuovi problemi senza risolvere quelli vecchi.  Per fare un esempio, ci sono delle Province che gravitano oltre i confini regionali: Novara e il VCO gravita su Milano  e non su Torino, Biella su Milano e Pavia, Alessandria e parte della provincia di Cuneo sulle Province di Genova, Savona e Imperia. Malagodi sosteneva che bisognava almeno riaggiornare in base a criteri economici e sociali (non solo storici) le Regioni che nascevano in un’Italia totalmente diversa rispetto a quella del passato. Il regionalismo imperfetto è balzato fuori in modo evidente in questi mesi con un conflitto quasi costante fra Regioni e Stato. La figura dei “governatori,” una invenzione all’americana non esistente nel nostro ordinamento, ha rimarcato anche fisicamente questo confronto-scontro.

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Ma la cosa che appare evidente è che le Regioni che vantavano una sanità di eccellenza hanno dimostrato difficoltà ad affrontare la pandemia, smentendo un motivo di vanto che si è rivelato non rispondente alla realtà. Una grande delusione che deve far meditare  perché solo in parte spiegabile con i tagli selvaggi subiti dai bilanci regionali  della Salute. Ma anche nei divieti a spostarsi dopo il 4 maggio  il ragionare in base a confini regionali si manifesta un errore grossolano. Ci sono paesi del basso Piemonte, ad esempio, che hanno rapporti  continui e ravvicinati con la Liguria che sono proibiti.  Si potrebbero fare analoghi esempi, in altre Regioni con il Friuli e il Veneto. Modellare i divieti su base regionale appare inoltre una scelta  non meditata perché ci sono delle aree all’interno delle Regioni che hanno delle specificità rispetto alla pandemia diverse da quelle di altre aree. L’entità  regionale non fotografa una realtà a macchia di leopardo all’interno delle singole regioni. In ogni caso, una lezione che si trae da questa tragica esperienza che stiamo vivendo, è quella che, così come sono, le Regioni non rispondono alle esigenze del Paese. Se poi consideriamo il costo aggiuntivo che esse provocano a carico del contribuente,forse sarebbe più ragionevole riattivare la Provincie ed abolire le Regioni. Anche quelle che storicamente avevano una ragion d’essere come la Sicilia e la Sardegna, istituite con un ordinamento speciale ,non hanno dato buona prova. Neppure la Valle d’Aosta ha brillato e i problemi del bilinguismo si possono risolvere in altro modo. Forse solo il Trentino – Alto Adige e il Friuli – Venezia Giulia hanno dato esiti migliori. Davvero troppo poco. In un Paese come l’Italia c’è bisogno di uno Stato efficiente e ciò si rivela in modo inoppugnabile nelle grandi e terribili occasioni della storia in cui decidere in modo tempestivo rappresenta l’imperativo categorico a cui guardare. Guardando al passato, aveva ragione Mazzini che voleva una Repubblica unitaria e non Cattaneo che la voleva federale. Guardando alla odierna, preminente necessità di decidere,  non servono dei Governi regionali che si sono autonominati tali perché ufficialmente sono Giunte regionali. La smania dell’autonomismo e delle spinte centrifughe ha fatto il suo tempo :la politica esige oggi  altre scelte con meno figuranti in azione, specie se inadeguati o addirittura incapaci. Il mito regionale a cui guardavano, ad esempio, uomini come Aldo Viglione e, in tempi più recenti,  Enzo Ghigo, appare oggi davvero logoro e sbiadito, non più in grado di entusiasmare nessuno.

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Lavori pubblici? Qui ci vuole il modello Genova

Riceviamo da Uncem e pubblichiamo / La legge sui lavori pubblici attuale è troppo complessa per i piccoli e medi interventi tipici dei Comuni. Fissa rigide procedure che non si preoccupano della qualità dei lavori ma solo di ostacolare una presunta corruzione generalizzata delle stazioni appaltanti. Non lascia alcuna autonomia gestionale e responsabilità tecnica al direttore lavori e al Rup, che sono trattati come meri esecutori di procedure. Uncem, in una nota delle scorse ore a Governo e Parlamento, è chiarissima. 

Se il Ponte di Genova ricostruito è il “cantiere dell’Italia che sa rialzarsi”, modello per gli interventi pubblici, replicabile nelle regole e nelle modalità che hanno portato alla realizzazione, Uncem propone al Governo e al Parlamento alcuni elementi di semplificazione e modifica della normativa per gli appalti e per i lavori pubblici che sarebbero molto utili in questa fase e successivamente, a conclusione dell’emergenza. Lo scrive il Presidente Uncem Marco Bussone in una lettera trasmessa al Presidente Conte, alla Ministra De Micheli, al Ministro della Pubblica Amministrazione Dadone, al Sottosegretario agli Interni Achille Variati, ai Parlamentari. “Semplificazione e sburocratizzazione? Fondamentali e urgenti, da vent’anni – evidenzia Bussone – adesso, con questa emergenza sanitaria, non vi è altro tempo disponibile. Se Genova e il Ponte sul Polcevera ricostruiti sono un modello, lo siano fino in fondo. Per tutti. Norme chiare per un nuovo patto con gli Enti locali. Tutti”.

Di seguito, le proposte Uncem:

1) Controlli in fase di affidamento
Sono troppi. Ogni stazione appaltante ha una lista di verifiche che è tenuta a fare autonomamente sull’operatore economico vincitore (casellario giudiziario, carichi pendenti, tribunale fallimentare, white list Prefettura, DURC, regolarità Agenzia Entrate, ANAC annotazioni riservate, ANAC casellario, Antimafia BDNA, Camerale). Tanto varrebbe avere una anagrafe centralizzata, una ditta o è dentro o è fuori. Così vi sarebbe un solo controllo da fare.
2) Procedure di affidamento: troppe, cervellotiche, senza garantiscono la scelta migliore
Nessun buon padre di famiglia affiderebbe un lavoro a casa propria con il codice dei contratti. Il codice sembra garantire solo la “rotazione”, la “pubblicità” e il rispetto di rigide procedure, dove il funzionario è un mero esecutore (salvo i lavori sotto 40.000 euro).
Oggi abbiamo queste soglie con i corrispondenti procedimenti minimi: 40.000 = affidamento diretto; 150.000 = affidamento diretto con tre preventivi (c.d. “semplificata”); 350.000 = negoziata con 10 operatori (anche sorteggiati); 1.000.000 = negoziata con 15 operatori; 5.350.000 = procedura aperta.  Può avere senso una rotazione sui vincitori di gara, ma perché costringere alla rotazione degli operatori economici che hanno solo partecipato ad una gara senza vincerla?
Quindi Uncem propone di eliminare la rotazione degli inviti. Semplificare le soglie per i lavori (es. 100.000 – 300.000 – 1.000.000). Togliere il sorteggio dalle negoziate, lasciando libera scelta negli inviti. Soprattutto nelle piccole e medie realtà le stazioni appaltanti sanno se un certo operatore economico lavora bene o male, i funzionari dei vari Enti si scambiano tra loro tali informazioni, tantopiù a livello sovracomunale all’interno di Unioni montane di Comuni o di Comuni montani che gestiscono in forma associata la stazione appaltante. Una stazione appaltante deve avere il diritto non di invitare operatori economici che lavorano male o creano problemi, nell’interesse della comunità. Non si tratta di favorire presunti amici ma di favorire la qualità dei lavori e per una buona gestione dei soldi dei contribuenti.
3) Le varianti: rappresentano una necessità ma sono state rese quasi impossibili dall’art. 106
Sulle varianti (modifiche al contratto) l’approccio burocratico ha colpito duro, rendendole praticamente irrealizzabili come se fossero il peccato capitale dei lavori pubblici, con vincoli rigidissimi, obbligo di comunicazioni ad Anac, obbligo di formalità di riapprovazione…  Tuttavia chiunque abbia progettato e diretto lavori pubblici sa che arrivare in fondo a un lavoro senza qualche aggiustamento è praticamente impossibile. Vero è che ci sono stati casi di cattiva progettazione; ma è anche vero che non si può gestire un cantiere senza dare alla Direzione Lavori una autonomia operativa. Per come è scritto il Codice, il direttore lavori sarebbe quasi superfluo, dato che è tutto normato e regolato da liste di adempimenti che si basano sul falso presupposto che un progetto sia perfetto ed omni-comprensivo.
La proposta è di riscrivere ex novo l’art. 106 prevedendo una procedura semplificata per varianti e aggiunte ai lavori e una super-semplificata per la vecchia “variata distribuzione di spesa”.
4) Tempi della burocrazia e tempi dei cantieri
Oggi i funzionari sono inchiodati in ufficio a seguire le carte, tanto varrebbe nominare negli uffici lavori pubblici avvocati e non ingegneri. Essi per non incorrere in pericolose sanzioni debbono rincorrere comunicazioni, protocolli, cavilli, banche dati (altro punto dolente! SmartCIG, Simog, BDAP…) e non hanno tempo di seguire i lavori. La verità è che se le opere sono importanti i funzionari devono avere il tempo di seguire i cantieri. Si potrebbe dire che più le procedure sono rigorose, peggio vengono le opere.
L’impianto normativo collide con la gestione di un cantiere. Quando una impresa inizia un lavoro non è giusto doverla fermare a ogni minimo intoppo in attesa dei tempi burocratici che servono per sistemare comunicazioni, modifiche, perché non è giusto accollarle dei costi parassiti legati all’inefficienza della pubblica amministrazione. Le stazioni appaltanti cercano con il buon senso di contemperare l’esigenza dell’operatore economico di essere produttivo con gli obblighi burocratici calati dall’alto. La proposta è quindi di semplificare tutto l’impianto dell’art. 107, permettendo alla direzione lavori di adottare la dovuta flessibilità gestionale.
5) La questione scottante dei subappalti, da limitare
La visione “mercatistica” europea dice di lasciare la massima libertà al subappalto, ma questo comporta dei problemi. Esempio, il buon padre di famiglia per un dato lavoro chiama il muratore X, con l’attuale norma non potrebbe rifiutare di trovarsi in casa il manovale Y in subappalto. Il paradosso è che nel mondo dei lavori pubblici esistono imprese con qualifica illimitata che gestiscono commesse da decine di milioni di euro con solo geometri e capisquadra, senza operai propri subappaltando tutto il resto.
Sarebbe molto sensato lasciare alla stazione appaltante la scelta sui limiti del subappalto, non solo in termini di percentuale ma proprio di quale lavoro sia subappaltabile e quale no. Un funzionario conosce benissimo quali sono le lavorazioni specialistiche per le quali è opportuno lasciare la facoltà di subappalto. Il criterio principe dovrebbe essere questo: se una impresa non è in grado di fare un certo lavoro, non partecipa. Oggi ovviamente non è così, qualunque operatore economico partecipa a qualsiasi gara sperando di prenderla e poi subappalta il più possibile a soggetti più piccoli e con minor potere contrattuale.
Tutti questi aspetti semplificano e vanno nella direzione di responsabilizzare i funzionari delle stazioni appaltanti, nella gestione efficace ed efficiente del lavoro, liberandoli da procedure sclerotiche: scelta degli invitati, flessibilità di gestione di tempi e modifiche, riduzione dei subappalti al minimo desiderato per la specifica opera.
E Uncem aggiunge:
 
6) Un Lavoro Pubblico è diverso da un Servizio o da una Fornitura, ma non per il Codice
Anche qui la visione burocratico-procedurale ha forzato l’accorpamento di mondi diversi, applicando le stesse regole alla costruzione di una piazza, alla fornitura di mascherine e al servizio di pulizia.
Mentre un lavoro pubblico richiede delle specifiche competenze tecniche, una generica fornitura o un servizio non tecnico possono essere anche seguiti da un funzionario amministrativo.
Potrebbe essere lasciato in vigore il codice dei contratti per le forniture e i servizi generici, prevedendo a parte norme specifiche per i lavori, i servizi di manutenzione e i servizi tecnici (progettazione e direzione lavori, con soglie ben più basse).
È importante capire che una manutenzione non può essere assoggettata agli stessi livelli di progettazione di un’opera pubblica: per gestire una buona manutenzione non serve un progetto, può bastare un capitolato tecnico ed un elenco prezzi.
7) Una buona occasione per eliminare una assurdità della Sicurezza sui Cantieri
Il D.Lgs. 81/2008 è altra norma infarcita di cavilli. Essa contiene in particolare un punto unanimemente riconosciuto come assurdo e illogico, ma mai corretto. Detto punto prevede che il Coordinamento per la Sicurezza debba essere eseguito ovunque lavori più di una impresa, anche se in tempi diversi! Che senso ha “coordinare” un idraulico che va a montare sanitari laddove i muratori se ne sono già andati? Un elettricista che va a cablare dei cavidotti già posati da una ditta di scavi?
Il senso è solo di aumento dei costi e dei tempi burocratici (infatti oggi bisogna: – nominare un coordinatore; – preparare un piano di coordinamento; – farlo girare per consultare tutti i soggetti; – farlo sottoscrivere; – ricevere i piani operativi  – notificare il cantiere alla Asl- non essendovi in realtà niente da coordinare).
Quindi cancellare dal D.Lgs. 81/2008, art. 90, c. 3 e 4, le parole “anche non contemporanea”; inserire un nuovo comma 5-bis che stabilisca che “le disposizioni di cui i precedenti commi 3 e 4 non si applicano per cantieri in cui la presenza di più imprese esecutrice non sia contemporanea”.