Pianeta Cinema / A cura di Elio Rabbione

Paola Cortellesi (malamente) alla ricerca del vivere civile

“Ma cosa ci dice il cervello” di Riccardo Milani

 Anche Schwarzenegger esattamente venticinque anni fa in True Lies camuffava la sua vita di spericolato agente segreto al servizio di un’agenzia segreta di sicurezza del governo degli Stati Uniti dietro quella piuttosto noiosa e anonima di rappresentante di apparecchi informatici: senza pensarci su due volte, doveva salvare moglie, famiglia e l’intero suo Paese dalle grinfie del terrorista mediorientale di turno. Oggi la nostra Paola Cortellesi, nei confini più stretti di una Roma caotica, caciarona e priva di educazione, (stra)facendo la sceneggiatrice in compagnia del marito/regista Riccardo Milani, cui s’aggiungono Furio Andreotti e Giulia Calenda, imbocca la medesima strada, nella lunghissima quanto eccessiva, debordante prima parte di Ma cosa ci dice il cervello, ultimo titolo per uno sguardo sulla povera Italia in cui stiamo vivendo, ma sguardo che avrebbe intenzione di dire ben altro, con il rischio di impantanarsi in un terreno affatto suo. Parliamo di spionaggio, con Remo Girone nella sala comando a impartire ordini e lei tra le dune del Marocco con le movenze simili al Neo di Matrix o sulla Piazza Rossa di Mosca a inseguire i cattivi? Oppure parliamo di strafottenza, di cattivo gusto, di tutti che sanno tutto, di tutti che ti schiacciano e ti guardano dall’alto in basso e tu che cerchi di porci una palizzata di ribellione? Va bene, lasciamo perdere e cambiamo strada. Nell’altro capitolo Giovanna è separata dal marito pilota d’aereo, vive con una figlia e una madre che sta vivendo una seconda giovinezza a suon di balli in discoteca e vestiti di lamé attillatissimi e gambe in bella vista, soprattutto il ritmo delle sue giornate è scandito dal suono del cartellino bollato in entrata e in uscita al Ministero presso cui lavora. Il grigiore, l’anonimato, l’incolore tailleurino sempre cascante, il muso lungo (ma non è troppo il rifugio nello spionaggio?). È chiaro che uno si sente un po’ fuori posto se ai colloqui di classe i giovani compagni della pargola hanno per genitori chi un’astronauta chi un vigile del fuoco che con gesta da fuochi d’artificio salva a più riprese decine di persone, lei sta lì a raccontare che si occupa di ritenute d’acconto e di certo con quelle premesse il morale della piccola non si risolleva di un centimetro. Una premessa per rigirare nuovamente la torta e tentare sulla commedia di costume della nostra quotidianità sfasciata, per acclamare ai buoni sentimenti e alla modalità tutta zen, per dare una aggiustata ai soprusi e agli usurpatori. La molla arriva dalla vecchia compagna di scuola che si rifà viva dopo un secolo e per una cena in riva al Tevere si porta appresso un gruppetto di sfigati, vecchi compagni della nostra o amorucci liceali irrisolti e ormai sfioriti. Il medico Lucia Mascino, la hostess Claudia Pandolfi, l’insegnante Stefano Fresi e l’allenatore Vinicio Marchioni se la devono vedere tutti i giorni con pazienti che vivono di scienza infusa o raffazzonata da Internet, di passeggeri che pretendono di tenere acceso il cellulare in volo perché anche lì è business, di discepoli bulli che menano e ti ficcano il cestino delle cartacce in testa, di padri che credono di conoscere il gioco e se non fai come dicono loro ti stendono sul tappeto verde. Ma le maniere forti sono bandite, all’indignazione si risponde con l’insegnamento, alla prepotenza e all’ignoranza ormai imperante con lo sberleffo. In un’altra (lunga) tappa che ci trasporta a Siviglia, con un orgoglio transfrontaliero raro nel nostro cinema, si tirano le somme: sbiadite, inconcludenti, facili. È la ricarica verso i buoni sentimenti, che negli intenti potrebbe avere anche l’applauso generale: ma il tutto si risolve in una scrittura iniziale piena di disordine e di fragilità, con qualche briciolo di noia e spunti divertenti che si risolvono nel nulla immediatamente, con compagni di viaggio che fanno la loro piccola particina (a dire il vero chi più chi meno, qualcuno sembra capitato sul set per caso o controvoglia) ammodo ammodo ma che sono ben lontani dal far parte di un quadro preciso e compatto (ci voleva insomma un graffio, più cattiveria, andare anche a scovare le cause di un simile dissesto, ci volevano gli sceneggiatori di un tempo a descriverci i “nuovi mostri”) capace di farci vivere oggi questa “aiuola che ci fa tanto feroci”.
 

Il film della delusione, ovvero un omaggio sbagliato al mondo del cinema

Sugli schermi “Notti magiche” di Paolo Virzì

 

La colonna sonora ha le voci della Nannini e di Bennato, la voce è quella di Bruno Pizzul a commentare il rigore sbagliato di Serena e il tiro micidiale di Maradona che sbaraglia l’Italia e fa volare l’Argentina. Dal lungotevere vola anche, giù nel fiume, una grossa macchina di colore scuro, tra l’indifferenza pressoché totale di chi, sotto le luci di un piccolo chiosco, sta imprecando contro la disfatta dei Mondiali 90. Inizia così Notti magiche che Paolo Virzì ha diretto e sceneggiato con Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, una sorta di amarcord personale (come non riandare anche al giovane Sergio Rubini che con il tram raggiungeva Cinecittà nell’Intervista felliniana) e di viaggio all’indietro, di quando il regista da Livorno se ne andò nella capitale a respirare l’aria del cinema, a tentare storie, a immergersi nel mondo fatto di negri e negrieri, di quegli uffici, a mezza strada tra la casa e la protezione quotidiana, dove tutti scrivono sotto lo sguardo di Ennio (De Concini: un sornione Paolo Bonacelli) e Furio (Scarpelli: un grandioso Roberto Herlitzka)). Un’autobiografia sulla carta fatta di ricordi e di volti, di notti passate a dare forma a fatti e personaggi, un romanzo di formazione, veloce veloce, senza andar troppo per il sottile, arruffato e disordinato, tutto rivolto all’insegna del pressapochismo letterario, (forse) un omaggio ad un mondo che in quegli anni, se non andava incontro a qualcosa di simile alla sconfitta calcistica italiana, improvvisa e bruciante, certo stava a poco a poco adagiandosi, spegnendosi, immiserendosi, rinculando a suon di storielle e di persone sempre pronte a sguazzare negli affari, lasciando l’arte da qualche altro canto, tra le feste in villa con la ragazza coccodè – che magari vuole pure bene al produttore, anche quando i debiti gli vengono a vuotar casa di ogni premio e mobile – e con le braciole a cuocere, tra le grandi bellezze al tramonto, come quelle di Sorrentino nel nuovo millennio, con le terrazze illuminate e la musica e i trenini: ma un omaggio sbagliato, deragliato sui binari di quegli stessi ricordi. Perché ci vorrebbe una scrittura, e qui l’ordine di una scrittura non c’è. C’è l’abbozzo, c’è la scenetta, c’è l’imbarbarimento e il contributo scollacciato fine a se stesso (povera Muti costretta ad alzare la gonna per dimostrare che di mutandine manco a parlarne!) che non è sufficiente a descrivere un mondo. C’è la rappresentazione laica dei gruppi e dei gruppuscoli (la vestale è la Giovanna di Ludovica Modugno, bravissima), c’è la curiosità per la prima mezz’ora a fare il gioco chi fa chi, chi è questo chi è quello, a catturare Mastroianni che piange per la Deneuve che l’ha lasciato o a stupirsi di uno pseudo Antonioni (l’Arlecchino di sempre Ferruccio Soleri) che mangia tutto solo in trattoria e da anni non spiccica una parola, o dell’autore che vive come un barbone in un seminterrato per non essere entrato appieno negli ingranaggi dell’industria (ma chi sarà mai? inventato? reale?). Ritrattini che si perdono nel niente. Tutto vorrebbe essere acido o ossequioso (i due mondi in Virzì convivono benissimo) ma suona piuttosto barzelletta. O didascalico come un pugno nello stomaco mal assestato, vedi il dito puntato nel finale dal capitano Sassanelli che dall’alto impartisce la benedizione con il refrain “guardate fuori dalla finestra”, a far presente ai tre giovani sceneggiatori – che dovrebbero essere il fulcro della vicenda e che sono capitati in commissariato, dopo un primo incontro al premio Solinas, per essere ritenuti i colpevoli dell’assassinio del produttore Giancarlo Giannini – che il cinema non dev’essere fatto di soli autori ma pure di spettatori o, molto meglio, di autori che devono provare il piacere di essere spettatori. Lo ha preceduto un surreale Fellini, nel buio del suo ultimo set, La voce della luna, a sussurrare “io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”, sorta di tomba a ricoprire tutto il circo dentro cui sino a quel momento ci siamo ritrovati immersi.Notti magiche è anche il film della delusione (non soltanto nostra, un colpo basso dall’autore di Tutta la vita davanti, della Pazza gioia, della Prima cosa bella), per quei tre ragazzi intrisi di speranze e sentimenti che sembrano usciti dallo Scola di C’eravamo tanto amati. Anch’essi malserviti, Irene Vetere ragazza della Roma bene, chiusa in camera a piangere e bisognosa d’affetto, personaggio irrealizzato cui i due compagni rubano spazio, Mauro Lamantia logorroico sino all’inverosimile, copia sbiadita e perennemente eguale del Nicola Palumbo di Satta Flores (ancora il film di Scola) e Giovanni Toscano, volto nuovissimo allo schermo, godereccio toscano, sciupafemmine e manomorta sempre in movimento, quello cui l’avventura romana brucia di più, con il suo ritorno sul treno per Piombino, i vecchi lavoratori della fabbrica, l’impensabile compagno comunista con la lacrima facile: quella ragazza che lo aveva raggiunto, che lui ha sempre trattato con sufficienza, lei sì che potrebbe mettere un piede nel panorama fatto di chiaroscuri del cinema italiano.

 

 

Un’appassionata operazione di crowdfunding per guardare dentro se stessi

Esce nelle sale “La terra buona” di Emanuele Caruso

Con una vasta operazione di crowdfunding – un budget di 195.000 euro e 500 sottoscrittori pronti a divenire coproduttori, quote minime da 50 euro per un totale di 80.000 euro, gli altri importanti aiuti da parte di Egea, della Film Commission Piemonte e della Cassa di Risparmio di Cuneo – il trentatreenne regista Emanuele Caruso è riuscito a varare il suo secondo film, La terra buona, che con il passaparola e con la lenta ma approfondita ricerca del pubblico e delle sale dovrebbe ripetere il successo di E fu sera e fu mattino, caso cinematografico scoppiato tre anni fa. In una settimana di proiezioni in provincia (anche qui il cammino è inverso, prima questa la metropoli poi) i biglietti staccati sono stati 15.000, l’opera precedente in un anno era arrivata a oltre 40.000. Senza assolutamente dimenticare gli altri aiuti non da poco offerti durante la preparazione e la lavorazione del film, da Eatily che ha offerto quantità grandiose di cibo pronte a sfamare la troupe, al Parco Nazionale della Val Grande, ai confini con il territorio svizzero, 152 km quadrati pressoché incontaminati dalla civiltà – dove la storia è stata trasportata dalla primitiva Val Maira cuneese -, che ha messo a disposizione scenari incomparabili e un efficace supporto logistico, agli abitanti dell’ultima frazione raggiungibile in auto, Capraga, dove nulla esiste che si possa definire moderno, che per due mesi, nel luglio e nell’agosto del 2016, hanno aperto le loro case.


Tre storie che confluiscono nel film, la sceneggiatura è firmata dallo stesso regista con la collaborazione di Marco Domenicale, tre storie diverse tra loro, quasi un pretesto. Ma pretesto non sono. In questa natura che non conosce contaminazioni, vive il vecchio padre Sergio, benedettino, che in anni di eremitaggio ha costruito una biblioteca di oltre 60.000 volumi, con lui un oncologo, Mastro, e il suo assistente, sfuggiti dalla città e dalla gente che li ha condannati per il loro desiderio di sperimentare e di conoscere se al di là della medicina ufficiale vi potessero essere altre cure contro i tumori. In questo eremo, arriva un giorno, all’insaputa di tutti, anche della sua stessa famiglia, una ragazza, Gea, in compagnia di un amico forse innamorato di lei, Martino. Gea è malata terminale, forse con la ricerca di un’ultima naturale medicina è alla ricerca di se stessa, di un rapporto col padre, incompreso, infelicemente concluso. Nel racconto e nella regia di Caruso che dimostra di saper scavare con esattezza nei propri personaggi, s’intrecciano i destini, si consolidano i caratteri, si guardano con occhi nuovi l’ambiente e la cura per il cibo, la sua esatta scelta, si afferma quella spiritualità della vita che tutti dovremmo fare più nostra. Si va a zigzag tra le speranze e le delusioni, si incrociano mai a caso certe sensazioni e i discorsi forti della vita e della morte, si tende a qualcosa oltre. Martino forse è il personaggio che meglio finisce col comprendere e attuare la “filosofia” del regista, l’invito a stabilire una pausa su quanto abitualmente ci circonda, è l’occhio dello spettatore, il tramite e il collante delle tre diverse vicende: ma il film non si sbilancia e non vuole dare risposte, ed è uno dei suoi meriti più immediati.


Superate in maniera brillante le difficoltà di girare in condizioni più che svantaggiate, il percorso s’è fatto sicuro. E quel che più salta all’occhio è la passione che circola (“I soldi sono pochi, e chi li ha dei soldi per pagare un fattorino che consegni il film nelle sale? è chiaro che ci vado io a consegnarlo”). Certo, a tratti alcune interpretazioni appaiono troppo urlate, certa gestualità fuori luogo, la musica che nella prima parte invade binari western alla Leone rimane incomprensibile, la scrittura corre forse in maniera troppo lineare: ma dalla semplicità del racconto può in non poche occasioni nascere una costruttiva robustezza. Convince soprattutto la naturalezza dei due ragazzi, Lorenzo Pedrotti, già con Caruso nell’opera prima, e Viola Sartoretto, torinese; e dopo l’ultima immagine si vorrebbe che il cinema si ricordasse di più di Fabrizio Ferracane, il medico in fuga, indimenticata punta d’eccellenza tre anni fa di “Anime nere” di Francesco Munzi.

L’imbarazzo della corte inglese davanti alla vecchia sovrana: come lo spettatore di oggi

“Vittoria e Abdul” di Stephen Frears con Judi Dench

 

Fin dalle sue origini cinematografiche (My Beautiful Laudrette), ci aveva dato opere di ben maggior spessore Stephen Frears e aveva certo continuato, confezionando titoli che hanno pur detto qualcosa nella storia del cinema, non soltanto britannico. Da Le relazioni pericolose a Mary Reilly, da The Queen a Philomena. A Natale dello scorso anno ci era arrivato Florence reclamizzato oltre modo grazie all’etichetta Meryl Streep ma riconoscibilmente inferiore rispetto allo stesso soggetto francese firmato da un po’ meno pomposo Xavier Giannoli, oggi la programmazione fa scadere Vittoria e Abdul che vorrebbe essere ancora una picconata contro la indistruttibile muraglia della casa reale inglese, contro la lotta ai pregiudizi oggi tanto di moda (aver scoperto sette anni fa i diari – sinceri o no, non ha per nulla importanza, di quella dose d’opportunismo che ci potesse essere nella storia non se ne fa parola – del giovanotto indiano è stato per qualcuno una manna: e lo schermo sembrava essere già lì bell’e pronto, l’urgenza politica è un ottimo lasciapassare) ma che irrita soltanto per quell’aria di operetta e di inconsistenza affatto necessaria che il regista ha disseminato lungo tutto il film.

Partendo dall’arrivo a corte nel 1887 del ventiquattrenne Abdul Karim inviato a consegnare una medaglia, il mohur, che onori la sovrana e il suo regno, passando attraverso i primi sguardi e i primi sorrisi che fanno dire a Vittoria sessantenne “attraente” e che danno il via ad una amicizia tra colei che governa mezzo mondo e colui che da semplice impiegato delle carceri indiane passa al ruolo di “mushti” (maestro), di confidente, di importatore della cultura indiana, di membro di corte con moglie e suocera nerovestite al seguito, di insegnante di Indi e di Hordu, di sconosciute prelibatezze culinarie, di amico intimo, forse di innamorato, di colui che per la gran vicinanza ha sempre le orecchie tese anche per quel che riguarda la politica (ma pure di colui che un giorno fu beccato con le mani nel sacco a rubarsi gioielli dell’amata: “basato su fatti veri”, siamo avvisati all’inizio, “per lo più”). È chiaro che l’erede Bertie e la corte intera, servitù compresa, faccia aria di sommossa salvo poi ritirarsi nelle proprie stanze al primo urlo della vegliarda. Tutto suona sì simpatico, da svagato intrattenimento, a tratti ridicolo tuttavia, si preme sulla solitudine di lei che – sia detto tanto per sfatare per quel che si può il quadretto di vedova inconsolabile e timorata e puritana – già dopo la morte dell’amatissimo Albert aveva cercato e trovato conforto tra gli ardori di John Brown, già avvinazzato uomo di fiducia dello scomparso principe consorte e ti rendi conto che la passata incisività era tutta ben altra cosa, che il quadro della discendente all’indomani della morte di Lady D era dipinto con colori e con tratti personali ben più profondi. Va da sé che la rivolta non può avvenire che con il trapasso della sovrana, che ogni documento che possa ricordare “l’unione” (quanto mai allargata?) viene distrutto e Abdul cacciato, salvo poi ritrovarlo in patria, pochi anni dopo, davanti alla statua della “sua” regina a ricordare i giorni che furono.

Tutto è sontuoso, visivamente bello, i palazzi scelti per l’ambientazione, gli abiti, i particolari, le inquadrature, tutto è ricostruito con l’aiuto delle fotografie d’epoca (e chi lo voglia può anche fare il debito paragone tra l’originale Abdul e l’attore Ali Fazal che oggi lo impersona) ma tutto tremola come quel budino che viene servito a tavola e che tanto interessa a Frears, come i primi piani, come gli occhi ripetutamente “descritti”, come i visi della corte genuflessi e spaventatissimi. Chi resta ben salda in piedi è la prova superba di Judi Dench (per la seconda volta veste gli abiti e la corona di Vittoria, era già stata La mia regina con John Madden nel ’97), testarda, irascibile, rattristata e sola contro tutti, sognante, capricciosa, una gamma tutta da vedere d’espressioni che unica cerca di rimetterti un po’ in accordo con un film per altri versi davvero zoppicante, di pura illustrazione e quasi non necessario (dove persino il nostro Puccini, canterino con la Manon Lescaut, suona imbarazzante, come la sovrana: ma forse Frears è convinto di doversi qui omaggiare guardando al precedente Florence).

Il passa falso di Sofia Coppola alla ricerca del soldato John

C’è davvero da chiedersi che cosa abbia spinto Sofia Coppola a rispolverare oggi un soggetto che già all’inizio dei Settanta non fu trascinato al successo cinematografico dagli osanna di pubblico e di critica. Anzi. Già traendolo dal romanzo The Beguiled di Thomas Cullinan, pubblicato soltanto un lustro prima, Don Siegel nel 1971 offrì ad un roccioso quanto inquietante Clint Eastwood il ruolo del caporale nordista che è al centro della Notte brava del soldato Jonathan, innaffiando il tutto con una buona dose di misogenia. Oggi la prole dell’indimenticato autore del Padrino ha a disposizione per questo suo Inganno il bel faccino di Colin Farrell che inquietante per tutta la vicenda non lo è affatto, nemanco quando deve fare l’orso cattivo e sbraitare a dispetto degli ultimi istanti che gli restano da vivere, lui rinvenuto ferito sul limitare da un’anima candida che è andata canterellando in cerca di funghi: Coppola mette in obliquo rispetto a Siegel la macchina da presa e riconsidera la vicenda con occhio tutto femminile, con i sentimenti, la complicità, le decisioni e gli ardori delle donne, riunite spavaldamente in gruppo e pronte a decidere il proprio domani, libero da intrusi e spavaldo, come tante Rosselle.

Al terzo anno di una guerra di Secessione che imperversa crudele nella Virginia dei confederati – non troppo lontano da quella casa che è istituto e rifugio per ragazze s’odono i colpi dei cannoni, mentre di tanto in tanto passa un gruppo di militari con le giubbe grigie a controllare che tutto sia tranquillo, come state?, tutto bene, nessun problema? -, approda con le sue ferite il caporale John, posto al riparo e ben lontano il pensiero, per chi lo ha raccolto e ospitato, di renderlo ai suoi nemici. Se ne occupano la direttrice (Nicole Kidman, sempre più innocua statuina di porcellana cui cominciamo davvero a rimproverare d’aver conquistato un tempo un Oscar), interessata a ripulire con umidi panni il corpo del militare, un’insegnante che, mentre cerca di movimentare le giornate delle sue alunne con delle noiose lezioni dove tenta di trasmettere i rudimenti de la langue française, sospira per il medesimo nell’attesa della concretezza e le ragazze (figuriamoci!) che in scala d’età iniziano con languorose cortesie e sorrisi e bigliettini a sognare più o meno innocenti liaisons. Da buon gallo del pollaio, il militare, in via di guarigione per quanto riguarda la gamba ferita, inizia la sua battaglia amorosa ma non ha tempo a ricavarci granché se ai confini di un intermezzo amoroso inciampa in un gradino delle scale e si ritrova al piano di sotto, più mal conciato di prima. E la direttrice, senza che le parole cancrena e morte siano nemmeno ancora state pronunciate, si fa portare su dalle cantine una bella sega ed esegue. Con un arto in meno e una stampella in più, il bel Colin, che guarda con occhio poco benevolo a quella riduzione, inizia a far le bizze e a far passare l’idea alle signore che d’ora in poi là dentro si farà come vuole lui. Figuriamosi se il gentil sesso desiste: la verginella che già lo ha ritrovato deve avere la ricerca dei funghi nel suo Dna: un buon piatto del prodotto boschereccio rimetterà a posto ogni cosa. Definitivamente.

Complicità, si diceva. E un bel mucchio di desideri. Ma la vicenda finisce con l’essere inutile nella sua riproposta nata negli anni Duemila, e soprattutto si sfalda perdendo di vista il dark che è al suo interno, rischiando persino per alcuni tratti il ridicolo. Nello scordarsi il lato drammatico della vicenda – per cui ci pare altresì azzardato quel premio per la regia che una assonnata giuria di Cannes le ha conferito nel maggio scorso -, Coppola trova rifugio nei ricami e nelle bellurie che le sono offerti dalla fotografia di Philippe Le Sourd, che si spreme in paesaggi o in visioni a lume di candela durante cene o preghiere della sera, che saranno pur belli per i cuori teneri ma che non alleggeriscono per nulla il tremolio che è stato prodotto. Si salva dall’anonimato generale la prova di Kirsten Dunst, già eccellente nella Marie Antoinette dell’autrice: autrice da cui ci si sarebbe aspettato un ben diverso percorso, nero e drammatico quanto bastava, lei che ci aveva così ben abituati con titoli quali Il giardino delle vergini suicide e Somewhere.

Una piccola umanità vista attraverso gli occhi di ragazzina

“Madeleine” ovvero sullo schermo le tribolazioni per girare, produrre e distribuire un film di quelli “fatti in casa”, da coraggioso cinema indipendente, distribuzione che arriva – finalmente – dopo la partecipazione e i premi a tanti festival. La protagonista, presente alla proiezione per la stampa, non è più l’occhialuta e bionda undicenne che vediamo con simpatia sullo schermo, è una ragazzina molto carina che confessa che se avesse tra le mani una bella storia, lei, a far l’attrice, ci riproverebbe. E i quasi quattro anni tra il girato e il visto sono tutti lì in lei, sul suo viso e sulla sua crescita.

E sulle difficoltà della casa di produzione Ainom che fa capo ai registi Mario Garofalo e Lorenzo Casa Valla superate grazie all’apporto della AmegO Film ungherese di Andrea Osvart e la distribuzione di Obiettivo Cinema di Emanuele Caruso, già artefice di quella scommessa vinta che è stata “E fu sera e fu mattina”. “Madeleine” (in programmazione a Torino ai Fratelli Marx) è il racconto della vacanza estiva di una undicenne, italo-francese, viso buffo, bionda e ingombranti occhiali sul naso, figlia di genitori divorziati, la madre con un nuovo compagno, il padre quasi nascosto nella periferia torinese a tener chiuso il negozio di ottica e a inventarsi chissà quali strani lavori, vacanza trascorsa con la sorella maggiore, da lei fisicamente e caratterialmente diverse (colpiscono i loro dialoghi in francese per sottrarsi agli altri), nella grande casa di campagna della nonna, in qualche angolo del Pinerolese, tra corsi d’acqua dove bagnarsi e macchie di verde. Tra realtà quasi tangibile (la fotografia, scattata dal suo papà quando aveva poco più della sua stessa età, che la bambina ha ritrovato in un vecchio baule, ne è la testimonianza) e fervida immaginazione, nel giardino di casa si nasconde un pavone, “tutti gli sguardi del pavone sono lo sguardo di Dio”, le ha detto la nonna, ne sente il verso verso sera, ma non riesce a scovarlo e la ruota a ventaglio rimane un sogno – forse alla fine raggiungibile.

Gli occhi della protagonista non si caricano di troppi e pesanti simboli ma accompagnano soprattutto con i timori e gli scossoni dell’infanzia il malore della nonna, l’arrivo di un medico più interessato alla sorella maggiore che ad una cura e a un ricovero, ad una vicenda che per un attimo si tinge di giallo, ad un incontro con il padre che dovrebbe iniziare a rimettere al loro posto parecchie cose. Gli autori, forse dopo un inizio che leggermente fatica a mettersi in movimento, si avviano con sicurezza lungo il racconto che si fa sempre più on the road, con una regia dove narrazione e azioni e personaggi prendono sviluppo concreto (la figura del padre affidato a Marco Cacciola, attore di teatro, alla sua prima esperienza cinematografica), contrapponendo gli affetti e le ribellioni delle due sorelle (la maturità delle giovani Chloe Till e Adele Zaglia) con una ricerca di toni che rincuora una sceneggiatura in alcuni tratti un po’ appannata. Un’opera riuscita intorno ad un’umanità catturata da due occhi semplici, caparbiamente spinti a coinvolgere nella vita, curiosi, per molti versi già maturi.

La grande prova di Casey Affleck, tra passato e presente la tragedia di un uomo

S’è nascosto al mondo Lee Chandler, il protagonista di Manchester by the sea di Kenneth Lonergan. In una Boston dove lo vediamo ripetutamente spalar neve per far spazio e pulizia attorno a quelle case che lo vedono uomo tuttofare, dagli impianti elettrici ai problemi di riscaldamento allo smaltimento di vecchi arredamenti di tutto si occupa lui e tutto gli va bene, Lee vive in un angusto scantinato, si chiude silenzioso nei bar, scatena risse con gli sconosciuti che lo hanno guardato di storto, in giornate di buona riduce al minimo i monosillabi con chi lo avvicina.

La sua vita ha un soprassalto con la morte improvvisa del fratello malato di cuore, con il dover prendersi cura del nipote che lo scomparso gli ha affidato (la madre in preda all’alcolismo se ne è andata, vive con un altro uomo chissà dove), con il trasferimento nella cittadina del titolo a rivedere i luoghi e i volti di una tragedia che lo ha annientato. È il passato che torna, che si accavalla e s’accartoccia con il presente nella splendida e dolente sceneggiatura di Lonergan – con Manchester è alla terza regia, Gangs of New York la sua sceneggiatura più illustre -, è un ritornare alle tante gite in barca che Lee faceva con il fratello e il nipote, alle serate con gli amici, ad un carattere gioviale, ad un uomo legatissimo alla famiglia, il presente è soprattutto costruire tra animosità e diffidenze i nuovi rapporti con il ragazzo che tanto appare sicuro di sé (spavaldamente fa di tutto per mostrare quanto si goda la vita, tra sport e musica e l’andare e venire tra due bellezze locali da portarsi a letto senza troppi ripensamenti) quanto più cova dentro un’infelicità e un’insicurezza emozionale che lo fanno rassomigliare a lui. Lonergan costruisce con tempi lunghi – e in un paesaggio rannuvolato che ti riporta a certe immagini di Hopper, con i suoi fari sulla costa e le case di legno – due esistenze che tentano di prendere una nuova strada, lo fa in modo intenso, mattone dopo mattone allinea sguardi, disperazioni e attimi di allegria, tentativi faticosi e speranze che sbocciano in un semplice gioco tra i due con una palla da tennis trovata vicino alla spazzatura.

E il futuro potrà essere diverso, più leggero. Soprattutto in un gioco che mai lascia avvertire ripetitività o stanchezza alterna i due momenti temporali, in un fluire di ricordi che portano alla scena madre dell’incontro tra il protagonista e la ex-moglie, in un carico di emozioni di cui anche Lee è capace, in una ricerca di affetti che non può avere spazio. Manchester non cerca grandi azioni, è soffocato nelle parole, è tutto giocato in sottotono, le piccole cose non dette ogni giorno risultano la sua spina dorsale, e le sei nomination agli Oscar nelle principali categorie (migliori film, regia e sceneggiatura originale, attore protagonista, attore e attrice non protagonista) sono andate in questa direzione di grigiore esistenziale. Della scrittura s’è detto, la regia sottrae in maniera estremamente misurata, Casey Affleck ritrova tutta quella bravura che ce lo aveva fatto apprezzare in L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, costruendo un bel personaggio, indimenticabile, fatto di ombre e di luci, compatto in quel suo più completo annientamento. Da non dimenticare le prove del giovane Lucas Hedges, di piena maturità, e di Michelle Williams, un piccolo ruolo che abbraccia con perfetta precisione lo sguardo del regista. Un mare di musica, uno specchio musicale che corre tra presente e passato e non soltanto, un avvicinare Händel a Bob Dylan, Massenet e Albinoni a Ray Charles, una coinvolgente colonna sonora intorno alla tragedia e alla redenzione di un uomo solo.

Il cruento “non uccidere” di Mel Gibson, la crudele bellezza della battaglia

Mel Gibson, lo si sa, non è uomo dalle mezze misure e usando la macchina da presa per la descrizione della violenza lo fa in maniera autentica, con il rischio per qualche animo reso più frastornato che il tutto sia visto eccessivo e pericoloso. Non sono espedienti da grand guignol, come non è compiacimento, è realismo che può aggredire la passione di Cristo o l’epopea di Apocalypto e che oggi ritroviamo a dieci anni di distanza da quest’ultimo titolo nella Battaglia di Hacksaw Ridge, presentato con successo a Venezia fuori concorso nel settembre scorso.

HACK FILM

La storia narrata è quella umana e vera di Desmond Doss scomparso una decina di anni fa, un giovane timorato di Dio, appartenente alla Chiesa avventista del Settimo Giorno, che in casa deve reggere i traumi di un padre reduce della Grande Guerra e che in pubblico ama gareggiare con il fratello in mezzo ai boschi della Virginia o lasciarsi completamente innamorare dai begli occhi di una ragazza e amoreggiare portandosela al cinema e chiederla in sposa all’incontro successivo.V Allo scoppio della guerra, mentre i musi gialli visti come il diavolo distruggono Pearl Harbour, anche per Desmond arriva l’ora dell’arruolamento, con la piccola Bibbia nel taschino e con la promessa che non imbraccerà mai un fucile. Arrivano l’addestramento, dove il sergente Vince Vaughn sembra uscito dai fotogrammi di Full Metal Jackett, i commilitoni che lo etichettano come vigliacco, le percosse in camerata nel cuore della notte, un tribunale militare che lo dovrà giudicare e possibilmente condannare. Ma Desmond rimane inflessibile, chiudendo la prima parte del film che ne mette gloriosamente in risalto le doti morali e si dimostra come un onesto prodotto dell’Hollywood più ammirevole. Buttando anche un occhio il vecchio e osteggiato Gibson, che conosce il cinema e lo sa splendidamente fare, a certi vecchi titoli, per cui quella atmosfera di pacifismo, accettato o meno ma pur sempre combattuto dentro ogni animo difensore e onesto, ti fa ritornare alla mente Il soldato York di Hawks o La legge del fucile di Wyler o il vecchio e dimenticato Non uccidere (“Tu ne tuera point”) di Autant-Lara.

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Si apre una seconda parte, con indimenticabili scene di battaglia che ti portano alla difesa delle sei nomination all’Oscar, dove Desmond a fianco dei compagni della 77ma Divisione di fanteria che scalano il roccione di Okinawa e avanzano, privo di armi, combatte e sfugge come chiunque altro, coprendosi di merito (primo obiettore della storia americana, riceverà a conflitto concluso da Truman la Medaglia d’onore) nell’assistere e nel portare in salvo più di settanta uomini, spaventati, feriti, con le carni ridotte a brandelli. In immagini che inseguono per “bellezza” i venti minuti iniziali di Salvate il soldato Ryan di Spielberg, alla scoperta dei giapponesi che spuntano da ogni parte e che sono votati al suicidio, Gibson non fa sconti circa la “crudeltà” del racconto, riempiendolo di HACK FILM2particolari raccapriccianti, facendoci sentire tutto l’odore e il sangue di una battaglia, con i corpi sventrati, gli arti mutilati, gli esseri che esplodono nel fuoco degli attacchi. E non nascondendoci nulla vince, facendoci ancor più ammirare e amare il messaggio – francamente evangelico – del protagonista, il suo affanno e la sua disperazione, il suo darsi completamente agli altri (mentre fa calare dall’alto della muraglia, con provvidi mezzi di fortuna, un compagno, sussurra “ti prego, Signore, fammene trovare ancora un altro”), proprio in quella carneficina confermando il messaggio di non-violenza e di pace ricercata a ogni costo. Confermando la dualità che attraversa l’essere umano oggi, quotidianamente, la ricerca del non uccidere e l’estremo realismo di un nemico che sta alla porta. Circondato da un bel gruppo d’attori, Andrew Garfield, uscito di recente e con successo dalle nebbie del Seicento nipponico ricostruite per Silence da Scorsese, aspira giustamente all’Oscar e si conferma come uno degli attori trentenni più interessanti e drammaticamente concreti.

Con Scorsese, nel seicentesco Giappone, disperati dubbi tra religione e martirio

Sul finire degli anni Ottanta, Martin Scorsese si ritrovò tra le mani Silence, un romanzo dello scrittore giapponese Shusako Endo, dato alle stampe vent’anni prima, forse l’esempio più efficace e pregnante delle idee di un uomo convertito al cattolicesimo all’età di undici anni, più per compiacere la madre che per ferma propria convinzione, del suo rapporto con la fede, dei legami tormentati e delle discordanze che univano e che separavano il cristianesimo e la cultura nipponica.

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Alla lettura, Scorsese decise di tradurre in immagini quelle parole del romanzo che bene si addicevano ad un suo personale percorso spirituale, altresì fatto di certezze e di profondi dubbi (a 24 anni entrò in seminario per uscirne poco dopo), un percorso che avrebbe attraversato titoli come L’ultima tentazione di Cristo pronto a scandalizzare il mondo cattolico e Kundun intorno alla vita e all’esilio del Dalai Lama. A sceneggiatura iniziata, con la collaborazione di Jay Cocks (il suo nome è pure legato all’Età dell’innocenza e a Gangs of New York), altri progetti arrivarono sul suo tavolo per concretizzarsi poco dopo, i finanziatori non erano al momento disponibili per un grosso budget, gli attori interpellati non erano più liberi per un progetto dai tempi lunghi e indefiniti. E per anni la vicenda non ha potuto prendere forma. È il silenzio di Dio al centro del film che esce ora, la presenza/assenza di un essere muto, la sua indifferenza al male e alle pene, il confine che divide il Bene e il Male, le false suggestioni, il sovrapporsi di una fede in qualche modo conquistatrice di valori già fortemente consolidati, di credenze improvvisamente cancellate. Al centro di certezze e di dubbi, in un Giappone colto nella prima metà del XVII secolo, sta il giovane gesuita padre Sebastian Rodrigues che dal Portogallo là si reca con il confratello padre Francisco Garrupe con il compito dell’evangelizzazione e nella ricerca del suo maestro di un tempo, il padre Cristobal Ferreira – figura storicamente esistita -, in odore di abiura.

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I tempi non sono certo facili, i sacerdoti sono obbligati a nascondersi e a vivere di stenti, le persecuzioni colpiscono chi abbia abbracciato la fede cristiana (la lettura di un nostro quotidiano è esplicita), tutto resta allo stesso modo confuso se troppi intendono il paradiso come un luogo di tranquillità, di abolizione della ferocia e delle tasse, calpestare le immagini religiose significa aver salva la vita, affidarsi con fermezza a Cristo significa il martirio. In una scrittura e in una trasposizione cinematografica che s’affidano entrambe prima alle parole e ai resoconti inviati in patria da parte di padre Rodrigues e poi nel finale ad una narrazione esterna, la lotta verbale e di sopraffazione avviene tra il religioso e l’Inquisitore, in un’atmosfera che riporta alle pagine dei dostoevskiani Fratelli Karamazov, laddove il primo tenta di fortificare le basi della propria spiritualità mentre il secondo ribatte con la necessità di abiurare al fine di salvare quei cristiani condannati al martirio. Ma i dubbi e la disperazione di Rodrigues sono lì con la loro forza e il loro sopravvento e il ritrovato padre Ferreira, che ha abbandonato il cristianesimo per vivere in una nuova vita con una moglie e un figlio tra le abitudini e i costumi del luogo, non fa fatica a spingere il suo antico allievo verso il gesto estremo dell’abbandono, dell’abiura.

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Silence è un grande progetto, forte, che fa parte di una letteratura e di una cinematografia immerse a tutto tondo nella morale, nella religiosità, nel rovello che colpisce gli spiriti alti. È una narrazione limpida, concretissima, irta e inquieta, diremmo faticosa ma nel significato più bello e liberatorio del termine, è una narrazione dove storia e finzione coabitano senza forzature, dove trovano posto le simbologie (le tante scene immerse nel biancore delle nebbie), la crudezza e la drammaticità del martirio (l’acqua, il fuoco, il sangue che danno la morte), la solitudine (il villaggio distrutto dove sono soltanto i gatti a passeggiare) e il sogno debordante (alle fattezze del religioso riflesse nell’acqua si scorsesesostituiscono quelle di Cristo): soprattutto quei dialoghi che costruiscono la debolezza di un individuo, e se la parte di avvio del film appare di minore spessore, messa lì ad avviare una storia, proprio quei dialoghi danno allo spettatore tutta la forza di Scorsese e del film. Pregevole ancora una volta l’apporto di Dante Ferretti con Francesca Lo Schiavo per le ambientazioni e i costumi, della bellissima fotografia di Rodrigo Prieto, a tratti impalpabile, in altri momenti distesa nei chiaroscuri e nei primissimi piani, nei piccoli particolari che fanno il momento. È Silence un’opera che lega ed emoziona anche per la intensa prova interpretativa di un vulnerabile Andrew Garfield, coraggioso ma altrettanto perso e disperato, eccellente. Accanto a lui Adam Driver e Liam Neeson, come vittima l’uno e come chi, l’altro, ha compiuto a suo tempo “il più doloroso degli atti d’amore”, ovvero l’abiura per porre in salvo altre vite umane altrimenti destinate alla morte.

 

Elio Rabbione

“Il cliente” di Asghar Farhadi, angoscia e vendetta nell’Iran di oggi

A Cannes gli è stato conferito il premio per la miglior sceneggiatura (oltre al Palmarès per il miglior attore protagonista a Shahab Hosseini): che può anche essere inteso come il riconoscimento globale al grande lavoro di scrittura, alla costruzione della struttura narrativa che Asghar Fahradi, quarantacinquenne regista iraniano già acclamato autore di “About Elly”, di “Una separazione”, di “Il passato”, mette alla base delle proprie opere. Al racconto che poggiato quasi su un elemento da nulla s’ispessisce poco a poco, alla resa di particolari sminuzzati e sparsi come impercettibili indizi, agli sguardi e alle parole accennate che sottintendono emozioni e rabbie, sentimenti affaticati e ripensamenti, al quotidiano che più realistico non si potrebbe dove s’allineano azioni e contro azioni, correzioni ad un destino non mai scritto in modo definitivo.

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È un approfondire, un calarsi con sguardo sempre preciso e attento, un mezzo per nascondere dietro lo sguardo spoglio della macchina da presa che s’aggira per le stanze una realtà che si fa presto allegoria, portatrice del non detto ma del suggerito. Perché nelle scene iniziali del “Cliente” si va al di là, in una visione in trasparenza dell’oggi iraniano, dell’improvvisa fuga dei coniugi Emad e Rana e dei loro vicini d’appartamento da un palazzo che rischia di crollare e mostra attimo dopo attimo crepe troppo pericolose, mentre gli artigli di una rossa ruspa ripresa dall’alto sembrano sgretolarne le fondamenta. Lui è un insegnante, apertissimo con i propri allievi, ed è pure un attore che, come Willy Loman, con la moglie, come Linda, sta mettendo in scena una versione del dramma di Arthur Miller “Morte di un commesso viaggiatore”, dramma di sogni e di disfacimenti morali e familiari, in un quotidiano provare e vivere tra luci posizionate, ambienti scenografici, costumi, trucchi, parrucche, binario parallelo che a tratti si sovrappone alla vita vera. Che viene mortificata e squassata dall’aggressione che Rana subisce una sera, rientrando sola da una replica, nel provvisorio alloggio in cui la coppia è andata ad abitare, alloggio già affittato da una donna dall’esistenza non proprio cristallina. Farhadi prende esemplarmente la via del giallo, dei piccoli oggetti dimenticati che possono ricostruire un puzzle, dell’indagine, dell’analisi al microscopio di quanto quel fatto abbia prodotto nella vita e nell’animo della coppia: lei ne esce duramente colpita non soltanto nel corpo ma soprattutto nello spirito, poi quietamente rappacificata, pronta a superare lo shock, lui pronto a suggerire per un attimo di buttarsi tutto quanto alle spalle ma poi con il desiderio di una vendetta, sino a sfiorare i tratti dell’aguzzino, che colpisca chi ha ridotto sua moglie in quello stato.

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Allo spettatore che vedrà il film la lenta, devastante scoperta di quel volto preciso; che potrebbe anche passare in secondo piano se messa di fronte agli attimi finali, bellissimi, quando, mentre iniziano a scorrere i titoli di coda, i due personaggi/attori in sala trucco s’impossessano di espressioni che la dicono lunga sul loro domani, o ce lo lasciano immaginare secondo il nostro sguardo, la nostra “simpatia”, mentre ogni cosa rimane impalpabilmente sospesa, inarrivabile. All’ultima immagine ci si arriva con una concreta tensione, senza un cedimento, senza un’immagine eccessiva, sempre catturati dall’aspetto claustrofobico, soffocante che dall’inizio alla fine circola nella storia, senza che né l’uno né l’altro degli attori abbia sovraccaricato il proprio modo d’agire, di pensare, di offrirci la propria verità, tra pubblico e privato, tra realtà e finzione, tra il positivo e il negativo di ogni sentimento.