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Una serata a Palazzo Barolo: balli, racconti e tour guidato in costume con Living History

Il maestoso portone di Palazzo Barolo si apre e accoglie i visitatori in un viaggio unico, sospeso tra passato e presente

Il 13 settembre, alle ore 21, le stanze del celebre edificio torinese diventeranno il palcoscenico di una serata esclusiva di living history, in cui balli, eleganza e racconti suggestivi vengono narrati in un tour in costume.

Ai partecipanti la scelta di partecipare in vesti normalissime o con abiti d’epoca.

A guidare gli ospiti saranno Giulia e Tancredi, Marchesi di Barolo, affiancati da gentiluomini e dame dell’Ottocento che, in abiti d’epoca, condurranno il pubblico attraverso le sale più iconiche del palazzo.

Un percorso che si apre con il monumentale scalone, impreziosito da stucchi e sculture che celebrano le glorie della famiglia Falletti di Barolo, per poi approdare al maestoso Salone da Ballo: spazio che ha accolto fastosi ricevimenti e personalità illustri della società piemontese ed europea.

Il tour prosegue negli ambienti privati, scrigno della quotidianità aristocratica: la Camera da Letto, con la sua alcova dorata; il Salottino, luogo di conversazione raffinata; la Sala del Consiglio, tuttora utilizzata dai membri dell’Opera Barolo.

Ogni ambiente diventa scena viva di un passato che torna a respirare, tra arredamenti originali e atmosfere ricostruite con rigore filologico.

Come in un set cinematografico, Palazzo Barolo si trasforma nel cuore pulsante della storia. Luci, musiche e costumi ricreano l’eleganza del primo Ottocento, evocando atmosfere che ricordano le celebri serie televisive in costume, da Bridgerton a Downton Abbey.

Una notte in cui il tempo sembra sospendersi e lo spettatore diventa protagonista, avvolto in una narrazione immersiva che rende tangibile la grandezza del passato.

L’evento rappresenta non solo un’occasione culturale, ma anche un invito a riscoprire il ruolo di Palazzo Barolo nella storia torinese: un luogo che ancora oggi custodisce memoria, arte e tradizione.

CRISTINA TAVERNITI

Living History a Palazzo Barolo
13 settembre, ore 21
Info e prenotazioni: somewhere.it

Il valore delle esperienze multisensoriali: quando i sensi diventano memoria

In un mondo in cui la frenesia spesso riduce le esperienze a momenti fugaci, cresce l’interesse per percorsi capaci di lasciare un segno duraturo. Al centro di questa ricerca si collocano le esperienze multisensoriali, che coinvolgono simultaneamente più sensi, trasformando una semplice attività in un ricordo vivido e memorabile.

Perché i sensi contano

Gli studi di neuroscienze confermano ciò che molti hanno sperimentato almeno una volta: l’olfatto, il gusto, la vista e l’udito sono in grado di risvegliare emozioni profonde, spesso legate a memorie personali. Un profumo può riportare a un’infanzia lontana, una musica può cambiare la percezione di un sapore. Non si tratta solo di suggestione, ma di un processo complesso che mette in relazione stimoli sensoriali e aree emotive del cervello.

Le esperienze che stimolano più sensi non sono dunque semplicemente più piacevoli: sono più intense, complete e difficili da dimenticare.

L’esempio di Torino

Un caso emblematico arriva da Torino, dove è nato The Nose Experience, definita la prima esperienza al mondo che unisce profumi e cocktail. Qui la degustazione diventa un viaggio: ogni drink è accompagnato da una fragranza studiata per amplificare le percezioni, creando un intreccio di stimoli che va oltre il semplice assaggio.

Il valore aggiunto non è solo nell’offerta originale, ma nella capacità di costruire un contesto immersivo, in cui il partecipante diventa protagonista. Profumi, sapori, luci e atmosfera dialogano, dando vita a un racconto sensoriale unico.

Un trend in crescita

Non si tratta di un caso isolato. Dal turismo enogastronomico agli eventi culturali, dal marketing esperienziale fino alla ristorazione, sempre più realtà stanno puntando sulla dimensione multisensoriale come leva di differenziazione. Le ragioni sono evidenti: un’esperienza che coinvolge tutti i sensi non si limita a intrattenere, ma costruisce un legame emotivo con chi la vive.

L’esperienza come patrimonio personale

In definitiva, il valore delle esperienze multisensoriali risiede nella loro capacità di trasformare un momento in memoria. Non un consumo effimero, ma un patrimonio personale che resta.

In un’epoca in cui i prodotti si assomigliano sempre più, a fare la differenza non è ciò che si offre, ma ciò che si fa vivere. E in questo, le esperienze multisensoriali rappresentano la nuova frontiera.

 

Prenotazione evento:  TNE Classic edition | The nose experience 

Dormire? Sì, tra un po’

La procrastinazione del sonno, quando addormentarsi diventa un problema.

Un film, una serie, il cellulare con tutti i suoi contenuti, la posta, la chat ed è già mezzanotte passata. Si sa benissimo che è ora di andare a dormire, ma si rimanda anche a causa di pensieri intrusivi conditi da tanta immaginazione. Si chiama procrastinazione del sonno e non è solo una cattiva abitudine, ma un fenomeno psicologico sempre più attenzionato, con ripercussioni concrete sulla salute mentale e fisica. Il termine tecnico è “bedtime procrastination”, introdotto per la prima volta nel 2014 dalla ricercatrice olandese Floor Kroese. Si tratta della tendenza a rimandare l’ora di andare a dormire senza un motivo valido, cioè senza che fattori come lavoro, figli o emergenze impongano di restare svegli. È una scelta volontaria, ma spesso vissuta con frustrazione: si è consapevoli che sarebbe meglio dormire, ma si sceglie di non farlo rivendicando un po’ di tempo per sé, anche a discapito del riposo. Alla radice di questo comportamento ci sono diverse ragioni che si intrecciano tra loro quali lo stress e il sovraccarico mentale, la scarsa autoregolazione tipica di chi fatica a gestire impulsi e decisioni nel breve termine e tende a procrastinare più facilmente, la tecnologia e iperstimolazione causati da un utilizzo frequente di smartphone, serie TV, social network pensati per intrattenere sempre più a lungo col fine di creare così una reale dipendenza. Un altro motivo che causa il ritardo nell’andare a letto è l’ansia, per evitare il momento del silenzio, in cui pensieri e preoccupazioni si accatastano nella nostra mente, si tende a rimandare il più possibile. Rinunciare al sonno non è una consuetudine da prendere alla leggera, anche una moderata deprivazione può creare problemi di umore, di concentrazione e avere conseguenze sul metabolismo e sul sistema immunitario. I disturbi che vengono causati da questo rinviare ad andare tra le “braccia di Morfeo” sono seri e da non sottovalutare. L’ affaticamento cronico cosi come l’aumento della depressione sono alcuni dei rischi che si corrono, così come il peggioramento delle performance cognitive e la maggiore vulnerabilità rispetto a malattie cardiovascolari. Inoltre, chi dorme poco tende a procrastinare anche in altri ambiti, alimentando un circolo vizioso difficile da spezzare.

Come si può rompere questa spirale che rende esausti e condiziona la quotidianità? Come prima cosa è necessario dare vita ad una routine rilassante a fine giornata che rallenti i ritmi, è opportuno spegnere tutti gli schemi almeno 1 ora prima di andare a dormire e creare una motivazione convincente per andare a letto a riposare. Inoltre quei momenti dedicati a noi stessi durante la notte dovrebbero essere inseriti, al contrario, nel corso della giornata; la sera ci si può dedicare, invece, alla redazione di un diario o alla mindfulness unita alla respirazione consapevole.

Insomma rimandare l’addormentamento può essere considerato un desiderio recondito di chi rivendica i propri spazi e il proprio tempo, ma che spesso finisce per colpire piuttosto che favorire Non si tratta solo di imparare a dormire di più e all’ora prevista, ma di riconquistare un rapporto sano con il proprio tempo, le proprie scelte e il proprio benessere. Dormire non è perdere tempo, è uno spazio salutare a cui non rinunciare mai.

Maria La Barbera

FANTASTICANDO Fiera della Creatività e della Fantasia

11 – 12 ottobre 2025
Polo Fieristico Riccardo Coppo – Casale Monferrato (AL)

Un evento magico per grandi e piccini, dove fantasia e meraviglia prendono vita!

Queste le aree tematiche della Fiera:

Personaggi e ambientazioni ispirati alla saga di Harry Potter, Botteghe di Diagon Alley con laboratori di magia tenuti dagli insegnanti di Hogwarts, Tornei di Quidditch nel campo dedicato, Escape Room “Fuga da Azkaban,”Scenografia del binario 9 ¾ per selfie, Fabbrica di Cioccolato con tanti dolci, fontane di cioccolato e i personaggi ispirati alla saga, Laboratori di cioccolato dove i bambini potranno creare e decorare le proprie golosità, Ufficio Postale dei Desideri, dove la Fatina incontrerà i bimbi, con tante sorprese, Maneggio incantato con pony “unicorni”, Luna park gonfiabile con scivoli e saltarelli, Area intrattenimento animazione, truccabimbi, tornei e giochi Legoland, Stand artigiani creativi con oggettistica realizzata a mano a tema fantasy, gadget, accessori, giochi, presepi artigianali e articoli da collezione, Ristorante piemontese e birrificio artigianale, Street food con golose specialità dolci e salate

…e tante altre sorprese! 

L’evento è organizzato da D&N eventi S.R.L. in collaborazione con l’Associazione Creare col cuore, UMA, Chocolè, Eventi Doc, Dolce Party e con il patrocinio della Città di Casale Monferrato

Puoi acquistare i Biglietti online sul sito https://www.fierafantasticando.it/la-fiera/  oppure direttamente in Fiera.

Orari di apertura:https:
sabato e domenica ore 10:00 / 22:00

x info: info@fantasticando.it

Le ciliegie “salate”

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Stavamo bevendo un bicchiere in compagnia quando Giorgio mi rivolse – all’improvviso – una domanda: “Ti ricordi quando andavamo per ciliegie?”.  Ci misi un attimo, giusto il tempo di mettere le mani nel cassetto dei ricordi e – trovato il filo giusto – mi vennero in mente, nitidamente, quei tempi

A Giorgio erano state le amarene rosso scuro che la Maria aveva sistemato nel cestino della frutta ad accendere la “lampadina“. In quell’istante, la nipotina della Maria, ne prese due coppie, tenute insieme dai gambi, e se le appese come fossero orecchini. Ridemmo, entrambi, di quel gesto che, tanti anni fa, avevamo fatto anche noi, scherzando tra ragazzini. All’epoca si andava in “banda” per i poderi a far razzia. Tra la fine di giugno ed i primi di luglio, nei tardi pomeriggi di quelle calde giornate d’estate, si cercavano gli alberi più carichi di ciliegie. Era una “caccia” troppo invitante. Le ciliegie sono frutti allegri, dissetanti. Ci sono quelle dolci, zuccherose, a polpa tenera ( le tenerine) e a polpa più carnosa (i duroni). E poi, le amarene e le marasche. Con gli anni ho imparato altre cose: oltre ad essere buone fanno pure bene. Sono indicate  nella cura di artriti, arteriosclerosi, disturbi renali. Contengono  buone quantità di fibre, potassio, calcio, fosforo e vitamine. Ci si possono produrre sciroppi, marmellate e liquori come maraschino, cherry e ratafià. Insomma, c’è tutto un elenco di cose positive che fanno rima con ciliegia. Ma noi, all’epoca in cui eravamo ragazzi, piacevano soprattutto perché erano il frutto di un piccolo furto e questo fatto, accompagnato dall’avventura, dai rischi e dalla voglia di trasgredire, rendeva le ciliegie il “frutto proibito” per eccellenza. Mario era arrivato al punto di sostenere una tesi tutta sua: Adamo ed Eva erano stati cacciati dal Paradiso non per colpa di una mela colta senza permesso ma di un cestino di ciliegie rosse e carnose. Il rischio più grande era quello di trovarle “salate“.

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Infatti, capitava che i contadini di un tempo, poco inclini a tollerare le nostre scorribande, ci accoglievano con una doppietta caricata a sale grosso, determinati a scoraggiarci con la minaccia di  piantarci due schioppettate nel sedere. All’arrivo dell’estate, immancabilmente, sembravamo due eserciti in assetto di guerra. “Noi“, a gruppi di 4 o 5, lesti a salire sull’albero, cogliere le ciliegie al volo, riempire il sacco di tela o il cestino, cercando di fare il più in fretta possibile. “Loro“, i proprietari dei ciliegi dove cresceva quel ben di Dio, confezionavano cartucce di diverso calibro con sale grosso, in sostituzione dei pallini di piombo. Rinforzavano anche le linee difensive lungo i confini dei frutteti: reti metalliche orlate di filo spinato, staccionate, siepi irte di spine. Era la “guerra delle ciliegie” che, in altre località, si trasformava in una vera e propria “guerra della frutta”. Se i contadini erano i difensori del loro diritto alla proprietà privata noi, gli incursori che negavano questo diritto, sostenendo che la natura non aveva padroni, colpivamo senza pietà, svanendo subito dopo nei boschi e nella campagna circostante, a volte trascinandoci appresso i compagni feriti. “Lo si faceva per fame e per gioco. Per molti di noi era l’unico modo per mettere sotto i denti quella frutta che non potevamo comprare. Ed era una cuccagna perché a casa il cibo era scarso“, rammentava Giorgio. E, come un rosario, sgranavamo i  nomi dei nostri compagni di quella guerriglia senz’armi: io e Giorgio, Mario, Luigino “Trota” – abilissimo nel pescare nei ruscelli e nel fiume -, Remo, Marco ed anche Marina. Era, quest’ultima, una ragazzina sveglia che dava dei punti a tutti noi. Ed era golosissima di ciliegie. Il campo di battaglia più duro era il frutteto del vecchio Roger Zuffoli, detto “il marsigliese“. Aveva un paio d’ettari piantati a frutta dove si trovava di tutto: susine, albicocche, pesche, mele, pere ed ovviamente ciliegie ed amarene. Verso il limite del bosco aveva anche noci e nocciole. Roger, piccolo e secco, vestiva i pantaloni alla zuava e camicie a quadrettoni mentre in testa teneva sempre il suo basco calato sulle “ventitré“. All’epoca poteva avere si e no una settantina d’anni, gran parte dei quali passati a scaricare merci nei porti di Marsiglia e di Tolone. Era tornato a Baveno già anziano perché, diceva, ” dopo tanta acqua salata ho sentito la nostalgia dell’acqua dolce del Maggiore“. In ricordo di quegli anni, al circolo comandava sempre un bicchiere di  “pastis“,  liquore profumato all’anice, tipicamente francese, che allungava con l’acqua di una caraffa dove galleggiavano dei grossi pezzi di ghiaccio. Attaccare le sue piante era molto ma molto rischioso. Raramente riuscimmo a farla franca ed una volta, quasi, ci lasciammo le penne. Quell’episodio, ancor meglio di me se lo ricorda Mario. Stranamente silenzioso, il frutteto pareva incustodito quella sera. Saranno state le diciannove o poco meno. Roger mangiava presto e quindi pensavamo fosse quello il momento giusto per compiere l’incursione. Invece il perfido vecchietto, mangiata la foglia, si era appostato dietro al piccolo fienile con la doppietta in mano.

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Non facemmo in tempo a renderci conto di quanto stava accadendo che l’eco dello sparo risuonò secco, costringendoci a tappare le orecchie. Colpito al sedere dalla fucilata di sale grosso, Mario cadde dal ramo. Dolorante si rialzò e tutti insieme corremmo a più non posso verso il bosco per far perdere le tracce. Mentre fuggiva a gambe levate, Mario sentiva il dolore delle ferite, poi il bruciore dei grani di sale che si scioglievano nella carne viva. Appena avvistò il ruscello, vinto dal bruciore, si gettò nell’acqua per calmare il fuoco che gli stava divorando il fondoschiena. Ma il rimedio si rivelò peggiore del male: l’acqua , accelerando lo scioglimento del sale, rese insopportabile il bruciore. Remo, appassionato collezionista di francobolli, portava sempre con se una pinzetta e con quella, tra le grida ed i lamenti di Mario, estraemmo i grani di sale, pulendo alla meglio le ferite. Per un po’, da quella sera, gli assalti vennero sospesi per poi, calmate le acque, proseguire per la disperazione dei contadini della zona, compreso Roger. Quella volta però, la “missione” si era conclusa senza il “bottino“. Mario , d’allora, non volle più prendere parte alle nostre imprese. L’invitavamo, lo pregavamo ma lui diceva sempre di no,  opponendo resistenza. Diceva che lui, ormai, non aveva più “il sedere di una volta“. In cuor nostro non ce la sentivamo di dargli torto.

Marco Travaglini

Turismo al femminile: le destinazioni preferite dalle donne

Quelle più sicure per viaggiare sole (con un invito comunque alla prudenza).

Sempre più donne viaggiano da sole, all’insegna della libertà, per seguire percorsi che con altri risulterebbero diversi sia in termini di conoscenza che di emozioni e per celebrare un’importante conquista che è quella di poter fare delle esperienze in autonomia senza l’accompagnamento di uomini per troppo tempo considerato una protezione necessaria e legittima.

Non si tratta più solo di una nicchia “alternativa”: oggi è un vero fenomeno globale, che riguarda donne di tutte le età, dai 20 ai 70 anni, spinte da motivazioni diverse ma unite da un nodo comune: il desiderio di libertà e indipendenza.

Secondo agenzie di viaggio specializzate in viaggi al femminile come Solo Female Travelers o Women Who Travel e in base a ricerche di mercato condotte da enti turistici locali ed internazionali come il Global Wellness Institute o i rapporti annuali di Skyscanner e Expedia, che non rappresentano dati ufficiali, ma raccolgono e analizzano comportamenti e preferenze, i viaggi al femminile hanno avuto una crescita significativa, rappresentano una tendenza sempre più consolidata.

Tra luoghi più apprezzati grazie ad una miscela di elementi importanti, come l’attrattività’ e la bellezza, ma anche la sicurezza ci sono: Portogallo, Giappone, Francia, Canada, Islanda e anche l’Italia, ma le più sicure in assoluto risultano Finlandia, Norvegia, Svezia, Nuova Zelanda, Austria e Svizzera.

Da qualche anno sono nate molte realtà e reti di ospitalità solidale che si occupano del turismo dedicato alle donne (che viaggiano principalmente sole), e proprio da queste ultime arrivano diversi consigli per viaggiare al meglio e incolumi come: usare app di sicurezza e condivisione della posizione con familiari o amiche, scegliere strutture recensite da altre donne, attraverso forum o community dedicate, non esitare mai a cambiare programma se qualcosa non convince. Nella narrazione positiva della “donna che viaggia da sola e si sente libera”, è essenziale comunque non perdere il senso della realtà soprattutto in alcuni paesi che rimangono culturalmente, socialmente o logisticamente più complessi per una viaggiatrice solitaria. Si tratta di muoversi, dunque, con consapevolezza per esempio rispettando le consuetudini locali, informarsi sulle zone da evitare (anche nelle città più famose) e gestire la condivisione sui social con cognizione come evitare di postare costantemente la propria posizione. Libertà non significa incoscienza, ma coraggio, prudenza e responsabilità. Le favole “dell’eroina solitaria” bisogna lasciarle nella fantasia, il buon senso non deve mai mancare. Non serve rinunciare, ma bisogna stare attente, sempre!

MARIA LA BARBERA

La tennista Beatrice Bo è Miss Piemonte 2025, Alycia Ferrero Miss Valle d’Aosta

Sarà proprio la tennista di Brandizzo, Beatrice Bo, 21 anni, a rappresentare il Piemonte, la regione delle ATP Finals, alla finalissima di Miss Italia 2025, in programma il prossimo 15 settembre  a Porto San Giorgio nelle Marche, finalissima che finalmente ritornerà sugli schermi della RAI. L’evento, infatti, sarà trasmesso da San Marino RTV e RAI Play. Con lei, di diritto in finale, anche Alycia Ferrero, 19 anni, di Borgaro, Miss Valle d’Aosta 2025. L’elezione è avvenuta il 27 agosto scorso a Fossano, nella splendida cornice dell’Auditorium della Musica Italo Calvino, durante la serata condotta dalla coppia Andrea Beltramo e Francesca Spinelli. Attore e doppiatore il primo, modella ed ex  Miss Italia la seconda, insieme stanno rendendo le varie tappe del concorso uno spettacolo divertente, elegante, senza tempi morti. Al loro fianco Mirella Rocca, agente esclusivista per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta, cui spetta il merito di avere riportato la corona in Piemonte nel 2023 con la bellissima Francesca Bergesio.


Le ragazze hanno sfilato con abiti da sera da favola e hanno realizzato il musical “I meravigliosi anni Settanta”, coinvolgendo il pubblico sotto la regia musicale di Tony Brera e la musica del Village Peaple. Tutte le Miss hanno poi sfilato con outfit anni Settanta creato da loro stesse.

Beatrice Bo ha conquistato la giuria con la sua avvenenza, il fascino e le capacità. Alta 1.80 per 61 chili, è una ragazza intelligente, con molte doti e una grande passione, il tennis, sport che pratica a livello agonistico,  di cui è anche istruttrice presso il Club Tirumapifort di Chivasso, e che si sposa con le tendenze che Torino ha assunto negli ultimi anni. Sogna anche il cinema e una carriera  come modella, per la quale studia costantemente in parallelo alla sua attività di tennista.
“È  un grande traguardo aver vinto questo titolo, frutto di impegno e determinazione, è un riconoscimento che va oltre l’aspetto esteriore, un premio alla persona che sono diventata – ha commentato ieri sera dopo l’inconorazione.
Alycia Ferrero, 19 anni di Borgaro, due occhi azzurri come il mare, proprio come Cristina Chiabotto, rappresenterà i monti della valle d’Aosta. Giovanissima, ma già determinata, studia moda e cultura d’impresa e sogna la grande fiction dove vorrebbe ricoprire ruoli da protagonista.
“Sono orgogliosissima di essere alla guida del concorso di Miss Italia, perché non si tratta soltanto di bellezza, ma di un percorso di crescita per tutte le ragazze che vi partecipano. Miss Italia rappresenta un’esperienza di formazione,  solidarietà e consapevolezza – spiega Mirella Rocca,  esclusivista regionale per il Piemonte, la valle d’Aosta e la Liguria, ma anche punto di riferimento importante per tante ragazze che desiderano iscriversi allo storico concorso di Miss Italia e per chi sogna di entrare nel mondo della moda e del cinema, essendo lei una professionista del settore.

Mara Martellotta

I “chiodini” intelligenti della Quercetti

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore 67 anni fa. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti

 

Caro Alessandro, i “plonini” hanno compiuto sessantacinque anni. Sette in più del tuo papà, più del doppio dei tuoi. Ma sono sempre quelli, di plastica colorata, che infilavi nei buchi per disegnare figure”. Così scriverei a mio figlio, in una ipotetica lettera, ricordando il tempo in cui giocava con i chiodini della Quercetti. Sì, erano quelli i “plonini” ( i bimbi tendono a reinventarsi i nomi; anche Snoopy era diventato “Stuyng” e i Puffi si erano ritrovati come d’incanto ad essere dei “fuppi” ) che nel 1950 uscirono dalla fabbrica torinese di Corso Vigevano,25. Esattamente 67 anni fa, Alessandro Quercetti, diede vita a uno fra gli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia. E, nonostante il paese sia cambiato dall’inizio del secondo dopoguerra e almeno tre generazioni di italiani hanno giocato con quei chiodini di plastica, sembra che per la “Quercetti & C.” il tempo si sia fermato. Certo, la fabbrica è più grande, moderna e tecnologica, ma il nome sulla porta è sempre lo stesso ed a  guidarla è sempre la stessa famiglia: Andrea, Alberto e Stefano Quercetti, i figli di Alessandro. L’azienda torinese rappresenta uno degli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia, un comparto che, nella maggior parte dei casi, ha dovuto arrendersi allo strapotere dei produttori asiatici.

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti. E il “pezzo forte” dell’azienda è sempre lui, il mitico “Chiodino“, intuizione straordinaria che ha reso il marchio “Quercetti” e i suoi giochi riconoscibili in tutto il mondo. La gamma dei giochi nel tempo è decuplicata, e sono cambiati materiali e tecnologie produttive: ai chiodini, si sono aggiunti biglie, costruzioni, aerei, magneti. Ma ogni pezzo viene realizzato ancora oggi in Italia, nello stabilimento di Torino, dove la Quercetti  può vantare di essere una delle pochissime realtà con un controllo diretto dell’intera filiera produttiva. Tutto il lavoro, a partire dalla progettazione del giocattolo fino al confezionamento del prodotto finito è interamente realizzato in Corso Vigevano. L’intero ciclo di produzione, dall’idea al prototipo, dallo sviluppo del prodotto alla costruzione degli  stampi, dallo stampaggio al confezionamento fino alla spedizione è svolto in Italia, sviluppando un indotto sul territorio. Così, nel tempo, la Quercetti  ha mantenuto la sua identità e non è mai scesa a compromessi. Perché per fare giocattoli, per essere in grado di offrire ai bambini una ricca gamma di esperienze, per realizzare un prodotto che non si limiti ad attrarre ma che stimoli l’intelligenza dei bambini. Rispettandola e coltivandola nel tempo, chiodino dopo chiodino.

Marco Travaglini

Il Tubolario, dissacrante gioco di parole degli anni ’80

Sul finire degli anni Settanta, con la legge 833 del 1978, venne istituito il servizio sanitario nazionale. In seguito a quella che, a buon diritto, è ricordata come la vera e grande riforma sanitaria italiana, cominciarono a circolare una marea di piani sanitari regionali e locali infarciti di frasi ripetitive, roboanti e, come capita spesso, incomprensibili ai più.

Due professori, dotati di uno spiccato senso dell’ironia, ribellandosi a quest’alluvione di parole e di  frasi inutili, inventarono il GAPS, acronimo che stava per “Generatore Automatico Piani Sanitari”.Il professor Marco Marchi dell’Istituto di Biostatistica ed Epidemiologia dell’Università di Pisa e il prof. Piero Morosini, direttore di laboratorio dell’Istituto Superiore di Sanità, grazie alla notizia della loro “invenzione” si guadagnarono la prima pagina del Corriere della Sera.

La Tecnogiocattoli Sebino, ditta bresciana famosa per aver prodotto il famoso bambolotto “Cicciobello ( e anche i suoi  fratelli multietnici: Cicciobello Angelo nero e Cicciobello Ciao-Fiù-Lin, dai tratti somatici tipicamente orientali) li contattò all’inizio degli anni ’80 per sviluppare l’idea e dar vita al Tubolario, riadattando le frasi del Gaps, sostituendo i termini ed i riferimenti  squisitamente sanitari con la finalità di poterlo proporre in un linguaggio più “politichese”. La confezione che  venne messa in vendita (su licenza dei due inventori) consisteva in una scatola contenente tre tubi con riferimento ad altrettanti temi : il linguaggio politico-sindacale, le frasi d’amore e un gergo sportivo (in particolare riferito al mondo del calcio). Di quei “tubolari” ne furono vendute migliaia di copie. In seguito, anche per problemi legati alla corresponsione dei diritti d’autore ( che furono negati a Marchi e Morosini per l’uso collaterale del tubo quale contenitore di cioccolatini) il rapporto con la fabbrica di giocattoli di Cologne si concluse senza lo sviluppo di altre versioni del gioco, com’era nelle intenzioni originarie. Durò poco la storia, ironica e dissacrante, del “Tubolario”, gioco intelligente che prendeva di mira l’abitudine assai diffusa ad esprimersi per frasi fatte, luoghi comuni, ed altre forme più o meno omologate di discorso che caratterizzano il linguaggio specialistico di politici, giornalisti ed altri personaggi che, spesso, gicano con le parole per comunicare senza dire niente che possa comprometterli.

Un esempio? Ecco una frase del “Tubolario”: “L’indicazione della base/ persegue/ il ribaltamento della logica preesistente/in una visione organica e ricondotta a unità /evidenziando ed esplicitando /in termini di efficacia e di efficienza / l’adozione di una metodologia differenziata”. Non male, vero? Eccone un’altra: “Il nuovo soggetto sociale/ presuppone/ un organico collegamento interdisciplinare/con criteri non dirigistici/fattualizzando e concretizzando/nei tempi brevi, anzi brevissimi/un indispensabile salto di qualità”. Le frasi,organizzate sotto forma di un discorso dall’apparenza logica, di fatto non esprimono un bel niente, ma danno la sensazione di volerlo fare. Il “Tubolario”, realizzato con l’uso di una settantina di brevi periodi stampati su sette cilindri rotanti, consentiva, a chi avesse deciso di utilizzarlo, di improvvisare un numero imprecisato di frasi ad effetto, senza mai dire niente di concreto. Nonostante ormai sia un oggetto di culto, sentendo alcuni dei protagonisti dei talk show televisivi (termine di lingua inglese che significa, tanto per essere pignoli, “spettacolo di conversazione o programma di parole”), parrebbe che non sia stato relegato nel baule dei ricordi ma venga tutt’ora usato con disinvoltura.

Marco Travaglini