Don Giovanni al Carignano, Lear, schiavo d’amore sul palcoscenico del Gobetti (fino al 15 aprile), due occasioni per rivedere i grandi titoli, per ricercarli con gli occhi di oggi, ripensarli attraverso le ragioni della nostra quotidianità. Il vecchio re arriva, nella drammaturgia ormai senza confini dei Marcido – su che cosa non hanno giocato, quale fonte o quale genere, quale sentiero teatrale non hanno percorso per infonderci quella colorata “maraviglia” cui da circa trent’anni danno la caccia, riuscendo sempre ad agguantarla per regalarcela tutta? -, ristretta qui forzatamente al territorio shakespeariano, dopo Macbeth e Amleto: e si vede immediatamente messa allo scoperto l’ulcera tragicomica della divisione di un intero regno alle tre figlie, a Gonerilla e Regana che accompagnano l’offerta con parole di riconoscente amore che dovrebbero alla sua mente suonare strane e insincere mentre ripudia l’affetto pieno di verità e senza limiti di Cordelia, che niente porta alle stelle, china soltanto di fronte all’affetto della parola padre. Con l’immagine di un uomo racchiuso come un prigioniero in quella stessa tela che lui ha ordito, ha inizio per 90’ un gioco di sottrazione, la riscrittura di Marco Isidori (da sempre alla guida orgogliosa e vulcanica di un gruppo compatto al cui interno stanno affluendo visi nuovi), prosciugata al di là delle tante ramificazioni del dramma nel bisogno d’amore di un vecchio padre, che cerca un posto nel cuore dei figli e se lo vede cancellare, come pure sinonimo di sconfitta e di morte. Il tutto cerca verità – e la trova, c’è da scommetterci, con l’abituale coerenza dell’intero gruppo – nell’apparato scenico approntato per l’occasione da Daniela Dal Cin, che condivide spiritosamente il castello di Lear con le sue torri bene in vista e la tolda di una grande nave, un fumettistico – diremmo noi – “sottomarino volante” lo definisce Isidori, con i suoi ponti e le passerelle che si faranno passaggi nelle lande sconfinate, schiacciate, sbrindellate (se i mondi non fossero diametralmente opposti, quella fatica nell’avanzare mi ricordava la difficoltà del Carraro strehleriano a porsi decenni fa al centro della scena per l’annuncio di partenza), le botole seminascoste e i boccaporti, le bandierine colorate, un rimando al musical hollywoodiano tra i più sfavillosi. A Dal Cin si devono pure i costumi, un piccolo capolavoro di inventiva e di divertimento, basterebbero quei rossi quanto divertenti corpetti con le grosse tette nere messi addosso alle due sorellastre. Quel che soprattutto colpisce nello spettacolo dei Marcido è la vocalità, i risultati sfaccettati sulle voci, l’uso perfetto dei mutamenti e dei toni, la coloritura, le alternanze, gli intercalare e i coretti, gli effetti incredibili che s’intrufolano nell’area buffonesca come nel dramma, negli assolo come nella polifonia. Spettacolo eccellente (vi concorrono anche le luci di Francesco Dell’Elba), godibilissimo, costruito dall’”umanità” di tutti quanti, dalla volontà di divertire con una continua ricerca che non abdica mai alla propria intelligenza e alle strade già percorse. Citiamoli tutti, Maria Luisa Abate che è Gonerilla crudele e Gloucester cieco e affranto, Batty La Val, Francesca Rolli, Paolo Oricco che si divide tra Edgardo e Edmondo con una sicurezza davvero lodevole, Vittorio Berger, Eduardo Botto e Nevena Vujič. A dare la carica a tutto c’è Isidori, incrollabile: e poi, perfetto costruttore di spettacoli, basterebbe vederlo a lato della scena a ricordarci tre o quattro canzoni dei nostri anni Sessanta, per gridare subito alla simpatia.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Giorgio Sottile