Di Marco Travaglini
Fino a metà dell’800, le mete turistiche in quota furono quasi essenzialmente elvetiche. Le vette più ambite e ammirate erano quelle della patria di Guglielmo Tell, mentre le “altre Alpi”, dal Delfinato alle Dolomiti, a quel tempo erano pressoché sconosciute.
Era la Svizzera dall’immagine quasi mitica che venne descritta, nel 1781, da William Coxe nelle sue “Lettres sur l’état de la Suisse”. E l’élite europea corse a visitare la nazione delle alte cime, dei ghiacciai e delle cascate, dei laghi e della democrazia, degli alpeggi e delle “persone autentiche” che valeva la pena di conoscere e d’incontrare nei vari cantoni. Ci si trovava davanti ad uno dei segni più evidenti del tramonto dell’egemonia urbana e della ricerca, soprattutto attraverso la villeggiatura, di grandi spazi di libertà, del contatto con la natura “in presa diretta”. La sedentarietà veniva vista con diffidenza, era sinonimo di perdizione, corruzione mentre l’avventura del viaggio, della scoperta di un orizzonte più largo esercitava un fascino irresistibile. Fino alla grande depressione del 1929, il turismo fu in ogni caso un fenomeno per pochi. Erano gli aristocratici a conoscere e praticare l’arte del savoir-vivre e del saper viaggiare. Basta vedere il profilo del turista-tipo del 1800 per rendersene conto. Scorrendo i resoconti dei bollettini delle stazioni turistiche che, nella loro compilazione, riportavano l’elenco delle nazionalità e delle professioni si comprende come il fenomeno turistico era composto per un buon 80% da nobili ereditieri, da un 15% formato da rappresentanti del clero, ufficiali e uomini di legge e, in ultimo, da un restante e modesto 5% di commercianti e banchieri. A metà del XIX secolo fecero la loro comparsa le grandi collane di guide e i “tascabili” conquistarono il mercato. E, guarda caso, sia l’inglese “Murray” sia la tedesca “Baedeker” e la francese “Joanne” esordirono con un volume sulla Svizzera. La montagna “chiamava” i più arditi a praticare l’alpinismo, un fenomeno che appassiona e travolge. Nell’arco di una generazione, dopo la fondazione dell’Alpine Club nel 1857, gran parte delle vette delle Alpi furono conquistate. Due categorie di persone che amavano le “quote alte” s’incontrarono: gli alpinisti, una minoranza, e i villeggianti che, a valle, osservavano, commentando. Col passare degli anni ci si chiese se non potesse essere la montagna, d’estate, a surrogare la funzione del mare d’inverno, quella di “far prendere dell’aria buona”, contemplare i panorami e rimettersi in forma. A metà dell’800 una pattuglia di intraprendenti albergatori delle Alpi, soprattutto in Svizzera ed Austria, ma anche sul versante italiano, riuscì ad attirare una buona clientela promettendole la bellezza del soggiorno in montagna, godendo il sole e l’aria frizzante, senza rinunciare ai comfort. Nascono così le prime stazioni climatiche e, verso la fine del secolo, si sviluppa una nuova usanza: il breve soggiorno in montagna dopo la cura termale.
Ma il turismo non poteva essere solo un’affare per i tre mesi estivi e così, nel Natale del 1864, Johannes Badrutt, il proprietario dell’Hotel Kulm di S. Moritz, inventò la villeggiatura invernale. Dunque, in origine, il turismo fu necessariamente d’élite. Il Verbano-Cusio-Ossola non faceva eccezione. Anzi, la collocazione geografica sul crocevia tra l’Europa centrosettentrionale e il bacino mediterraneo ne fece un punto di passaggio obbligato per quell’aristocrazia nobiliare, intellettuale, borghese che contrassegnò l’epoca dei grandi viaggiatori. Direttrici privilegiate di questo flusso verso l’Italia erano il Lago Maggiore da un lato e il valico del Sempione dall’altro. Uno scrittore di fama, come Charles Dickens nel suo “Pitcures d’Italy”, edito negli anni ’50 del XIX secolo, raccontò il viaggio in carrozza che, nell’arco di una giornata e mezza, lo condusse da Milano a Briga con l’ascesa a tratti avventurosa del Sempione e la discesa in direzione della cittadina valle sana, compiute nottetempo. Gli stessi grandi alberghi affacciati sul Verbano sorsero per soddisfare quella ristretta aristocrazia internazionale che si ritrovava, in vari periodi dell’anno, in diverse località alla moda. Alla gente di montagna non restava che assecondare questa aristocrazia turistica accompagnandola alla conquista di qualche cima, come le guide che portarono Margherita di Savoia in vetta alla Gnifetti dove oggi si trova il rifugio intitolato alla memoria della sovrana, oppure occuparsi dell’alloggio e del vitto di quella clientela. I poveri, quando si mettevano in viaggio, lo facevano per necessità alla ricerca di un lavoro che non riuscivano a trovare in loco. Il vocabolo vacanza, semplicemente, non apparteneva al loro lessico. Né da un saggio efficace, in uno dei periodici “Racconti d’estate” pubblicati dal quotidiano “La Stampa”, Mario Rigoni Stern. Per lui e la sua generazione, bambini e adolescenti negli anni ’30 del ‘900, la vita trascorreva sui banchi tra l’autunno e la primavera e nei campi, coadiuvando gli adulti nei lavori agricoli, in estate. Il servizio militare, persino la partecipazione di Rigoni Stern al secondo conflitto mondiale, consentì allo scrittore di fruire di “licenze” trascorse non nell’ozio ma, ancora una volta, nei campi. Anche il periodo postbellico non mutò sostanzialmente questo tenore di vita spartano. Fino a quando, ormai passati i quarant’anni, per festeggiare il primo contratto firmato con una casa editrice si concesse alcuni giorni in un alpeggio poco sopra casa, sull’altipiano dei Sette Comuni. Ma anche in quel caso Rigoni Stern aiutava l’alpigiano con la mungitura, coadiuvandolo nella confezione del formaggio, cuocendo la polenta. La prima vera vacanza, al mare di Puglia ormai raggiunta una certa notorietà letteraria, nel Racconto d’estate di Rigoni Stern arriva praticamente alle porte della pensione. Ci fu invece chi, come il verbanese Nino Chiovini, partigiano e scrittore, che le vacanze scolastiche ebbe la fortuna di farle, già negli anni ’30, nel paese d’origine della famiglia a Ungiasca, in valle Intrasca. Ecco l’affresco che, delle estati dell’infanzia e dell’adolescenza, tracciò in “Ungiasca perduta” (pubblicato nel fascicolo n. 9 di Verbanus, edito nel 1988). “Mi piacque – racconta – fin dal principio passare le vacanze estive a Ungiasca. In quanto ad amicizie, problema importante per un ragazzo fuori sede, le circostanze mi consentirono di tenere il piede in due staffe.
Al mattino mi accompagnavo con i figli dei milanesi d’origine e d’adozione, coloro i quali si esprimevano solo in italiano, esibivano buone maniere, trasudavano perfetta educazione (….) Ma per tutto il resto del tempo frequentavo i due unici autoctoni che avevano un’età prossima alla mia”. Chiovini, di passaggio, delineava l’evoluzione del turismo comune a gran parte del paese. Il progressivo allargarsi di un costume, la vacanza, a strati sempre più ampi della popolazione. Dai nobili, ai grandi borghesi, ai ceti urbani che in misura sempre maggiore si dedicavano alla villeggiatura. Del resto, al contrario di Rigoni Stern, Chiovini e i suoi amici milanesi vivevano in una realtà cittadina e industriale nella quale i figli non potevano coadiuvare in fabbrica, come i loro coetanei della campagna, i genitori. Almeno fino al termine degli studi. Ma, tornando allo sguardo più ampio, l’innovazione che rivoluzionerà la vacanza in quota è il soggiorno all’insegna degli sport invernali. Anche in questo caso gli “apripista” furono alcuni sudditi della corona britannica: sir Doyle, il dottor Lunn, Fox saranno i pionieri a Davos, Grindelwald, Chamonix. I turisti si appassionarono, sfoggiando sgargianti divise, alla slitta, l’hockey, il pattinaggio e lo sci alpino. L’invenzione era inglese, i materiali e gli istruttori venivano dalla patria dello sci, cioè la Norvegia. Era l’ebbrezza della discesa, del vento in faccia, inframmezzata dalle faticose salite e risalite con le pelli di foca. Il motto per questi turisti era “downhill only”, che sarebbe un po’ come dire “ giù a rotta di collo”. Prima adagio, con circospezione, e poi sempre più in fretta, le stazioni solo estive si convertirono alle discipline degli sport invernali e dello sci. A Megève nacque la prima stazione sciistica “ad hoc”, seguita da Meribel e dal Sestrières. Vennero lanciati stili nuovi nella pratica sciistica, come la curva con gli sci paralleli. In Italia, lo sci mosse i suoi primi passi nel novembre 1896, per merito dell’ingegnere Adolfo Kind, che risiedeva a Torino. Negli stessi anni, in Svizzera, Austria e Francia esistevano già club di sciatori. In Italia il primo sci club fu quello di Formazza nel 1912 mentre tre anni prima, nel 1909, si disputarono a Bardonecchia i primi campionati italiani di sci. Le specialità erano: fondo, salto, combinata fondo-salto, velocità in discesa e gare per pattuglie militari.
L’avvenimento non sfuggì ai quotidiani nazionali, che ne diedero ampio risalto.Con la teleferica, dopo gli anni ’20, iniziò l’era degli impianti di risalita meccanica. Lo ski-lift sganciabile fu inventato nel 1935 da Pomagalski. Esplose la moda in un vero e proprio “boom” nelle regioni alpine: lo sci, a tutti i livelli, diventò il tratto di unione tra turismo e montagna. Tra il Verbano e il Cusio il Mottarone venne preso d’assalto grazie alla sua collocazione geografica che consentirà di ribattezzarlo con il nomignolo di “montagna dei milanesi”. Macugnaga e Formazza diventarono le due perle della discesa e della disciplina nordica del fondo. In generale i centri che abbinavano vacanza e sport si moltiplicarono in ragione dei profondi cambiamenti per gli sciatori che erano sempre più attrezzati a percorrere piste veloci, grazie alle risalite più agevoli. Ci volle ancora un po di tempo per far diventare il turismo invernale un fenomeno di massa anche perché i costi non serano del tutto agevoli. Negli anni cinquanta il costo di una settimana bianca per quattro persone era pari a uno stipendio medio mensile ed erano ancora delle élite a praticare questo tipo di vacanza. Ma l’attrazione fu tale da rendere fragile anche questa barriera. Nacquero a quel tempo le stazioni in alta montagna, si costruirono strade e alloggi, si instaurò una forte competizione anche nei prezzi e nell’offerta ricettiva. E il turismo montano diventò una radicata – e praticata – realtà. Questo processo fu più lento e complicato in una realtà come quella del VCO, all’estremo nord del Piemonte. Per molto tempo il turismo si era sviluppato attorno ai grandi alberghi del lago, alle ville patrizie, a villeggiature più modeste. E anche dopo il secondo conflitto mondiale resistette per anni un turismo povero, spesso di giornata con l’utilizzo generalizzato di mezzi pubblici. Ad esempio le ferrovie Nord di Milano, il traghetto Laveno-Verbania Intra, la ferrovia Intra-Premeno.Oppure la strada ferrata del Sempione sulla tratta tra Milano e Stresa, il trenino a cremagliera che saliva dalla “perla del lago Maggiore” fino alla vetta del Mottarone. O, ancora, in treno fino a Domodossola da lì con la ferrovia Vigezzina fino alle Centovalli e Locarno in Svizzera.
Per non parlare poi delle linee d’autobus per le vallate ossolane con le gite parrocchiali, le colonie estive, le escursioni di sezioni del CAI. Lo sviluppo del turismo residenziale, sulle colline del Vergante piuttosto che nell’entroterra verbanese, a Macugnaga piuttosto che a Santa Maria Maggiore e in tutta la Val Vigezzo sarebbe venuto più tardi. Con un impatto forse eccessivo nelle zone più a ridosso dell’area metropolitana milanese, forzatamente ridotto nelle arcigne valli dell’Ossola. Lo sviluppo dell’edilizia residenziale, la presenza di un sistema di sfruttamento idroelettrico dei fiumi, un’attività per certi versi depauperante come quella delle cave consentirono, pagando gli inevitabili prezzi ambientali che ciò comportava, un certo presidio del territorio. Si pensi, ad esempio, al sistema di rifugi attorno ai bacini artificiali dell’alta Val Formazza o altre realtà simili nelle restanti valli. Dove, invece – il caso più rilevante è quello della Val Grande – al tramonto della vecchia società rurale-alpina, integrata da quell’attività economica per decenni fiorente come il commercio del legname, non s’è sostituita nessun altra forma di presidio del territorio, il disastro è stato completo. Almeno fino alla nascita del parco nazionale che ne ha valorizzato sotto il profilo turistico-escursionistico il territorio, rilanciando le tradizioni enogastronomica, la riscoperta del patrimonio artistico-architettonico, una rinnovata sensibilità ambientalista che porta un numero crescente di persone a ripercorrere quei sentieri abbandonati dopo la morte, o la collocazione a riposo, dei vecchi alpigiani “cancellati” dalle leggi del mercato. Ma questa è una storia che guarda al futuro, in gran parte ancora da scrivere.