CULTURA- Pagina 16

Il genio alato e i titani di piazza Statuto

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura

 

Ed eccoci nuovamente pronti alla scoperta delle meraviglie di Torino, con la nostra ormai consueta e spero piacevole, passeggiata “con il naso all’insù”. Questa volta, miei cari amici lettori, vorrei parlarvi di una delle opere tra le più “chiacchierate” della città, forse anche grazie all’alone di mistero che da sempre la circonda: sto parlando del monumento Al Traforo del Cenisio-Frejus. Collocata in testa a Piazza Statuto, sul lato ovest aperto verso l’imbocco di Corso Francia, l’opera si erge imponente, rappresentando la superiorità della scienza e della tecnologia contro la forza bruta della natura. Conosciuto più comunemente come “Monumento ai caduti del Frejus”, l’opera, pietrosa e frastagliata, si erge al centro di una vasca circolare che raccoglie l’acqua che zampilla tra i massi, simulando torrenti alpini che si aprono la via sul dorso di una montagna.

La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura.  Il Genio si erge come la punta di un faro, dove converge lo sguardo di chi percorre via Garibaldi in direzione della piazza. Egli compare con una penna in mano, nell’atto di incidere sulla pietra, ad intramontabile memoria, i nomi dei tre ingegneri che resero possibile l’opera del Traforo. L’idea del monumento nacque nel settembre del 1871, precisamente all’indomani dei festeggiamenti per l’apertura della ferrovia che collegava (e collega ancora oggi) Italia e Francia attraverso il Traforo del Frejus; fu un opera di ingegneria compiuta in un brevissimo lasso di tempo e che sembrò realizzare i sogni di progresso e di comunione dei popoli. Grazie infatti al talento e alla collaborazione tra gli Ingegneri Sommelier, Grandis e Grattoni, il progetto della costruzione del traforo si avvalse dell’uso di perforatrici ad aria compressa, che ridussero le vittime e resero possibile la via di comunicazione transalpina nel giro di quattro anni.

L’entusiasmo per il successo tecnologico e per l’apertura di nuove e più veloci vie di comunicazione, spinse il conte Marcello Panissera da Veglio a proporre l’erezione di un monumento commemorativo. Quindi, su precise indicazioni riguardo al tema e alla metafora che il monumento doveva simboleggiare, venne indetto un concorso presso la Regia Accademia delle Belle Arti, che fu vinto da un giovane allievo dell’Accademia stessa, Luigi Belli. Il monumento (formato inizialmente da otto titani che poi si ridussero a sette e dal Genio alato che all’inizio doveva essere in marmo di Carrara e poi venne realizzato in bronzo), doveva rappresentare la Scienza (e quindi il progresso) vincitrice assoluta sulla natura. Associazioni operaie fecero immediatamente propria l’idea, interpretando l’intenzione del monumento, più che un elogio alla tecnologia, come un ricordo dei tanti lavoratori che parteciparono all’impresa della ferrovia e raccolsero (di loro iniziativa) fondi cospicui che fecero partire il progetto. (E’ interessante precisare come ancora oggi l’interpretazione “operaistica” sia condivisa da molti torinesi che cadendo nello stesso fraintendimento, definiscono il monumento un omaggio ai lavoratori caduti nell’edificazione della galleria del Frejus).

La sottoscrizione avviata dalle società Operaie trovò una controparte nell’analoga iniziativa capitanata dal commendatore Laclaire, che riunì la borghesia cittadina inquietata al pensiero di rimanere a guardare; infine anche la Città stanziò un fondo per la realizzazione dell’opera. I lavori cominciarono però solo nel 1874, coinvolgendo anche altri studenti dell’Accademia per l’esecuzione delle figure dei titani: sei allievi a titolo ufficialmente gratuito, prestarono la loro opera sotto la direzione dello scultore Odoardo Tabacchi e del professor Ardy, incaricati di occuparsi della statua del Genio e del concetto d’insieme dell’intero monumento. In seguito Luigi Belli, discordante con gli altri, verrà estromesso dalla realizzazione, tanto che disconoscerà l’opera giudicandola non fedele all’idea che l’aveva plasmata. Successivamente altri imprevisti e ad alcuni problemi di natura tecnica (nel 1877 ad esempio i lavori rimasero fermi per molto tempo a causa della costruzione del condotto idrico che collegava il monumento ai serbatoi del mattatoio comunale) ritardarono maggiormente l’esposizione dell’opera. Finalmente il 26 ottobre 1879, alla presenza di S.M. Re Umberto, di numerose delegazioni comunali italiane, di corpi dell’esercito, di alcune associazioni operaie e di una gran folla di privati cittadini, venne svelato il monumento, al grido magniloquente di “Volere è potere”.

L’accoglienza dell’opinione pubblica sembrò positiva, ma sui giornali dilagò immediatamente la polemica: il monumento venne giudicato sgraziato, ridicolo, pesante e grottesco. In suo soccorso subentrò però Carlo Felice Biscarra, della Regia Accademia Albertina di Belle Arti, che lo difese come opera innovativa e diversa, necessaria a svecchiare il paludato mondo cimiteriale della statuaria cittadina. L’opera è sicuramente una singolarità all’interno della città: non esiste altro monumento a Torino così mosso, così ricco e dall’apparenza così poco rifinita; se anche la piramide di sassi si distanzia molto dalle sembianze di una montagna vera, i titani esprimono con verosimiglianza la fatica e l’estromissione date da una forza più grande che è giunta a scalzarli. Anzi sono forse loro i veri protagonisti dell’intero monumento tanto che si può comprendere l’identificazione popolare tra questi titani abbattuti e gli operai schiacciati dal lavoro, sentite come vittime e a cui va l’empatia dell’osservatore. Per quanto il Genio alato sia di ottima fattura e rifinito nei minimi particolari (da notare accorgimento dei drappi che si gonfiano alle sue spalle e celano i rinforzi metallici che lo sostengono) il suo ruolo risulta piuttosto di finitura: è situato troppo in alto per poter essere ammirato per le sue qualità artistiche.

Parlando di questo monumento non si può non parlare dell’alone di mistero che da sempre lo circonda, dato dall’immaginario esoterico della Torino Magica che vede Piazza Statuto ed il monumento come deputati al male e alla confluenza di energie nefaste. La piazza, costruita sui resti della “valle occisorum” (vale a dire una necropoli romana), orientata verso occidente dove tramonta il sole ed essendo vicina al celebre rondò d’la furca (o rondò della forca), luogo un tempo predisposto per le condanne a morte, è ritenuta un punto di energie negative. In questo contesto, secondo gli esoteristi, il luogo di massima negatività sarebbe proprio il “Monumento ai caduti del Frejus” che rappresenterebbe proprio la porta dell’Inferno mentre il Genio alato non simboleggerebbe la scienza trionfante, bensì Lucifero, l’angelo ribelle, con la stella ad attestarne l’origine sovrannaturale e con lo sguardo rivolto a controllare Piazza Castello, punto di energia positiva.

Allontanandoci da questa suggestiva visione per così dire “magica” dell’opera, è interessante segnalare una piccola variazione avvenuta al monumento nel 1971 proprio in occasione del centenario dell’ideazione della ferrovia. In quell’occasione si è provveduto a far aggiungere una targa che rendesse il merito dovuto a Giuseppe Francesco Medail, l’imprenditore nativo di Bardonecchia che per primo sostenne la causa del Traforo e che morì senza veder realizzato il suo sogno. Così, se pur con clamoroso ritardo, si diede voce all’accorata protesta della sua vedova, che già all’indomani dell’inaugurazione, nel marzo del 1880, rimproverò l’amministrazione cittadina di non aver associato al monumento il nome del marito.

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Il conte Camillo nella piazza della Ghigliottina

Alla scoperta dei monumenti di Torino / In età Napoleonica nel centro di  piazza Carlina venne collocata la ghigliottina, sostituita poi dalla forca negli anni della Restaurazione.  La piazza insieme alla Contrada San Filippo (via Maria Vittoria) fece parte dell’insediamento ebraico

Prosegue il nostro affascinante viaggio alla scoperta della “grande bellezza” di Torino. Questa volta cercheremo di sollecitare la vostra attenzione e curiosità introducendo un personaggio che fu uno dei maggiori protagonisti della nostra città. Stiamo parlando della statua eretta in onore di Camillo Benso Conte di Cavour, situata in piazza Carlo Emanuele II conosciuta da tutti come piazza Carlina. 

Situato al centro della piazza, l’articolato monumento celebrativo presenta un complesso programma iconografico imperniato sull’allegoria. In alto, avvolta in un’ampia toga classicheggiante, campeggia la figura idealizzata di Camillo Benso Conte di Cavour, che nella mano sinistra tiene una pergamena su cui è scritto “Libera Chiesa in libero Stato” mentre, inginocchiata ai suoi piedi, vede l’Italia porgergli la corona civica (corona d’alloro). Nel piedistallo si snodano le quattro figure in marmo che rappresentano le allegorie del Diritto, del Dovere, dell’Indipendenza e della Politica. Completa il piedistallo, nella parte alta, un fregio continuo in bronzo decorato da ventiquattro stemmi delle Province italiane.

Nel basamento vi sono quattro bassorilievi in bronzo che rappresentano due avvenimenti storici ( “Il Congresso di Parigi” e “Il ritorno delle truppe sarde dalla Crimea”) e gli stemmi della famiglia Cavour incorniciati da una corona d’alloro e da una ghirlanda di frutti. Nato il 10 agosto 1810 da una famiglia aristocratica e di forte spirito liberale, Camillo Paolo Filippo Giulio Benso frequentò in gioventù il 5° corso dellaRegia Accademia Militare di Torino fino a diventare Ufficiale del Genio. Abbandonata la carriera militare, il giovane si dedicò (sia per interesse personale che per educazione familiare) alla causa del progresso europeo, viaggiando all’estero soprattutto in Francia ed Inghilterra. Ricoperto il ruolo per diciassette anni come sindaco del Comune di Grinzane, affina le sue doti di politico ed economista e dal 1848, diviene deputato al Parlamento del Regno di Sardegna; in seguito con il governo D’Azeglio diventa Ministro dell’Agricoltura, del Commercio, della Marina e nel tempodelle Finanze.

Fondatore del periodico “Il Risorgimento” (assieme al cattolico liberale Cesare Balbo), Cavour manifesta costantemente la sua distanza dalle idee insurrezionali di Mazzini, promuovendo una linea di cambiamento moderata che ottenne più consensi nei cittadini borghesi ed aristocratici. Diventato nel 1848 Presidente del Consiglio dei Ministri promosse riforme economiche sia per lo sviluppo industriale che per l’agricoltura del Regno perseguendo, inoltre, una forte politica anticlericale volta a creare uno stato laico e ad abolire i privilegi della Chiesa. Essendo un abile diplomaticoriuscì ad accordarsi sia a livello internazionale con Francia ed Inghilterra, sia a livello nazionale, riuscendo a destreggiarsi fra le esigenze della monarchia e gli impulsi repubblicani, riuscendo così ad ottenere le annessioni al Regno di Sardegna di numerose province attraverso peblisciti.

Cavour morì il 6 giugno del 1861 all’età di cinquantuno anni, compianto da tutta l’Italia appena unificata.Nei giorni successivi alla sua scomparsa venne espressa, in una seduta della Giunta di Torino, l’intenzione di erigere un monumento a Camillo Benso Conte di Cavour; fu aperta una sottoscrizione per l’erezione del monumento alla quale parteciparono istituzioni e cittadini da tutta Italia e anche dall’estero ed in un anno, si riuscì a raccogliere la cifra di L. 550.000. A gennaio del 1863 venne bandito il concorso e la Commissione incaricata, dopo aver fissato la cifra di L.500.000 per i premi e per la realizzazione, scelse come localizzazione piazza Carlo Emanuele II.L’architetto napoletano Antonio Cipolla si aggiudicò il progetto ma, una volta esposta la relazione alla Giunta (nel giugno del 1864), dopo una lunga discussione tra i membri della Commissione, venne sospeso ogni provvedimento; l’anno dopo una seconda Commissione affidò l’incarico direttamente a Giovanni Duprè, che lo assunse ufficialmente nell’aprile 1865.

La realizzazione dell’opera richiese otto anni e dopo aver spostato più volte la data dell’inaugurazione, l’8 novembre 1873 venne finalmente inaugurato, davanti alla presenza del Re, il monumento a Camillo Benso Conte di Cavour. Per quanto riguarda la piazza che ospita il celebre monumento, sappiamo che piazza Carlo Emanuele II fu oggetto di un primo progetto seicentesco redatto da Amedeo di Castellamonte su commissione dello stesso Carlo Emanuele II, che aveva richiesto una piazza celebrativa della sua persona con monumento equestre centrale. In realtà, in seguito, la piazza venne semplificata nel disegno e destinata a mercato.

Con la decisione di erigere il monumento a Cavour la Giunta comunale approfitta dell’occasione per ripensare la piazza, proponendo l’abbattimento di una serie di casupole e facendo sorgere la Chiesa di Santa Croce, il palazzo Roero di Guarene e l’ex Collegio delle Provincie (ora Caserma dei Carabinieri). In età Napoleonica nel centro della piazza venne collocata la ghigliottina, sostituita poi dalla forca negli anni della Restaurazione.  La piazza insieme alla Contrada San Filippo (via Maria Vittoria) fece parte dell’insediamento ebraico; il ghetto venne istituito per regia costituzione, in vigore sino al 1848, quando lo Statuto pose fine alle restrizioni imposte agli ebrei.

Nota curiosa riguardante la piazza, è il fatto che essa sia sempre stata conosciuta (almeno da tutti i torinesi) come “Piazza Carlina”. Riguardo a questo nomignolo esistono varie leggende, ma pare che la più diffusa sia quella che vede il soprannome “Carlina” legato all’atteggiamento molto effeminato di Carlo Emanuele II e al sospetto che le sue attenzioni sessuali fossero indirizzate più agli uomini che non alle donne. Le maligne voci, nate durante il suo trono, diedero così vita all’ormai riconosciuto toponimo Piazza Carlina. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili stella

Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento

Breve storia di Torino


1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

 

4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento

 

Si è parlato finora dei Taurini, dei Romani, di Carlo Magno e dei Barbari, e ancora si sono citati Arduino e la contessa Adelaide, oggi invece ci occupiamo della Torino del Duecento, a cavallo delle lotte tra Imperatore, Papato e comuni e limminente arrivo dei Savoia, famiglia a cui lurbe si lega indissolubilmente.
I fatti risultano nuovamente intricati, sullo sfondo nuovi assetti scombussolano il territorio europeo e la nostra bella città si trova a galleggiare tra guerre e poteri che la vedono comunque coinvolta, anche se non proprio in prima linea.
È il 1155, Federico I di Hohenstaufen, meglio noto con lappellativo Barbarossa, viene eletto imperatore. Egli è convinto di poter risollevare le sorti del potere imperiale del Regno Italico, così nel 1158 indice unassemblea durante la quale presenta il suo puntiglioso programma, sostenendo di voler governare direttamente i territori italiani, di voler nominare personalmente i funzionari amministrativi, e infine di essere deciso a ripristinare limposizione fiscale.
Il piano tuttavia è tuttaltro che apprezzato, soprattutto dal papa e da molte città del nord, in primis Milano.
Tale malcontento porterà poi alla costituzione della Lega Lombarda (1167), voluta dal papa Alessandro III e dalla maggior parte dei comuni nordici, ormai abituati ad una indipendenza de facto.
Allinizio la Fortuna appoggia Barbarossa, tant’è che egli, dopo aver clamorosamente messo a ferro e fuoco Milano, entra trionfale a Torino il giorno di Ferragosto, insieme alla moglie, e qui, proprio nella cattedrale piemontese, viene incoronato.
Ma la Dea è cieca e volubile, e finisce per voltare le spalle allImperatore, che nel 1168 è costretto alla fuga attraverso Susa.

Negli anni seguenti accadono altri scontri tra il Barbarossa, che tenta una riconquista dei territori, e la Lega lombarda: le vicende non sostengono lImperatore, che, infine, nel 1183, dopo la sconfitta di Legnano (1174), sigla un trattato di pace con cui riconosce lautonomia alla città del nord Italia.
È bene ricordare tuttavia che Torino rimane sempre fedele allImperatore, non aderisce alla Lega e si ritrova ad essere nelle mani dei vescovi di turno o degli effimeri alleati del Barbarossa: dapprima infatti è il vescovo Carlo ad essere figura di riferimento per la cittadinanza, in seguito tale incarico è affidato a Milone e poi a Umberto III di Savoia. Federico I resta interessato a governare su Torino, a causa della strategica posizione geografica: a testimonianza  di ciò si sa che egli aveva una residenza, allinterno delle mura cittadine, in un vero e proprio palazzo imperiale. Nel tentativo di controllare lurbe e non solo- il Barbarossa istituisce dei nuovi funzionari: i podestà. Si tratta di amministratori e giudici che dovevano mantenere la pace e riscuotere pedaggi e tasse per conto dellImpero; queste figure rendono il sistema governativo più efficace e sottile, inoltre vantano una formazione legale nonché una schiera di collaboratori personali e possiedono una scorta armata. I podestàesercitano un incarico itinerante, dopo circa sei mesi essi devono spostarsi altrove, aspetto che li rende più imparziali nel giudizio, a confronto dei pubblici ufficiali o dei consoli locali.
Alla fine del XII secolo il comune di Torino si presenta tutto sommato tranquillo ed ordinato: consoli e podestà si susseguono ordinatamente, lassemblea cittadina si riunisce periodicamente e le decisioni che vengono prese durante tali incontri sono trascritte in un corpus che si affianca alle indicazioni designate affinchè si attui un buon governo.

 

Tuttavia la Storia ci insegna che gli eventi sono in continuo mutamento, è infatti proprio durante questo tempo tranquillo che alcune famiglie particolarmente agiate si apprestano ad assumere il controllo della città. Spiccano tra l’élite urbana alcuni protagonisti, tra cui Pietro Porcello, i cui interessi si espandono dalla città al contado. Egli è funzionario amministrativo e vassallo del vescovo, per conto del quale gestisce addirittura un castello, inoltre è menzionato come console assai conosciuto e membro di alto rango nell’élite cittadina.
I cittadini più abbienti erano soliti autodefinirsi nobiles e facevano riferimento alle proprie famiglie come dinastie patrilineari, copiando le abitudini della nobiltà fondiaria.
Alla fine del XII secolo tali gruppi sono quasi una quindicina, tra questi è bene annoverare i Della Rovere, i Borgesio, i Calcagno, i Beccuti e gli Zucca, questi ultimi particolarmente legati alla realtàtorinese.
I nobiles fanno ovviamente coalizione compatta tra loro, grazie a legami matrimoniali intenti a mantenere questo status privilegiato. È possibile avere unidea di come tali famiglie vivessero e accumulassero terre e averi grazie ad uno specifico documento, il testamento di Enrico Maltraverso, redatto intorno al 1214.
Egli dispone che, dopo la sua dipartita, la ricchezza posseduta venga suddivisa tra le quattro figlie e alcune istituzioni ecclesiastiche; la fortuna della famiglia deriva dai possedimenti fondiari, costituiti da molti territori circoscritti a Torino e dintorni: ville, giardini, una macelleria, un vigneto e diversi appezzamenti di terreni agricoli. Tale Maltraverso, come altri elitari, possiede inoltre diversi beni sparsi tra città e campagna e ha il diritto di riscossione dei pedaggi a Rivoli.
Altri dettagli che si possono leggere nel testamento sono prima di tutto che una cospicua parte delleredità spetta alla figlia badessa del convento di San Pietro, ma poi che la parte più ingente di tutto il lascito è devoluta al monastero di San Solutore, dove lo stesso Maltraverso fa edificare una cappella in suo onore. Non è difficile comprendere il motivo di tale attenzione nei confronti della Santissima Chiesa: il pio Enrico tenta di placare linevitabile castigo divino che lo attende per aver praticato lusura durante buona parte della sua vita; il tentativo fa sorridere, ancora di più perché nemmeno dopo la morte Maltraverso mostra carità nei confronti dei creditori, al punto che incarica il collega usuraio Giovanni Cane di riscuotere i crediti precedenti.
Abbiamo alcune informazioni anche su questultimo losco figuro, il Signor Cane diventa presto uno degli uomini più facoltosi della città, ma anchegli pare avesse la coda di paglia: nel suo testamento, redatto nel 1244,  si legge di ingenti donazioni rivolte alla chiesa di San Francesco, con specifiche di ammenda per i propri peccati legati alla vita terrena.
Attraverso tali personaggi si evince che le ricchezze di certa élite torinese è spesso derivata da denaro ottenuto per mezzo di scambi, pagamenti di pedaggi o prestiti e non da attività commerciali o di qualsivoglia produzione. È poi chiaro il legame tra questi nobilesusurai e la Chiesa, che non disdegna di ricevere donazioni per finanziare enti ecclesiastici, ospedali o altre istituzioni religiose; nésono da dimenticare i rapporti più interpersonali tra le due categorie, come dimostrano i canonicati delle cattedrali o le posizioni allinterno dei monasteri più prestigiosi, affidate proprio a figli o figlie di questi ricchi nobiluomini, in modo da assicurare alle varie famiglie un avanzamento sociale e una stabile rete di appoggio costituita da politici e finanziatori: favori che garantiscono a questa esecrabile élite dominante una salda posizione di rilievo allinterno della gerarchia amministrativa comunale o ecclesiastica. É per via di questi spregiudicati che pian piano la figura del vescovo viene surclassata, fino al definitivo colpo di grazia dovuto allinsorgere delle insidie dei signori vicino a Torino, altri aspiranti al potere che si fanno forti della situazione problematica causata dalla contesa tra i comuni della Lega, lImperatore e il Papa.
Il vento sta cambiando ancora, questa volta sussurra il nome dei Savoia.

ALESSIA CAGNOTTO

“Temporale” di Andrea Ferraris, un biopic corale

Come in  ” Certe notti” la canzone di Ligabue il personaggio io-narrante Mario, «prima o poi» si ritroverà al bar, a raccontare agli avventori della sua avventura “extraterrestre”. Così Andrea Ferraris, nella sua ultima graphic novel intitolata “Temporale” (Oblomov ,134 pgg , €. 20), traccia l’ Amarcord della sua adolescenza attraverso quindici capitoli, pensati come altrettanti brani di un album di canzoni folk , a commento di altrettante vicende narrate nel testo. Vissute in parte in prima persona, in parte tratte dal racconto popolare.

Un disegnatore a fumetti, ripensatosi etnografo, nella sua opera più matura, onirica e filosofica, a tratti felliniana. Si è detto influenzato da Tom Waits e da Vinicio Capossela e il suo racconto si snoda disegnato in chiaro scuro e colorato dalle splendide tinte, della moglie Daniela Mastrorilli, da sempre sua collaboratrice e musa ispiratrice. La narrazione si configura come un ‘biopic corale’, attraverso quelle voci che gli etnologi chiamano ‘informatori informali’. Persone delle campagne, agricoltori, operai, vari perdigiorno, incontrati nei bar, lungo le strade, nei luoghi di aggregazione, in quella road life che Jack Kerouac nel suo “On the road” dice di essere la strada.

Prende in considerazione i concetti di destino oppositore, il senso dell’inazione contemplativa, la dimensione onirica del paesaggio, i tic e le nevrosi di quella società, crocevia del mondo contadino e di quello urbanizzato industriale, dove si fondono in un ‘unicum’ i più radicati e meno evidenti contrasti culturali e di classe. Spok, Sara, il bomba, Keegan, la rumba sotto la luna, Pongo e altri comprimari rimangono personaggi indimenticabili. Ferraris sa per se stesso e per gli altri, di chi può pretendere di parlare, quando parla di quelli con cui ha parlato. Ha condiviso gioie, ha sofferto, ha in sintesi vissuto in modo immersivo con loro e tra loro, trasferendo tutto questo al lettore, nei balloons, nelle immagini. Ha tracciato una linea divisoria tra luogo e non luogo (Marc Augè) nei ricordi di una generazione. E ha ricostruito in parte il suo e il nostro immaginario collettivo degli anni ottanta. Quello di una generazione di vite straordinarie di uomini comuni.

Aldo Colonna

In un Podcast la storia e la tragica fine di Edoardo Agnelli (ma non solo)

“Gli Sconfitti”

Con lo scrittore Alessio Cuffaro a “Casa Lajolo”

Domenica 28 luglio, ore 18

Piossasco (Torino)

Avrebbe compiuto 70 anni, il 9 giugno scorso, Edoardo Agnelli, figlio maschio di Gianni Agnelli e Marella Caracciolo, se la vita e la voglia di vivere non gli fossero drammaticamente sfuggite di mano a soli 46 anni (era il 15 novembre del 2000, un mercoledì) in un tragico volo di un’ottantina di metri che arrestò il suo non facile cammino terreno alla base del 35° pilone del viadotto “Generale Franco Romano” della “Torino – Savona”, nei pressi di Fossano. Suicidio. Il procuratore competente non ebbe dubbi in proposito e concluse le indagini senza neppure disporre un’autopsia. Nessun mistero, tanto più che le lesioni, a un primo esame del corpo, apparivano perfettamente compatibili con un’importante caduta dall’alto. L’Avvocato, che morirà tre anni dopo la scomparsa del figlio, chiede la restituzione del corpo il prima possibile per i funerali. Oggi Edoardo riposa nella monumentale tomba di famiglia che sovrasta il cimitero di Villar Perosa, accanto al cugino Giovanni Alberto, agli zii Umberto e Giorgio e di fronte ai genitori Gianni e Marella. Suicidio annunciato per i più e, ormai, per la storia. Ma in quei giorni e negli anni successivi non mancarono di fare breccia anche, più o meno fantasiose, ipotesi di complotto ai danni di un giovane che sarebbe stato forse troppo fragile e sensibile, incline soprattutto a interessi letterari filosofici e teologici, per reggere il peso di una successione aziendale per lui “corona troppo pesante” da portare.

Per alcuni i dubbi restano a tutt’oggi e saranno, anch’essi, probabilmente occasione di dibattito nel corso della presentazione del podcast “Gli sconfitti” che si terrà (nell’ambito della Rassegna “Bellezza tra le righe”) domenica prossima 28 luglio, alle 18, negli storici Giardini di “Casa Lajolo” a Piossasco. Podcast dove la storia di Edoardo è certamente fra quelle di maggior rilievo e interesse proposte e raccontate dallo scrittore Alessio Cuffaro (fra i fondatori della Casa Editrice “Autori Riuniti”) e il regista Igor Mendolia, moderati dal giornalista Sante Altizio.

 

“Gli sconfitti” parte da una riflessione. Le storie di successo – sottolineano Cuffaro e Mendolia – vivono confinate nell’ambito di chi le ha vissute e sono inservibili. Le sconfitte, invece, sono universali e sono feconde”. Di qui, l’idea dei 13 capitoli – caricati su Spotify fra il novembre 2023 e la fine di maggio del 2024 – che raccontano, storie di chi perde, progetti che non sono andati a buon fine, sogni che non si sono realizzati e che, quindi, continuano “a mordere e a stimolarci”. E a farci sognare. Cosa possibile solo maneggiando “desideri che non si sono ancora avverati”.

Oltre ad Edoardo Agnelli, protagonisti de “Gli Sconfitti” sono la fotografa-bambinaia americana Vivian Dorothy Maier (1926 – 2009) esponente di spicco della “street photography” scomparsa in assoluta povertà e diventata celebre solo dopo la morte (capita spesso ai grandi!) grazie al ritrovamento, da parte di un rigattiere e collezionista d’arte, di ben 200 casse di cartone contenenti – una fortuna! -centinaia di negativi e rullini ancora da stampare; l’ex calciatore, allenatore e scrittore Carlo Petrini (1948 – 2012), fra i primi ad essere invischiato nella stagione 1979 – ’80 (dopo una brillante carriera arrivata ai vertici con il Milan di Nereo Rocco, 1968- ’69) nello scandalo del “calcio-scommesse” che gli procurò una squalifica di tre anni e sei mesi, seguita poco dopo dal ritiro dai campi e dall’avvio di una “società finanziaria” risultata in breve disastrosa, tanto da indurre Petrini a rifugiarsi in Francia, dove visse per alcuni anni nel completo anonimato, fino al ritorno in patria e alla dolorosa scomparsa, seguita alla pubblicazione di due libri, “Nel fango del dio pallone” e “Il calciatore suicidato”, in cui indagò sulla misteriosa morte  del calciatore del Cosenza, Donato Bergamini; l’attore americano Matthew Langford Perry (1969 – 2023) reso celebre soprattutto dalla serie televisiva “Friends”, diverse nomination agli “Emmy Award”, ma pericolosamente rotolato, fin dall’adolescenza, in un precipizio fatto di abusi d’alcol e sostanze stupefacenti, perverse compagne di vita che Perry raccontò nel libro “Friends, amanti e la Cosa terribile” e che lo portarono alla morte nella sua casa di Los Angeles, dove fu trovato privo di vita, a soli 54 anni, nella vasca idromassaggio nell’ottobre dell’anno scorso.

 

Storie amare. Tragiche e dolorose. All’apparenza senza alternative e improbabili vie d’uscita. Forse perché “Sconfitti” si nasce. In un casuale gioco di ruoli, in cui spesso è assai difficile trovare anche i “Vincitori”.

 

Per info: “Casa Lajolo”, via San Vito 23, Piossasco (Torino); tel. 333/3270586 o www.casalajolo.it

Gianni Milani

 

Nelle foto: Cover podcast “Gli Sconfitti”, Alessio Cuffaro, Igor Mendolia

Che curiosi appuntamenti a Sant’Antonio di Ranverso!

 

 “Disegno dal vivo” con gli “Urban Sketchers” e “genealogia domestica” con la “nanabianca” Francesca Moscardo

Domenica 28 luglio

Buttigliera Alta (Torino)

Doppio appuntamento decisamente allettante e curioso anzi che no, per il fine settimana (domenica 28 luglio, a partire dalle 14,30) all’antica “Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso” (Buttigliera Alta, via Sant’Antonio di Ranverso 6) fondata dall’Ordine Ospedaliero di “Sant’Antonio di Vienne”, negli ultimi anni del XII secolo, su volere del Conte Umberto III di Savoia. Lì, in quell’antica struttura, (tappa strategica un tempo per la “Via Francigena”), dotata di una foresteria per i numerosi pellegrini e anche luogo di assistenza e di cura, da parte degli “Antoniani”, dichiarata “monumento nazionale” nel 1883 (e restaurata prima da Alfredo D’Andrade e poi da Cesare Bertea agli inizi del Novecento), arriveranno a totale disposizione dei visitatori e armati dei loro “ferri del mestiere” – solo acquerelli, matite e biro – gli “Urban Sketchers”.

Niente paura. Si tratta della “Community di disegnatori” (illustratori, grafici, architetti e in generale tutti gli amanti del disegno e dell’arte) che lì si ritrova per “disegnare dal vivo”. Il loro intento, portato in giro per tutta Europa, è quello di “innalzare il valore artistico, narrativo ed educativo del disegno sul posto, promuovendone la pratica e collegando le persone in tutto il mondo che disegnano i luoghi in cui vivono e in cui viaggiano”. Come una sorta di “cahier de voyage”, i disegni raccontano, la storia di quanto ci accade intorno, sono “una documentazione di tempo e spazio attraverso cui rappresentare realmente ciò che si osserva”. La storia del “movimento” è relativamente recente. Si torna indietro nel tempo all’anno 2007, quando l’illustratore di cronaca di origini spagnole Gabriel Campanario, incuriosito dal moltiplicarsi degli artisti che condividevano “online” disegni e schizzi delle loro città, creò il gruppo Flickr” che divenne in breve tempo il punto di riferimento di un’articolata e capillare rete di gruppi attivi a livello locale. Il crescente interesse verso questa pratica ha dato vita in breve tempo a numerosi Festival e a un fitto calendario di incontri e raduni periodici, che nel tempo sono andati ad attrarre  l’attenzione di “sponsor” importanti (prima fra tutte la “madre di tutte le agende”, la milanese “Moleskine”) e di “amministrazioni pubbliche” che hanno visto in questa attività estremamente concreta, visibile e reale un’ottima occasione per indagare con forte empatia e capacità illustrativa il tessuto urbano.“Il legame profondo con il territorio si coniuga, infatti, con una coscienza sociale condivisa dal movimento a livello mondiale che ha portato gli ‘Urban Sketchers’ ad attivarsi in diverse occasioni nell’ambito della raccolta fondi per progetti di recupero urbano o in occasioni di emergenze e calamità naturali”. Estremamente interessante sarà dunque vederli all’opera alla “Precettoria” e magari confrontare o porre in gioco i loro lavori, senza voler creare paragoni fasulli e insensati, con gli affreschi interni alla Chiesa realizzati da Giacomo Jaquerio(considerati uno dei capolavori della scuola tardogotica piemontese) o con il “pentittico” dell’abside di Defendente Ferrari, datato 1531.

Veronese, classe 1987, storica dell’arte ma anche blogger, copywriter e social media manager, Francesca Moscardo, attesa alla “Precettoria” con il suo “Fuoco Sacro”, sempre domenica 28 luglio, alle 17, è stata insignita il 31 marzo scorso del titolo di “Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana” dal Presidente Sergio Mattarella, “per l’entusiasmo e l’ironia con cui affronta i temi connessi alla sua disabilità”. Francesca scrive di sé: “Una stella piccola come la Terra, ma pesante come il Sole: questa è una ‘nana bianca’”. E “Nanabianca Blog. Il mondo a un metro d’altezza” è proprio il nome da lei dato al suo “Blog”, un luogo creato nel 2017, dove ha portato il suo punto di vista personale, spesso ironico, sul “nanismo” e sulla “disabilità” (Francesca soffre di una malattia genetica, la displasia diastrofica, caratterizzata da un difetto di accrescimento della cartilagine) offrendo consigli utili per affrontare la vita quotidiana “in formato – come dice lei da talentuosa ‘battutiera’- mignon”. Alla “Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso”, la “nanabianca” terrà un corso (sua ultima ossessione) di “Genealogia domestica”incentrato sullo studio e la memoria degli “antenati”, per aiutare le persone a conoscere le radici della propria famiglia. E proprio a Sant’Antonio di Ranverso, Francesca troverà terreno fertile, se si considera che la “Precettoria”, per gli abitanti della zona, ha costituito per moltissimi anni e generazioni il luogo della celebrazione di riti, battesimi ma soprattutto matrimoni. Gli scatti di quelle giornate costituiscono un patrimonio importante per la memoria di Ranverso. E saranno materiale prezioso per il “Fuoco Sacro” che Francesca terrà acceso nella sua nuova avventura di “genealogista alla pari”, come ama definirsi, instillando in chi l’ascolta non poca, piacevole curiosità. Anche perché, ironizza “vedere il mondo a un metro d’altezza non è cosa da tutti i giorni: un corpo di adulta e un punto di vista di bambina”.

Per info: “Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso”, Località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera Alta (Torino); tel. 011/6200603 o www.ordinemauriziano.it

g.m.

Nelle foto: “Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso”, un disegno “Urban” e Francesca Moscardo (ph. Andrea Tasca)

 

Montiglio, il paese delle meridiane che sorridono

Se il sole sorride, la meridiana è di Mario Tebenghi. In paese a Montiglio Monferrato, quasi 1500 abitanti, tutti l’hanno conosciuto. Le meridiane montigliesi sono opera sua, sono orologi solari caratteristici e molto colorati con una particolarità: all’interno c’è sempre il sole che sorride. Un vero artista, un mito il Tebenghi. Le meridiane colpiscono l’attenzione di turisti e curiosi appena si entra nella piazza del paese. Una passione coltivata fin da ragazzo.
È tutto opera di Tebenghi, è lui che ha fatto conoscere ovunque Montiglio, già noto per la Fiera del Tartufo le prime due domeniche di ottobre. Insieme ai tartufi, le meridiane, che spiccano su numerose case private, edifici pubblici e chiese del paese, sono il simbolo del borgo collinare monferrino. Scomparso alcun anni fa all’età di 97 anni il maestro è famoso per i quadranti solari non solo a Montiglio, dove nacque nel 1922, ma anche in alcune regioni italiane e all’estero.
In paese si vedono alcune decine di meridiane insieme a tre rose dei venti. Danilo, figlio di Mario, ha catalogato oltre 500 meridiane realizzate da suo padre. Fin da giovane Tebenghi iniziò a interessarsi agli orologi solari grazie all’aiuto del sacrestano della parrocchia locale. Mario ha lavorato prima a Torino come grafico pubblicitario e poi al Centro storico di Documentazione della Fiat.
Oggi la maggior parte delle meridiane si trovano nell’astigiano e in provincia di Torino ma anche in Lombardia, Toscana, Veneto, Liguria, Valle d’Aosta e perfino in Francia. Il maestro gnomonista Tebenghi sarà ricordato con un “Museo del Tempo contadino” che sta per aprire a Palazzo Belly a Montiglio, finanziato con un contributo della Regione Piemonte.
Filippo Re

Il Magnanimo si affaccia sulla “sua” piazza

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome

Nel centro della piazza e rivolto verso Palazzo Carignano, il monumento si presenta su tre livelli. Sul più alto posa la statua equestre in bronzo del Re con la spada sguainata in atteggiamento da fiero condottiero. Al livello del piedistallo, che sorregge il ritratto equestre, sono collocate (all’interno di nicchie) le statue in bronzo in posizione seduta raffiguranti le allegorie del Martirio, della Libertà, dell’Eguaglianza Civile e dello Statuto. Al livello centrale sono collocati quattro bassorilievi che ricordano due episodi delle battaglie di Goito e di Santa Luciarisalenti alla Prima Guerra di Indipendenza, mentre gli altri due, rappresentano l’abdicazione e la morte ad Oporto di Carlo Alberto. Agli angoli del piano inferiore, infine, sono poste quattro statue in posizione eretta, raffiguranti corpi dell’Esercito Sardo, quali l’Artiglieria, la Cavalleria, i Granatieri e i Bersaglieri.

 

L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto, detto il Magnanimo, risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome. Fu un comitato promotore, composto da illustri uomini politici e del mondo della cultura guidato da Luigi Scolari, seguito a ruota dal Municipio di Torino, ad ideare il programma di una pubblica sottoscrizione da sottoporre all’allora ministro dell’Interno Des Ambrois. Seguì un lungo e appassionato dibattito parlamentare volto anche alla individuazione del luogo più adatto ad accogliere il monumento, interrotto brevemente in seguito ai Moti del 1848. L’andamento del dibattito subì una repentina svolta con la morte in esilio di Carlo Alberto nel luglio 1849: da quel momento la commissione istituita per la realizzazione del monumento attribuì all’iniziativa “il valore assoluto di precetto morale e insegnamento perenne”.

Nell’agosto del 1849 l’iniziativa venne ufficializzata da un progetto di legge, uno stanziamento di 300.000 lire e l’apertura di un concorso pubblico. Con una legge del 31 dicembre 1850 la gestione del progetto e le decisioni relative al monumento passarono al Governo e venne infatti nominata, in seguito, una commissione presieduta dal Ministro dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa. Si dovette però attendere fino al 20 maggio del 1856 per ottenere, dalla Camera e dal Senato, il voto che sancì la convenzione con Carlo Marocchetti, lo scultore scelto dal Ministero dei Lavori Pubblici per la realizzazione dell’opera, e lo stanziamento dei fondi necessari per la sua esecuzione (675.000 lire). A Marocchetti, il Ministero riconobbe “la piena e libera facoltà di modificare d’accordo con il Ministero […] il disegno in tutti i particolari limitandosi però sempre all’ammontare della spesa”.

In seguito, fu sotto suggerimento di Edoardo Pecco (l’ingegnere capo del Municipio che seguiva la realizzazione di tutti i lavori di sistemazione della nuova piazza Carlo Alberto) che la statua venne orientata in asse con palazzo Carignano, in modo da poterla cogliere anche dalla piazza omonima attraverso il cortile aperto al passaggio pubblico.L’inaugurazione avvenne il 21 luglio del 1861, cioè pochi mesi dopo l’unificazione d’Italia, con cerimonia solenne, nella quale il capo del governo Ricasoli tratteggiò la figura di un re che aveva configurato e preparato i destini di una nuova Italia.  Per quest’opera a Marocchetti venne riconosciuta la Gran Croce dell’Ordine di San Maurizio.

In tempi recenti, la piazza ha attraversato fasi di vita e utilizzo comuni ad altre piazze storiche del centro cittadino. E’ stata percorsa dalle auto e poi successivamente resa pedonale. E’ una delle piazze più vissute dagli studenti, al punto da essere anche soprannominata “la piazzetta”. Ridisegnata con spazi verdi e raccordata con le vie Cesare Battisti e Lagrange, anch’esse pedonali, tutte insieme creano un perfetto ed elegante percorso tra i musei. Infatti sulla piazza Carlo Alberto si affacciano il Museo Nazionale del Risorgimento nel Palazzo Carignano (sede del primo Parlamento italiano) e la Biblioteca Nazionale, mentre in via Lagrange è situato il Museo Egizio.

Simona Pili Stella

I Templari in Val di Susa

 Andare in montagna significa anche scoprire la storia delle nostre vallate, dei nostri borghi, della gente che ci abita, di tradizioni e costumi che sembravano perduti ma che in realtà sono ancora vivi e presenti e ci raccontano storie che neanche conoscevamo.

Recarsi per esempio in Val di Susa, così vicina a Torino e così ricca di memorie storiche, significa ripercorrere fatti ed eventi che affondano le radici ben prima dell’era cristiana. Da Annibale che con 30.000 uomini e 37 elefanti da battaglia valicò nel 218 a.C. il Moncenisio o forse il Monginevro, ma non si escludono altri passaggi come sul Piccolo San Bernardo o addirittura sul Monviso, ad Augusto che a Susa, 2000 anni fa, di ritorno dalla Gallia, si fermò a Segusium (Susa romana) per fare la pace con le bellicose tribù delle Alpi Cozie. Da Costantino il Grande che nel 312, proveniente dalla Britannia e diretto a Roma, scese a Susa per sbaragliare le truppe dell’usurpatore Massenzio fino a Carlo Magno che alle Chiuse di Susa (le rovine delle fortificazioni sono ancora parzialmente visibili) sconfisse nel 773 i Longobardi di Desiderio che il torinese Massimo d’Azeglio ha illustrato in un prezioso bozzetto. Grande storia, grandi eventi hanno segnato la Val di Susa ma ci sono anche storie minori o anche solo oggetti e simboli che ci ricordano il passaggio da queste parti di personaggi altrettanto importanti. Come i Templari che spuntano ovunque, come i funghi in Val Sangone, e spesso vengono visti in luoghi dove in realtà non sono mai stati. E proprio una leggenda valsusina narra che i Templari sarebbero saliti alla Sacra di San Michele arrampicandosi, a piedi e a cavallo, sul monte Pirchiriano ottocento anni fa. I Cavalieri del Tempio si sarebbero ritrovati nell’antica abbazia per trattare il passaggio di alcuni monaci alla Confraternita esoterica e religiosa dei Rosacroce. Tre croci incise nella pietra accanto alla porta dell’Abbazia, la Porta di Ferro, dimostrerebbero l’attendibilità dell’incontro. È probabilmente solo un racconto popolare ma tra il Piemonte e i Templari, ordine religioso-militare fondato nel 1119, poco dopo la prima Crociata, c’è sempre stato un forte legame storico. Si sa infatti con certezza che i Templari furono presenti in molte città e paesi del Piemonte, tra cui, Cuneo, Alba, Ivrea, Moncalieri, Torino, Chieri, Casale, Vercelli e Novara. Anche in Val di Susa è stato registrato un certo via vai di templari. Da fonti storiche risulta che il più antico insediamento templare, risalente al 1170, fu presumibilmente quello di Susa e presenze templari sono state individuate nella vicina San Giorio, a Villar Focchiardo e a Chiomonte. Sorprendente e imprevisto è stato il ritrovamento negli anni Novanta, da parte di alcuni esperti guidati dalla studiosa Bianca Capone Ferrari, di alcune croci templari nel piccolo comune di San Giorio, alle porte di Susa. Una croce è murata nella facciata della canonica che in tempi antichi era quasi certamente una fortezza da cui si controllavano i movimenti nella valle attaversata dalla Dora Riparia mentre sull’arco del portale laterale di una cappella del XIII secolo, che si trova nei pressi della chiesa parrocchiale, risplende un’altra croce templare. Si ritiene pertanto probabile che a San Giorio fosse presente un presidio militare dei Cavalieri rosso-crociati a difesa della valle e del ponte sulla Dora. È stato finora impossibile accertare il luogo esatto dell’insediamento templare a Susa (forse si tratta della chiesa di Santa Maria della Pace sulla Dora), tuttavia esistono documenti che confermano la presenza in città di una “domus templi”, come dimostra la magnifica croce a otto punte scolpita in un fianco della cattedrale di San Giusto.

Filippo Re

(foto LIGUORI)

Il Liberty: la linea che invase l’Europa

Oltre Torino: storie miti e leggende del Torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.
L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

Articolo 1. Il Liberty: la linea che invase l’Europa

Ogni periodo storico è caratterizzato da un proprio particolare sentire, da scoperte e personaggi che ne delineano i tratti distintivi e, soprattutto, da forme artistico-letterarie-culturali che lo identificano. In questa serie di articoli voglio approfondire una peculiare corrente artistica, permeata di linee curve, con ornamenti di vetri e di pietre, uno stile che non solo interessò tutte le arti, dall’architettura, all’illustrazione, all’artigianato, all’oreficeria, ma divenne quasi un “modo di vivere”: il Liberty. Verso la fine del secolo XIX e l’inizio del XX nasce in Belgio un importante movimento, chiamato Art Nouveau che, opponendosi a tutte le accademie neoclassiche e neobarocche, applica la produzione industriale a forme d’arte, interpreta la linea con dinamismo espressivo, propone partiti decorativi che rompono con la fissità e danno movimento a pavimenti, scale, ringhiere, soffitti, modellano e curvano le pareti esterne, procurando vivacità e colore all’insieme. Tale movimento, che unifica in quei decenni lo slancio architettonico di tutta Europa, giunge in Italia con il nome di Liberty o Floreale, stile che ama applicare all’architettura ricercate forme decorative, spesso desunte dalla natura vegetale.  L’Art Nouveau influenza le arti figurative, l’architettura, le arti applicate, la decorazione di interni, gioielleria, mobilio, tessuti, oggettistica, illuminazione, arte funeraria, e assume nomi diversi, ma dal significato affine, a seconda dei luoghi in cui essa si manifesta: Style Guimard, Style 1900, Scuola di Nancy, in Francia; Stile Liberty, dal nome dei magazzini inglesi di Arthur Lasemby Liberty, o Stile Floreale, in Italia; Modern Style in Gran Bretagna; Jugendstil (“Stile giovane”) in Germania; Nieuwe Kunst nei Paesi Bassi; Styl Mlodej Polski (“Stile di Giovane Polonia”) in Polonia; Style Sapin in Svizzera; Sezessionist (Stile di Secessione”) in Austria; Modern in Russia; Arte Modernista, Modernismo in Spagna. Alla base del movimento vi è l’ideologia estetica anglosassone dell’Arts and Crafts di William Morris, fervido sostenitore della libera creatività dell’artigiano come unica alternativa alla meccanizzazione: una sorta di reazione alla veloce industrializzazione del tardo Ottocento. Arts and Crafts si volge alla riforma delle arti applicate portando avanti un’istanza sociale e morale che persegue il risorgere della produzione artigiana e l’attento studio del gotico come l’arte più dotata di spirito organico, volta a delineare planimetrie e forme “descrittive”, elementi nei quali l’indirizzo critico vuole vedere i germogli del rinnovamento architettonico.

L’Art Nouveau apre la strada all’architettura moderna e al design. Determinante per la diffusione di quest’arte è sicuramente l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, tuttavia anche altri canali ne segnano l’importanza: ad esempio la pubblicazione di nuove riviste, come L’art pour tous, e l’istituzione di scuole e laboratori artigianali. La massima diffusione del nuovo stile è comunque da rapportarsi all’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino del 1902, in cui vengono presentati progetti di designer provenienti dai maggiori paesi europei, tra cui gli oggetti e le stampe dei famosi magazzini londinesi del noto mercante britannico Arthur Lasemby Liberty. La nuova linea artistica, in rottura con la tradizione, è presente nelle grandi capitali europee, come Praga, con la grande figura di Moucha, Parigi in cui Guimard progetta le stazioni per la metropolitana, Berlino, dove nel 1898 i giovani artisti si dissociano dagli stili ufficiali delle accademie d’arte, intorno alla figura di Munch, Vienna, dove gli artisti della secessione danno un nuovo aspetto alla città.  Una delle caratteristiche più importanti dello stile, che presenta affinità con i pittori preraffaelliti e simbolisti, è l’ispirazione alla natura, di cui studia gli elementi strutturali, traducendoli in una linea dinamica e ondulata, con tratto “a frusta”, e semplici figure sembrano prendere vita naturalmente in forme simili a piante o fiori. Si stagliano in primo piano le forme organiche, le linee curve, con ornamenti a preferenza vegetale o floreale. Tra i materiali, vengono adoperati soprattutto il vetro e il ferro battuto. In gioielleria si creano alti livelli di virtuosismo nella smaltatura e nell’introduzione di nuovi materiali, come opali e pietre dure, nascono monili in oro finemente lavorato e smaltato; i diamanti vengono accostati ad altri materiali, come il vetro, l’avorio e il corno. Solo in Italia, a differenza degli altri territori prima chiamati in causa, il Liberty non si contrappone al passato o alla tradizione accademica dell’insegnamento e dell’esercizio delle arti, con la conseguenza che qui, sulla nostra penisola, non si consolidò mai una scuola di riferimento identificabile con il movimento Liberty, al contrario ci furono singole personalità artistiche che si dedicarono ad approfondire i caratteri dello stile floreale ed epicentri per la diffusione del gusto dell’arte nuova, tra questi poli di profusione ci fu proprio Torino. Nei prossimi articoli considereremo nel dettaglio alcuni palazzi e quartieri della città sabauda particolarmente suggestivi e rilevanti dal punto di vista decorativo e architettonico, che testimoniano la meravigliosa trasformazione della nostra città, ancora oggi conosciuta come capitale del Liberty italiano.

 

Alessia Cagnotto