CULTURA- Pagina 14

Il valore etico della narrativa di Rigoni Stern

In questa fase critica del nostro tempo che, tra conflitti e preoccupazioni per il futuro, segna il punto di alto della crisi per la storia recente dell’umanità si è portati a riflettere sulle parole di uno dei più grandi narratori contemporanei italiani, Mario Rigoni Stern (1921-2008). Nel 2002, in un’intervista concessa a Giulio Milani, si ritrovò a considerare gli effetti benefici di una crisi economica “che prende sempre di mezzo la povera gente”, non nascondendosi come “piuttosto che una guerra, è meglio una grande crisi per stravolgere un poco questo mondo, per metterlo sulla strada giusta, per far capire che non è più la borsa che deve governare”. Non si può fare a meno di ripensare a questa frase oggi dove occorrerebbe ristabilire un patto d’azione tra le istituzioni – dal governo in giù – con i sindacati, i corpi intermedi della società, i ceti produttivi per rimettere la locomotiva italiana su quei binari che hanno, pur tra luci ed ombre, assicurato al Paese uno sviluppo, cercando di recuperare i ritardi atavici che pesano come una palla al piede. Quasi il ritorno, dunque, a stagioni dimenticate. E qui, il discorso vira decisamente su Mario Rigoni Stern. Un ritorno che è anche un azzardo, perché parte proprio da “Stagioni”, l’ultimo libro pubblicato in vita, in cui lo scrittore di Asiago raccontava che cosa significasse per lui lo scorrere del tempo scandito dai ritmi stagionali. Dell’inverno ricordava la legna secca che brucia nelle cucine, il freddo e la neve; dell’estate rammentava i salti sui mucchi di fieno e i nidi di calabroni mentre l’autunno era stagione di rientro delle greggi, di caccia ed escursioni tra i boschi.

In primavera partivano gli emigranti stagionali per la Prussia o la Boemia, ma era anche il momento del risveglio della natura e del ritorno dei rondoni, oltre che il periodo migliore per morire, come accadde al nonno di Mario, a sua madre e a lui stesso. Morire mentre rinasce la vita. Lo scrittore morì ottantaseienne il 16 giugno del 2008, dopo alcuni mesi di malattia, nel letto della sua casa di Asiago. Era un lunedì sera e per sua precisa disposizione la notizia della morte venne diffusa solo a funerali avvenuti, il giorno dopo, nella piccola chiesa del centro dell’altopiano dei Sette Comuni. C’erano la moglie Anna, i tre figli con i due nipoti e il fratello Aldo a salutarne il feretro. Poche persone, raccolte nella cappella come voleva il Sergente nella neve. Al mesto rintocco del Matìo, il campanone di Asiago, toccò l’ultimo saluto. Ora è sepolto nel cimitero a sud del paese, sotto una grande croce di marmo chiaro che lui stesso aveva voluto recuperare dalla tomba del nonno paterno Giovanni Antonio. Sulla tomba una piccola aiuola coltivata a fiori come piaceva a lui, per certi versi simile a quella della teologa e scrittrice Adriana Zarri a Crotte di Strambino, nella campagna canavesana. Ho un personale ricordo di una serata in cui parlammo di lui a Falmenta, in valle Cannobina, dialogando con uno dei suoi più grandi amici, il compositore e maestro Bepi De Marzi: quest’ultimo avanzò l’ipotesi che l’ultima dimora ad Asiago fosse un cenotafio, una tomba vuota, immaginando che le ceneri dello scrittore fossero state disperse nella steppa russa dove riposavano i suoi commilitoni dei reparti alpini che persero la vita nella tragica ritirata di Russia. Ovviamente si trattava solo un’ipotesi, per quanto suggestiva. Mario Rigoni Stern nel 1973 pubblicò una raccolta di racconti intitolata “Ritorno sul Don”. Scrisse, nell’occasione: “Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita”. L’intera sua vita fu segnata dai ricordi di quella guerra, dal gelo della steppa nella sacca del Don, dal calore umano che trovò nelle isbe anche con i “nemici”. Ricordi che si mescolarono con l’amore per la sua terra, per le vicende dei montanari e la vita che si svolgeva seguendo i tempi dettati dall’orologio della natura. Nel 1938, a diciassette anni (“Sull’Altipiano, per noi ragazzi c’era un detto: o prete, o frate, o fuori con le vacche”) entrò alla Scuola Militare d’alpinismo di Aosta, quindi combatté come alpino nel battaglione Vestone in Francia, Grecia, Albania, Russia. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, rientrò a casa a piedi, dopo due anni di lager in Lituania, Slesia e Stiria il 5 maggio del 1945. Da quel momento non lasciò più il suo Altopiano dove viveva nella casa che si era costruito da solo, insieme alla moglie e ai figli. Ad Asiago lavorò al catasto comunale, mantenendo l’impiego fino al 1970, quando decide di dedicarsi completamente al lavoro di scrittore. Fu Elio Vittorini, nel 1953, a fargli pubblicare per I Gettoni di Einaudi il suo primo romanzo “Il sergente nella neve”. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1962 pubblicò il secondo, “Il bosco degli urogalli”, sempre per Einaudi. Tanti altri seguirono fino a “Stagioni”, l’ultimo romanzo uscito nel 2006, due anni prima della scomparsa. Mario più volte affrontò l’argomento della morte, sottolineando come questa non gli incutesse paura. “La vita si sa che deve finire, ma io non vivo questa consapevolezza con angoscia” raccontò in una intervista per il suo 85esimo compleanno. “Semmai può spaventare la sofferenza fisica, perché a volte il dolore umilia, non lascia all’uomo nemmeno la possibilità di pensare. Ma è un’età, la mia, che va affrontata avendo la coscienza del limite”. D’altronde la morte si era sempre intrecciata alle vicende della sua vita, se non altro per la coincidenza che l’aveva visto venire al mondo (e quindi festeggiare il proprio compleanno) il primo novembre del 1921, giorno dei morti. Per contrasto, nei suoi libri e nei racconti, la vita e le fatiche che l’accompagnano emergevano con grande forza, accompagnando i lettori tra sentieri di montagna e vicende consumatesi su quei confini tra Italia e mitteleuropa. Forse è anche per questo che il tempo che scorre non affievolisce la voce che esce dalle pagine che ci ha lasciato. Una voce potente che si può udire leggendo la raccolta di ventisette interviste fra le tante concesse dallo scrittore di Asiago nell’arco di tempo compreso fra il 1963 ( quando vinse il Bancarellino con “Il sergente nella neve”) e il 2007, l’anno prima della scomparsa. Le pubblicò Einaudi col titolo ”Il coraggio di dire no”, a cura di Giuseppe Mendicino. I testi sono suddivisi in quattro parti: “La vita”, “I libri”, “Le guerre”, “La natura, le montagne, la caccia”, riassumendo così la biografia e l’orizzonte etico-culturale di Mario. Rigoni Stern non si è mai considerato un vero e proprio romanziere ma semmai un narratore, un testimone, un “cancelliere della memoria”, come lo definì acutamente Corrado Stajano. Nella sua vita frequentò, durante i primi anni della sua vita militare e poi nel dopoguerra, diverse località della Valle d’Aosta e del Piemonte: dall’Aosta della caserma “Testa Fochi” all’alta Val Formazza del “corso sciatori” del gennaio del 1939, descritta nel suo “L’ultima partita a carte”; da Champorcher e Cogne, la Val Veny e la Val Soana, il Piccolo San Bernardo. E poi la Torino dell’Einaudi, nella storica sede al n.2 di via Biancamano. Nove anni dopo “Il sergente nella neve”, nel 1962 pubblicò il secondo romanzo, “Il bosco degli urogalli”, sempre per la casa editrice dello struzzo. E tanti altri seguirono fino a “Stagioni”, l’ultimo romanzo uscito nel 2006, due anni prima della sua morte. I testi raccolti ne “Il coraggio di dire no” iniziano con un monologo dello stesso scrittore che racconta il suo grande “rifiuto”, dopo essere stato fatto prigioniero dai nazisti e internato in un lager in Masuria, vicino alla Lituania. Scrive, Rigoni Stern: “Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salò, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto «Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!», abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito… Abbiamo resistito… Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. È molto più difficile dire no che sì”. Una narrazione chiara, asciutta, antiretorica. Trasmette per intero il suo codice etico dove trovano spazio il senso di giustizia, il coraggio, l’amore per la natura, la generosità verso gli altri, l’indipendenza di giudizio, la passione civile. In un colloquio del 2004 per “La Regione Ticino”, Rigoni Stern mise in luce il suo lato ironico, raccontando di una specie di scherzo che faceva con Giulio Einaudi andando in giro per le librerie e rivoltando verso l’interno i dorsi dei libri che non gradivano. In questa come in tutte le sue opere, Mario Rigoni Stern riflette l’immagine di una persona saggia, severa con se stesso prima ancora che con gli altri ma capace anche di grande ironia. E di una forza che, per nostra fortuna, attraverso i libri non ha mai smesso di parlarci e farci compagnia.

Marco Travaglini

Una notte al Museo con Guerrilla Spam

Da sabato 10 agosto a giovedì 5 settembre 2024 l’associazione culturale Club Silencio, in collaborazione con i Musei Reali di Torino, presenta Una notte al Museo con Guerrilla Spam. L’inaugurazione si terrà in occasione della serata conclusiva della stagione di “Una notte al Museo”Nell’ambito delle attività per i 300 anni del Museo di Antichità dei Musei Reali di Torino, l’intervento artistico del collettivo Guerrilla Spam dialogherà con i reperti della Galleria Archeologica, esposti nella Sala dedicata a Cipro e nella Sala Etrusca, con un approccio originale che inserisce opere contemporanee tra le prestigiose collezioni archeologiche invitando il pubblico alla riscoperta del patrimonio artistico, per educare lo sguardo attraverso una vera e propria caccia alla ricerca di particolari, consonanze e dissonanze.

 

Curato da Matteo Bidini, il progetto è concepito come un incontro suggestivo tra opere lontane nel tempo e nello spazio, ma in qualche modo simili e affini. Tre installazioni principali, realizzate con materiali industriali, ma armonizzate cromaticamente con i reperti antichi, offriranno una nuova prospettiva sul patrimonio archeologico, esaltandone i toni e i significati.

 

Il gruppo dei “Due suonatori di tamburello e due oranti” riprende il tema tipico della statuaria votiva cipriota e ricorda l’importanza della musica nei culti antichi. Le sculture precedono le statue di offerenti della sala, in particolare una statuetta di suonatore di tamburo, unicum nel museo. La composizione cita stilisticamente anche i musici di Picasso o le figure ieratiche di Costantino Nivola.

Il “Sarcofago degli amanti” è invece inserito al centro delle urne etrusche della Tomba dei Matausni di Chiusi; è un anche un rimando al celebre “Sarcofago degli Sposi” di Cerveteri. I due personaggi sono distesi uno di fianco all’altro sulla sommità della casa ultraterrena; il braccio dell’uomo sorregge la testa della donna con un gesto di affetto.

La “Dea assisa in trono” è esposta nella Sala Cipro in dialogo con la statua omologa. L’originale cipriota è giunta acefala: la testa appartiene ad un’altra statua ed è stata inserita successivamente sul busto. In parallelo la rielaborazione della dea presenta una piccola testa in legno inciso degli anni ‘40 che mostra la sua estraneità. La forma lineare e geometrica della dea riprende i modelli di Cipro e le statuette in marmo delle Isole Cicladi.

 

Le opere di Guerrilla Spam, che saranno esposte fino al 5 settembre, rappresentano la volontà di Club Silencio di riposizionare e reinterpretare i metodi di fruizione del patrimonio artistico del territorio, valorizzando luoghi e collezioni attraverso collaborazioni e progetti capaci di coinvolgere il pubblico rendendolo sempre più partecipe durante l’esperienza museale, chiamato attivamente all’interpretazione di quanto lo circonda durante gli eventi organizzati dall’Associazione.

 

Il progetto verrà inaugurato durante “Una notte al Museo”, il format ideato da Club Silencio per coinvolgere i giovani under 35 nel mondo artistico e culturale attraverso percorsi di visita arricchiti da attività di gamification, food & drink e musica dal vivo.

 

GUERRILLA SPAM

www.guerrillaspam.it

Guerilla Spam nasce nel 2010 a Firenze come spontanea azione non autorizzata di affissione negli spazi urbani. Oggi alterna tale pratica a interventi di muralismo, installazioni, azioni, performance e workshop in Italia e all’estero. Lavora in spazi eterogenei, dalle occupazioni ai musei d’arte contemporanea e musei archeologici, sino alle scuole, comunità minorili, carceri e centri di accoglienza, privilegiando sempre l’uso dello spazio pubblico urbano come luogo della collettività. In tale produzione sono decisive e numerose le fonti iconografiche: dall’arte tessile e murale dell’Africa sub- sahariana alle incisioni rupestri, dalle allegorie medievali europee alle pitture degli Aborigeni o quelle su corteccia dei Pigmei, sino alle azioni di occupazione dello spazio pubblico degli anni ‘70 di autori come Ugo La Pietra. La mescolanza di tali stili disparati genera un nuovo immaginario che fonde Oriente e Occidente, cultura alta e bassa, passato e futuro, in un risultato familiare ma anche alieno. La finalità resta il raggiungimento di un’arte simbolica che comunica a più livelli dei significati all’osservatore.

 

CHE COS’È CLUB SILENCIO

Club Silencio è un’associazione culturale torinese impegnata in progetti esperienziali che stimolino la partecipazione attiva dei giovani under 35 alla vita culturale, sociale e democratica del proprio territorio. Tra i suoi progetti più noti vi è “Una notte al Museo”, che dal 2017 ad oggi ha portato più di 180.000 giovani in oltre 40 musei tra Piemonte, Liguria e Lombardia. Da ottobre 2022 Club Silencio è certificata ISO 20121 per la “Gestione eventi sostenibili”.

 

Per partecipare alla visita riservata alla stampa è necessario dare conferma a

clubsilencio@lawhite.it

 

www.clubsilencio.it

A Quaglieni il premio “Rosario Romeo”

Nella sua biblioteca di Torino, collocata nelle scuderie dello storico e ottocentesco palazzo dove è nato, è  stato consegnato oggi al prof. Pier Franco Quaglieni, ancora convalescente dopo una lunga malattia superata brillantemente, il Premio per la storia “Rosario Romeo” con la seguente motivazione : “Storico risorgimentalista e contemporaneista  che si e’ messo in luce nella difesa del Risorgimento e nella revisione storica delle vulgate , il prof . Quaglieni è maestro di più generazioni che da lui hanno acquisito un metodo storico che continua la grande lezione di Chabod”. Autore di importanti libri, vincitore di molti premi  tra cui il Premio Voltaire e il Tocqueville , è  da tanti anni giornalista ed attualmente scrive sul “Corriere della sera”, dedicandosi  in particolare alla rivalutazione di personaggi storici spesso dimenticati.  Da cinque anni è  titolare di una fortunata rubrica domenicale sul quotidiano on line “Il torinese”.  Il professore che  è insignito della medaglia medaglia d’oro di benemerito della scuola e della cultura e del cavalierato di Gran Croce al merito della Repubblica, massima onorificenza dello Stato, ha dichiarato: “Il premio mi onora moltissimo e mi ripaga anche  di certe  ostilità torinesi che non mi hanno mai fatto indietreggiare dalle mie posizioni, anzi mi hanno reso ancora più coriaceo  . L’esempio di Romeo che ho studiato e ho conosciuto personalmente , mi porta a Cavour di cui Romeo resta il più grande storico. Romeo  è una delle stelle polari della mia vita insieme a Franco Venturi”.
Quaglieni è anche noto come cofondatore insieme ad Arrigo Olivetti e Mario Soldati Centro Pannunzio di cui attualmente è presidente. Nel mese di agosto  riprenderà le sue conferenze e presentazione di libri in Liguria (in particolare il “Matteotti” pubblicato dall’editore Pedrini per il centenario dell’assassinio del martire) e il 7 agosto  consegnerà i premi Pannunzio ad Alassio.

‘Hemingway a Torino’, presentato il progetto

Sabato 27 luglio alle 18, al Museo Ferroviario di Porta Nuova presso il Binario 20, luogo del primo passaggio di Ernest Hemingway nella città di Torino, ha avuto luogo la presentazione del progetto ‘Hemingway a Torino’ a cura degli autori Francesco Nugnes e Angelo Toppino, introdotti dal
giornalista Marco Margrita.
Abbiamo illustrato i contenuti del documento allegato parlando dei riferimenti letterari e biografici e dei preziosi contributi di alcuni archivi storici degli enti coinvolti. Molto apprezzato l’aspetto divulgativo del progetto e dei possibili sviluppi
a vantaggio della Città di Torino.
Fotografie di Ana Maria Dinu

Pietro Gallo, storie di intellettuali tra il 1930 e il 1968

« Io ero un gappista sbandato e a tempo perso un ‘cane sciolto’. Lui, già grande ai miei occhi e ‘confinato’ per antifascismo, era un imboscato in quel di Casale Monferrato, fra il Po e le colline di Ozzano ».

Così lo storico Pietro Gallo racconta a pag. 168 nel suo “Creme da barba e rasoi di Occam. Gli intellettuali alessandrini e monferrini tra il 1930 e il 1968”  (La Nuova Operaia, marzo 2018,€. 20) dell’incontro a Casale Monferrato tra lo scrittore della Langa Cesare Pavese e il racconto in parola del sociologo vercellese Franco Ferrarotti cit. e nota in Franco Ferrarotti in ”Al Santuario con Pavese. Storia di un amicizia” (Centro Dehoniano, Bologna, 2016) e qui di seguito trascrivo estratta, la sua biografia in versi, tracciata con ironia e sintesi:                                                                                               

« La storia da Vercelli prende inizio.
Dopo il Liceo, lui scende a Pavia,
scegliendo la sua strada con giudizio
e consegue la Laurea in Geologia.

Si sposa e viene a vivere a Casale,
a Ottiglio, da vent’anni, e ne va fiero.
Per una vita avrà ruolo centrale
nell’insegnare Fisica al Sobrero.

La politica amore viscerale.
È socialista, poi svolta a… sinistra.
È prima Consigliere comunale,

poi in Provincia, lì dove amministra
l’Assessorato e l’Università.
La storia di Alessandria e di Casale
studia e descrive con grande abilità.

È un uomo di cultura eccezionale,
ma anche di coltura, e qui alludo
alla vite e all’ulivo, che passione!
Ti ho detto tutto e allora adesso chiudo.
È Pietro Gallo? Giusta affermazione!».

(agosto 2021 il Monferrato ed. online).

Poi procedendo ‘a rasoio e a balzi’ l ‘Autore in questo saggio storico politico, conclude la sua ricerca sul secolo breve in Piemonte, cercando documentazione negli archivi e nelle biblioteche le storie degli intellettuali di Alessandria e di Casale, che più hanno operato, affinché le ideologie da loro professate, si potessero estendere dai vertici della società della cultura alta, a tutta la popolazione, attraverso quei canali (cinema, teatro, riviste) che prima il regime fascista mette in cantiere, ripescandole dall’esperienza liberale, poi i partiti di massa, dopo il 25 aprile 1945, ripropongono con significati e esiti più consoni al regime democratico, uscito dalla guerra. Tra le tante storie raccontate emergono figure come quella di Livio Pivano, prefetto della Liberazione e comandante partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà o di  Fausto Bima,  dirigente dell’Ansaldo a Genova, amico di Giorgio De Chirico e del fratello Savinio. Si narra di quando i fascisti cercarono di impedire il regolare svolgimento del funerale di Pietro Longo. Di Maurilio Guasco, prete operaio, che spiega la concezione della Chiesa nel pensiero politico del socialista Lelio Basso. Il professor Guasco fu mio docente alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino fondata da Norberto Bobbio e dal giurista Gioele Solari. Si narra come in un romanzo di gappisti, azionisti e loro vicende di guerriglia di armi e di penna, in un quadro ricco e complesso di stimoli storici e intellettuali . Molti di questi,  non tutti, prima aderirono al fascismo, poi contribuirono a costruire una parte non piccola delle fondamenta della nostra democrazia. Storie intrecciate di Resistenza, CLN e Rsi, di ferite ancora aperte, come ci ricordano Paolo Mieli o il compianto Gian Paolo Pansa. E in un Italia lacerata tra postfascismo e revanscismo marxista carichi di demagogia, in questo confuso e drammatico frangente politico elettorale,  economico e internazionale questo testo è una lampada di Diogene per le nebbie della nostra memoria storica da diradare. Torna di grande utilità. Per tutti.

Aldo Colonna

Il genio alato e i titani di piazza Statuto

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura

 

Ed eccoci nuovamente pronti alla scoperta delle meraviglie di Torino, con la nostra ormai consueta e spero piacevole, passeggiata “con il naso all’insù”. Questa volta, miei cari amici lettori, vorrei parlarvi di una delle opere tra le più “chiacchierate” della città, forse anche grazie all’alone di mistero che da sempre la circonda: sto parlando del monumento Al Traforo del Cenisio-Frejus. Collocata in testa a Piazza Statuto, sul lato ovest aperto verso l’imbocco di Corso Francia, l’opera si erge imponente, rappresentando la superiorità della scienza e della tecnologia contro la forza bruta della natura. Conosciuto più comunemente come “Monumento ai caduti del Frejus”, l’opera, pietrosa e frastagliata, si erge al centro di una vasca circolare che raccoglie l’acqua che zampilla tra i massi, simulando torrenti alpini che si aprono la via sul dorso di una montagna.

La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura.  Il Genio si erge come la punta di un faro, dove converge lo sguardo di chi percorre via Garibaldi in direzione della piazza. Egli compare con una penna in mano, nell’atto di incidere sulla pietra, ad intramontabile memoria, i nomi dei tre ingegneri che resero possibile l’opera del Traforo. L’idea del monumento nacque nel settembre del 1871, precisamente all’indomani dei festeggiamenti per l’apertura della ferrovia che collegava (e collega ancora oggi) Italia e Francia attraverso il Traforo del Frejus; fu un opera di ingegneria compiuta in un brevissimo lasso di tempo e che sembrò realizzare i sogni di progresso e di comunione dei popoli. Grazie infatti al talento e alla collaborazione tra gli Ingegneri Sommelier, Grandis e Grattoni, il progetto della costruzione del traforo si avvalse dell’uso di perforatrici ad aria compressa, che ridussero le vittime e resero possibile la via di comunicazione transalpina nel giro di quattro anni.

L’entusiasmo per il successo tecnologico e per l’apertura di nuove e più veloci vie di comunicazione, spinse il conte Marcello Panissera da Veglio a proporre l’erezione di un monumento commemorativo. Quindi, su precise indicazioni riguardo al tema e alla metafora che il monumento doveva simboleggiare, venne indetto un concorso presso la Regia Accademia delle Belle Arti, che fu vinto da un giovane allievo dell’Accademia stessa, Luigi Belli. Il monumento (formato inizialmente da otto titani che poi si ridussero a sette e dal Genio alato che all’inizio doveva essere in marmo di Carrara e poi venne realizzato in bronzo), doveva rappresentare la Scienza (e quindi il progresso) vincitrice assoluta sulla natura. Associazioni operaie fecero immediatamente propria l’idea, interpretando l’intenzione del monumento, più che un elogio alla tecnologia, come un ricordo dei tanti lavoratori che parteciparono all’impresa della ferrovia e raccolsero (di loro iniziativa) fondi cospicui che fecero partire il progetto. (E’ interessante precisare come ancora oggi l’interpretazione “operaistica” sia condivisa da molti torinesi che cadendo nello stesso fraintendimento, definiscono il monumento un omaggio ai lavoratori caduti nell’edificazione della galleria del Frejus).

La sottoscrizione avviata dalle società Operaie trovò una controparte nell’analoga iniziativa capitanata dal commendatore Laclaire, che riunì la borghesia cittadina inquietata al pensiero di rimanere a guardare; infine anche la Città stanziò un fondo per la realizzazione dell’opera. I lavori cominciarono però solo nel 1874, coinvolgendo anche altri studenti dell’Accademia per l’esecuzione delle figure dei titani: sei allievi a titolo ufficialmente gratuito, prestarono la loro opera sotto la direzione dello scultore Odoardo Tabacchi e del professor Ardy, incaricati di occuparsi della statua del Genio e del concetto d’insieme dell’intero monumento. In seguito Luigi Belli, discordante con gli altri, verrà estromesso dalla realizzazione, tanto che disconoscerà l’opera giudicandola non fedele all’idea che l’aveva plasmata. Successivamente altri imprevisti e ad alcuni problemi di natura tecnica (nel 1877 ad esempio i lavori rimasero fermi per molto tempo a causa della costruzione del condotto idrico che collegava il monumento ai serbatoi del mattatoio comunale) ritardarono maggiormente l’esposizione dell’opera. Finalmente il 26 ottobre 1879, alla presenza di S.M. Re Umberto, di numerose delegazioni comunali italiane, di corpi dell’esercito, di alcune associazioni operaie e di una gran folla di privati cittadini, venne svelato il monumento, al grido magniloquente di “Volere è potere”.

L’accoglienza dell’opinione pubblica sembrò positiva, ma sui giornali dilagò immediatamente la polemica: il monumento venne giudicato sgraziato, ridicolo, pesante e grottesco. In suo soccorso subentrò però Carlo Felice Biscarra, della Regia Accademia Albertina di Belle Arti, che lo difese come opera innovativa e diversa, necessaria a svecchiare il paludato mondo cimiteriale della statuaria cittadina. L’opera è sicuramente una singolarità all’interno della città: non esiste altro monumento a Torino così mosso, così ricco e dall’apparenza così poco rifinita; se anche la piramide di sassi si distanzia molto dalle sembianze di una montagna vera, i titani esprimono con verosimiglianza la fatica e l’estromissione date da una forza più grande che è giunta a scalzarli. Anzi sono forse loro i veri protagonisti dell’intero monumento tanto che si può comprendere l’identificazione popolare tra questi titani abbattuti e gli operai schiacciati dal lavoro, sentite come vittime e a cui va l’empatia dell’osservatore. Per quanto il Genio alato sia di ottima fattura e rifinito nei minimi particolari (da notare accorgimento dei drappi che si gonfiano alle sue spalle e celano i rinforzi metallici che lo sostengono) il suo ruolo risulta piuttosto di finitura: è situato troppo in alto per poter essere ammirato per le sue qualità artistiche.

Parlando di questo monumento non si può non parlare dell’alone di mistero che da sempre lo circonda, dato dall’immaginario esoterico della Torino Magica che vede Piazza Statuto ed il monumento come deputati al male e alla confluenza di energie nefaste. La piazza, costruita sui resti della “valle occisorum” (vale a dire una necropoli romana), orientata verso occidente dove tramonta il sole ed essendo vicina al celebre rondò d’la furca (o rondò della forca), luogo un tempo predisposto per le condanne a morte, è ritenuta un punto di energie negative. In questo contesto, secondo gli esoteristi, il luogo di massima negatività sarebbe proprio il “Monumento ai caduti del Frejus” che rappresenterebbe proprio la porta dell’Inferno mentre il Genio alato non simboleggerebbe la scienza trionfante, bensì Lucifero, l’angelo ribelle, con la stella ad attestarne l’origine sovrannaturale e con lo sguardo rivolto a controllare Piazza Castello, punto di energia positiva.

Allontanandoci da questa suggestiva visione per così dire “magica” dell’opera, è interessante segnalare una piccola variazione avvenuta al monumento nel 1971 proprio in occasione del centenario dell’ideazione della ferrovia. In quell’occasione si è provveduto a far aggiungere una targa che rendesse il merito dovuto a Giuseppe Francesco Medail, l’imprenditore nativo di Bardonecchia che per primo sostenne la causa del Traforo e che morì senza veder realizzato il suo sogno. Così, se pur con clamoroso ritardo, si diede voce all’accorata protesta della sua vedova, che già all’indomani dell’inaugurazione, nel marzo del 1880, rimproverò l’amministrazione cittadina di non aver associato al monumento il nome del marito.

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Il conte Camillo nella piazza della Ghigliottina

Alla scoperta dei monumenti di Torino / In età Napoleonica nel centro di  piazza Carlina venne collocata la ghigliottina, sostituita poi dalla forca negli anni della Restaurazione.  La piazza insieme alla Contrada San Filippo (via Maria Vittoria) fece parte dell’insediamento ebraico

Prosegue il nostro affascinante viaggio alla scoperta della “grande bellezza” di Torino. Questa volta cercheremo di sollecitare la vostra attenzione e curiosità introducendo un personaggio che fu uno dei maggiori protagonisti della nostra città. Stiamo parlando della statua eretta in onore di Camillo Benso Conte di Cavour, situata in piazza Carlo Emanuele II conosciuta da tutti come piazza Carlina. 

Situato al centro della piazza, l’articolato monumento celebrativo presenta un complesso programma iconografico imperniato sull’allegoria. In alto, avvolta in un’ampia toga classicheggiante, campeggia la figura idealizzata di Camillo Benso Conte di Cavour, che nella mano sinistra tiene una pergamena su cui è scritto “Libera Chiesa in libero Stato” mentre, inginocchiata ai suoi piedi, vede l’Italia porgergli la corona civica (corona d’alloro). Nel piedistallo si snodano le quattro figure in marmo che rappresentano le allegorie del Diritto, del Dovere, dell’Indipendenza e della Politica. Completa il piedistallo, nella parte alta, un fregio continuo in bronzo decorato da ventiquattro stemmi delle Province italiane.

Nel basamento vi sono quattro bassorilievi in bronzo che rappresentano due avvenimenti storici ( “Il Congresso di Parigi” e “Il ritorno delle truppe sarde dalla Crimea”) e gli stemmi della famiglia Cavour incorniciati da una corona d’alloro e da una ghirlanda di frutti. Nato il 10 agosto 1810 da una famiglia aristocratica e di forte spirito liberale, Camillo Paolo Filippo Giulio Benso frequentò in gioventù il 5° corso dellaRegia Accademia Militare di Torino fino a diventare Ufficiale del Genio. Abbandonata la carriera militare, il giovane si dedicò (sia per interesse personale che per educazione familiare) alla causa del progresso europeo, viaggiando all’estero soprattutto in Francia ed Inghilterra. Ricoperto il ruolo per diciassette anni come sindaco del Comune di Grinzane, affina le sue doti di politico ed economista e dal 1848, diviene deputato al Parlamento del Regno di Sardegna; in seguito con il governo D’Azeglio diventa Ministro dell’Agricoltura, del Commercio, della Marina e nel tempodelle Finanze.

Fondatore del periodico “Il Risorgimento” (assieme al cattolico liberale Cesare Balbo), Cavour manifesta costantemente la sua distanza dalle idee insurrezionali di Mazzini, promuovendo una linea di cambiamento moderata che ottenne più consensi nei cittadini borghesi ed aristocratici. Diventato nel 1848 Presidente del Consiglio dei Ministri promosse riforme economiche sia per lo sviluppo industriale che per l’agricoltura del Regno perseguendo, inoltre, una forte politica anticlericale volta a creare uno stato laico e ad abolire i privilegi della Chiesa. Essendo un abile diplomaticoriuscì ad accordarsi sia a livello internazionale con Francia ed Inghilterra, sia a livello nazionale, riuscendo a destreggiarsi fra le esigenze della monarchia e gli impulsi repubblicani, riuscendo così ad ottenere le annessioni al Regno di Sardegna di numerose province attraverso peblisciti.

Cavour morì il 6 giugno del 1861 all’età di cinquantuno anni, compianto da tutta l’Italia appena unificata.Nei giorni successivi alla sua scomparsa venne espressa, in una seduta della Giunta di Torino, l’intenzione di erigere un monumento a Camillo Benso Conte di Cavour; fu aperta una sottoscrizione per l’erezione del monumento alla quale parteciparono istituzioni e cittadini da tutta Italia e anche dall’estero ed in un anno, si riuscì a raccogliere la cifra di L. 550.000. A gennaio del 1863 venne bandito il concorso e la Commissione incaricata, dopo aver fissato la cifra di L.500.000 per i premi e per la realizzazione, scelse come localizzazione piazza Carlo Emanuele II.L’architetto napoletano Antonio Cipolla si aggiudicò il progetto ma, una volta esposta la relazione alla Giunta (nel giugno del 1864), dopo una lunga discussione tra i membri della Commissione, venne sospeso ogni provvedimento; l’anno dopo una seconda Commissione affidò l’incarico direttamente a Giovanni Duprè, che lo assunse ufficialmente nell’aprile 1865.

La realizzazione dell’opera richiese otto anni e dopo aver spostato più volte la data dell’inaugurazione, l’8 novembre 1873 venne finalmente inaugurato, davanti alla presenza del Re, il monumento a Camillo Benso Conte di Cavour. Per quanto riguarda la piazza che ospita il celebre monumento, sappiamo che piazza Carlo Emanuele II fu oggetto di un primo progetto seicentesco redatto da Amedeo di Castellamonte su commissione dello stesso Carlo Emanuele II, che aveva richiesto una piazza celebrativa della sua persona con monumento equestre centrale. In realtà, in seguito, la piazza venne semplificata nel disegno e destinata a mercato.

Con la decisione di erigere il monumento a Cavour la Giunta comunale approfitta dell’occasione per ripensare la piazza, proponendo l’abbattimento di una serie di casupole e facendo sorgere la Chiesa di Santa Croce, il palazzo Roero di Guarene e l’ex Collegio delle Provincie (ora Caserma dei Carabinieri). In età Napoleonica nel centro della piazza venne collocata la ghigliottina, sostituita poi dalla forca negli anni della Restaurazione.  La piazza insieme alla Contrada San Filippo (via Maria Vittoria) fece parte dell’insediamento ebraico; il ghetto venne istituito per regia costituzione, in vigore sino al 1848, quando lo Statuto pose fine alle restrizioni imposte agli ebrei.

Nota curiosa riguardante la piazza, è il fatto che essa sia sempre stata conosciuta (almeno da tutti i torinesi) come “Piazza Carlina”. Riguardo a questo nomignolo esistono varie leggende, ma pare che la più diffusa sia quella che vede il soprannome “Carlina” legato all’atteggiamento molto effeminato di Carlo Emanuele II e al sospetto che le sue attenzioni sessuali fossero indirizzate più agli uomini che non alle donne. Le maligne voci, nate durante il suo trono, diedero così vita all’ormai riconosciuto toponimo Piazza Carlina. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili stella

Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento

Breve storia di Torino


1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

 

4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento

 

Si è parlato finora dei Taurini, dei Romani, di Carlo Magno e dei Barbari, e ancora si sono citati Arduino e la contessa Adelaide, oggi invece ci occupiamo della Torino del Duecento, a cavallo delle lotte tra Imperatore, Papato e comuni e limminente arrivo dei Savoia, famiglia a cui lurbe si lega indissolubilmente.
I fatti risultano nuovamente intricati, sullo sfondo nuovi assetti scombussolano il territorio europeo e la nostra bella città si trova a galleggiare tra guerre e poteri che la vedono comunque coinvolta, anche se non proprio in prima linea.
È il 1155, Federico I di Hohenstaufen, meglio noto con lappellativo Barbarossa, viene eletto imperatore. Egli è convinto di poter risollevare le sorti del potere imperiale del Regno Italico, così nel 1158 indice unassemblea durante la quale presenta il suo puntiglioso programma, sostenendo di voler governare direttamente i territori italiani, di voler nominare personalmente i funzionari amministrativi, e infine di essere deciso a ripristinare limposizione fiscale.
Il piano tuttavia è tuttaltro che apprezzato, soprattutto dal papa e da molte città del nord, in primis Milano.
Tale malcontento porterà poi alla costituzione della Lega Lombarda (1167), voluta dal papa Alessandro III e dalla maggior parte dei comuni nordici, ormai abituati ad una indipendenza de facto.
Allinizio la Fortuna appoggia Barbarossa, tant’è che egli, dopo aver clamorosamente messo a ferro e fuoco Milano, entra trionfale a Torino il giorno di Ferragosto, insieme alla moglie, e qui, proprio nella cattedrale piemontese, viene incoronato.
Ma la Dea è cieca e volubile, e finisce per voltare le spalle allImperatore, che nel 1168 è costretto alla fuga attraverso Susa.

Negli anni seguenti accadono altri scontri tra il Barbarossa, che tenta una riconquista dei territori, e la Lega lombarda: le vicende non sostengono lImperatore, che, infine, nel 1183, dopo la sconfitta di Legnano (1174), sigla un trattato di pace con cui riconosce lautonomia alla città del nord Italia.
È bene ricordare tuttavia che Torino rimane sempre fedele allImperatore, non aderisce alla Lega e si ritrova ad essere nelle mani dei vescovi di turno o degli effimeri alleati del Barbarossa: dapprima infatti è il vescovo Carlo ad essere figura di riferimento per la cittadinanza, in seguito tale incarico è affidato a Milone e poi a Umberto III di Savoia. Federico I resta interessato a governare su Torino, a causa della strategica posizione geografica: a testimonianza  di ciò si sa che egli aveva una residenza, allinterno delle mura cittadine, in un vero e proprio palazzo imperiale. Nel tentativo di controllare lurbe e non solo- il Barbarossa istituisce dei nuovi funzionari: i podestà. Si tratta di amministratori e giudici che dovevano mantenere la pace e riscuotere pedaggi e tasse per conto dellImpero; queste figure rendono il sistema governativo più efficace e sottile, inoltre vantano una formazione legale nonché una schiera di collaboratori personali e possiedono una scorta armata. I podestàesercitano un incarico itinerante, dopo circa sei mesi essi devono spostarsi altrove, aspetto che li rende più imparziali nel giudizio, a confronto dei pubblici ufficiali o dei consoli locali.
Alla fine del XII secolo il comune di Torino si presenta tutto sommato tranquillo ed ordinato: consoli e podestà si susseguono ordinatamente, lassemblea cittadina si riunisce periodicamente e le decisioni che vengono prese durante tali incontri sono trascritte in un corpus che si affianca alle indicazioni designate affinchè si attui un buon governo.

 

Tuttavia la Storia ci insegna che gli eventi sono in continuo mutamento, è infatti proprio durante questo tempo tranquillo che alcune famiglie particolarmente agiate si apprestano ad assumere il controllo della città. Spiccano tra l’élite urbana alcuni protagonisti, tra cui Pietro Porcello, i cui interessi si espandono dalla città al contado. Egli è funzionario amministrativo e vassallo del vescovo, per conto del quale gestisce addirittura un castello, inoltre è menzionato come console assai conosciuto e membro di alto rango nell’élite cittadina.
I cittadini più abbienti erano soliti autodefinirsi nobiles e facevano riferimento alle proprie famiglie come dinastie patrilineari, copiando le abitudini della nobiltà fondiaria.
Alla fine del XII secolo tali gruppi sono quasi una quindicina, tra questi è bene annoverare i Della Rovere, i Borgesio, i Calcagno, i Beccuti e gli Zucca, questi ultimi particolarmente legati alla realtàtorinese.
I nobiles fanno ovviamente coalizione compatta tra loro, grazie a legami matrimoniali intenti a mantenere questo status privilegiato. È possibile avere unidea di come tali famiglie vivessero e accumulassero terre e averi grazie ad uno specifico documento, il testamento di Enrico Maltraverso, redatto intorno al 1214.
Egli dispone che, dopo la sua dipartita, la ricchezza posseduta venga suddivisa tra le quattro figlie e alcune istituzioni ecclesiastiche; la fortuna della famiglia deriva dai possedimenti fondiari, costituiti da molti territori circoscritti a Torino e dintorni: ville, giardini, una macelleria, un vigneto e diversi appezzamenti di terreni agricoli. Tale Maltraverso, come altri elitari, possiede inoltre diversi beni sparsi tra città e campagna e ha il diritto di riscossione dei pedaggi a Rivoli.
Altri dettagli che si possono leggere nel testamento sono prima di tutto che una cospicua parte delleredità spetta alla figlia badessa del convento di San Pietro, ma poi che la parte più ingente di tutto il lascito è devoluta al monastero di San Solutore, dove lo stesso Maltraverso fa edificare una cappella in suo onore. Non è difficile comprendere il motivo di tale attenzione nei confronti della Santissima Chiesa: il pio Enrico tenta di placare linevitabile castigo divino che lo attende per aver praticato lusura durante buona parte della sua vita; il tentativo fa sorridere, ancora di più perché nemmeno dopo la morte Maltraverso mostra carità nei confronti dei creditori, al punto che incarica il collega usuraio Giovanni Cane di riscuotere i crediti precedenti.
Abbiamo alcune informazioni anche su questultimo losco figuro, il Signor Cane diventa presto uno degli uomini più facoltosi della città, ma anchegli pare avesse la coda di paglia: nel suo testamento, redatto nel 1244,  si legge di ingenti donazioni rivolte alla chiesa di San Francesco, con specifiche di ammenda per i propri peccati legati alla vita terrena.
Attraverso tali personaggi si evince che le ricchezze di certa élite torinese è spesso derivata da denaro ottenuto per mezzo di scambi, pagamenti di pedaggi o prestiti e non da attività commerciali o di qualsivoglia produzione. È poi chiaro il legame tra questi nobilesusurai e la Chiesa, che non disdegna di ricevere donazioni per finanziare enti ecclesiastici, ospedali o altre istituzioni religiose; nésono da dimenticare i rapporti più interpersonali tra le due categorie, come dimostrano i canonicati delle cattedrali o le posizioni allinterno dei monasteri più prestigiosi, affidate proprio a figli o figlie di questi ricchi nobiluomini, in modo da assicurare alle varie famiglie un avanzamento sociale e una stabile rete di appoggio costituita da politici e finanziatori: favori che garantiscono a questa esecrabile élite dominante una salda posizione di rilievo allinterno della gerarchia amministrativa comunale o ecclesiastica. É per via di questi spregiudicati che pian piano la figura del vescovo viene surclassata, fino al definitivo colpo di grazia dovuto allinsorgere delle insidie dei signori vicino a Torino, altri aspiranti al potere che si fanno forti della situazione problematica causata dalla contesa tra i comuni della Lega, lImperatore e il Papa.
Il vento sta cambiando ancora, questa volta sussurra il nome dei Savoia.

ALESSIA CAGNOTTO

“Temporale” di Andrea Ferraris, un biopic corale

Come in  ” Certe notti” la canzone di Ligabue il personaggio io-narrante Mario, «prima o poi» si ritroverà al bar, a raccontare agli avventori della sua avventura “extraterrestre”. Così Andrea Ferraris, nella sua ultima graphic novel intitolata “Temporale” (Oblomov ,134 pgg , €. 20), traccia l’ Amarcord della sua adolescenza attraverso quindici capitoli, pensati come altrettanti brani di un album di canzoni folk , a commento di altrettante vicende narrate nel testo. Vissute in parte in prima persona, in parte tratte dal racconto popolare.

Un disegnatore a fumetti, ripensatosi etnografo, nella sua opera più matura, onirica e filosofica, a tratti felliniana. Si è detto influenzato da Tom Waits e da Vinicio Capossela e il suo racconto si snoda disegnato in chiaro scuro e colorato dalle splendide tinte, della moglie Daniela Mastrorilli, da sempre sua collaboratrice e musa ispiratrice. La narrazione si configura come un ‘biopic corale’, attraverso quelle voci che gli etnologi chiamano ‘informatori informali’. Persone delle campagne, agricoltori, operai, vari perdigiorno, incontrati nei bar, lungo le strade, nei luoghi di aggregazione, in quella road life che Jack Kerouac nel suo “On the road” dice di essere la strada.

Prende in considerazione i concetti di destino oppositore, il senso dell’inazione contemplativa, la dimensione onirica del paesaggio, i tic e le nevrosi di quella società, crocevia del mondo contadino e di quello urbanizzato industriale, dove si fondono in un ‘unicum’ i più radicati e meno evidenti contrasti culturali e di classe. Spok, Sara, il bomba, Keegan, la rumba sotto la luna, Pongo e altri comprimari rimangono personaggi indimenticabili. Ferraris sa per se stesso e per gli altri, di chi può pretendere di parlare, quando parla di quelli con cui ha parlato. Ha condiviso gioie, ha sofferto, ha in sintesi vissuto in modo immersivo con loro e tra loro, trasferendo tutto questo al lettore, nei balloons, nelle immagini. Ha tracciato una linea divisoria tra luogo e non luogo (Marc Augè) nei ricordi di una generazione. E ha ricostruito in parte il suo e il nostro immaginario collettivo degli anni ottanta. Quello di una generazione di vite straordinarie di uomini comuni.

Aldo Colonna