CULTURA- Pagina 131

Quaglieni presenta il Libro su Pannunzio

Gli appuntamenti del mese promossi dal Centro Pannunzio 

Domenica 11 ottobre alle ore 11,00 all’Auditorium “Vivaldi” della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (p. Carlo Alberto, 5/A), il Centro “Pannunzio” presenta il libro di Pier Franco Quaglieni “Mario Pannunzio. La civiltà liberale”, Golem Edizioni. Ne parlerà Bruna Bertolo, in dialogo con l’autore. Introdurrà il Gen. Franco Cravarezza, Presidente degli Amici della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino. Il libro ricostruisce storicamente, attraverso saggi, articoli e testimonianze, la figura di Mario Pannunzio, uomo di cultura, giornalista e uomo politico del Novecento, fondatore e direttore del settimanale “Il Mondo”, che fu la rivista culturale più importante della seconda metà del Novecento. Vi si possono leggere scritti di intellettuali, tra i quali, Giovanni Spadolini, Indro Montanelli, Pier Luigi Battista, Valerio Castronovo, Igor Man, Enzo Bettiza, Marco Pannella, Mario Soldati, il Card. Gianfranco Ravasi e molti altri. L’iniziativa rientra nella “Domenica di carta 2020” promossa dalla Biblioteca Nazionale Universitaria. E’ indispensabile prenotarsi al numero 348.81.348.47 anche con sms e whats app.

Lunedì 12 ottobre alle ore 18, al Centro “Pannunzio” in via Maria Vittoria 35H, Nicola Davide Angerame, critico d’arte e docente universitario di Estetica, ricorderà Philippe Daverio, recentemente scomparso. Prenotazione obbligatoria al n. 011 81.23.023.

 Premio Alda Croce 2020

GIOVEDI’ 15 OTTOBRE ALLE ORE 17,30 NELLA SALA TEATRO DEL COLLEGIO SAN GIUSEPPE (V. ANDREA DORIA, 18), IL CENTRO “PANNUNZIO” CONSEGNERA’ I PREMI “ALDA CROCE 2020”. IL PREMIO, ATTRIBUITO A DONNE E UOMINI PIEMONTESI CHE ABBIANO MERITI DI PARTICOLARE VALORE CULTURALE E SOCIALE, E’ STATO ASSEGNATO A:
ANNA ANTOLOSEI, scrittrice; GEN. D. SALVATORE CUOCI, Comandante della Scuola d’Applicazione d’Arma di Torino; MARIA TERESA FURCI, Provveditore agli Studi di Cuneo e Biella; UMBERTO LEVRA, storico del Risorgimento; avv. RICCARDO ROSSOTTO, Presidente della Fondazione “Fulvio Croce”; ELISABETTA CHICCO VITZIZZAI, scrittrice (alla memoria).Coordinerà Marina Rota. L’attore Bruno Penasso leggerà un racconto di Patrizia Valpiani rievocativo di Alda Croce, che fu Presidente del Centro “Pannunzio” dopo Mario Soldati.

A Marco Travaglini il primo premio per il giornalismo

Con un ricordo di Nino Chiovini / In Svizzera la premiazione della XI° edizione del premio letterario internazionale “Salviamo la montagna”

Sabato 10 ottobre, alle 15, la sala multiuso di Carvegnofrazione del comune svizzero di Cevio nel Canton Ticino (distretto di Vallemaggia) ospiterà la cerimonia di premiazione dell’undicesima edizione del  “Premio letterario internazionale Andrea Testore – Plinio Martini – Salviamo la Montagna”. Durante l’evento, promosso dalla Fondazione Valle Bavona (Svizzera) e dal Comune di Toceno (Italia), verranno assegnati i premi delle quattro sezioni  (narrativa, poesia, giornalismo,emigrazione) riservate a opere in lingua italiana. Il concorso letterario è focalizzato sulla difesa e valorizzazione del territorio di montagna, sulle sue genti e le sue tradizioni. Favorisce le riflessioni, lo scambio di storie e vissuti, il confronto transgenerazionale e il consolidamento di rapporti e amicizie oltre i confini nazionali.

La Giuria  presieduta da Alessandro Martini, poeta ed ex professore di letteratura italiana all’Università di Friburgo,ha assegnato il primo premio della sezione giornalismo a Marco Travaglini per l’articolo intitolato “Nino Chiovini e l’eredità della cultura contadina di montagna”. Lo scrittore nato a Baveno sul lago Maggiore e residente a Torino ha così bissato il successo della scorsa edizione, sempre nella categoria riservata al giornalismo.

La scelta di scrivere su Nino Chiovini, scomparso prematuramente a Verbania nel maggio 1991, è stata un giusto tributo al partigiano, scrittore e storico, studioso della Resistenza e della cultura contadina di montagna delle valli tra il Verbano, l’Ossola e la Val Vigezzo. Negli ultimi anni la casa editrice verbanese Tararà che ne ha ripubblicato le opere. A Chiovini sarà dedicato un parco letterario nel parco nazionale della Val Grande,l’area selvaggia più vasta d’Italia,una wilderness a due passi dalla civiltà, stretta tra l’entroterra del lago Maggiore e le alpi Lepontine.

Il concorso letterario  è stato realizzato con il contributo di Fondazione Valle Bavona, Comuni di Cevio e Lavizzara, OTLM Regione Vallemaggia, Comune di Toceno, Museo regionale  dell’emigrazione vigezzina nel mondo, il patrocinio della Regione Piemonte, del Consiglio regionale del Piemonte, Provincia del VCO, Unione Montana dei Comuni della Valle Vigezzo, Parco Nazionale Val Grande.Tutti i testi premiati potranno essere consultati sul sito della Fondazione Valle Bavona (www.bavona.ch) a partire da metà ottobre.

Le due personalità alle quali è stato intitolato il premio hanno ricoperto ruoli molto importanti per le comunità di frontiera italo-svizzere. Andrea Testore (Toceno 1855 –1941),maestro elementare di Toceno, Consigliere e Deputato Provinciale a Novara nei primi anni del ‘900, per migliorare il tenore di vita dei Vigezzini fondò la Società Operaia di Mutuo Soccorso e organizzò corsi serali per artigiani e lavoratori.

Promosse la Società Elettrica Vigezzina, la Pro Montibus et Fluminibus, per salvaguardare il territorio dalle calamità naturali. Il suo nome è soprattutto legato,unitamente a quello del cavergnese Francesco Balli, allora sindaco di Locarno, all’impresa titanica di collegare con una ferrovia elettrica l’Italia alla Svizzera.

Nacque così, nel 1923, la ferrovia internazionale Domodossola-Locarno.Lo svizzero Plinio Martini (Cavergno 1923 –1979) è soprattutto conosciuto per il libro  “Il fondo del sacco”, 25 edizioni in italiano con traduzioni in francese e tedesco. Molto amato e apprezzato anche nell’arco alpino ossolano, in particolare nella Valle Vigezzo, che ha ritrovato nel suo romanzo, accomunato a quello della confinante Vallemaggia, il suo passato, fatto di stenti,sacrifici,emigrazione ma anche di incrollabile tenacia e grande dignità. Diplomatosi alla Magistrale di Locarno, allievo di Piero Bianconi, Plinio Martini insegnò tutta la vita nelle scuole elementari e medie della sua Vallemaggia, difendendone con un’intensa attività di scrittore e giornalista il patrimonio storico e culturale. Scrisse una dozzina di volumi di narrativa, poesia e saggistica.

“Argenti preziosi” a Palazzo Madama

In mostra  “opere degli argentieri piemontesi” da inizio Settecento a fine Ottocento. Dal 2 luglio al 15 novembre

“Assaggiatore d’argento”. Mestiere improbabile o, quanto meno, bizzarro? Assolutamente, no! Niente di più concreto e impegnativo, ai tempi dell’antica corte sabauda. Di tal mestiere – mestiere di Stato !– se ne ha infatti contezza (per chi ancora ne avesse ignorato l’esistenza) in apertura della mostra“Argenti preziosi”, curata da Clelia Arnaldi di Balme e allestita (nell’ambito del progetto della Regione Piemonte “L’essenziale è Barocco”), in “Sala Atelier” di Palazzo Madama dal 2 luglio al 15 novembre.

Lì, infatti, s’apprende che già nel lontano 1476 a parlare di “assaggiatore d’argento” era un’antica normativa piemontese, successivamente ripresa e ufficializzata nel 1677 da Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, la seconda Madama Reale, madre dell’editto che ufficialmente istituì – nell’ambito delle attività dell’Università degli Orafi e Argentieri di Torino – proprio la figura (“assaggiatore”) del funzionario statale incaricato del compito assai importante di certificare con un marchio il titolo della lega, ossia la quantità di argento presente nel metallo con cui veniva realizzato ogni oggetto che usciva in allora dalle botteghe cittadine. Di quella Torino che fra inizi Settecento e per tutto l’Ottocento vantò una tradizione di maestri argentieri di assoluta eccellenza ed originalità. A darne prova è proprio la suggestiva mostra di Palazzo Madama che in esposizione vede autentiche mirabilia, selezionate dalle collezioni dello stesso Palazzo juvarriano. In una ricca panoramica che cavalca due secoli d’arte e di storia, si va così dalla comune “argenteria da tavola” (con posate, zuppiere, cioccolattiere, teiere, zuccheriere e quant’altro accanto alle piemontesissime “paiole” o tazze da puerpera dove le donne erano solite sorseggiare il primo brodo dopo il parto) agli “oggetti da arredo” più preziosi, fino agli “argenti destinati al culto”, come un “Reliquiario di San Maurizio” (1740 ca.) – che nel corso del restauro per la mostra ha rivelato la presenza del punzone con San Rocco da riferire a Giovanni Francesco Paroletto, membro di una delle più importanti famiglie di argentieri sabaudi – e il “Calice” di Giovanni Battista Boucheron, realizzato nel 1789 in memoria di Carlo Emanuele III, accanto ad alcuni “argenti ebraici” come un bel piatto per la cena durante le celebrazioni della Pasqua ebraica (Seder) e un calice per la benedizione sul vino recitata nel giorno del riposo (Kiddush). Di Giovanni Battista Boucheron (Torino, 1742 – 1815) la rassegna presenta anche grandiosi “disegni preparatori” alle opere in argento insieme a raffinati “Ritratti” degli argentieri della sua famiglia, autentica culla di generazioni di importanti maestri orfèvres. Vera chicca della mostra, la “Mazza cerimoniale” della Città di Torino, restaurata ed esposta al pubblico per la prima volta. Realizzata in argento sbalzato e cesellato, fra il 1814 ed il 1824, la Mazza veniva portata a mano dall’usciere comunale nelle occasioni ufficiali e riprende i tre progetti della prima Mazza civica eseguita da Francesco Ladatte nel 1769, con tanto di testa taurina e corona, sostituita nel 1849 da quella “turrita”, opera dell’argentiere di corte Carlo Balbino. A proseguire l’iter espositivo, sono le “armi” d’epoca con preziose decorazioni in argento, una serie di “monete” che ripercorrono la storia del Ducato di Savoia e una scelta accurata di disegni di Lorenzo Lavy (Torino, 1720 – 1789), fra i più apprezzati incisori di monete e medaglie della settecentesca Zecca torinese. In chiusura, alcune tavole dell’“Encyclopedie”, una selezione di “bastoni da passeggio” con il pomo d’argento (autentica sciccheria per gli elegantoni del tempo) e un curioso nucleo di “dorini” della seconda metà dell’Ottocento, ornamenti da acconciatura e spilloni in argento lavorato a filigrana, che madame e madamin piemontesi amavano vezzosamente appuntarsi fra trecce e capelli ai dì di festa.

Gianni Milani

“Argenti preziosi”
Palazzo Madama – Sala Atelier, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzamadamatorino.it
Fino al 15 novembre
Orari: gov. e ven. 13/20; sab. e dom. 10/19

 

Nelle foto

– Giovanni Damodé: “Paiola”, 1740-1750 ca.
– Argentiere piemontese: “Reliquiario di san Maurizio”, argento sbalzato, cesellato e inciso, 1740 ca.
– Giovanni Battista Boucheron: “Calice”, argento cesellato e inciso, argento dorato, 1789
– Manifattura torinese (Luigi Schenone): “Carabina monocanna”, 1857
– “Bastoni da passeggio”

L’arte dei poggiatesta africani, tra il mondo di ieri e quello di oggi

Pubblicato il volume “Africans Headrests”, autori Albertino, Alberghino e Novaresio

L’interesse per il particolare, la passione per l’oggetto prezioso che s’allontana dall’artigianato per avvicinarsi a simbolo artistico. Africans Headrests s’intitola il volume che Bruno Albertino, Anna Alberghina (a testimoniare con le proprie fotografie narrazioni e considerazioni) e Paolo Novaresio hanno pensato in tempo di lockdown e dato alle stampe (pagg. 144, Effatà Editrice), tirando fuori dalle loro collezioni gli esempi più belli, raccolti negli anni in occasione di suggestivi viaggi, sempre all’insegna – quantomai costante, seppur a volte inattesa – della “meraviglia”, come dallo sguardo attento rivolto a gallerie d’arte e ad antiche collezioni. “Il libro vuole essere un’immersione nella creatività artistica, nella bellezza, nei valori magici e religiosi e nell’etnografia dell’Africa dell’Est e del Sud, attraverso gli occhi degli Autori che ancora oggi dopo tanti anni non si stancano di meravigliarsi di fronte al prodigio di questi piccoli capolavori”, sottolinea Albertino nella presentazione al volume. Ma di che si tratta?

Dei poggiatesta, oggetti d’uso comune ma pure oggetti d’arte, semplici e assai diffusi in quelle aree, sculture prevalentemente in legno, utilizzate (in special modo dai maschi che li portano sempre con sé durante i vari spostamenti, per le donne l’uso è esclusivamente domestico) durante il sonno per proteggere le acconciature come pure per poter riposare nella sicurezza di mantenere la testa sollevata dal suolo, al sicuro dagli insetti molesti e pericolosi. Curioso quanto siano importanti le acconciature, che sono a indicare genere, stato e rango. Che possono anche significare uno stretto legame tra terra e cielo: l’acconciatura dei Pokot contiene ad esempio capelli degli antenati, per cui giunge ad essere un tramite del contatto con la Terra, dove sono vissuti gli antenati, dove i discendenti continuano a pascolare le mandrie e a badare alle coltivazioni. Inoltre, come importante è l’aspetto estetico, così appare assente quello rituale: anche se, coincidendo spesso in Africa ruolo rituale e ruolo sociale, un poggiatesta che mostri l’eleganza della propria forma sottolinea il rango dell’individuo e il suo ruolo nel gruppo. Senza dimenticare, per noi strano a dirsi, come sia credenza che il poggiatesta possa anche essere un mezzo per dare concretezza ai sogni, segno di comunicazione con l’aldilà. Una storia che si divide tra quotidianità e spiritualità; e poi antichissima, considerando che questi oggetti risalgono alla cultura dell’antico Egitto (storicamente apparsi durante la seconda e terza dinastia dell’Antico Regno, circa nel 2600 a.C.), molti conservati fino a noi – facevano parte dell’arredo funerario del faraone o di altra personalità – grazie alla loro fattura in alabastro o, seppure in legno, al clima secco del deserto. Spiega ancora Albertino: “Per quanto sia difficile tracciare legami tra le civiltà antiche del bacino del Mediterraneo e quelle dell’Africa Nera e non vi siano evidenze scientifiche di influenze dirette, tuttavia è innegabile che le forme dei poggiatesta di Sudan, Etiopia e Somalia siano estremamente simili a quelle dell’antico Egitto”.

Per la costruzione di ognuno, il tempo impiegato è di poco più di una settimana. Scelto un albero, dal significato magico e religioso, se ne usa il legno duro e resistente, se ne crea l’oggetto con l’aiuto di una piccola ascia e di un coltellino per le rifiniture e, dopo una settimana a sedimentare, lo si strofina con foglie, terra, burro e grasso di animale: aggiungendovi poi inserti ornamentali, piccole colonne a supporto, rappresentazioni antropomorfe o zoomorfe come abbellimenti che possono essere perle, fibre, cuoio o metallo. Stiamo qui parlando di oggetti cui si intende mantenere una ben precisa essenza artistica: anche se bisogna riconoscere che, divenendo l’uso del poggiatesta sempre meno frequente in questi ultimi tempi ed essendo la reperibilità sempre meno facile, la qualità estetica è ogni giorno più scarsa, “a causa del peggioramento delle tecniche di fabbricazione e della scomparsa degli artigiani”. Paolo Novaresio, considerando – a tratti con intelligente ironia – un buon numero di popolazioni, analizza il cambiamento dello scenario dei territori, delle abitudini, degli usi che vanno pressoché scomparendo. Gli Zulu, ad esempio. Là dove, il 22 gennaio 1879, l’esercito inglese subì una delle più gravi sconfitte della sua guerra coloniale, con troppa fiducia nelle proprie forze e nella disorganizzazione in quelle che continuava a credere orde di selvaggi, molto è cambiato. Oggi costituiscono una popolazione di dodici milioni di individui, un’organizzazione politica che ha alla base la famiglia (un uomo, una donna e i figli naturali, dove la poligamia va scomparendo, dove i maschi adulti sono costretti a cercare nuove strade di sopravvivenza, un lavoro nelle miniere o nei grandi complessi industriali) ed un sovrano all’apice, che raccoglie tutavia in sé un potere prevalentemente simbolico: una popolazione che nel complessivo degrado vede pure l’arte (e l’artigianato) regredire in maniera sempre più concreta. Scomparendo sempre più un mondo che questo inatteso volume ha voluto esaurientemente riscoprire, scrive amaramente Novaresio: “I poggiatesta, veri e propri capolavori artistici, non sono più in uso da decenni, totalmente sostituiti da cuscini di gommapiuma. Potete battere palmo a palmo, capanna per capanna, tutta la valle del Tugela, cuore della civiltà zulu, senza vederne neppure uno. I pochi rimasti sono custoditi nelle gallerie d’arte di Durban o Johannesburg, in vendita a prezzi astronomici”.

Elio Rabbione

Nelle immagini:

1) esempi di poggiatesta;

2) Dinka, Sud Sudan, 22 cm, coll. Albertino&Alberghina;

3) Hadiya e Kambatta, Etiopia, 20 cm, coll. Albertino&Alberghina

Medici scrittori a convegno per promuovere arte, cultura e bellezza

Verso il 2021. Omaggio a Dante Alighieri. Due giornate di seminari con la partecipazione di medici scrittori e la mostra dell’artista Marco Giordano nell’antica dimora  di casa Berchiatti a San Giorgio Canavese

Verso il 2021. Omaggio a Dante Alighieri‘  è il titolo di un duplice appuntamento in programma sabato 3 e domenica 4 ottobre prossimi presso l’elegante cornice di casa Berchiatti, a San Giorgio Canavese. L’esposizione pittorica del maestro Marco Giordano sarà affiancata da una performance di musica e pittura dal vivo, capace di accompagnare il visitatore in un viaggio sensoriale attraverso l’arte, la Cultura e la Bellezza.

Andremo alla scoperta delle profonde sensazioni spiega LorettaDel Ponte, che ospita l’evento capaci di trasmettere la bellezza in tutte le sue forme e sfaccettature. Vista ed udito dei partecipanti saranno soddisfatti, nel corso della giornata di domenica, dall‘artepittorica e musicale di Marco, la cui performance sarà seguita anche da altri appuntamenti artistici, a conclusione dei quali sarà presentato lo spettacolo di magia del medico Pino Rolle. Gusto ed olfatto troveranno soddisfazione nella degustazione dei prodotti delle migliori aziende enogastronomiche; con Daniela Graglia e gli altri medici presenti sarà esaminato il ruolo fondamentale dell‘arteper il benessere dell’anima, soprattutto nel periodo delicato che tutti stiamo vivendo.

L’evento sarà aperto dal sindaco di San Giorgio Canavese Andrea Zanusso, con il consigliere comunale e editore Giampaolo Verga . Interverranno anche la presidente dell’ AMSI, Associazione Medici Scrittori Italiani, Patrizia Valpiani, e Giovanni Saccani, presidente della Società Dante Alighieri torinese.

Domenica nove medici scrittori si alterneranno in una tavola rotonda per narrare le esperienze in tempo di Covid e dando, in seguito, la loro testimonianza narrativa e poetica. Saranno Federico Audisio di Somma,  Elena Cerutti,  Giuseppe De Renzi, Enrico Riggi,  Sergio Rustichelli, Eugenio Salomone, Gino Angelo Torchio, Patrizia Valpiani e Franco Villa. L’intervallo musicale sarà affidato al trio Les Nuances, con il flauto Fulvio Angelino ed  il violoncello Lorena Borsetti,

Al mattino, invece, il presidente del Museo della Resistenza di Torino, Roberto Mastroianni, anche critico d’arte, interverrà alla mostra delle opere in ceramica dei ragazzi del liceo artistico “25 Aprile-Faccio” di Castellamonte, curata da  Sandra Baruzzi. Gli interventi saranno poi curati da Silvia Casali e Giampaolo Verga.

 

Mara Martellotta

Giacomo Puccini a Lucca, le memorie del grande maestro

Eclettico, moderno, geniale, sregolato, affascinante, questi e molti altri aggettivi non potrebbero descrivere in tutte le sue sfumature la personalità e il carattere di uno dei massimi compositori italiani: Giacomo Puccini.

Puccini nasce il 22 dicembre 1858 nella Corte San Lorenzo a Lucca, ultimo di una dinastia di compositori. La sua strada sembra già segnata: da quattro generazioni, infatti, i Puccini sono maestri di cappella del Duomo di Lucca e fino al 1799 i suoi antenati hanno lavorato per la prestigiosa Cappella Palatina del Duomo di Lucca.

 

Tuttavia, la morte prematura del padre, nel 1864 mette in ristrettezze economiche la famiglia e Puccini può iscriversi al Conservatorio di Milano soltanto grazie a una borsa di studio.Il legame con la casa natale sarà sempre molto forte per il compositore che, erede della proprietà insieme al fratello Michele, sarà costretto a venderla nel settembre 1889, a causa delle ristrettezze economiche, al cognato, ponendo tuttavia una clausola del riscatto che avrebbe consentito loro di ricomprarla.Più volte nelle sue lettere al fratello emigrato in America Giacomo rievoca il pensiero della casa natale, della casa della sua infanzia, ricordandogli di pensare “al riscatto della povera nostra casa a Lucca”. Tuttavia, sarà il compositore stesso a riuscire nell’impresa di ricomprarla nel 1894 grazie al successo di “Manon Lescaut” nel 1893.

 

La corrispondenza con il cognato negli anni precedenti al riscatto è caratterizzata da continui riferimenti alla casa e al desiderio di ritornarne proprietario, segno del legame forte con quei luoghi che erano stati testimoni dell’infanzia e dell’adolescenza del maestro.“Io tengo ai 4 muri screpolati, ai travistravati, anche alle macerie della mia casa e ti prego di non insistere oltre per ciò perché mi faresti dispiacere. Riscatterò la mia casa, di questo puoi star certo […] amo dove nacquero i miei e per tutto l’oro del mondo non recederei dal disfarmi del tetto paterno” scriveva Puccini. La casa natale, anche dopo il riscatto, continua tuttavia a essere affittata, nonostante Puccini si interessi regolarmente, con continui riferimenti nelle sue lettere, alla sua manutenzione. Puccini, nella sua vita, coltiva, grazie ai proventi derivanti dai diritti d’autore delle sue opere, due grandi passioni: le automobili e le case. Nel 1919 acquista la Torre della Tagliata, un’abitazione di origine etrusca nella Maremma, proprio vicino al mare. Successivamente se ne libera e inizia a farsi costruire una villa a Viareggio, villa che avrebbe dovuto sostituire quella di Torre del Lago e nella quale lavora alla realizzazione di Turandot.

 

Tra le mura delle sue abitazioni le note si trasformano in composizioni, animano le parole dei libretti e danno vita ai grandi personaggi delle opere che ancora oggi sono tra le più rappresentate al mondo: Manon e le sue colpe, Mimì tra rossori e consunzione, Tosca e le sue gelosie, Madama Butterfly tra coraggio e sacrificio, Minnie e l’azzardo per amore, Turandot e la sua spietata crudeltà. La storia dell’eredità del Maestro sembra uscita da un melodramma, quasi le ombre della sua vita avventurosa e sregolata si fossero allungate anche sui suoi eredi, sui suoi beni. Alla morte di Puccini il figlio Antonio eredita, insieme alle altre proprietà, anche la casa di Lucca e, dopo la sua morte l’edificio passa a sua moglie Rita Dell’Anna che, nel 1974, a coronamento di una serie di iniziative del Comune di Lucca, principalmente della costituzione della Fondazione Giacomo Puccini del 1973, la dona alla città perché venga trasformata in museo accessibile a tutti. Il Museo, allestito grazie alle donazioni di cimeli da parte della vedova di Antonio Puccini e di suo fratello Livio, viene inaugurato il 28 ottobre 1979. Nel 2004 il Museo viene chiuso per procedere a lavori di restauro complessivo e di nuovo allestimento, progetto bloccato da una sentenza del 2006 che assegna l’immobile e le sue collezioni a Simonetta Puccini, figlia naturale di Antonio.

 

Solo alla fine del 2010 la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca acquista la casa natale del compositore e delibera di affidare il Museo alla Fondazione Giacomo Puccini e di finanziare i lavori di ristrutturazione e allestimento interrotti. Il 13 settembre 2011 il Museo natale Casa Puccini riapre al pubblico, rendendo accessibili molti oggetti appartenuti al compositore. L’oggetto simbolo della casa del compositore è sicuramente il pianoforte Steinway&Sons, acquistato da Puccini nella primavera del 1901, il più importante dei suoi strumenti. Si devono a questo pianoforte le note immortali del “Nessun Dorma” e più in generale di tutta la “Turandot”, l’ultima opera del maestro lucchese, l’incompiuta. Le altre stanze ospitano mobili, cimeli, lettere, partiture, statuine, ritratti. Tutto è conservato con cura, amore e dedizione, tutto evoca la vita e le opere di un compositore molto amato in tutto il mondo per la sua straordinaria modernità e per l’incredibile passione che ogni nota continua a evocare.

Barbara Castellaro

Lo sguardo “a colori” di Robert Capa sul mondo delle guerre e del divertimento ritrovato

Nelle Sale Chiablese, fino al 31 gennaio   150 immagini – in un allestimento che lascia ogni respiro ad una perfetta visione e che nei supporti esplicativi non sbrodola testi troppo ingombranti ma va dritto all’attenzione -, è come sfogliare un libro che mai ti è capitato di avere tra le mani, praticamente del tutto nuovo, inconsueto, suggestivo.

Finora avevano avuto facile memoria il vecchio siciliano pronto a indicare al soldato italoamericano accovacciato la direzione presa dal nemico tedesco (era l’agosto del ’44, ci viene tramandato persino il nome del soggetto locale, Francesco Coltiletti detto “massaru Ciccu”), o Pablo Picasso, con la sua corona di capelli bianchi, sulla spiaggia assolata, costretto servizievole a ombreggiare con un grande ombrellone la compagna Françoise Gilot, mentre un giovanotto muscoloso e sorridente occhieggiava in secondo piano o il miliziano della guerra spagnola del ’36 (immagine controversa: immediata realtà o troppo perfetta, falsa ricostruzione?) colpito a morte. Immagini in bianco e nero, rigorosamente (c’insegna una pubblicità), un attimo catturato e tramandato alla Storia.

Oggi, un altro sguardo, di una nuova “poetica” parla Enrica Pagella, direttrice dei Musei Reali. Fino al 31 gennaio prossimo, nelle Sale Chiablese, la mostra Capa in color ci regala l’altra strada intrapresa da Robert Capa – il suo vero nome Endre Ernó Friedmann, origini ungheresi, costretto ventenne, nel ’33, a fuggire a Parigi con l’avvento di Hitler -, quella che tra il ’41 (Hemingway ripreso nella sua casa di Sun Valley) e il 1954, anno della morte (gli ultimi scatti, durante la guerra in Indocina), gli fa amare il colore e la necessità di portarsi dietro due fotocamere, una per le pellicole in bianco e nero e una per quelle a colori, usando una combinazione di 35 millimetri e 4×5 Kodachrome, e le pellicole Ektachrome di medio formato. Credeva nei nuovi mezzi, spingeva le riviste francesi, statunitensi e inglesi a cui collaborava a mettere nei preventivi un buon carico di rullini e a dare sempre maggior spazio alle immagini a colori (sapeva anche farsi debitamente i conti in tasca, erano certo meglio pagate). Magari con qualche esempio già alcuni anni prima. Trovandosi in Cina per testimoniare il conflitto sino-giapponese, scriveva il 27 luglio 1938 ad un amico della agenzia di New York: “Spediscimi immediatamente 12 rulli di Kodachrome con tutte le istruzioni su come usarli, filtri, etc… in breve, tutto ciò che dovrei sapere, perché ho un’idea per Life”. Fu esaudito ma dell’arrivo di quel materiale ci rimangono soltanto quattro immagini.

Nata da un progetto di Cynthia Young, curatrice della collezione di Robert Capa al Centro internazionale della fotografia di New York, l’esposizione è prodotta dalla Società Ares con i Musei Reali e allinea – non trascurando riviste stampate nei decenni interessati, lettere in cui il grande fotoreporter trasmette fatti e descrizioni e sensazioni, presentazioni inserite in volumi, battute a macchina e corrette di proprio pugno, telegrammi -, per capitoli, l’intero percorso di una vita folle e avventurosa, vissuta al centro dei campi di battaglia e sui mari (“Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete andati abbastanza vicini”, il suo insegnamento pieno di fierezza), ma anche e sempre curiosa dei luoghi e degli amici, della tranquillità e delle distese innevate della montagne (gli sciatori di fronte al Cervino, i reali d’Olanda con cui stringe amicizia in bella posa), della voglia di divertimento che sempre più accampava i propri diritti nel periodo postbellico, delle feste romane in un clima pre-dolcevita e delle sfilate di moda da Schubert (alcuni anni dopo, in un clima sempre di spensieratezza, troverà le sue mannequin in place Vendôme o sul lungosenna), dei pezzi di vita nuova che chiedevano di ricostruirsi e di affermarsi, dei volti famosi (quando riuscì ad incrociare Hollywood e il suo mondo, eccolo correre di gran fretta sul set di Notorius per omaggiare forse Hitchcock e per iniziare una breve quanto intensa storia d’amore con Ingrid Bergman; quando scese tra le risaie del Vercellese, sul set di mitico Riso amaro, probabilmente l’intreccio della vicenda e il lavoro di De Santis poco lo interessarono ma il viso e le forme di Doris Dowling lo colpirono parecchio). Quindi sfilano l’immagine di un membro dell’equipaggio del commodoro Magee che manda segnali, i soldati americani che ispezionano un carrarmato tedesco o si ricoprono di una bandiera con svastica che hanno catturato; il volto di Trockij e quasi l’udibile voce stessa su di un palco di Copenhagen ed il conflitto arabo-israeliano, tra la lotta e le prime costruzioni a formare i nuovi kibbutz, tra il ’49 ed il ‘50; il viaggio nel 1947 a Mosca in compagnia di John Steinbeck e le code sulla Piazza Rossa negli anni a venire, a visitare la tomba di Lenin, con i visi degli uomini, delle madri con i figli, riverenti e muti, Picasso che gioca con il figlio, perfetto nonno ed incredibile padre; l’allegria all’aria aperta di Hemingway in compagnia della terza moglie, Martha Gellhorn, e dei due figli, la bellezza di certe facce, le fasce rosse legate attorno alla fronte, in un primo maggio descritto tra le strade del Giappone. Ancora i set cinematografici che lo incuriosiscono e lo eccitano, Ava Gardner che balla durante le riprese della Contessa scalza, una Anna Magnani carica di vitalità, John Huston intento a raccontare tra Parigi e gli studi di Londra la vita di Toulouse-Lautrec in Moulin Rouge, l’amico Humphrey Bogart (con cui nel ’52 andrà nella capitale inglese per riprendere l’incoronazione di Elisabetta) e Peter Lorre, ombroso e ingessato viveur l’uno, elegante damerino l’altro, entrambi alle prese con Il tesoro dell’Africa (possibile che nell’occasione la nostra Lollo non l’abbia almeno fotograficamente punzecchiato?), Ingrid Bergman che ascolta le indicazioni di Roberto Rossellini prima che si giri una scena di Viaggio in Italia nel ’53. Sono gli ultimi sprazzi di questo suo mondo che non vuole più dolori, combattimenti e morti, i divertimenti di Bayonne e di Deauville stanno lì a testimoniare. Ma anche per questa vena di divertimento l’interesse s’affievolisce, o addirittura si spegne del tutto: e Capa chiede di essere mandato dove ancora una volta possa respirare i venti della guerra. Invitato dalla Mainichi Press, si trova in Giappone quando riceve da Life la proposta di sostituire il fotografo della rivista in Indocina dove infuria il conflitto franco-vietnamita. Raggiunge Luang Prabang, fotografa i soldati feriti e le zone di guerra e la vita che continua a scorrere ad Hanoi e nelle altre città. Accompagna un convoglio francese lungo il delta del Fiume Rosso: mentre il convoglio è costretto a fermarsi per il fuoco nemico, Capa scende dalla jeep su cui viaggiava per fotografare un campo di riso a lato della strada. Mette il piede su una mina antiuomo e resta ucciso. Era il 25 maggio del 1954. Quella sconosciuta località aveva un nome forse grazioso, Tay Ninh. Capa aveva da pochi mesi compiuto quarant’anni. Era stato il più grande fotoreporter di guerra.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini:

 

Robert Capa fotografato da Gerda Taro

Un membro dell’equipaggio segnala ad un’altra nave di un convoglio alleato che attraversa l’Atlantico, 1942

Humphrey Bogart e Peter Lorre sul set del “Tesoro dell’Africa”, aprile 1953

Capucine, modella e attrice francese, al balcone, Roma, agosto 1951

 

Credits immagini Robert Capa International Center of Photography Magnum Photos

Leo accademico d’onore dell’Albertina

Ieri si è tenuta la cerimonia per il conferimento del titolo di Accademico d’onore dell’Accademia Albertina a Giampiero Leo. Pubblichiamo di seguito la “laudatio”  pronunciata dal Direttore dell’Accademia Albertina Prof. Edoardo Di Mauro

Con il titolo di Accademico d’Onore l’Accademia Albertina conferisce un riconoscimento a chi ha dimostrato interesse per le problematiche dell’istruzione artistica ed ha speso la sua esistenza, in vari modi e maniere, a sostegno dell’arte e della cultura, ed in difesa dei valori sociali e dei diritti civili.

Caratteristiche che sembrano calzate apposta per una personalità come quella di Giampiero Leo.

Ho conosciuto Giampiero Leo nel 1985 quando, giovane operatore culturale interessato all’arte contemporanea ed alla nuova creatività giovanile, cercavo spazio e sostegno per le mie iniziative, piuttosto innovative per l’epoca e non sempre comprese, anche da chi avrebbe dovuto farlo.
Trovai in Giampiero, da poco diventato Assessore alla Gioventù , primo in Italia, un interlocutore attento e partecipe, al punto che l’avvio della mia carriera deve molto alla sua lungimiranza, fatto questo che condivido con molti colleghi perché Leo, allora come adesso nel corso di questi trentacinque anni, è stato un punto di riferimento insostituibile per tutti coloro che nella cultura credono e per la cultura vivono.


La sua carriera inizia prima, nella natia Catanzaro, dove consegue il diploma di Liceo Scientifico con il massimo dei voti ed inizia il suo impegno politico.
La natura controcorrente di Leo si manifesta fin da allora, perché applica una pratica di impegno politico militante non schierandosi con la sinistra, come era da prassi in quei tempi, anche se dialogherà costantemente ed in maniera costruttiva con quest’ultima, ma iscrivendosi al movimento giovanile della Democrazia Cristiana, occupandosi come sua consuetudine di cultura, istruzione e diritti umani.

Trasferitosi a Torino, dove conseguirà la laurea in Giurisprudenza, Leo vive la dimensione del cattolicesimo sociale tramite una militanza attiva nel movimento studentesco, convinto che quei valori incarnino pienamente l’ansia di rinnovamento e giustizia sociale che animano con grande generosità la gioventù di allora, diventando capolista dell’aggregazione universitaria degli studenti cattolici ed aderendo a Comunione e Liberazione, subendo per il suo impegno varie peripezie, in anni animati da una grande carica ideale, ma anche attraversati da tensioni e violenze.
Il percorso di Giampiero Leo dal 1985 in avanti è cosa nota a tutti gli operatori culturali, che non hanno mai smesso di seguirlo, trovando in lui un amico sempre pronto a comprendere ed a sostenere le ragioni di chi opera in questo settore.

Eletto in Regione nel 1990, ricopre subito il ruolo di Presidente della Commissione Cultura, per poi diventare Assessore in varie Giunte, dal 1994 al 2005.In quegli anni concorre alla realizzazione di innumerevoli iniziative, tra cui si ricorda il restauro della Sacra di San Michele, la realizzazione dell’Università di Pollenzo e del Museo Nazionale del Cinema, la nascita della Film Commission ed il recupero di molti beni architettonici, fino allo straordinario intervento di restauro e valorizzazione della Reggia di Venaria.
Più volte sollecitato a candidarsi al Parlamento ed a ricoprire importanti incarichi nazionali, ha sempre declinato l’invito preferendo occuparsi della sua Città e della sua Regione, fatto che gli fa indubbiamente onore.

In questi ultimi anni Giampiero Leo si è occupato di diritti civili e tolleranza religiosa, giocando sempre un ruolo attivo nello scenario cittadino e nazionale.
Dal 24 ottobre 2017 è consigliere di indirizzo della Fondazione CRT. Le fondazioni bancarie giocano un ruolo fondamentale, in un’epoca di scarse risorse, per la sopravvivenza di molte realtà culturali e Leo è attento coadiuvatore del Presidente Giovanni Quaglia nell’opera di sostegno ai progetti delle Associazioni Culturali.
Quella di Giampiero Leo è stata, e continuerà ad essere, una vita spesa a sostegno della cultura e del sociale.
L’Accademia Albertina è fiera di conferirgli, per questi motivi, il titolo di Accademico d’Onore.

Il Direttore dell’Accademia Albertina
Prof. Edoardo Di Mauro

Il Premio Pannunzio alla Presidente del Senato Alberti Casellati

La Presidente del Centro “Pannunzio”, Chiara Soldati, ha conferito il Premio “Pannunzio” 2020 alla Senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, Presidente del Senato della Repubblica Italiana, prima donna a ricoprire tale incarico nella storia della Repubblica.

La Presidente Casellati è avvocato ed è stata per due volte sottosegretario di Stato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura. E’ il terzo Presidente del Senato insignito del Premio “Pannunzio” dopo Giovanni Spadolini e Marcello Pera.

La Presidente ha aperto l’anno scorso, l’11 ottobre 2019, il 52° Anno Accademico del Centro “Pannunzio” con una lectio magistralis sul tema “Donne e politica” nell’Aula Magna del Rettoraro dell’Università di Torino.

E’ tempo di “CuneiForme”

Da Racconigi a Bra, da Fossano a Cavallermaggiore Nuova rassegna culturale in Granda a firma di “Progetto Cantoregi”

Dal 26 settembre al 27 novembre Racconigi (Cuneo)

Dalle attrici Lella Costa ed Eliana Cantone insieme a Saverio La Ruina, agli storici Giovanni De Luna e Aldo Agosti, dal meteorologo Luca   Mercalli alla Compagnia di danza “Abbondanza Bertoni” fino all’alpinista che ha scalato tutti i quattordici Ottomila del pianeta, senza ossigeno né portatori d’alta quota, Nives Meroi: tra letteratura, teatro, danza, musica e sport atterra in Granda, da sabato 26 settembre e fino a venerdì 27 novembre, la prima edizione di “CuneiForme”. L’evento che si presenta all’insegna della “pluralità” – più discipline e linguaggi artistici contemplati, più luoghi attraversati, più varietà nella scelta degli ospiti, più tematiche su cui riflettere e varianti di anno in anno, nonché più soggetti pubblici e privati coinvolti – è ideato ed organizzato dalla Compagnia Teatrale “Progetto Cantoregi” e idealmente intende impugnare il testimone del Festival “La Fabbrica delle idee” che la stessa Compagnia (guidata da Marco Pautasso) ebbe a realizzare fino al 2017 nell’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi. “Il nome scelto, ‘CuneiForme’, ospita in sé diverse suggestioni – tengono a precisare gli organizzatori- perché richiama il territorio del Cuneese, ma anche le forme espressive delle diverse discipline artistiche, rimanda inoltre a uno strumento incisivo come il cuneo (perché incisiva intende essere la rassegna) e a una scrittura, quella cuneiforme, usata dai Sumeri e dagli Assiro-Babilonesi, innovativa per quei tempi, così come innovativo intende essere il nuovo progetto culturale”. Innovativo e itinerante. In giro per la terra di Langa. Il palcoscenico dell’iniziativa vedrà infatti coinvolte tante piazze del cuneese, con Racconigi (e con la Soms, sede di “Progetto Cantoregi”, come quartier generale), ma anche, per questa prima edizione, con il coinvolgimento delle Città di Bra, Cavallermaggiore e Fossano. Al centro del programma e fil rouge dei molti eventi, sarà un tema di stretta attualità. E diverso ad ogni edizione. Tema di quest’anno: “Re(L)azioni”, giocando sul doppio lemma “relazioni” e “reazioni”. “Il mondo in cui viviamo – dicono ancora i responsabili – è, infatti, continuamente plasmato da relazioni e reazioni sul piano sociale. Oggi, per giunta, largamente rivoluzionate a seguito della crisi sanitaria che attraversiamo e che ha dettato nuove regole per l’espressione degli affetti. Molti legami si sono stretti, in modo imprevisto, altri sono svaniti. Si indagherà quindi a tutto campo sul mondo relazionale: dai rapporti famigliari a quelli amorosi, da quelli con il diverso a quelli di amicizia (virtuale o digitale), dalle relazioni e dagli scambi tra comunità, paesi e civiltà, al rapporto tra il singolo e la natura e l’ambiente, dal rapporto con le passioni, la morte, la sessualità e la vecchiaia, fino alla relazione con se stessi”. Sette gli appuntamenti con ospiti e spettacoli di grande interesse e programmati per circa due mesi, secondo questo calendario:

  • Sabato 26 settembre, ore 21, Soms di Racconigi: l’attrice Eliana Cantone, de “Il Mutamento Zona Castalia, porta in scena “Favola di un’altra giovinezza”
  • Venerdì 2 0ttobre, ore 21, Soms di Racconigi: gli storici Giovanni De Luna e Aldo Agosti indagheranno sulla passione per il calcio e la propria squadra, l’unica relazione che dura una vita
  • Mercoledì 30 settembre, ore 21, Soms di Racconigi: l’attore Saverio La Ruina si esibisce in “Mario e Saleh”
  • Sabato 3 ottobre, ore 21, Cinema-Teatro “I Portici” di Fossano: l’attrice e scrittrice Lella Costa in “Questioni di cuore”
  • Mercoledì 4 novembre, orario da definire, Teatro “Politeama” di Bra: il meteorologo Luca Mercalli parlerà della nostra relazione con ambiente e clima, com’era e come sarà dopo la pandemia
  • Novembre, giorno e ora da definire, Soms di Racconigi: la Compagnia di danza “Abbondanza Bertoni” in “La morte e la fanciulla”
  • Venerdì 27 novembre, orario da definire, Teatro “San Giorgio”, Cavallermaggiore: l’alpinista Nives Meroi metterà a nudo il rapporto dell’uomo con la montagna e con la natura estrema.

Gli appuntamenti con gli autori sono a ingresso gratuito. Prenotazione consigliata 335.8482321 –– info@progettocantoregi.it

Gli spettacoli sono a ingresso a pagamento. Info: 335.8482321338.3157459 – www.progettocantoregi.it – info@progettocantoregi.it Fb ProgettoCantoregi – Tw @cantoregi – IG progettocantoregi

g.m.

 

Nelle foto

– Lella Costa
– Giovanni De Luna
– Eliana Cantone
– “Abbondanza Bertoni”
– Nives Meroi