Venerdì 8 ottobre, ore 18.30, in presenza nel Gymnasium di CAMERA (Via delle Rosine, 18 – Torino)
Venerdì 8 ottobre, alle ore 18.30 nel Gymnasium di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia il direttore del centro espositivo, Walter Guadagnini, e il direttore organizzativo di Biennale Democrazia, Alessandro Isaia, incontrano il fotografo Andrea Galvani – collegato in remoto – autore dell’immagine guida di Biennale Democrazia che CAMERA ha selezionato in sinergia con Biennale.
Nell’incontro, Andrea Galvani ripercorrerà le tappe salienti del suo percorso artistico caratterizzato da una commistione fra arte e scienza che si traduce nell’impiego di differenti strumenti e linguaggi attraverso cui registrare esperienze, tentativi e fallimenti. Con azioni concrete all’interno dei luoghi in cui opera, come l’inserimento di elementi che impediscono la vista, che riflettono o che trasfigurano i soggetti, l’artista crea delle fratture con la situazione preesistente innescando dei meccanismi in grado di moltiplicare i livelli di lettura sul mondo, ridefinendo i limiti della nostra percezione.
Per produrre la fotografia il cui titolo è La morte di un’immagine #4 – un albero reso luminoso da tre specchi che riflettono la luce del sole -, scattata in aperta campagna alle periferie di Atene nel 2005, Galvani ha infatti stabilito una relazione trigonometrica tra il Sole, la sua macchina fotografica e alcuni piccoli specchi che ha fisicamente installato tra i rami di un albero. Tramite l’utilizzo di staffe montate su unità motorizzate per telescopi a inseguimento lunare, gli specchi e la fotocamera sono stati programmati per mantenersi allineati al Sole. Come girasoli che rispondono all’intensità della luce, gli specchi contrastano il movimento del pianeta ed il risultato è un riflesso perpetrato, una costellazione di luce continua.
L’incontro si inserisce nel programma pubblico di Biennale Democrazia.
La sua non è mai “matita velenosa” all’eccesso, mai “corrosiva e blasfema” come quella di altri suoi colleghi. Le sue vignette coltivano sempre l’accortezza di non spingere, oltre i limiti, la marcia della satira. Non cercano ridanciani consensi, ma riflessioni a fior di pelle. Che allertano e fan sorridere senza agitare o incupire. A Gianni Chiostri, credo calzino alla perfezione le parole di un altro grande della satira, Giorgio Forattini, il primo ad essere quotidianamente pubblicato negli anni Ottanta, in prima pagina su un quotidiano a diffusione nazionale e che ricorda: “La satira è una grande dimostrazione, la più alta espressione, di libertà e democrazia”. In questa cornice etica e professionale vedo bene collocarsi i lavori di Chiostri, caratterizzati dalla sciolta maestria segnica del grande grafico e dall’innocente poesia dell’eterno fanciullo. A lui e ai disegni originali delle
sue vignette dedica, fino al 9 ottobre, un’interessante e ricca antologia, con presentazione di Francesco De Caria, il “Collegio San Giuseppe”, nella sala espositiva di via San Francesco da Paola 23, a Torino. Torinese, classe ’47, Gianni Chiostri “accompagna i lettori” de “La Stampa” da quasi quarant’anni (oggi nella pagina degli editoriali), ma collabora anche con altri importanti quotidiani nazionali, come “Avvenire”, “Il Giornale”, “Il Sole 24 Ore”, oltre che con periodici e case editrici varie e con la RAI (suoi i siparietti poetico-satirici di “Robinson & Venerdì” per Rai3). Portano la sua firma anche piacevoli libri disegnati, editi da “Ancora” fra cui “Ingannare il tempo” (2002), “Scherzi d’amore”(2003), “Perbacco!” (2004) e “L’altra metà del sorriso” (2005, realizzato quale omaggio alla donna). Vignette sempre senza parole. “Dentro non ci ho mai messo – racconta Chiostri in una recente intervista – né didascalie, né dialoghi. Però le vignette sono, a tutti gli effetti brevi storie complete, in cui gli elementi nascono sulla sinistra e si concludono sulla destra. Se venisse un aborigeno dell’Australia che non conosce una parola d’italiano, ma ha un minimo senso dell’umorismo, potrebbe godersele comunque senza problemi”. E aggiunge a ragione: “In questi tempi depressi e depressivi mi pare tanto”. Ricca, si diceva, e ben esaustiva nella proposizione delle varie tecniche – dalle prime matite, ai disegni su cartapaglia fino alle creazioni tridimensionali in cartoncino o fili metallici in cui ritagliare sagome umane – la selezione dei lavori esposti. A legare il tutto: la voglia di un sorriso. Di un vedere e di un rivedersi all’interno di un siparietto in cui tutti ci scopriamo un po’ attori perfetti, e ben rappresentati, della grande commedia o tragicommedia umana o delle bizzarrie e delle fissazioni e fisime del vivere quotidiano. Ecco allora, in mostra, l’automobile ( con tanto di bellicoso conducente) la cui sagoma ricorda una pistola puntata sullo sventurato automobilista-antagonista o il computer, una sorta di belva che si mangia il cervello dell’utente o la riflessione sulla volontà di “affermazione” a tutti i costi, “che ha ridotto – scrive De Caria – il cervello dell’individuo a camera oscura che semplicemente registra quanto l’occhio vede, che ha fatto dell’individuo un rivale o un nemico di sè stesso, talché egli giunge a duellare con la propria immagine allo specchio”. Ma, “come per gli artisti
autentici, l’umorismo di Chiostri è mosso essenzialmente da un concetto alto dell’esistenza e dell’Uomo, che solo certe situazioni fanno scadere in atteggiamenti goffi e risibili…Sta alla cultura autentica, e in particolare alla satira, smascherare gli inganni: e le penne e le matite del disegnatore umoristico diventano frecce”. Sorrisi. Ma anche momenti di malinconica e sospesa compartecipazione emotiva. Solitudini, amori negati. E la matita, allora, trasforma squarci di mondo in immagini di sottile, coinvolgente poesia.