Caleidoscopio rock USA anni 60- Pagina 2

In cerca di pepite…

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60

Continuiamo ad addentrarci nel fitto sottobosco delle etichette di piccolo-medio cabotaggio degli anni ‘60 a stelle e strisce… C’è da rilevare che in molti casi si trattava di produzioni discografiche eterogenee, che toccavano generi musicali anche molto diversi tra loro, con artisti dagli stili ben diversificati e per ascoltatori dai gusti anche diametralmente opposti. Ne derivava che si tendeva a non privilegiare nessun genere in particolare, lasciando tutto un po’ in superficie; forse col timore del fatto che lo specializzarsi in un certo stile musicale potesse portare con sé il rischio di diventare “di nicchia” o “per pochi”, in una sorta di suicidio commerciale dell’etichetta.

A volte si operava un altro tipo di scelta: veniva lasciato un certo specifico genere musicale unicamente ad una propria “sottoetichetta”, rivolta ad un pubblico più di settore, senza che il potenziale insuccesso potesse “intaccare” l’etichetta “madre”. In altri casi ancora anche le “sottoetichette” presentavano il carattere eterogeneo dell’etichetta principale; ma non di rado erano proprio queste “etichette figlie” (ex-post per i cultori e per i moderni appassionati del garage rock) a riservare le sorprese più gradite a livello storico, dal momento che tuttora vi si possono continuamente scovare “pepite nascoste” o brani ingiustamente dimenticati dalla storia del rock e ben degni di rientrare in compilations dedicate al genere.

Presentiamo qui l’esempio di una sottoetichetta di Lynn Records di Houston (Texas), cioè “Sabra Records”, attiva tra 1961 e 1965; anno, quest’ultimo, in cui si manifestò quell’interessantissima fase di passaggio tra il rock ‘n roll / rockabilly e il garage rock, seminando già il terreno per le primissime forme di quel protopunk che sboccerà in pieno in tutto il 1966. Sottoetichetta eterogenea per eccellenza (spaziava dal rock’n roll al funk al jazz, dal rhythm and blues al garage), ma che ebbe il merito di presentare due notevoli esempi del 1965 di quel periodo di transizione appena indicato, quando al ritmo trascinante e travolgente si aggiunse la forza e la rabbia del garage rock, con una convinta trasformazione nel canto e nel “sound”, più “sporchi” e “vissuti”. Riportiamo qui di seguito la discografia (allo stato attuale delle conoscenze) di “Sabra Records”, evidenziando i due esempi del 1965 sopra accennati:

– C.L. and The Pictures “I’m Asking Forgiveness / Let’s Take A Ride” (517) [1961];

– Mickey Gilley “I Need Your Love / Valley Of Tears” (518) [1961];

– The Epics “The Magic Kiss / Last Night I Dreamed” (516) [(2.), ca. 1962];

– Cecil & Ann “Through The Night / You Wrote This Letter” (520) [1962];

– Louis (Blues Boy) Jones with Bobby Scott Orchestra “Come On Home / I Cried” (524) [1964];

– The Jones Boys “Honky / Beatlemania” (555) [1964];

– Billy Patt Quintett “Passion (An Act Of Love) / Desafinado” (556) [1964];

– THE EMPEROR[‘]S “I Want My Woman / And Then” (5555) [1965];

– JOHN ENGLISH III AND THE HEATHENS “I Need You Near / Some People” (5556) [1965];

– Louis (Blues Boy) Jones with Bobby Scott Orchestra “I’ll Be Your Fool / Someway, Somewhere” (519);

– Bobby Scott “Swanee River Twist / Nifty” (521).

Gian Marchisio

Il cagnolino su fondo giallo

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Apriamo qui un capitolo importante e particolarmente complesso per la storia del garage rock americano degli anni ‘60, che costituisce un serbatoio quasi inesauribile di problemi classificatori sia a livello discografico, sia cronologico, con forti ricadute anche per una omogenea mappatura degli stili musicali, delle mode creative, dei gusti del pubblico statunitense specialmente tra il periodo della decadenza dello stile “surf” e l’affermazione del gusto psichedelico.

Le maggiori difficoltà sgorgano quasi spontaneamente in stretta correlazione con l’assoluta scarsità di fonti ed informazioni riguardanti una miriade di etichette minori o di medio cabotaggio, su cui è veramente impossibile determinare localizzazioni, fondatori, “modus operandi” a livello di incisioni e ramificazioni sul territorio in termini di agenti, emissari o talent scouting. Il tutto è reso ancor più complicato dalla mancanza di sufficienti dettagli persino sulle etichette dei 45 giri, che non di rado risultavano scarne e poco significative anche a livello di nomi di produttori, di studi di registrazione e di indirizzi di riferimento. Tutto ciò è quasi inspiegabile se si tiene conto del fatto che, nonostante il piccolo cabotaggio, la qualità musicale dei brani incisi fosse pari (se non finanche migliore) rispetto ad altre etichette decisamente più blasonate e affermate a livello nazionale ed internazionale.

Viste le molteplici difficoltà suddette, non resta che adottare la soluzione più sensata, ossia riportare la discografia (completa o perlomeno conosciuta) di ciascuna etichetta. Partiamo qui da Yorkshire Records (che a grandi linee coprì il decennio 1962-1972), che vedeva solitamente campeggiare sulla sinistra l’immagine di un cagnolino della razza omonima su fondo giallo limone; si rileva in particolare che alcuni brani di tale etichetta rientreranno a più riprese in raccolte e compilations ben note ad appassionati e cultori dei generi garage e psych rock…

– Harry Dial “Money Tree Blues / I Can’t Go On This Way” (1001) [1962];

– THE SAXONS “Carol Ann / Everybody Puts her Down” (YO-102) [1964];

– Harry Dial & His Blusicians “Joy Juice Blues / You’re A Long Time Dead” (#125) [1965];

– THE DOLPHINS “Surfing-East Coast / I Should Have Stayed” (YO-125) [1965];

– THE SAXONS “Things Have Been Bad / The Way Of The Down” (YO-127) [1966];

– THE DOLPHINS “Endless / There Was A Time” (YO-128) [1966];

– Vik Armen “Torn Between Two Lovers / Love’s Come” (YO-129) [1966];

– The Younger Generation “You Really Got Me / Blue Moon” (YO-149) [1967];

– The Dum Dums “Somethin’ Stupid / Tortilla” (YO-150) [1967];

– The Odyssey “Just To Be / Sunday Time” (YO-154) [1968];

– OCELOT “What Have You Done To Your Honey” (mono-stereo) (#1001) [1972];

– Harry Dial & His Blusicians “The Blues Singing Banker” [Album] (DG 72963);

– Harry Dial & His Blusicians “Jazz A La carte” [Album] (HD61565);

– THE HUNTINGTONS “Roll On Little Darlin’ / When You Were My Girl” (YO-101);

– The McCormacks “I Wish That It Was Summer Again / Teenage Tears” (YO-750);

– Bearing Straight (feat.) Kvitka Cisyki “(I’ve Been) Searching Time / End Of Life” (YO1010).

Gian Marchisio

Album fai da te… o quasi

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Potrò sembrare ripetitivo, ma non si insiste mai abbastanza su due fattori sostanzialmente ricorrenti, quasi un “leitmotiv”, nella realtà delle bands di teenager del garage rock americano anni ‘60: il “management” autogestito e la precarietà delle condizioni di registrazione ed incisione per 45 giri ed album “in economia”. In particolare per la prima questione era fondamentale la capacità di individuare immediatamente uno stile musicale preciso, che mirasse a gusti specifici di un certo uditorio o di una certa fascia di età, soprattutto se si trattava di “teen clubs” o piuttosto palestre di “high school”. La band di cui trattiamo in questo articolo dovette subito individuare il “target” di pubblico da affrontare nei “gigs” e nelle esibizioni, anche in caso di “opening” per altri gruppi. L’ambito operativo erano le feste di “high school” dell’area di Chicago, il “management” era (manco a dirlo) autogestito e il “budget” a disposizione ridotto e calcolato con grande realismo. Il gruppo si chiamava “The Bachs”, si definì stabilmente tra primavera ed autunno 1965 e comprendeva: John Peterman (V, chit), Blake Allison (V, b), John Harrison (chit), Mike DeHaven (chit), John Babicz (batt). L’area di attività più intensa era a nord-ovest di Chicago, tra Crystal Lake, Barrington, Mundelein, Lake Forest, Northbrook, Des Plaines e la band seppe crearsi una vivace rete tra le feste di liceo, i “teen clubs” e le feste private, limitando al massimo spese e dispersione di denaro in “personale extra” di dubbia affidabilità; in particolare i “teen nightclubs” (specialmente Pink Panther e Midnight Hour) garantivano le entrate economiche migliori ed il repertorio era molto funzionale all’uditorio, con gran numero di cover di Beatles, Rolling Stones e Kinks. Tra 1967 e 1968 gli impegni non mancavano e i “gigs” avevano cadenza settimanale fissa il venerdì e sabato notte e non di rado “The Bachs” (sebbene mediamente nemmeno diciassettenni) erano “opening band” di The Amboy Dukes di Ted Nugent. A differenza di altri gruppi, “The Bachs” non erano particolarmente attratti dalle “Battles of the Bands” e preferivano mantenere il “giro” ben sedimentato nelle fasce d’età “teens”, dove erano considerati compagine di ottimo livello. Nel 1968 giunsero occasioni di incisioni in sala di registrazione, ma non ne scaturì il solito 45 giri isolato, bensì un intero album, sebbene condizionato dal difficile ambiente di presa di suono e dal “budget” ridotto: “Out of The Bachs” (Roto Recordings PR-1044). Si può davvero definire un “album fai da te”, per stessa ammissione dei musicisti, che successivamente lamentarono l’impossibilità di prendere “takes” successivi al primo e l’approssimativa esperienza dei tecnici del suono coinvolti (“crappy production”, sezione ritmica mal bilanciata). Ne scaturirono circa 150 copie (da distribuire tra amici e parenti e nella cerchia vicina…) e si può ben intuire come l’album sia ora diventato merce rarissima e trattato a peso d’oro tra gli appassionati di oggi. Gli stessi componenti della band ricordavano quell’album con una vena di malinconia, definendolo una sorta di “farewell to The Bachs” (addio ai The Bachs), in quanto già scorgevano chiaramente il destino della band, con l’incombere dell’entrata nei college, della chiamata in esercito e della necessità di lavori stabili per condizioni economiche familiari non felici; con l’estate del 1968 erano ormai maturi i tempi dello scioglimento, che si definì entro agosto.

Gian Marchisio

Al secondo piano del motel

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Management autogestito, ambienti di registrazione improvvisati, “basement” per le prove, 1 dollaro a copia, autoproduzione, dj delle radio amici, spese “extra” ridotte all’osso. Questa era quasi la regola tra le bands di teenagers del rock garage e psych/garage americano degli anni ‘60. Non c’era spazio per errori, dispendio di risorse, passi falsi; era necessario anche mantenere sempre vigile l’attenzione di fronte a talent scout sospetti o sedicenti “emissari” di questa o quella etichetta; nonostante la giovane età c’era bisogno di mantenere i piedi ben piantati a terra, evitare utopie e castelli in aria.

Tra le bands meteora che mantennero un profilo “ragionevole” e realistico si possono annoverare “The Satyrs”, formatisi nella primavera del 1968 nell’area di Haddon Heights (New Jersey), a circa 10 miglia a sud-est di Philadelphia (PA). I componenti erano pressoché tutti quanti residenti in un raggio piuttosto ristretto: Craig Morrell (V, b), Mike Doerr (V, batt), Bob Agnew (chit), Kenny Reibel (org), Andy Madajewski (batt, perc) e il “basement” della famiglia Reibel era il luogo abituale delle prove “domestiche” della compagine. Ovviamente il management era autogestito, con il solo appoggio esterno di un amico con agganci in alcune radio della zona; tutto era rigorosamente autoprodotto, senza spese extra di nessun tipo, soppesando bene qualsiasi occasione ed opportunità, “cum grano salis”. Grazie alla programmazione favorevole di radio locali tra cui WIBG e WFIL, il “sound” della band (con influenze specialmente da The Doors e ? and The Mysterians) divenne familiare specialmente nel giro dei teen clubs e dei licei dell’area (Camden, Deptford, Voorhees, Moorestown, Woodbury); va da sé che le feste di “high school” fossero il pane quotidiano delle bands di qualsiasi angolo degli USA e “The Satyrs” si fecero le ossa in più occasioni proprio in questi contesti. I buoni agganci nelle radio e le congiunture favorevoli tra “Battles of the Bands” (Cherry Hill) e “opening” diedero la possibilità della registrazione dell’unico 45 giri prodotto: “Yesterday’s Hero” [Morrell – Williams] (2668; side B: “Marie” [Doerr – Morrell]), con etichetta Spectrum Records di Greenville [SC]. Qui va precisato che le condizioni di registrazione furono quasi estreme, dal momento che la band si trovò a incidere al secondo piano di un motel sull’Admiral Wilson Boulevard di Camden, con la possibilità di “centrare” un’unica presa di suono e con mezzi di mixaggio parecchio ridotti. La stampa dei 45 giri fu a carico della band ad 1 dollaro a pezzo (400 dollari il prezzo totale) e con incombenze di distribuzione completamente a carico del gruppo. Ma la buona volontà di tutti e l’entusiasmo spensierato ed incosciente fecero il resto e il disco rimase in programma nelle radio (anche alla WCAM di Camden) e ben radicato nella memoria degli appassionati di allora e dei decenni successivi. Ne è prova il fatto che “Yesterday’s Hero” entrò a far parte di numerose compilations degli anni 80, 90 e 2000, tra cui “Pebbles vol. 5”, “Acid Dreams Epitaph”, “The Ultimate Acid Dreams Collection”, “Psychedelic States. New Jersey vol. 1”, “Mindless Teenage Brainrot”, “1960s Fever Diamonds vol. 0009”. L’inevitabile ed ineluttabile chiamata in esercito (come in moltissimi altri casi) tarpò le ali alla band e “The Satyrs” si sciolsero entro l’estate 1969.

Gian Marchisio

Dall’amaranto ai Conquistadores

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In precedenti articoli avevamo toccato l’argomento a volte problematico dell’assetto grafico  delle etichette dei 45 giri del garage rock nordamericano degli anni Sessanta. L’aggettivo “problematico” non è casuale; infatti si è visto come, anche indipendentemente dal contenuto musicale, già allora un’etichetta dai colori adeguati, con una grafica ben leggibile, con un carattere di stampa ben decifrabile rispetto al colore di sfondo e ai margini del campo circolare dedicato, potesse fare la differenza già solo al primo sguardo o alla prima occhiata anche distratta. Va da sé che un accostamento di colori chiari e scuri fosse consigliabile, mentre si è visto che in parecchi casi etichette dalle scelte tonali “assurde” finivano per essere quasi del tutto illeggibili finanche a breve distanza, magari perfino con caratteri del testo stampati in modo dozzinale o talvolta con errori grossolani. Oltre a questi problemi “di concetto” vi sono casi di etichette medio-piccole che nel giro di pochi anni mutarono del tutto il proprio aspetto e i propri colori (e a volte pure lo stile musicale…), tanto che svariati studi sulla discografia del rock americano anni ‘60 sono stati “insidiati” da problemi di omogeneità nella stesura delle serie discografiche, col rischio di errori involontari. Un esempio di etichetta che mutò notevolmente la propria veste fu la texana Coronado Records di El Paso, attiva dal 1964 a probabilmente inizio 1969. Il colore originale era nel tono amaranto/granata (con varianti anche sul rosso intenso o prugna) con testo grigio chiaro o argento e coprì sostanzialmente il quadriennio 1964-1967. Con il passaggio al 1968 tutto mutò e l’etichetta prese i toni del giallo intenso con testo rosso vivo o amaranto; ai lati campeggiavano due grandi teste di conquistadores con tanto di elmi e cimieri. A quanto risulta, l’etichetta si estinguerà proprio con questa veste grafica nei toni del giallo con i profili ispanici.

Si riporta qui di seguito la discografia Coronado Records allo stato delle conoscenze attuali:

–  David Hayes “Meet Me Here (In New Orleans)” / The Pawns “Lonely” (127);

–  [Eddie Williams “You Left Your Happiness (Here In My Room) / I Just Can’t Help Myself” – etichetta celeste CM-112];

–  The Beach Nuts “The Last Ride / Surf Beat ‘65” (131);

–  David Hayes and The Pawns “What Do The Voices Say? / Lonely Weekends”  (132);

–  The Celtics “Man That’s Gone Mad / Wondering Why”  (133);

–  The Starving Cats Combo “I’m Hungry / Mi Amor Se Fue”  (135);

–  Danny & The Counts “You Need Love / Ode To The Wind”  (136);

–  Gene Willis & The Aggregation “We Got It / Shing-A-Ling’s The Thing”  (45-139);

–  The El Paso Drifters “Could This Be Love / For Your Love”  (140);

 

[etichetta passa al colore giallo con teste di conquistadores]

–  The Motivaters “Ode To Loneliness / Heart Of Blue”  (141);

–  Doug Adams with The Early Morning Traffic “I Can’t Wait To See You / Hontusharaya”  (142);

–  The El Paso Drifters “All In My Mind / In The Midnight Hour”  (143);

–  Mitch ‘n Gary “Do I Ever Cross Your Mind? / Mi Juarez Rita”  (145);

–  Donald Ray & The El Paso Chessmen “Shake / I Love You”  (146);

–  Donald Ray & The El Paso Chessmen “Can’t You see I Love You / Cry Like A Baby”  (147);

–  Charlie Russell & The Jones Hatband “Love Gone Bad / Sometimes I Wonder”  (148);

–  Larry and The Knightsmen “A New Acquaintance / Selva”  (150).

Gian Marchisio

Tra Irving Azoff e le sbandate

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Ma questi del garage rock americano di metà anni Sessanta… come se la cavavano al volante?

Gli aneddoti sono svariati e coloriti e possiamo davvero affermare che gli incidenti non erano poi così rari e le “escursioni fuori pista” e fuori carreggiata tra i campi di grano e mais abbondavano. Sotto questo aspetto si distinguevano anche i membri della band “The Shades of Blue”, che a quanto pare avevano un rapporto a dir poco “conflittuale” con volanti e veicoli a motore. Formatisi nell’area tra Danville e Urbana (Champaign) nell’Illinois nel 1966, vedevano la presenza di Tim Frazier (V, b), Chuck Holmstead (V, chit, tr), Cloyd Shank (V, chit), Mike Supp [e poi Bill Cunningham] (V, org), Rick Miller [e Danny Odum] (V, batt). La quantità di gigs ed esibizioni era piuttosto folta e non mancavano le date in agenda, sia in Illinois che in Indiana, anche grazie all’attività e ai già numerosi agganci del manager, nientemeno che Irving Azoff, ancor oggi grande “boss” del management musicale americano. “The Shades of Blue” erano sostanzialmente in monopolio sui teen clubs delle aree tra Champaign, Danville, Mattoon, Paris, fino a Decatur ad ovest, ad est e oltre fino a Lafayette in Indiana. I buoni agganci “strategici” consentivano anche di operare come “side band” a nomi come Cryan’ Shames, Archie Bell and The Drells, Shadows of Knight, The One-Eyed Jacks. Ed era nel corso del viavai tra date e comparsate che chi guidava l’auto o il van a volte ci vedeva quasi doppio… e tra alcool e sonno si finiva per compiere memorabili escursioni fuori strada tra i campi. Il sound della compagine (influenzato da Byrds, Beatles e Turtles) piaceva molto nel giro dei college, tanto che ben presto Frazier e compagni diventarono “campus band” all’Illinois State University. Le radio erano particolarmente benevole nella programmazione e nei palinsesti, basti pensare al rapporto quasi fraterno con Larry Lujack di WLS Radio di Chicago (ora di Cumulus Media).

Manco a dirlo… “The Shades of Blue” parteciparono e vinsero all’Eastern Illinois Fair Battle of the Bands, dove a dire il vero il manager Azoff si era adoperato a farsi “amici” i giudici del concorso; in occasione dell’esibizione il batterista Miller cadde addirittura dalla pedana, dando un schienata micidiale sul retro del palco, ma stoicamente ritornò al suo posto nel giubilo generale. L’effetto della vittoria alla “Battle of the Bands” si concretizzò non tanto in termini di programmazione, quanto piuttosto in occasioni di registrazione in studio (come succedeva quasi regolarmente per i vincitori). Ne derivarono due 45 giri incisi nel lasso di tempo di 2/3 anni: il primo “Not The Way Love Should Be” [Frazier – Shank] (836R-1030; side B: “You Must Believe Me” [C. Mayfield]), il secondo “The Time Of My Life” [Frazier] (600; side B: “Turn Turn Turn”), entrambi con etichetta autoprodotta Shades Records; come nota di colore… al ritorno dalle registrazioni di questo secondo 45 giri, altro colpo di sonno improvviso e nuova “escursione fuori strada”. La programmazione radiofonica accolse con favore entrambe le incisioni e la band fece capolino anche in TV sul canale WCIA di Champaign. A differenza di altri gruppi lo scioglimento non avvenne in modo improvviso o in relazione ad eventi esterni, ma semplicemente i vari componenti si allontanarono dall’area geografica originaria, per trasferirsi chi in Florida, chi in Indiana, entro il 1972.

Gian Marchisio

Alleanza a modo loro

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Repertorio e libero arbitrio, binomio quasi sempre azzeccato nel rock americano anni ‘60, soprattutto quando il repertorio andava costruendosi giorno per giorno anche in relazione alle “venues”, al gusto del pubblico, alle esigenze del contesto musicale del momento, alla reazione degli ascoltatori all’atto esecutivo, all’impressione destata nei “talent scout” o negli emissari (più o meno camuffati) di case discografiche più o meno blasonate. Dunque libero arbitrio, più di quel che si possa credere; ne è prova il fatto che il sedimentarsi di un repertorio esecutivo poteva essere un processo alquanto variabile, variegato, differenziato, eterogeneo, con esiti sempre diversi in base al “sound” delle bands, alla resa delle “cover” o al taglio interpretativo che ad un brano si intendeva dare o imprimere in questo o quel locale o per questo o quell’uditorio.

Da ciò deriva il fatto che un repertorio poteva avere elementi fondanti non univoci: chi sceglieva il taglio di “cover band”, chi di gruppo devoto alla “British Invasion” e ai suoi “guru”, chi di compagine “multitasking” (sempre adattabile al gusto del momento o alle necessità di una certa occasione), chi di band specializzata nel settore dei “frat parties” o feste di college, chi invece prediligeva le feste private o gli eventi sportivi, chi altrimenti puntava sugli “adult clubs” o i “parlors”, chi sul mondo dei teenagers e dei teen clubs. C’erano però bands che inserivano deliberatamente e volontariamente in repertorio anche pezzi non canonici, come per esempio brani tratti dal mondo dei “girl groups” che avevano impazzato parecchio tra fine anni Cinquanta e prima metà anni Sessanta.

Ne furono esempio “The Alliance”, formatisi nell’aprile 1966 a Portland (Maine) col nome “The Bobby Dean Combo” e composti inizialmente da Bobby Dean (V, chit), Rick Balzer (chit), Charles “Chico” Blumenthal (b), Vincent “Vinny” Bruni (batt). Il nome mutò in “The Bobby Dean Alliance” verso fine 1966, quando furono “opening band” per i “Young Rascals” al City Hall Auditorium di Portland. Ma quasi subito Bobby Dean disse addio… e il nome mutò ancora in “The Alliance”, ma la formazione si stabilizzò maggiormente (Rick Balzer, chit; Chico Blumenthal, b; Mike Foster, org; Vinny Bruni, V, batt) e si definì meglio il repertorio, questo sì insolito e costituito da cover dei Beatles e da svariati brani di “girl groups” tra cui in primis The Supremes.

Il pubblico apprezzava assai, specialmente nel corso di numerosi “gigs” nell’area tra Portland (anche alla Armory di Stevens Avenue), Biddeford, Gorham, Windham, Cumberland, Yarmouth, Freeport, Brunswick. L’accoglienza nelle varie “venues” era sempre calorosa e la richiesta generale più che soddisfacente, finché nel 1968 giunse anche l’occasione dell’incisione in studio, concretizzatasi nel febbraio presso gli Event Studios di Westbrook con l’etichetta Critique di Carl Strube: “Listen, Girl” [C. Blumenthal] (45-1074; side B: “I’ll be Kind” [R. Balzer]). In verità la band si attendeva un certo slancio commerciale con il 45 giri realizzato, vista anche la favorevole programmazione radiofonica di varie radio locali; tuttavia gli esiti non furono davvero quelli previsti… e pesarono non poco sulla spinta e sull’entusiasmo del gruppo. Da qui la parabola discendente di “The Alliance”, che si concluse forse entro la primavera 1969.

Gian Marchisio

Estro made in Italy e nuovi americani

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Già in precedenti articoli ho accennato al fatto che nel mondo del garage rock USA di metà anni Sessanta la bandiera a stelle e strisce non di rado si intrecciasse abbondantemente col tricolore italiano. Specialmente nelle grandi aree urbane della costa atlantica (New York, Boston, Philadelphia), erano innumerevoli i musicisti di origini o ascendenze italiane che si trovavano particolarmente a proprio agio nelle sezioni ritmiche delle bands (basso, batteria, più di rado all’organo). Ma cognomi italiani erano pure frequentissimi a livello di produzione musicale; e in questo caso la distribuzione geografica era più omogenea, anche nelle aree del Midwest, degli USA centrali o centro-occidentali e abbondantemente su tutta la costa pacifica, ma in primis nell’area attorno Los Angeles. Non è un mistero che il carattere aperto, socialmente attivo e coinvolgente degli italiani avesse buon gioco nello stringere relazioni e conoscenze, nel creare quella rete fondamentale per gestire il management musicale, le date dei concerti, gli eventi di opening da parte di bands di secondo piano. Tutto questo “sottobosco” intricato e di instancabile vivacità era proprio il terreno ideale per la duttilità e la scaltrezza tipica del “fare di italica maniera”, con una gestione basata su creatività, capacità di improvvisazione e ingegno nelle situazioni meno favorevoli (se non del tutto avverse) allorquando sagacia e perspicacia erano il sale del “saperci fare”; non di rado infatti gli americani (ancora fin troppo “inquadrati”, razionali e logicamente lineari) si sorprendevano della capacità dei “nuovi americani” italici (estrosi, dinamici, istintivi) di intravedere opportunità, genio e spirito creativo anche in controluce e “in filigrana”, laddove nessuno avrebbe scommesso mezzo dollaro sulla buona riuscita di un’impresa o di un progetto avviato. Tra le svariate case discografiche che coinvolsero anche cognomi italiani tra produttori e discografici, si segnala qui l’etichetta ”Rally Records” di Los Angeles, che a mio modesto parere tra i soli 6-7 numeri di catalogo prodotti seppe sfornare (dopo gli esordi jazz/funk) almeno un paio di 45 giri garage / psych garage di buon valore. In Rally Records agivano Bob Todd, Dan Gates, Dave Briggs ma anche la compagine “tricolore” con George Motola, Joe Saraceno e Tony Butala (quest’ultimo, in particolare, instancabile collettore di talenti e dall’innato “fiuto” per gruppi emergenti scovati quasi dal nulla).

Si riporta qui in chiusura il ridotto catalogo di Rally Records (1965-1967):

– Billy Quarles “Bringing Up What I’ve Done Wrong” / Billy & The Ar-Kets “Little Archie” (501) [1965];

– Beverly Noble “Better Off Without You / Love Of My Life” (502) [1965];

– Hillary Hokom [Suzi Jane Hokom] “Can’t Let You Go / Tears Of Joy” (503) [1965];

– The Agents “Gotta Help Me / Calling An Angel” (504) [1965];

– The Grodes “Love Is A Sad Song / I’ve Lost My Way” (505) [1966];

– Perpetual Motion Workshop “Infiltrate Your Mind / Won’t Come Down” (506/507) [1967].

Gian Marchisio

Tra psicosi collettiva ed epigoni

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Si fa presto a dire “British Invasion”… e a ricondurla a puro fenomeno musicale. “British Invasion” era anche (se non soprattutto) fenomeno sociale, furore collettivo, quasi “isteria organizzata”, una sorta di ondata travolgente che faceva perdere la testa a migliaia di teenagers americani che forse a malapena conoscevano un paio di brani di Beatles o di Rolling Stones. Eppure era sana psicosi. E non di rado per chi avesse voluto (con buona volontà) apprezzare il risultato musicale “live”… la vita era dura, per il semplice motivo che durante i concerti era sostanzialmente impossibile cogliere il “sound” o gli intrecci melodici, o le tessiture ritmiche. Dal momento dell’ingresso delle bands si alzava immediatamente un uragano di urla di migliaia di ragazze, che come dimostrano i video dell’epoca urlavano indifferentemente in un palazzetto enorme allo stesso modo in cui avrebbero urlato in uno studio televisivo da 50 posti (con buona pace di tecnici del suono, regia e conduttori…). Fatto sta che nei concerti “live” gli stessi musicisti suonavano senza quasi sentirsi reciprocamente, tanto erano circondati dal chiasso generale e dal furore incontrollato della gioventù in delirio. Un esempio su tutti potrebbe essere rilevato nel concerto che The Beatles tennero nell’agosto 1964 a San Francisco al Cow Palace; evento memorabile, specialmente per il fatto che quasi tutti i presenti sottolinearono l’impossibilità di sentire alcunché, indipendentemente dalla posizione assegnata dal biglietto acquistato, fosse esso caro in posto strategico o stracciato (da 4 dollari appena) in un punto disperso del palazzetto. Ma in buona sostanza probabilmente l’esito musicale era secondario, data la psicosi collettiva e il più ampio contesto generale di attesa spasmodica. Non a caso dopo quella data spuntarono come funghi innumerevoli bands a stelle e strisce di epigoni dei Beatles, con esiti davvero variabili ed altalenanti, in qualsiasi angolo degli States. Tra questi possiamo inserire la band “Try-Angle”, formatasi nel 1966 a Franklin (Indiana) e composta da Les Tabeling (V, chit), Bill McCarty (chit), Lyle Smith (b), Pete Molina (org), Mark Seitz (batt, tr). Orgogliosamente “British sounding”, si ispiravano ovviamente ai Beatles, tenendo da parte (credo volutamente) quella vena blues che invece li avrebbe spinti pericolosamente verso Rolling Stones ed Animals. Con “management” autogestito, prediligevano feste private, di liceo e i tanto amati “sock hops” tipici dei teenagers di allora. Naturalmente pure le “Battles of the Bands” tra Indiana ed Illinois facevano gola e i “Try-Angle” vi parteciparono, anche vittoriosi. Ne derivò il primo ed unico 45 giri: “Writing On The Wall” [L. Tabeling] (814O-2553; side B: “Com’ing Home”), con etichetta Orlyn, inciso nel novembre 1967 a Chicago presso gli studi di Oren Stembel. Nonostante il più che discreto livello del prodotto finale, il disco non sfondò e rimase un po’ troppo relegato nel solo Midwest nella programmazione delle radio di Chicago e Indianapolis. Un secondo tentativo di incisione all’Ohmit Recording Studio di Indianapolis non vide mai la luce su 45 giri ufficiale e il morale della compagine ne risentì inevitabilmente; nel corso del 1968 la chiamata in esercito simultanea di chitarrista e batterista sancì la fine della band, che si sciolse entro l’estate.

Gian Marchisio

I traumi dell’esordio

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60 🇺🇸 

Nella storia del garage rock americano degli anni ‘60 abbiamo incontrato innumerevoli bands di giovani liceali che si trovavano perfettamente a proprio agio dal vivo durante i concerti e parallelamente riuscivano a gestire le pulsioni creative anche in studio di registrazione, dosando sapientemente suoni ed impasti.

In altri casi il tutto si ribaltava, specialmente quando il gruppo si dimostrava discretamente coeso in sala di registrazione ma perdeva amalgama nella dimensione “live”, magari distratto dal pubblico o dal contesto del caos di un “teenage club” o peggio di un “frat party” universitario, allorquando il “rumore disordinato e caotico” non di rado copriva la stessa amplificazione. Vi era inoltre un terzo caso, vale a dire la magia e l’empatia nelle “performances” dal vivo cui si contrapponeva il vero e proprio “trauma da blocco psicologico” in studio. I motivi potevano essere i più variegati ed il “trauma” trovava le sue cause in molteplici fattori: ambientali (luoghi inappropriati e quasi improvvisati), umani (attriti con il personale di registrazione, disagio all’interno della band per la presa di coscienza della differenza tra suono da studio e suono “live”), economici (insoddisfazione per il “budget” ristretto, ansia da “time is money”, equivoci sugli accordi presi “a monte”), creativi (aspettative frustrate dalla volontà dei discografici, soluzioni musicali imposte dall’alto e non condivise dal gruppo) etc. Si può affermare che il trauma “di natura ambientale” investì in pieno la band “The Individuals”, formatasi nel suo nucleo-base a fine 1964 nell’area tra Danville e South Boston, al confine tra Virginia e North Carolina. I membri erano Glenn Meadows (V), Ronnie Vaughan (V, chit), Ben Vaughan (chit), Tommy Redd (b, V), Sammy Moser (org), Ronnie Couch (batt); con management autogestito sfruttavano un volenteroso e generoso vicino di casa come “autista” per trasferirsi per esibizioni e “gigs” nelle zone vicine. Il suono della band si rifaceva ai Rolling Stones, ma in seguito fu forte anche la suggestione dai Blues Magoos; nonostante la gestione “home made”, la band suonò a più riprese per le feste di teenagers all’American Legion e in svariate “venues” quali Hupps Mill Bowling Alley, Moorefields, Oak Level Club, T-Bird Country, The Skylark Club, The Danville City Armory e all’Halifax County Fair. Nel 1967 vissero l’esperienza della sala di registrazione, da cui scaturì il primo (e unico) 45 giri: “I Want Love” [T. Redd] (Hos-45-2018; side B: “I Really Do”), con etichetta Raven Records, inciso a Danville (Virginia) presso The House Of Sound. Fu un esordio traumatico per la band a livello ambientale, data l’angustia del luogo, la limitatezza del budget e del tempo a disposizione e con dotazione strumentale e tecnologica di scarso livello. Il disagio che probabilmente avvolse la compagine… in un certo senso traspare anche dall’esito qualitativamente non eccezionale del disco. In seguito “The Individuals” continuarono con buoni risultati nei “gigs”, grazie anche alla programmazione del 45 giri sulla radio locale WHLF e ad Al Mapes nel suo show “1400 Club”. Tuttavia gradualmente la spinta propulsiva venne meno; entro la primavera del 1968 la band si sciolse, anche per sopravvenute gravidanze di fidanzate, chiamate in esercito e necessità economiche stringenti ed insostenibili.

Gian Marchisio