ARTE- Pagina 19

Il mondo musicale e spirituale dell’artista coreano Nam June Paik

Al Mao, sino al 23 marzo, “Rabbit Inhabits in the Moon”

Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io ti porterò indietro sulla luna a vivere con me.” Una leggenda gentile che ricopre vasti territori dell’Asia Centrale e dell’Estremo Oriente, sino all’Iran e alla Turchia, l’effetto è magico se in alcune notti certe macchie della luna posata sul Giappone e sulla Corea e su quei mari ricordano le forme di un coniglio: che gli abitanti di quei paesi immaginano lavorare instancabilmente, intento com’è a preparare dentro un mortaio torte di riso con cui allietare gli esseri lunari. “Rabbit Inhabits in the Moon” è il titolo dell’installazione del 1996 dovuta all’arte di Nam June Paik e medesimo è il titolo, ampliato nell’”Arte di Nam June Paik allo specchio del tempo”, della mostra che s’inaugura oggi al Mao Museo d’Arte Orientale in via San Domenico 11 (visitabile sino al 23 marzo 2025): un piccolo coniglio in legno ad osservare, attraverso lo spazio e il tempo, uno scuro schermo televisivo dentro cui si staglia una luna rotondissima e azzurra, uno sguardo altresì in doppia direzione, dal momento che la luna rimanda e ricambia quello sguardo. Si osserva la realtà e si vive di immaginazione, la tradizione scambia tangibili segnali con il futuro, in un continuo gioco di sguardi e di suggestioni.

Concepita ad inaugurare la stagione espositiva 2024/25 e a festeggiare il 140° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Corea e Italia, è immediatamente confessabile quanto si proceda in una sorta di magia attraverso le varie stanze protettive e inaspettate di questa mostra – curata da Davide Quadrio, direttore del museo, e Joanne Kim, critica e curatrice coreana, con Anna Musini e Francesca Filisetti e con gli apporti di Manuela Moscatiello della Maison de Victor Hugo di Parigi, di Kyoo Lee, curatore della sala dello sciamanesimo, Professore di Filosofia alla City University di New York e di Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto -, i vari ingressi alleggeriti da candidi veli bianchi, la tradizione e la contemporaneità strette in forti legami di cui il Mao si è fatto e si fa portavoce, simboli e simbologie, la percezione del rito e la performance artistica, “oggetti rituali, opere e installazioni che accostati tra loro suggeriscono nuove narrazioni, letture e significati”, la bellezza di una cultura pressoché sconosciuta ai molti, le sensazioni avveniristiche che si trovano affiancate a raffinati manufatti coreani provenienti da prestigiose collezioni pubbliche e private, nazionali e internazionali, il parigino Musée Guimet, il Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” di Genova, il Museo delle Civiltà di Roma. Ogni elemento risulta leggero, fluido e aereo, quasi danzante, “tra l’umano e il divino” si spinge ad affermare Quadrio, avvolto nelle musiche di un pianoforte che rivisita Chopin o specchiantesi nella superficie del pavimento che rimanda in un gioco di specchi ogni immagine, ferma o in movimento. Un movimento, l’avanzare di ognuno di noi dettato dalla necessità e dal piacere di “prendersi il tempo giusto per vedere le cose”, per sentire, per cercare emozioni.

Al centro del progetto la figura di Nam June Paik (Seul, 1932 – Miami, 2006), artista centrale nel panorama culturale del XX secolo e considerato uno dei pionieri della video arte. Figlio di un fabbricante tessile, fu allevato nello studio del pianoforte e della composizione, nel ’56 si spostò in Germania dove incontrò e si legò in amicizia con Stockhausen e soprattutto con John Cage, aderì al movimento Fluxus, uno dei primi movimenti d’avanguardia a essere coinvolto nella musica e sviluppatosi negli Stati Uniti e in Germania all’inizio degli anni Sessanta, lavorò su vari progetti con la violoncellista Charlotte Moorman. Nel 1968, allorché la Sony mette sul mercato “Porta Pack”, la prima telecamera portatile, l’artista l’acquista immediatamente e realizza un video sul traffico caotico nel giorno della visita di Paolo VI a New York; nello stesso giorno presenta questo suo primo video e una installazione video: è nato il primo video d’arte della storia. E ancora il premio nel ’93 per il miglior padiglione alla Biennale veneziana, del 2005 “Chinese Memory”, una delle sue ultime opere, ovvero un’installazione contenente un apparecchio televisivo dove pittura libri antenna e una pergamena cinese felicemente coabitano. Un maestro quindi, portatore di un’eredità e di un’importante influenza su chi è venuto dopo di lui, Jesse Chun, Chan-Ho Park e Shiu Jin tra gli altri, debitori di uno sguardo nuovo, di una filosofia che guarda alla spiritualità e al progresso della tecnologia, all’assogettamento al capitalismo contrapposto ad una poetica insita in ciascuno di noi.

Non dovrà – hanno pensato con intelligenza i curatori – il visitatore affidarsi a un percorso “obbligatoriamente” cronologico, ma affidarsi diremmo quasi ai sentimenti, ai pensieri, al gioco di rimandi e riletture, alle metafore che le tappe del percorso suggeriscono. In primo luogo a quell’involucro di elementi sonori, musicali e performativi, che ci lasciano tornare con la memoria all’interesse primo dell’artista. Di sicuro interesse saranno “Sounds Heard from the Moon. Part 2” (2024) che il Mao ha per l’occasione specificatamente commissionato a Jiha Park che “nella sua ricerca utilizza strumenti tradizionali coreani, come il piri, il Saenghwang e il Yanggeum”; e “Nocturne No. 20 dove Kyuchul Ahn propone una rivisitazione della musica di Chopin, completata da una performance (“una scomposizione”, indicano le curatrici) in cui gli 89 martelletti del pianoforte saranno gradualmente rimossi a ogni esecuzione del pianista, portando alla graduale scomparsa del suono.

Con assai più prezioso interesse saltano all’occhio di chi guarda le fotografie a colori chiamate a testimoniare performance, un antico dipinto coreano del XII secolo, una giacca sovrakimono maschile, di fattura giapponese, degli anni Trenta del XX secolo che mostra al suo interno una coppia di conigli intenti a macinare il riso per la preparazione di un dolce tradizionale, come su una parete s’allineano, firmate dall’artista, un’immagine (“Human Cello”, 1984) che rimanda con un’altra lingua alle tematiche di Man Ray o anche a una più o meno scollacciata cinematografia italiana (ma qui non d’obbligo!) degli anni Settanta, e uno strumento (“Plexiglas Cello Tv”, 1989), dove trovano posto corde e altri elementi lignei di violoncello.

Un fitto public program si articolerà nei mesi d’apertura della mostra, dai video di approfondimento alle tante pubblicazioni, da un programma musicale a cura di Chiara Lee e Freddie Murphy alla perdurante collaborazione con il Mercato Centrale, che ha già visto la performance del gruppo coreano GOOSEUNG, per la prima volta in Italia e che proseguirà con una serie di eventi a tema che coinvolgeranno cibo, ritualità e design, “combinando con spirito contemporaneo l’Asia e le sue realtà più sperimentali di arte, cultura e cucina”, sottolineano ancora gli organizzatori.

Elio Rabbione

Gli “Uomini invisibili” attraverso le strade della città

Nella Galleria Umberto I (Porta Palazzo) sino al 3 novembre

ClocharDomus” è una mostra ideata da Raffaele Palma per il CAUS (Centro Arti Umoristiche e Satiriche) giunto ai suoi quarant’anni di attività, quarta espressione in campo artistico rivolta ai senzatetto (“agli autentici clochard e non ai finti clochard”, ci tiene a precisare Palma, accompagnando le parole a precisi gesti di separazione). Il luogo scelto per l’esposizione è la Galleria Umberto I a Porta Palazzo, costruzione di fine Ottocento nata dopo varie ristrutturazioni sull’area di quello che fu il primo ospedale della città, un variopinto ambiente che invita alla scoperta e al passeggio tra caffè e botteghe e gallerie d’arte, sino a domenica 3 novembre, con ampi orari, dal lunedì al sabato dalle 7,30 alle 23,30 e la domenica dalle 9,30 alle 20.

Quarantatré gli artisti partecipanti con le loro opere pittoriche allineate agli altrettanti lampioni della galleria, acrilici su telo in PVC di un metro per un metro, a ricreare ognuno con il proprio personale sguardo il mondo di chi ha bisogno di un bene materiale e di un affetto, di chi a volte cocciutamente e pericolosamente continua a vivere per la strada, di notte e di giorno, di chi ha fatto di un angolo della città il proprio ricovero, di chi ha accettato di servirsi delle strutture che il Comune da anni mette a disposizione. È un’osservazione dal vero, guardando ai diversi habitat, sui marciapiedi, sulle panchine di un giardino, le file che si formano davanti a quei centri che possano garantire un pasto caldo a pranzo e a cena, siano San Vincenzo o Cottolengo o l’uscita secondaria di una qualche struttura militare dove gli avanzi del rancio della giornata possono essere più abbondanti. È l’osservazione dei tanti oggetti che formano le “domus” dei tanti clochard che vediamo fermi, al riparo tra le vie del centro, o spinti a girovagare per le strade; sono i carrelli che trasportano ogni cosa, la casa di ognuno, sono i cartoni e le coperte non poche volte sudicie, le stuoie e le bottiglie e le lattine, i barattoli e le confezioni di cibo che qualche passante offre, sono quei piccoli cani che li accompagnano, anch’essi intontiti in condizioni sempre più precarie.

Il tema del barattolo può essere considerato un po’ il marchio della mostra, l’elemento primo di riferimento, riprendendo dalla memoria – come ha fatto Giancarlo Laurenti, con quell’uomo privo di tratti ma da tutti identificabile, abituato a spingere il suo carrello, in direzione di un altro simile, più bisognoso di lui – quei “barboni” – un tempo li chiamavamo così – che si portavano appresso, e si presentavano alle mense, il contenitore fuori uso di pelati ed erano più o meno affettuosamente chiamati “brigata Cirio”: per quel “barachin” che aveva contenuto, in tempi migliori, il contenuto della famosa casa torinese. “C’è chi ricorda – sottolinea Palma, presentando la manifestazione – che anche la minestra distribuita in queste strutture fosse rossa perché cucinata con il pomodoro pelato donato dalla Cirio.”

Immersi in vite dignitose e in altre decisamente disperate, le psicologie colte precise in brevi tratti, fierezza e rabbia, solitudine e paura, gli artisti hanno saputo ricreare differenti mondi. Cristina De Maria allinea su colori verdi l’uomo e i suoi cani, nello scorcio geometrico della città si nasconde quasi a raggiungere l’invisibilità l’uomo di Pippo Leocata, a ricordare (a reclamare?) con la casa una cucina e un letto, i suoi effetti e i suoi affetti, mentre un dito indica con timidezza il contenitore delle elemosine sotto lo sguardo affettuoso di un cane. Nella limpidezza della tela la palese chiarezza e la signorilità di una piccola opera d’arte. Luigia Moriondo con le due scarpe in primo piano pare rimandare al caravaggismo di un tempo, rinfrescato di aria attuale, Rosa Maria Lo Bue trova un bello scorcio di un’immagine che abbraccia allo stesso tempo l’uomo il cane e la mano antica, ritorna ai piedi nudi e, con un bellissimo particolare, alle mani a scodella Vinicio Perugia, mentre appare come un’isola sospesa nel vuoto del mondo che lo circonda tutto quanto il clochard di Nicoletta Nava possiede. L’angolo che Pinuccia Cravero ha immaginato ha le sembianze di una casa intera, Angela Betta Casale mette in bocca al suo soggetto raggomitolato a terra la triste realtà di “io sono nessuno”, Franco Negro avvolge ogni cosa nel blu intenso della notte, Adelma Mapelli scolpisce uno dei tanti uomini invisibili della mostra contro il muro imbrattato della città, definendolo con autentica bravura in un momento di disperata stanchezza.

Elio Rabbione

Nelle immagini, le opere di Pippo Leocata, Adelma Mapelli e Giancarlo Laurenti, tra gli altisti che partecipano alla mostra “ClocharDomus” ideata da Raffaele Palma.

Raffaella Bona e Diego Dominici in “Sentenze”

Sentenze è stato il titolo di una mostra ospitata ai Docks Dora, una riflessione sulla libertà e l’accettazione della complessità umana da parte di due artisti Raffaella Bona e Diego Dominici, che si esprimono rispettivamente attraverso i progetti “Pene capitali” e “Parafilia”.

Raffaella Bona e Diego Dominici condividono numerosi punti in comune, pur affrontando tematiche diverse. Entrambi esplorano la complessità della condizione umana, ponendo al centro delle loro opere una riflessione critica sulle norme sociali, sugli stereotipi e sulle dinamiche di potere che influenzano l’identità e la sessualità. Utilizzano le loro opere come strumento di critica verso le convenzioni e i ruoli sociali imposti. Bona affronta la condizione femminile trasformando la violenza in un’ironia liberatoria. Dominici utilizza la maschera per rappresentare la dualità tra l’apparenza esterna e la realtà interiore, esplorando la frammentazione dell’individuo e la repressione dei desideri più intimi.

Un tema centrale nei due progetti è quello della libertà individuale e collettiva. Bona invita a superare i ruoli di genere tradizionali per una società più equa e priva di violenze di genere; Dominici propone una visione di accettazione della diversità sessuale e della complessità umana andando oltre il concetto di devianza. L’obiettivo, in entrambi i casi, è liberare gli individui dagli stereotipi e dalle costrizioni sociali.

Sono queste, opere che non temono di essere provocatorie. Bona utilizza immagini forti come quelle del pene impiccato o ghigliottinato per evidenziare l’oppressione femminile, mentre Dominici si avventura in territori tabù, come la parafilia, per stimolare una riflessione sulle norme sessuali e sociali. Si sfida il pubblico a considerare prospettive alternative e a riflettere sulle convenzioni. Nonostante la diversità dei temi, entrambi i progetti promuovono un messaggio di eguaglianza. Bona cerca una parità autentica tra i generi, dove le donne non siano più relegate a ruoli marginali, mentre Dominici, attraverso l’uso della maschera come simbolo universale, suggerisce che tutti condividano fragilità e luoghi comuni, desideri comuni, eliminando le barriere tra normalità e devianza.

Entrambi gli artisti cercano di abbattere gli stereotipi e di proporre nuovi modelli di identità. Bona immagina un futuro in cui gli uomini siano finalmente liberi da ruoli di potere imposti e dalle gabbie del maschilismo, mentre Dominici propone una visione in cui l’identità sessuali siano fluide e accettate nella loro complessità, libere da giudizi morali.

Sia Raffaella Bona sia Diego Dominici utilizzano l’arte per indagare e sfidare le strutture di potere e controllo che governano le dinamiche di genere e sessualità, proponendo una visione più libera, inclusiva e consapevole dell’identità umana.

Raffaella Bona, architetto e talentuosa ceramista, attua una costante sperimentazione attraverso la trasformazione della materia (grès e porcellana) abbinata all’uso del metallo (ottone e bronzo) e di altri elementi. L’espressione della forma, esaltata e vivificata dalla materia stessa, così come l’interesse tattile dei materiali, si traduce nella creazione di pezzi unici realizzati esclusivamente a mano.

Nella sua collezione “Penelope” affronta il tema della condizione femminile, intrecciando una visione duale che ruota attorno alla rappresentazione del pene, simbolo della mascolinità. Il titolo “Le Pene capitali” gioca con le parole, invitando lo spettatore a cogliere ironia e leggerezza che permeano le sue opere, in netto contrasto con la sofferenza femminile legata a un ruolo sociale ancora marginale rispetto alla libertà e al potere.

Attraverso immagini potenti come il pene impiccato, ghighiottinato o impalato l’artista stabilisce per contrasto un’analogia con la condizione della donna.

Il linguaggio forte e al tempo stesso provocatorio diventa strumento di comunicazione di un messaggio di liberazione e compassione, invitando a sconfiggere i mostri interiori e a immaginare nuovi modelli maschili.

Il progetto ‘Parafilia’ di Diego Dominici, fotografo, esplora in profondità la complessità della condizione umana attraverso una lente provocatoria e riflessiva, concentrandosi sui comportamenti che la società considera devianti o patologici, in particolare legati alla sessualità. Il termine “parafilia” deriva dal greco “para” (oltre) e filia( amore) e diventa un punto di partenza per affrontare la tensione tra desideri intimi e normatività sociale.

Attraverso le sue opere Dominici cerca di rappresentare le dinamiche nascoste della psiche umana, mettendo in luce i desideri e impulsi che spesso vengono repressi o stigmatizzati. Le parafilie, considerate come espressione di devianza, vengono qui individuate quale riflesso della complessità e della pluralità dell’espressione umana, offrendo una prospettiva alternativa e più inclusiva sulla sessualità e le sue sfaccettature.

Uno dei simboli centrali del progetto rimane la maschera, che Dominici utilizza come metafora della dualità tra l’apparenza esteriore e la realtà interiore. La maschera diventa un veicolo attraverso cui l’artista rappresenta le emozioni e gli impulsi nascosti, che spesso devono essere celati a causa di convenzioni sociali o per paura del giudizio. Questo crea una potente dicotomia tra l’immagine pubblica e la dimensione privata dell’individuo, evidenziando la frammentazione dell’essere umano, costretto a dividersi tra il sé che mostra agli altri e il sé autentico.

L’opera di Diego Dominici invita il pubblico a riflettere sul valore della diversità e a riconoscere che la autentica libertà nasce dall’accettazione della complessità che ci caratterizza come esseri umani.

 

Mara Martellotta

 Opera Viva Barriera di Milano, Camouflage con l’opera Far Fall di Davide Dormino

Quest’anno il tema della decima edizione di “Opera Viva. Barriera di Milano. il Manifesto”, progetto sul pre-esistente di Alessandro Bulgini, è dedicato al camouflage. Il settimo appuntamento è con l’opera “Far Fall” di Davide Dormino, lunedì 14 ottobre prossimo alle 18.30 in piazza Bottesini a Barriera di Milano.

Uno spazio urbano di 6×3metri in piazza Bottesini diventa un manifesto di pubblico dissenso nascosto in piena vista. Nel caso dell’artista Davide Dormino si tratta di un simpatico gattino stilizzato che cerca di intrappolare una farfalla nel suo retino. Il gatto è il predatore, la farfalla la preda. Il gatto è il nemico camuffato, la farfalla il nostro spirito libero sul punto di venire intrappolato. Una scena all’apparenza innocente che potrebbe raccontarci una storia tutt’altro che a lieto fine.

Tanto nella cultura orientale quanto in quella occidentale, la farfalla è un simbolo ricorrente, dall’iconografia cristiana fino alle arti visive, nei dipinti di van Gogh, di Hiorenymus Bosch, nelle nature morte fiamminghe, nei kimono giapponesi. È un’allegoria dell’anima, della salvezza, della metamorfosi. Non a caso il termine greco “psyché” indica l’anima, ma significa anche farfalla. Ecco perché nella tradizione ellenistica la giovane Psiche è rappresentata con ali di farfalla. Da qui l’analogia anima farfalla, o soffio vitale che sfugge all’uomo in punto di morte.

Per il settimo manifesto camouflage l’artista Davide Dormino, nativo di Udine, si è appropriato di uno sticker whatsapp da un pacchetto creato da Jerrod Maruyama, Cutie Pets, dolcissimi amici graziosi e simpatici, a cui ha dato liberamente il titolo di Far Fall.

“In inglese l’espressione si traduce come “caduta lontano, cade lontano”, così come l’immagine in questione è distante in tutto – spiega Davide Dormino – dalla mia ricerca estetica e concettuale. Rinnegare, tradire, censurare se stessi quando il sangue bolle dall’altra parte diventa un atto di resistenza ancora più incisivo perché è la dichiarazione che esiste un problema radicato nel sistema”.

Con questa dichiarazione Dormino intende denunciare quanto l’arte sia costretta talvolta a piegarsi alle logiche di mercato.

Realizzando un’opera antitetica, lontana dalla sua consueta pratica artistica, Far Fall concorre a completare l’opera di dissenso corale di “Opera Viva Barriera di Milano il Manifesto“, nascondendo in piena vista un credo personale, una necessità, un’idea ei camouflage.

 

Mara Martellotta

Le “Variazioni” a colori di Enrico Vanzina

Nella Cripta di San Michele Arcangelo, fino al 27 ottobre

A irrobustire il lungo progetto iniziato nel 2020, Enrico Vanzina – lui e il cinema, i primi passi con papà Steno, la passione per le sceneggiature disposte a mettere allo scoperto i tanti vizi e le poche virtù di un’Italia sempre più piccola, produttore, scrittore che ha dato alle stampe tra l’altro il “ritratto di un paese che non cambia” come quello del fratello Carlo prematuramente scomparso sei anni fa – prosegue con “Atlante Pop”, affidato all’organizzazione di Mauric Renaissance Art e alla curatela di Giuseppe Biasutti e Marcello Corazzini, il suo sguardo, pubblico e privato, sull’Immagine e sulle immagini che si sono impossessate della nostro quotidiano. Immancabile il passaggio dall’immagine in movimento a quella fissa: “Non c’è da stupirsi se un uomo di cinema come Enrico Vanzina – annotava Francesco Poli in una precedente mostra di eguali soggetti -, immerso da sempre nelle immagini in movimento, si dedichi anche, per conto suo come fotografo, alla realizzazione di immagini fisse. Ma l’aspetto interessante e intrigante, è che Vanzina ha utilizzato tecniche fotografiche caratterizzate da una specifica connotazione artistica, con particolari valenze sperimentali e metalinguistiche… si tratta di lavori che si collegano alla gloriosa tradizione dei foto-collage d’avanguardia (in particolare quelli dadaisti, neo-dadaisti e pop) ma sostituendo la forbice e la colla con interventi digitali.” Per dirla con Giuseppe Biasutti, in un tempo di maggiore attualità, “una fotografia è l’orizzonte dell’arte e ammette innumerevoli sconfinamenti.”

Sconfinamenti che sono variazioni, diciotto per l’esattezza, rappresentazioni su un palcoscenico felicemente pop. E allora sono gli oggetti, i ricordi privati come una camera d’albergo, un paesaggio tutto torinese che accomuna un volto di donna e la Mole, o un altro che rende omaggio al De Chirico di un interno metafisico che racchiude la grande fabbrica; e allora sono i volti di Mina biondissima e unghie laccate di un rosso vivissimo – era “Milleluci” di cinquant’anni fa? -, o di Albertone Sordi alle prese con il suo pantagruelico piatto di pasta (“maccarone, m’hai provocato e io te distruggo, me te magno!”), incastonato nella piazza Santi Apostoli vuota e piovosa, o della signorina Chanel, eterna sigaretta tra le labbra; e allora è il volto di Marilyn negli scatti di Sam Shaw e nei colori di Wharol, nelle immagini che ci lasciano intendere quanto “Diamonds Are a Girl’s Best Friend” o quanto sia sensuale augurare buon compleanno a mister President; e allora è il cinema alto, Hollywood e dintorni, dove campeggiano il Billy Wilder dell’eterno “Some Like It Hot” e il nome di Stanley Kubrick, maestro insuperato. E ancora idee, suggestioni, momenti, realtà e invenzioni lunghe decenni, rappresentazioni e set, un amore senza fine, posti in cui sentirsi bene, passioni e memorie, una cultura impareggiabile. Una società che un artista ha saputo e continua a raccontare, un panorama che ci coinvolge, “un atlante” definisce la mostra Biasutti, in cui è bello perdersi.

Suggestioni che crescono in quell’ambiente nuovo e per molti versi ricercato al riparo del quale Enrico Vanzina trova spazio per le tessere del suo atlante, quella Cripta di San Michele Arcangelo di fine Settecento che s’affaccia sulla piazza Cavour (da mercoledì a domenica dalle 15 alle 19, sino al 27 ottobre), spazio antico, pronto a mettere a disposizione di uno sguardo moderno quella sua certa magia che può incantare oggi il visitatore.

Elio Rabbione

Nelle immagini, di Enrico Vanzina “Variazione Torino”, 2022, fotografia a colori; “Variazione Mina”, 2024, fotografia a colori; “Variazione Chanel”, 2024, fotografia a colori.

The Others, nuova sede e 50 espositori provenienti dall’Italia e dall’estero

 

Un programma collaterale ricco di eventi per il pubblico,

tra cui live performance con gli studenti delle

 Accademie di Belle Arti di Vienna e Bratislava

Alla sua XIII edizione The Others sceglie la sua nuova casa, in una location che rappresenta a pieno lo spirito internazionale ed inclusivo della fiera: il Centro di Formazione Internazionale dell’ILO 

Il Mondo come principio di armonia cosmica e connessione con l’universo. La XIII edizione di The Others, che si terrà quest’anno dal 31 ottobre al 3 novembre, vuole celebrare, attraverso le opere esposte ed un ricco programma collaterale, l’arte come percorso, come viaggio, come punto d’inizio e punto d’arrivo.  La fiera d’arte indipendente – ideata da Roberto Casiraghi e Paola Rampini, con la direzione artistica di Lorenzo Bruni – amplifica infatti la sua vocazione ‘nomade’, eclettica e internazionale cambiando casa e approdando all’interno del Centro Internazionale di Formazione dell’ILO – Organizzazione Internazionale del Lavoro. Un’area extraterritoriale a Torino, simbolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e Centro Internazionale d’eccellenza nella formazione continua, oltreché vero crocevia di multiculturalità e inclusività quale punto di riferimento a Torino per studenti, professionisti, diplomatici e politici provenienti da tutto il mondo.

 

Un ambiente cosmopolita, dinamico, vivace e creativo, che quotidianamente mescola storie, incontri e competenze all’avanguardia e che riflette a pieno l’identità di The Others, da sempre in ascolto verso un sistema dell’arte in continuo cambiamento. Sono infatti 50 gliespositori attesi in questa edizione, provenienti da tutta Italia e dal mondo, tra cui Argentina, Finlandia, Lituania, Slovacchia, Spagna e Perù. La Fiera aprirà al pubblico le porte di questa sede unica per quattro giorni e accompagnerà i visitatori in un vero viaggio alla scoperta del lavoro di artisti affermati e talenti emergenti, tra linguaggi, generazioni e provenienze differenti.

 

 

L’IMMAGINE GUIDA 2024

L’immagine della tredicesima edizione è stata disegnata dall’illustratrice Elisa Talentino che ha lavorato per sintesi all’arcano maggiore de Il Mondo, a partire dall’iconografia delle carte di Marsiglia, una delle rappresentazioni più antiche dell’immagine.

 

L’artista ha ricondotto la figura all’essenza, mantenendo la figura femminile centrale che danza e la mandorla che la contiene, conosciuta anche nell’iconografia sacra come Mandorla Mistica o Vesica Piscis. Secondo alcuni miti greci la mandorla sarebbe anche la vulva della Dea Cibele, riconducibile al concetto di fecondità e di conseguenza simbolo universale di creazione e creatività.

La figura femminile tiene in mano una stella, la cui forma è la stessa della stella a cinque punte posta sulla guglia della Mole Antonelliana.

 

L’ultimo degli arcani maggiori narra inoltre un’idea di totalità, di completezza. Unifica differenziando, questo è il significato che The Others vuole sottolineare nei progetti artistici presentati.

 

I TEMI DELLA XIII EDIZIONE

Il tema del viaggio rappresenta infatti il fil rouge di questa edizione e abbraccerà molti dei progetti che saranno proposti in Fiera. Come mostra la galleria solocontemporaneo di Buenos Aires, attraverso i lavori di cinque artiste argentine “nomadi” che nel loro peregrinare sono entrate in contatto con culture e sensibilità diverse. Le opere dell’artista Vero Murphy, ad esempio, sviluppano il concetto delle culture ibride e della memoria, gli oli e gli acquerelli di Silvia Salvagno esplorano i temi del cambiamento costante e della fragilità della vita, Sandra Botner porta avanti la sua ricerca attraverso la commistione di linguaggi, dalla video arte alle performance artistiche, così come le installazioni di Valeria Yamamoto traggono ispirazione dallo studio delle forme organiche che si trovano nella natura che ci circonda e i dipinti di Karina Chechik approfondiscono inoltre la relazione tra l’uomo e l’ambiente, con paesaggi che simboleggiano sia punti di origine che di destinazione.

 

La ricerca sul tema del viaggio viene affrontata anche da Almach Art Gallery che presenta le opere di Anna Pennati in dialogo con gli autori emergenti di Youngarthunters con cui condividerà lo stesso spazio, in un progetto espositivo ispirato proprio al senso dell’esplorazione. Artista di grande esperienza, Anna Pennati porta l’astrattismo ad un livello visivo e sonoro, fungendo da chiave di comprensione per l’inizio del tragitto. In parallelo, ogni artista emergente ha concentrato la sua esperienza culturale nelle proprie pitture, sculture e installazioni dove protagonisti sono i tratteggi labirintici di Ylenia Pigozzo, in arte Ipsilonpi, le figure preistoriche sottomarine con sculture e delicate pitture ad olio di Liubov Bochkova, i dipinti surreali di tinture armoniose e luoghi sospesi di Martyna Pietrasik e le figure femminili di Mauro Valsecchiin viaggio attraverso architetture organiche che richiamano le ‘Città Invisibili’ di Italo Calvino, ricordando a chi le osserva la monocromia incisoria delle stampe d’autore.

 

L’idea di completezza espressa dall’immagine guida di The Others è ad esempio interpretata dallo spazio espositivo ARTbite Project di Nicoletta Rusconi, che presenta ‘All-Around’ con i lavori di Arjan Shahaj (Patos, Albania, 1989), neo finalista del premio Cairo, e di Jaime Poblete (Santiago del Cile, 1981), reduce dalla collaborazione con la maison Gucci. Il titolo ‘All-Around’ allude alla forma scelta dagli artisti per le due opere in mostra, simbolo di circolarità e unione tra tecniche, popoli e ambiente.

 

Al tema della libertà e del coraggio sono dedicati anche numerosi progetti, a cominciare da quelli presentati dalla galleria Area/B che parlano della volontà di vivere secondo i propri desideri senza imposizioni esterne. Nei dipinti di Antonio Bardino, ad esempio, non vengono rappresentate piante curate e ‘dominate’ dall’uomo, ma l’artista ritrae gli elementi vegetali in modo lussureggiante, metafore del senso di libertà e della lotta contro le avversità del mondo. Nei lavori di Irena Balia troviamo riferimenti a canzoni, poesie, eventi quotidiani che indagano la costante ricerca di bellezza, il desiderio di restare per sempre giovani, in una società che non accetta l’invecchiamento. E così anche Loredana Galante, che utilizzando l’arte del ricamo per riflettere sulla contemporaneità, prova a smantellare i pregiudizi sul corpo femminile ritraendo in una serie di ricami donne nude, orgogliose del proprio corpo e che lo mostrano senza vergogna.

 

Al sentimento di libertà è dedicato anche il progetto presentato dalla galleria Raw Messina, intitolato ‘Youth’ dove figurano opere scelte in base al sentimento che esprimono, l’atmosfera e il momento della giovinezza che gli artisti hanno voluto rappresentare. Dalle pitture di Pax Paloscia che concentra la sua ricerca figurativa proprio sul sentimento di possibilità e libertà tipico della pre-adolescenza e dell’adolescenza, alla selezione da “Wykofer”, l’isola che non c’è di Juliette Wayenberg fino ai e alle bagnanti di Annalaura Tamburrini e alle pagine di diario di una ragazza di città di Berta Aguilar Pujol.

 

Attraverso lo sguardo dell’arte, The Others proporrà dunque anche quest’anno molteplici letture e riflessioni sul nostro tempo, che saranno amplificate anche grazie all’ampio public program con talk, presentazioni e incontri, che offrirà ai visitatori un’esperienza sempre più partecipata della creatività contemporanea e dei suoi linguaggi. Tra gli appuntamenti di punta, il ricco programma di live performance che nei giorni della fiera proporrà le esibizioni degli studenti delle Accademie di Belle Arti di Vienna e Bratislava.

 

 

IL BOARD CURATORIALE 

Il board curatoriale dell’edizione 2024 di The Others Art Fair è guidato per il quinto anno da Lorenzo Bruni nel ruolo di Coordinatore. Critico e curatore d’arte, nato a Firenze, attualmente vive a Roma. Negli ultimi anni insegna in varie Accademie italiane Storia dell’Arte, Storia della Stampa e dell’editoria e Museologia, mentre all’Accademia di Belle Arti di Firenze è professore di Culture Digitali.

 

Riconfermate Lýdia Pribišová e Daniela Grabosch come parte del Board. Lýdia Pribišová, curatrice e storica dell’arte che vive a Bratislava, in Slovacchia. Nel 2024 è curatrice della rappresentanza slovacca alla 60° Biennale di Venezia con il progetto Floating Arboretum di Oto Hudec. Dal 2020 al 2024 ha lavorato come curatrice alla Kunsthalle di Bratislava, nello stesso periodo è stata presidente della sezione slovacca dell’AICA. È membro del team di Trenčín Capitale Europea della Cultura 2026.

Daniela Grabosch, artista viennese la cui pratica performativa migra tra mezzi performativi, digitali e fisici, ha conseguito un MFA in Arte Performativa presso l’Accademia di Belle Arti di Vienna, un BFA in Belle Arti e Media Digitali presso la Hochschule di Düsseldorf e le sue opere sono state esposte in varie mostre internazionali.

 

Si aggiunge al board curatoriale, dopo l’esperienza dello scorso anno come coordinatrice del Public Program, anche la consulente d’arte, autrice per Rizzoli illustrati, personaggio televisivo e radiofonico oltreché digital content creator, Elisabetta Roncati che nel 2018 ha fondato il marchio registrato Art Nomade Milan, con cui si occupa di divulgazione digitale sui principali social media (Instagram e Tik Tok @artnomademilan).

 

 

LO SPAZIO ESPOSITIVO NEL CENTRO INTERNAZIONALE DI FORMAZIONE DELL’ILO (ITCILO)

La fiera sarà allestita all’interno del Padiglione Americas 2, una delle palazzine che costellano il Centro Internazionale di Formazione dell’ILO. Un edificio a più piani e ambienti sovrastato da una doppia cupola in vetro dal design geometrico che illumina l’intero spazio. È questo il cuore pulsante di The Others 2024 che ritorna alle origini, in uno spazio espositivo che assegna a ogni espositore un’area riservata all’interno delle numerose stanze, tra room e suite, per favorire il dialogo tra artisti, collezionisti e visitatori in un intreccio di punti di vista diversi fra gallerie, spazi non profit e artist run spaces, espressione di un mondo in costante cambiamento a cui la fiera vuole dare voce.

 

Sulle rive del Po, invece, il pubblico potrà usufruire di tutti i servizi del Campus: dal ristorante alla carta al self service, tra le ricette provenienti dal mondo e la cucina multietnica, senza dimenticare l’area chill-out esterna sul prato, tra bar e lounge sia interna che esterna, affacciata sul parco del Valentino, per un momento conviviale che avvicini l’arte al pubblico, ma che spinga anche l’incontro fra artisti, curatori, critici, collezionisti, intellettuali e giovani.

 

La XIII edizione di The Others rappresenterà un’occasione unica per varcare la soglia dell’ITCILO e respirarne la sua vocazione internazionale, esplorandone gli spazi in occasione della fiera di arte contemporanea. 

 

I visitatori avranno a disposizione un servizio gratuito continuativo di navette, che metterà in comunicazione The Others con le fermate della metropolitana Lingotto e Italia ’61, e Artissima. Il servizio sarà attivo da giovedì 31 ottobre a domenica 3 novembre.

 

«The Others 2024 raggiunge il massimo livello di simbiosi tra contenitore e contenuto: internazionale, multidisciplinare, inclusivo, rigoroso – racconta Roberto Casiraghi, ideatore della fiera, che prosegue – ci troviamo in uno spazio extra territoriale, riservato e libero al tempo stesso, che necessita del rispetto assoluto delle regole, condizione indispensabile perché la creatività possa dare ampio sfogo alla fantasia dell’arte ed offrire al pubblico una moltitudine di chiavi di lettura tutte affascinanti».

 

The Others è realizzata con il patrocinio e il sostegno di Regione Piemonte, Città di Torino, Camera di commercio di Torino, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT.

 

ELENCO ESPOSITORI THE OTHERS XIII EDIZIONE

 

10B PHOTOGRAPHY GALLERY (Roma, Italia)

A.MORE GALLERY (Milano, Italia)

AD GALLERY (Firenze, Italia)

ALMACH ART (Milano, Italia)

AREA/B (Milano, Italia)

ARTÁGORA (Siviglia, Spagna)

ARTBITE PROJECT (Agrate Conturbia, Novara, Italia)

ARTRA (Milano, Italia)

BIANCHIZARDIN (Milano, Italia)

BIG EYES ART GALLERY (Bologna, Italia)

BLOC ART PERÙ (Lima, Perù)

BOA SPAZIO ARTE (Bologna, Italia)

BONOBOLABO (Bologna, Italia)

CARACOL ART GALLERY (Torino, Italia)

CERAVENTO (Pescara, Italia)

ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA (Milano, Italia)

CONTEMPORARY CLUSTER (Roma, Italia)

CONTOUR GALLERY (Vilnius, Lithuania)

CRAG GALLERY (Torino, Italia)

CRUMB GALLERY (Firenze, Italia)

D406 DISEGNO CONTEMPORANEO (Modena, Italia)

DIE MAUER (Prato, Italia)

GALLERIA D’ARTE EDARCOM EUROPA (Roma, Italia)

ESH GALLERY (Milano, Italia)

FEBO E DAFNE (Torino, Italia)

FLATGALLERY (Bratislava Slovacchia)

STUDIO GODOT (Cascina, Pisa, Italia)

LUSVARDI ART GALLERY (Milano, Italia)

MA-EC GALLERY MILANO (Milano, Italia)

MONOCROMO CONTEMPORARY (Roma, Italia)

MYYMÄLÄ2 (Helsinki, Finlandia)

PAVART GALLERY (Roma, Italia)

GIANLUCA RAMINI ART DEALER (Castel San Pietro Terme, Bologna, Italia)

LUCA RAZZANO (Chivasso, Torino, Italia)

RAW MESSINA (Roma, Italia)

ROCCAVINTAGE (Torino, Italia)

SILVIA ROSSI | ART GALLERY (Bibbiena, Arezzo, Italia)

SOLOCONTEMPORANEO (Buenos Aires, Argentina)

STAYONBOARD ART GALLERY (Milano, Italia)

UNIQUE CONTEMPORARY (Torino, Italia)

YOUNG ART HUNTERS (Milano, Italia)

Aggiornato al 3/10/2024

Marco Tadić rilegge giocosamente il modernismo socialista jugoslavo

Le opere dell’artista croato esposte al “PAV” di Torino

Fino al 20 ottobre

“Heliopolis”. Utopica “Città del Sole”. Città su Città. Ricreata con gioiosa artistica fantasia come filosofico “stato ideale” – la seicentesca “civitas solis” di Tommaso Campanella – o ripensando all’“Eliopoli” egiziana distrutta, nell’antico Regno, per riutilizzarne i materiali e le pietre durante la costruzione della città del Cairo. Questo sono istintivamente portato ad immaginare di fronte alle opere dell’artista croato Marco Tadić (classe ’79), ospitate, fino a domenica 20 ottobre, al “PAV” – “Parco d’Arte Vivente”, concepito nel 2002 da Piero Gilardi e realizzato nel 2008 in via Giordano Bruno, a Torino, nell’area ex Framtek, in Borgo Filadelfia. Curata da Marco Scotini (dal 2014 direttore artistico del “PAV”) – e realizzata in collaborazione con il “Museum of Contemporary Art Zagreb” – l’esposizione é parte di “New Perspectives for Action” progetto europeo teso al riuso e alla circolarità “non solo come strategia ecologica e culturale, ma soprattutto come mezzo utopico di sopravvivenza”, in cui l’artista ha come chiaro obiettivo quello di rileggere la storia del “modernismo socialista jugoslavo” attraverso il confronto interattivo con i principi estetici di grandi autori operanti, alla fine degli anni ’50, in Croazia.

Due su tutti. Il designer, scultore ed architetto Vyaceslav Richter (1917 – 2002), fra i fondatori di “EXAT 51” gruppo d’avanguardia che intendeva promuovere e raggiungere una sintesi e un forte interscambio fra tutte le forme d’arte,  ed il filmaker Vladimir Kristi (1923 – 2004) della “Scuola di animazione” di Zagabria”, di massimo rilievo in ambito europeo. Su questa linea “Tadić individua – annota Scotini – nei residui inerti della memoria un potenziale attivo utile a rileggere e a generare nuove possibilità di narrazione”. Un’operazione di “riciclo”, attraverso cui ipotizzare “su carta” (mediante il riutilizzo e la “sovrascrizione” di oggetti d’antàn come cartoline, mappe, diapositive taccuini ed archivi fotografici personali) idee e ideali di città rispondenti ai richiami e alle “improbabili” visioni di nuovi luoghi su cui e attraverso i quali ipotizzare nuove futuribili idee di vissuto sociale. Del resto lo stesso Richter, del quale sono presenti in mostra una serie di opere originali, dedicò quasi due decenni della sua vita al perfezionamento di “progetti tecno-utopici” in ambito urbanistico che tentavano di rispondere, attraverso la pianificazione, ai bisogni specifici di una società socialista: ridurre i tempi della mobilità per garantire più tempo libero.

Così anche Tadić, guardando alle fantastiche visioni di Richter, immagina e progetta la sua “idea di città”, destreggiandosi fra immaginari fantascientifiche e complesse “riflessioni ecologiche”, giocate su disegni, collage e animazioni per riflettere – alla Benjamin – sul “come fare Storia partendo dai rifiuti della Storia”. Sottolinea ancora Scotini: “Attraverso la miniaturizzazione Tadić trasforma i detriti e gli scarti in giocattoli in senso benjaminiano … In ‘Heliopolis’ l’opera dell’artista rilegge Vyaceslav Richter per proporre un modello che miri a stabilire un ritmo armonioso nel metabolismo della società, alla continua ricerca di un delicato equilibrio tra costruzione e cancellazione, tra futuri possibili e trasmissione della memoria”.

Da segnalare. Nell’ambito della mostra le “AEF/PAV” (Attività Educative e Formative) propongono mercoledì e giovedì 4 luglio il “Workshop_81” condotto dallo stesso Tadić e rivolto a studenti dell’Accademia, Universitari e giovani artisti con un focus su uno dei medium dell’artista: l’“animazione in stop-motion.

Per le scuole e i gruppi estivi che visiteranno “Heliopolis” e le installazioni presenti nel parco di 23.500 mq, viene inoltre proposto il laboratorio “Natura Segreta” che esplora il vasto paesaggio del “PAV” come scenario per una nuova visione, tanto utopica quanto reale, di una possibile “Città Futura”.

Gianni Milani

 “Marko Tadić. Heliopolis”

“PAV – Parco Arte Vivente”, via Giordano Bruno 31, Torino; tel. 011/3182235 o www.parcoartevivente.it

Fino al 20 ottobre

Orari: ven. 15/18, sab. e dom. 12/19

Nelle foto:

–       Marko Tadić: “Funga Robo/The Fair”, Collage, 2024

–       Marko Tadić: “Sava next”, Collage, drawing, 2023

–       Marko Tadić: “Museum of the Revolution”, Collage, 2024

–       Vjenceslav Richter: “Synthurbanism”, 1963-1964

Scatti fotografici davvero mondiali! A Torino la “World Press Photo Exhibition”

A Palazzo Barolo per la sua 67^ edizione

Fino al 24 novembre

Dolore senza confini. Inimmaginabile sofferenza. Specchio delle più inaccettabili bruttezze umane. Già ribattezzata “La Pietà di Gaza” con richiamo attuale a “La Pietà” michelangiolesca è “Una donna palestinese stringe il corpo senza vita di sua nipote”, scattata da Mohammed Salem per l’agenzia “Reuters” il 17 ottobre 2023, all’interno dell’obitorio dell’ospedale “Nasser”, la foto vincitrice del “World Press Photo of the Year 2024”, la più prestigiosa mostra di fotogiornalismo al mondo, nata nel 1955 per iniziativa di un gruppo di fotografi olandesi e che, da allora, “offre uno spaccato unico della storia contemporanea, permettendoci di riflettere sugli eventi e sui temi cruciali del nostro tempo”. E anche quest’anno, Torino sarà fra le cento città principali di tutti i continenti (a livello globale si stima che l’esposizione sarà visitata da oltre 3milioni di persone) chiamate dalla “World Press Photo Foundation” – organizzazione indipendente con sede ad Amsterdam – ad ospitare la mostra. Non per la prima volta. Sotto la Mole, infatti, l’esposizione (che ha coinvolto sei giurie regionali ed una globale, presieduta da Fiona Shields, responsabile della fotografia al “The Guardian”) torna per l’ottavo anno consecutivo ed è organizzata da “Cime”, partner della “World Press Photo Foundation”. L’apertura al pubblico è prevista per venerdì 13 settembrealle 16, nelle sale di “Palazzo Barolo”, al numero 7 di via delle Orfane, dove si potrà ammirare la bellezza di 130 scatti, firmati per le maggiori testate internazionali, come “National Geographic”“BBC”“CNN”“Times”“Le Monde” e “El Pais”“immagini che offrono una panoramica sul presente – sottolineano gli organizzatori – e rappresentano un’opportunità per un viaggio critico nell’attualità, affrontando questioni come le guerre in Palestina ed in Ucraina, la vita dei migranti, l’emergenza climatica”. Immagini fra le quali troveremo, per l’appunto, quella vincitrice (di cui sopra) scattata dal fotografo palestinese Mohammed Salem, 39 anni, pochi giorni dopo (spietata coincidenza!) essere diventato padre e che parla della sua foto come un “momento potente e triste che riassume il senso più ampio di ciò che stava accadendo nella Striscia di Gaza”.

Suddiviso in sei aree geografiche (Africa, Asia, Europa, America del Nord e Centrale, America del Sud, Sudest Asiatico e Oceania), il “Premio” ha visto quest’anno la partecipazione di ben 61.062 fotografie, inviate da 3851 fotografi, provenienti da 130 Paesi, in un processo di selezione, da parte della Giuria, che ha richiesto due mesi di intenso lavoro, tra gennaio e febbraio 2024. Quattro le categorie in cui è suddiviso il concorso: SingoleStorieProgetti a lungo termine e, dal 2022, Open Format, dedicata all’interazione tra fotografia e altri linguaggi. Vincitrice di quest’ultima categoria, la fotografa ucraina Julia Kochetova per il progetto “La guerra è intima”, sito web che unisce il fotogiornalismo con lo stile intimo e personale di un diario, per “documentare e mostrare  al mondo cosa significa vivere sotto assedio in Ucraina e come si tenti di elaborare il trauma della guerra”.

Il premio “World Press Photo Story of the Year” è stato invece assegnato alla fotografa sudafricana Lee-Ann Olwage per il progetto “Valim-babena”, pubblicato dalla rivista “Geo”. Le sue immagini ci portano in Madagascar e documentano la vita di Dada Paul, uomo di 91 anni affetto da demenza senile, condizione ancora scarsamente accettata e compresa nell’isola africana. Foto tenera e amara, ad un tempo, che solleva interrogativi sull’accettazione e sull’assistenza del “diverso” offrendo uno sguardo intimo e toccante sulla realtà della malattia e della cura familiare.

Quarto fotografo sul podio, il venezuelano Alejandro Cegarra, vincitore per la categoria “Long-Term Project” con “I due muri”, pubblicato dal “New York Times” e da “Bloomberg”. Gli scatti di Cegarra (partendo da una sua esperienza personale)  ci portano in Messico, illuminando una questione poco trattata dai “media” europei: il cambiamento delle politiche migratorie messicane, diventate dal 2019 da “accoglienti” sempre più “restrittive”, sulla base di processi simili a quelli degli Stati Uniti. Fotografie che, ancora una volta “non sono solo immagini – come dice Vito Cramarossa, direttore di ‘Cime’ – ma veri e propri documenti, finestre aperte su un presente complesso ed in continua evoluzione”. Da osservare, ponendo non meno attenzione all’aspetto documentaristico, rispetto all’indubbia qualità dell’immagine.

Gianni Milani

“World Press Photo Exhibition 2024”

Palazzo Barolo, via delle Orfane 7/A, Torino; tel. 338/1691652 o www.palazzobarolo.it / www.worldpressphototorino.it

Fino al 24 novembre

Orari: lun. merc. giov. e dom. 10/20; ven. e sab. 10/21

Nelle foto: Mohammed Salem: “La Pietà di Gaza”; Julia Kochetova: “La guerra è intima”; Lee-Ann Olwage: “Valim – babena”

La natura e i paesaggi di Naty sono simboli dell’anima

Informazione promozionale

 

Natalia Caragherghi, in arte Naty, è un’artista nata nel 1979 in un paese collinare della Moldavia. Ormai da più di venti anni vive in provincia di Brescia tra i suggestivi paesaggi della Val Camonica che hanno ispirato tanti suoi lavori pittorici.

Natalia Caragherghi svolge quasi a tempo pieno la sua attività di artista e si dedica stabilmente alla pittura di tele sia ad olio sia in acrilico, che esprimono la sua predilezione per la natura e i paesaggi. Le sue opere sono il frutto di emozioni e sensazioni che ella vive quotidianamente. I suoi quadri sono la traduzione immediata dell’introspezione della sua anima e l’utilizzo di colori vivaci, che vanno a creare un equilibrio empatico tra la sua interiorità e quella del fruitore.

“Ho iniziato a disegnare ancor prima di conoscere l’alfabeto – spiega Natalia Caragherghi – disegnavo e dipingevo anche  a scuola nei momenti liberi. Successivamente mi sono specializzata come stilista, ma non essendo rimasta soddisfatta di quel particolare mondo lavorativo ho deciso di esprimermi totalmente attraverso la mia arte pittorica, iniziando con  vetrate, murales e porcellane. Solo negli ultimi anni mi sono dedicata ai quadri.

 

I soggetti che prediligo rappresentare, in quanto simboli della mia anima, sono i paesaggi naturali attraverso visioni realistiche e contemporaneamente astratte, oniriche. I paesaggi devono essere scevri da qualsiasi presenza animata per evidenziare un tratto intatto e puro. Studio la natura in ogni momento perché mi consente di esprimermi in libertà,  senza troppe limitazioni tecniche. Oggi sto sperimentando nuove creazioni attraverso la resina e materiali diversi poiché mi percepisco in una fase di evoluzione ed espansione”.

Natalia Caragherghi è stata protagonista di diverse e importanti mostre personali e collettive in Italia e all’estero ricevendo anche apprezzamenti da parte di Vittorio Sgarbi, Salvo Nugnes, Claudia Sensi, Sandro Serradifalco e Paolo Levi. A Torino nell’aprile e maggio 2017 ha partecipato a BMM Biennale Museo MIIT Torino a cura di Italia Arte con l’opera “Inverno sui motivi di Clevera”.Le sue opere sono state apprezzate anche, tra le altre città, a Budapest, Bruges e Monaco di Baviera.

Le sue figure possono essere definite” metafore di un cammino”, eleganti e allo stesso tempo accattivanti, riconducibili a icone di un nuovo presente e di una realtà in movimento.

Ha approfondito la sua formazione artistica a Mosca dove si è avvalsa dell’esperienza di quotati pittori.

 

Mara Martellotta

Una mostra “da favola” al torinese “MIIT, ultimi giorni

Museo Internazionale Italia Arte”: nuovo appuntamento con la Collettiva “Fabbricatori di Favole”

Fino a domenica 6 ottobre

Ne sono pienamente convinto. Non c’è artista (più o meno esperto del mestiere, più o meno portato a trasgredire le “voci” del reale) che non sia anche, consciamente o inconsciamente, “fabbricatore di favole”. Dietro l’immagine, c’è sempre un “narrato”, un’“autoconfessione”, un “sogno”, un realmente “vissuto” o … una “favola”. E, come me, mi pare la pensi anche Elio Rabbione, curatore del secondo atto (dopo quello tenutosi fra  aprile e maggio scorsi) della Collettiva “Fabbricatori di Favole” ospitata negli spazi del “MIIT” di corso Cairoli, a Torino, e che raccoglie, fino a domenica 6 ottobre, una buona sessantina di opere a firma di ventisei artisti (24 pittori e due scultori) appartenenti alla carmagnolese “Associazione Palazzo Lomellini”, artisti oggi in temporaneo “esilio” a seguito dei doverosi lavori di restauro in corso sulla storica struttura (da tempo museale), di Carmagnola. Scrive infatti Rabbione in catalogo: “Ogni opera ha in sé un’idea che nasce in quanto favola che s’impone ai sensi, costruzione, colore e forma, ampia trasmissione a chi saprà guardare con attenzione”. Cosa non facile, perché la “favola” sfugge spesso di mano o, addirittura, passa inosservata per far posto all’interpretazione e al giudizio preminente su forme e colori.

Non è cosa semplice produrre o intercettare “favole”, che sono, come sosteneva il grande Rodari (uno che dell’argomento ben se ne intendeva) “come dare la mano al cieco, cantare per il sordo/liberare gli schiavi/che si credono liberi”. Ora, al Museo di corso Cairoli, diretto da Guido Folco, ne troviamo esposta un’ampia e davvero interessante campionatura. Fitta la schiera degli artisti “affabulatori” coinvolti, è di certo impossibile fare di tutti doverosa menzione. Un posto di riguardo lo merita sicuramente quella lignea “Offerta di pace” di Pippo Leocata in cui un’appesantita (dalle “brutture” umane) figura femminile, allarga le braccia a un mondo in cui l’artista riflette forme di remota memoria, offrendo quanto oggi, sempre più, appare impossibile: la “Pace”. Un sogno, un’utopica speranza … una “favola”, appunto. Così come riflesso di “impossibili” congetture è quella sua riproduzione in “specchio” della “Nike di Samotracia” racchiusa nel ligneo “Tempio di Minerva”, affinché non possa spiccare il volo come “Vittoria sui mali del mondo”. Poiché “vittoria” presuppone “guerra”. L’ineluttabile, come oggi racconta la Storia. A fianco le robuste, in legno di faggio, “favole nere” di Similar (Ilario Simonetta) e gli oli inquietanti di Christian Sorrentino, accompagnati da quel sorreggersi di “antiche” mani dalla forza michelangiolesca di “Vita”, opera mirabile di Franco Fasano.

In geometrici essenziali giochi di astrazione si muovono “La leggenda del mare viola” di Gianna Dalla Pia Casa e le fiabesche “Metropoli” di Paolo Pirrone, così come le tecniche miste su juta di Valeria Tomasi ispirate ai versi sul “sentire” di Alda Merini o alle tavole “intrigo tra realtà e sogno” di Angelica Bottari, mentre il materano Giuseppe Manolio racconta di una curiosa “Penelope” racchiusa in una sorta di informal-futurista puzzle dai colori vividi e accesi sgomitanti l’un con l’altro, quasi a farsi consono spazio.

In visionarie atmosfere surreali che paiono ripercorrere, nel decorativo, suggestivi sentieri rinascimentali vivono invece i “Personaggi improbabili” del biellese Fabio Cappelli, attori così lontani dai “volti” che sono invece realtà perduta e ritrovata  in un “onirico” che magnificamente attrae Maria Teresa Spinnler, la quale confessa di sognare, per l’appunto, “la vita racchiusa in tante favole”. Folto il gruppo dei “figurativi”, nelle cui opere leggiamo voci di dolci o amare memorie: da Graziella Alessiato a Maria Rosa Gaude, a Teresio Pirra e ad Eleonora Tranfo, fino a “L’abbraccio” di Anna Maria Palumbo,  ai “Fiori rossi” di Danilo Baruffaldi e alla “favola pura” delle deliziose “Marionette” di Giorgio Cestari,  o ai lirici scorci paesistici di Dario Cornero e alle visionarie “Staticità notturne” di Cristina De Maria accompagnate ai “siparietti” grafici in cui la magia del fantastico travolge il reale, opere della pittrice-illustratrice Silvia Finetti, di Alessandro Fioraso e di Teresa Noto. Alquanto complessi, infine, i concettuali “Universi esistenziali” e le “Costellazioni di Orione”, così come la “Libertà di pensiero”, opere rispettivamente di Giorgia Madonno, di Marina Monzeglio e di Valentina Rossi. Una mostra … “da favola”. Lo confermo!

Gianni Milani

“Fabbricatori di Favole due

“MIIT-Museo Internazionale Italia Arte”, corso Cairoli 4, Torino; tel. 011/8129776 o www.museomiit.it

Fino al 6 ottobre

Orari: mart. – ven. 15,30/19,30; sab. 10/12,30 e 15,30/19,30; dom. 10/12,30

Nelle foto: Pippo Leocata “Offerta di pace” (legni pallet, argilla e acrilici, 2024) e “La vittoria sui mali del mondo” (legni pallet, acrilici e specchio, 2024); Franco Fasano “Vita”, olio su tela, 2021; Fabio Cappelli “Personaggio improbabile – 1”, tempera su carta; Maria Teresa Spinnler “Sogno la vita racchiusa in tante favole”, tecnica mista, 2024