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Il capello: un segreto di magia e relax

I capelli e la loro espressività…Scontato sarebbe pensare che non vi appartenga…

Essi vestono l’anima di chi la accompagna, ne disegnano l’immagine più appropriata, donando al suo protagonista  la consapevolezza che si ha verso sé stessi, permettendo di far emergere anche attraverso l’aspetto esteriore l’autenticità del proprio carattere. L’obiettivo dovrebbe essere quello di dare vita non certo ad una trasformazione drammatica, radicale, ma al contrario, cercando di mettere in risalto la  naturalezza più appartenente.

Senza effetti esageratamente stravolgenti, le collezioni dei saloni e le tecniche più avanzate, si concentrano su cambiamenti delicati ma al tempo stesso unici e versatili, capaci di valorizzare quello che già c’è.

I tagli come le acconciature prevedono ampi margini di modifica tra il giorno e la sera, bilanciando fragilità e forza, due facce della stessa medaglia.

La bellezza di un taglio su misura si identifica ovviamente tramite la capacità di cambiare, insieme allo styling, in base al momento e all’occasione, mostrando un’anima trasformista che si plasma tra creatività e linee essenziali.

Con il taglio e la conseguente acconciatura dei capelli, si sussurra al mondo il proprio punto di vista, il proprio ordine personale, lo stile e l’eleganza degli insiemi.

 

Sicuramente quella dei parrucchieri è una professione emergente e in continua evoluzione, che appaga tutto e tutti, affascinando e compensando la soddisfazione di vedere felici persone di tutte le età.

E’ ad oggi il mercato più importante della bellezza professionale in Italia ed è ai primi posti in Europa.

 

La ricerca, l’innovazione e la qualità sono però ingredienti che non tutti possono conquistare. Bisogna avere le risorse necessarie per  favorire la crescita, valorizzare e modernizzare la professione, attivare  una formazione eccellente e continuativa, tale da raggiungere qualità e capacità creative  e manageriali, in grado quindi di ottenere  il massimo risultato nei riguardi di una clientela sempre più soddisfatta.

 

Queste sono leve determinanti che andranno ad alimentare sempre di più la credibilità nei confronti della clientela.

Il raggiungimento e il mantenimento di tale progresso, il comportamento sociale di qualità, la preparazione, l’innovazione e professionalità eccellenti, sono quindi gli ingredienti chiave in grado di garantire al pubblico l’azzardo di selezionare un salone di hairstyling di primissima qualità.

 

Nasce quindi a Torino, in via della Rocca 32/C : “THE SECRET blooming hair” , dove la commistione tra arte e bellezza del capello, generano l’essenza dell’eleganza e dello stile.

 

Due giovani rampanti, talentosi stilisti e eccellenti professionisti del settore, Lorena Diculescu e Federico Fruscione, dopo anni di esperienza vissuta dai grandi maestri dell’hairstyling (tra i quali Franco Curletto), si avvicendano con determinazione e grande passione ad aprire il “loro” salone, ed è qui che la magia inizia.

 

Il loro è un concetto davvero inusuale, nuovo, costellato da assoluta passione, capacità  e garbo incredibili, tali da accogliere la clientela in un giardino dai profumi davvero variegati ma assolutamente legati tra loro da un fil rouge che conquista letteralmente il pubblico per la sua innovazione e altissima qualità, regalando oltretutto un habitat davvero accogliente e rigenerante.

L’interpretazione che danno al “capello” e la cura del suo dettaglio, sussurra all’estro il potere di potersi far riconoscere come un pennello d’autore sta alla tela.

La loro è arte pura, se pur quest’ultima definizione possa forse sembrare azzardata.  Ma qui parliamo di passione capace di generare l’emozione di chi la coglie e di chi sa interpretarla nella sua originalità, facendosi riconoscere come l’astro nascente di un’opera che non chiama solo la tecnica eccellente del loro lavoro, che oltretutto si arricchisce con la qualità dei materiali e la serietà della competenza, ma che si erige grazie all’originalità e a quella personalizzazione del risultato che chiama la soddisfazione assoluta di chi se ne sentirà accarezzato e conquistato.

Lorena e Federico accolgono i loro clienti in una  comfort zone  creativa, votata davvero all’incanto, dove la cura del dettaglio non passa inosservata e dove l’accoglienza accarezza il desiderio di coloro che scelgono di andare da The Secret anche per trovare il relax più personalizzato e non solo per una scelta dettata dal bisogno.

Una gioventù emergente quindi la loro, una generazione di menti pensanti e di anime delicate, dall’intelletto e dalla preparazione tecnica davvero a 360°, pronti a far emergere qualcosa di diverso, fuori dai soliti canoni di massa, ma assolutamente rientrante nella più che autentica cura dell’essere.

(The Secret – 011 0461200 – via della Rocca, 32/C – Torino – info@thesecret32.com)

 

Monica Chiusano

 

Addio a Bruno Segre, l’uomo che nacque “quando ancora tuonavano i cannoni della Grande guerra”

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A 105 anni è morto Bruno Segre. Intellettuale, avvocato, partigiano.

Si era laureato  in Giurisprudenza all’Università di Torino, dove fu allievo di Luigi Einaudi.

Le leggi razziali, essendo di famiglia ebrea non gli permisero di svolgere la professione di avvocato. Per decenni  pubblicò il giornale L’incontro, rivista di confronto di idee.

Di seguito, il ricordo di Marco Travaglini.

 

E’ morto Bruno Segre, l’uomo che nacque “quando ancora tuonavano i cannoni della Grande guerra”

Bruno Segre è morto a 105 anni, proprio nel giorno in cui si celebra la memoria della Shoah dopo una vita da protagonista che ha attraversato il ‘900 ( era nato a Torino il 4 settembre del 1918) e i primi vent’anni del Duemila senza rinunciare alle sue battaglie per la libertà, i diritti, la laicità, contro ogni autoritarismo e discriminazione. Un raro esempio di coerenza e forza che ha raccontato in “Non mi sono mai arreso” (Editrice Il Punto/ Piemonte in Bancarella). Il volume, a cura di Nico Ivaldi, riflette una vita straordinaria di avvocato e giornalista distintosi come una delle più limpide e coraggiose personalità dell’antifascismo italiano. Il racconto, sotto forma d’intervista, ripercorre la sua storia offrendo al lettore un ritratto lucido e appassionato di Segre dalla Torino degli anni Venti e del “lessico famigliare” della sua famiglia ai due decenni del fascismo con l’ignominia delle leggi razziali, la guerra, la Resistenza e il lungo cammino che ha visto impegnato per numerosi decenni il caparbio protagonista tra mille impegni e interessi. Nato a Torino “quando ancora tuonavano i cannoni della Prima guerra mondiale”, ha vissuto quegli anni in una casa di via Barbaroux con i balconi che “si affacciavano su piazza Castello”. Laureato in legge, allievo di Luigi Einaudi, antifascista discriminato dalle leggi razziali in quanto figlio di genitore ebreo, durante il Secondo conflitto mondiale Segre conobbe due volte, nel 1942 e nel 1944, la costrizione del carcere fascista e partecipò alla Resistenza nelle file di Giustizia e Libertà. Un’esperienza sulla quale, nell’estate del 1946, scrisse un memoriale che pubblicò soltanto qualche anno fa, nel 2013, in un volume intitolato “Quelli di via Asti”. Dalle pagine del libro e dal ritmo incalzante dell’intervista emerge il profilo di quest’uomo colto e intelligente, innamorato del concetto del movimento di Giustizia e Libertà, saldamente ispirato da quell’esprit républicain che ne ha sempre orientato le scelte, a partire dall’insopprimibile impegno a difesa dei principi di laicità e all’intransigente fedeltà ai valori di un socialismo capace di garantire i diritti individuali, ripudiando ogni settarismo e dogmatismo. La narrazione autobiografica offre un’infinità di spunti, suggestioni, aneddoti ironici. Giornalista e avvocato, negli anni del dopoguerra Segre si è impegnato nella difesa dell’obiezione di coscienza e nella battaglia per il divorzio. Come giornalista ha intervistato un’infinità di personalità importanti e ben pochi possono vantare come lui di aver potuto intervistare Joséphine Baker, la “venere nera” della Parigi degli “années folles” resi immortali da Hemingway nel suo “Festa mobile”. E soprattutto di averla intervistata nel contesto che lui stesso descrive e che non è il caso di anticipare per non togliere al lettore la curiosità di scoprirlo da solo. Bruno Segre, oltre a collaborare a diverse testate (tra le altre L’Opinione, diretta da Franco Antonicelli e Giulio De Benedetti, Paese Sera, Il Corriere di Trieste e il Corriere di Sicilia) è stato il fondatore e direttore del mensile “L’Incontro”, una esperienza editoriale più unica che rara durata settant’anni, trasformatasi in giornale online dopo aver cessato la pubblicazione cartacea. Quel “periodico politico-culturale” stampato su foglio unico in formato grande e con la testata in rosso ha segnato più di un’epoca, accompagnando per ben quattordici lustri gli affezionati lettori con riflessioni e articoli dedicati alle battaglie contro l’intolleranza religiosa e il razzismo, per la pace, i diritti civili e la laicità. Quando il 4 settembre del 2018 l’avvocato Segre ha festeggiato i suoi cento anni ha voluto ringraziare tutti gli amici “che con me condividono ideali democratici, pensieri di libertà e di antirazzismo, di fedeltà a quelle che furono le conseguenze della Liberazione: cioè la fedeltà alla Costituzione e la fiducia nella Repubblica”. E aggiunse: “l’auspicio che mi permetto di esprimere, in questo momento solenne per la mia vita, per il futuro e per l’umanità, è questo: viva la libertà!”. Un breve, sintetico e chiaro messaggio da parte di un uomo che ha attraversato un intero secolo a testa alta e che non si è mai sottratto ai suoi doveri di democratico offrendo un lucido contributo sui temi a lui cari, iniziando dalla libertà di stampa anche in questi periodi difficili segnati da crisi, guerre ed enormi incognite sul futuro. Nelle ultime righe di quella sua intervista autobiografica affermava di voler essere ricordato come una persona che si è sempre opposta a tutti i tentativi di prevaricazione e d’imposizione forzata sia essa politica o religiosa. Con una punta di scaramantica civetteria aveva rivelato che sul suo sepolcro voleva fosse inciso un motto di Saul Bellow: “Qui giace un vinto  dalla morte  che non si è mai arreso”. Ed effettivamente è stato così.

Marco Travaglini

 

Sebastiano Vassalli e le sue terre d’acque

Il 26 luglio di otto anni fa si spegneva dopo una malattia fulminante e incurabile, avvolta nel più stretto riserbo, lo scrittore Sebastiano Vassalli.

Genovese di nascita (con madre toscana e padre lombardo) e novarese d’adozione, nella “terra d’acque” (come s’intitola anche uno dei suoi romanzi) ambientò alcune delle sue opere più significative, come Cuore di pietra, romanzo storico pubblicato nel 1996 da Einaudi nella collana Supercoralli, dove la maestosa casa del conte Basilio Pignatelli s’intuisce essere la novarese Villa Bossi, splendida dimora sul baluardo Quintino Sella, all’angolo con via Pier Lombardo. Laureatosi in Lettere con una tesi sull’arte contemporanea e la psicanalisi con Cesare Musatti ( il controrelatore fu Gillo Dorfles),Vassalli è stato uno dei più grandi scrittori italiani. Tra le sue opere, tradotte in molti paesi, una in particolare gli consentì di conoscere un importante successo nel 1990 quando gli venne assegnato il Premio Strega per La chimera, romanzo storico ambientato nella campagna novarese del Seicento. Il libro narra la storia di un processo (un episodio realmente accaduto) a una strega nella Milano dei Promessi Sposi, risalente al 1628. E la “chimera” altro non era che il monte Rosa per come appariva allo sguardo dei contadini che, tormentati dall’afa e chini sulle risaie del novarese, alzavano gli occhi verso l’orizzonte e vedevano stagliarsi lontano il massiccio della montagna innevata. Nelle opere di Vassalli la componente territoriale ha sempre avuto una rilevanza particolare, con la cornice del Piemonte e in particolare delle “terre del riso” nelle pianure a nordest. Nel 2011, Franco Esposito (poeta, direttore della rivista Microprovincia di Stresa) curò la monografia “La parola e le storie in Sebastiano Vassalli”. Un modo intelligente per festeggiare l’autore di tanti libri importanti da Abitare il vento a La notte della cometa ( romanzo sulla vita del poeta Dino Campana) , ai già citati Cuore di pietra e La chimera fino agli ultimi, molto belli, Le due chiese, Terre selvagge , Il confine e Io, Partenope. In quel numero della rivista, unendo gli sforzi editoriali delle Edizioni Rosminiane a quelli della novarese Interlinea, vennero proposti testi dello stesso Vassalli, belle foto e disegni oltre agli scritti di una lunga serie di intellettuali e letterati come Giorgio Bárberi Squarotti, Roberto Cicala, Franco Cordelli, Fulvio Papi e altri. Dalla prima stagione di Vassalli e dall’esperienza con la neoavanguardia del “Gruppo 63” all’originalissima cifra della sua opera letteraria, dal suo grande amore per la poesia alla fedeltà rara alla Einaudi (la casa editrice dello Struzzo) scorrendo le pagine di Microprovincia si intravvedeva tutta la complessità di questo scrittore straordinario. Una figura importante per la letteratura ma anche per il giornalismo al quale dedicò molte collaborazioni con le principali testate, da La Stampa, il Corriere della Sera e La Repubblica. Vassalli, uomo estremamente riservato, nel tempo aveva stretto un rapporto molto personale con la seconda città del Piemonte, il suo dialetto appartenente al ramo occidentale della lingua lombarda, il carattere degli abitanti e i luoghi novaresi. La cascina Marangana di Biandrate era il suo rifugio letterario,un buen retiro immerso tra le risaie a una dozzina di chilometri da Novara. Sulla porta d’ingresso di questa ex canonica trasformata in abitazione campeggia una scritta lapidaria, che vale più di tanti discorsi: i soli stanno soli e fanno luce. Vassalli sosteneva che “il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie“. E aggiungeva: “Così era ai tempi di Omero e così è ancora oggi. È un mestiere antico come il mondo, che risponde a una necessità degli esseri umani, a un loro bisogno fondamentale: quello di raccontarsi. Finché ci saranno nel mondo due persone, ci sarà chi racconta una storia e ci sarà chi la ascolta“. La casa è ora un museo grazie al progetto dell’archivio Sebastiano Vassalli. Una felice intuizione tesa a costituire un centro di consultazione pubblica, a beneficio di studiosi e di quanti vorranno consultare il patrimonio culturale di questo grande scrittore.

Marco Travaglini

Addio al decano dei costruttori, protagonista dell’edilizia

La sua impresa in tanti anni ha costruito decine di edifici a Cuneo. È morto il geometra Bruno Artusio, aveva 94 anni. Trasferitosi Isola d’Asti, divento geometra, negli anni ’50 insieme ai fratelli Adolfo e Franco ha fondato la Artusio Costruzioni. Nella sua lunga carriera è stato anche presidente di Ance Cuneo, vice presidente della Cassa rurale e artigiana di Boves e consigliere comunale a Cuneo per il partito Liberale. Era vedovo della moglie Marisa Giraudo e lascia i figli Riccardo, Paola e Roberto, nipoti e pronipoti.

NOTIZIE DAL PIEMONTE

Carlo Borra, cristiano. Un convegno a Pinerolo

Uno straordinario testimone di impegno laico cristianamente ispirato questo é stato Carlo Borra. Nel venticinquennale del la morte, per fare memoria ma anche riconoscerne l’eredità, a livello locale, regionale e nazionale, nel la dimensione ecclesiale e sociale, sia sindacale che pol itica si terrà venerdì 15 dicembre dal le ore 15 alle ore 18, presso i l Salone Engim, via Regis 34 a Pinerolo i l convegno: “Carlo Borra, un cristiano pinerolese impegnato nel sindacato e in pol itica” un incontro che rappresenta anche, per la pastorale sociale diocesana la consueta formazione al socio-politico e alle radici del la partecipazione. L’evento, promosso da Ufficio Pastorale Sociale & Lavoro del la Diocesi di Pinerolo, Cisl Area metropol itana Torino-Canavese e Fondazione culturale “Vera Nocentini” ricorderà l ‘uomo che, formatosi nel l ‘Azione Cattol ica, amico del Venerabile don Giovanni Barra, fu segretario del la Camera del Lavoro di Pinerolo per la corrente cristiana nel 1945 e, in seguito al la scissione del 1948, segretario del la Lcgl , e poi del la Cisl territoriale di Pinerolo. Dal 1956 al 1962, anno in cui venne eletto parlamentare nel le liste del la Democrazia
Cristiana, ricoprì il ruolo di Segretario generale del la Cisl di Torino, amico,
collega e successore di Carlo Donat-Cattin.
Intervengono, dopo il saluto del Vescovo di Pinerolo, monsignor Derio Olivero e del Sindaco Luca Salvai, la figlia di Carlo Borra, Mariella, il direttore Ufficio Pastorale Sociale e & Lavoro, Giancarlo Chiapello (che introduce), Gianfranco Astori, lo storico Lorenzo Tibaldi, i l vice presidente e la direttrice del la Fondazione Vera Nocentini , Tommaso Panero e Marcel la Filippa, gl i ex
segretari Cisl di Pinerolo e Torino, Franco Agliodo, Tom Dealessandri e Nanni Tosco (che modera l’ incontro) e l ‘attuale segretario generale Cisl, Domenico Lo Bianco, che conclude i lavori.

Violenza negli stadi e sport, trend in aumento

Luca Pantanella (FSP): “in 4 anni oltre il 40% in più di incontri con feriti, urgono pene più severe”.

Violenza e sport, urgono pene più severe. Dal 2019 al 2023 si registra un +43% di incontri con feriti e un +73% di feriti tra le Forze dellOrdine. Occorre agire sulla falsariga del primo Daspo della storia, quello assegnato nel 59 dopo Cristo da Nerone all’anfiteatro di Pompei in seguito alla memorabile zuffa con gli storici antagonisti di Nocera durante i giochi. L’imperatore lo chiuse per dieci anni, e gli autori esiliati. Sono i dati per nulla confortanti resi noti da Luca Pantanella, sindacalista FSP Polizia di Stato promotore del convegno nazionale del 4 dicembre scorso svoltosi nel capoluogo piemontese all’Auditorium dell’Educatorio della Provvidenza “Sport, salute e legalità: i rapporti tra tifoserie, società sportive e forze dell’ordine” introdotto dai saluti istituzionali della Questura di Torino e patrocinato da FSP Polizia di Stato e A.l.s.i.l. Onlus, Associazione per la Legalità e la Sicurezza sul lavoro.

Tra i relatori, moderati dal criminologo Antonio Zullo, Franco Maccari (Vice Presidente FSP), Alfredo Trentalange (Dirigente Benemerito A.I.A), Malù Mpasinkatu (Direttore Sportivo e opinionista tv), Manuel Toscano (psicologo dello sport per l’area Juventus) e Giampietro Moscatelli (Direttore Cnims–Centro Informazione Manifestazioni Sportive Polizia di Stato). Occorre tutelare l’incolumità degli agenti – chiosa Pantanella – per cercare di contenere la spesa per l’ordine pubblico salita in media dell’8% annuo nell’ultimo biennio a causa delle maggiori turnazioni. Il problema risiede altresì anche nel continuo allocamento eccezionale di unità impiegate nella sicurezza di eventi a discapito del consuetudinale pattugliamento del territorio in funzione di prevenzione alla criminalità”.

TFF: “Non riattaccare”, un’altra grande prova per Barbara Ronchi

Nei mesi del lockdown, il chiuso delle proprie case e le chiusure agli altri obbligatorie, i rapporti pressoché azzerati, le notti come spazi di pace. Ma non per tutti. Quando è ancora tutto immerso nel buio, quando nella strada passano soltanto le luci e la sirena di una autoambulanza, Irene viene svegliata dall’ex Pietro, non lo sente da tempo, l’agitazione di lui, una voce stanca e rotta, se ne sta in bilico sul tetto della casa di Santa Marinella, chiede il suo aiuto. Sono le prime scene di “Non riattaccare”, unico italiano in concorso, tratto liberamente dal romanzo di Alessandra Montrucchio, scritto (con Jacopo Del Giudice: un thriller? una seduta psicanalitica?) e diretto da Manfredi Lucibello, classe 1984, fiorentino, arrivato alla sua opera seconda, dopo “Tutte le mie notti” di cinque anni fa. Una sorta di felicissimo risultato, un capolavoro di scrittura e di resa nel cuore del TFF, che guarda alla Magnani disperata in piena area Cocteau e quel “Locke” inventato dal regista inglese Steve Knight per Tom Hardy, raccontato nel chiuso di un’auto.

Perché anche qui, non potendo rinunciare a quel sentimento che ancora le sta stretto nel cuore, in fondo un rapporto mai terminato, Irene è pronta a mettersi in macchina, a combattere con la benzina che è sempre più in riserva e con i distributori chiusi, con il cellulare che va scaricandosi e un caricabatteria da rubare, con i porci che vorrebbero approfittarsi di lei e un paio di poliziotti che le fanno rovistare nella borsa pur di ritrovare libretto patente e permesso di circolazione, soprattutto con i dialoghi di Pietro (un Claudio Santamaria invisibile, una voce soltanto, ma capace di farsi personaggio concreto e autentico attraverso un lamento, una parola precisa o una frase che chissà dove porterà il dialogo dei ricordi, delle insinuazioni, delle cose taciute e di quelle troppo urlate) che va guidato, tenuto a bada, terrorizzato o sorretto con amore. Difficile tenere per 90’ ben alta e salda la tensione, far filtrare all’attenzione dello spettatore – che si spera non venga mai meno – un passato e un presente, rifuggire i luoghi comuni, costruire emozioni vere e giuste invenzioni sonore: Lucibello ci riesce appieno, non un attimo di ripetizioni o di noia, circondato da un gruppo di collaboratori – Emilio Costa direttore di fotografia, Diego Berré con un montaggio da applauso, le musiche ossessionanti di Motta – di primissimo ordine.

Poi, c’è Barbara Ronchi al centro della vicenda, di ogni racconto, di qualsiasi sensazione, di ogni sguardo. Un’attrice che quest’anno s’è vinta un David e un Nastro, che è la cancelliera della Tataranni e ti diverte, che scala le montagne più alte del drammatico: e ti convince. Guardare i gesti convulsi, la disperazione e gli affetti riscoperti e trovarti davanti ad un’attrice che ad ogni prova ti piace riscoprire, analizzare. Un miracolo di intelligenza e di dedizione.

Fuori concorso, torinese ormai sessantenne, regista intimista e pronto a cavalcare la gioventù di Montalbano, Gianluca Tavarelli punta al divertimento e all’analisi del nostro tempo con “Indagine su una storia d’amore”, sovvertendo, capovolgendo lo sguardo drammatico con cui aveva affrontato la coppia in “Un amore” nel 1999. Oggi, lo sguardo è su Paolo e Lucia, anni insieme ma un rapporto che si sta esaurendo, una vita d’attori che non gira, un paio di pose di tanto in tanto, un provino che chissà dove porterà, il cinema indipendente a secco di quattrini e la grande produzione sempre soltanto sognata. E se ci fosse data la possibilità d’affrontare le telecamere di una tivù, la possibilità di raccontare la nostra storia, vedrai andrà tutto bene, cominceremmo a entrare in milioni di case d’italiani, la gente ci riconoscerebbe, finalmente arriverebbero le scritture. Paolo recalcitrante, Lucia al colmo dell’entusiasmo. Ma se telecamera è, il racconto deve essere completo, senza censure, del tutto scoperto. Si dovrà raccontare un passato, con i continui ardori sessuali di lui (è Alessio Vassallo, il femminaro Mimì, compagno e giovane sciupafemmine del giovane Montalbano; lei è Barbara Giordano), le bugie, tutto un entroterra sconosciuto cui entrami cercheranno di sottrarsi, bisognerà affrontare i genitori di lui che non riescono neppure più ad uscire di casa e un intero paese che ha decretato l’ostracismo. Lo spunto poteva essere buono, forse ottimo (considerato il mondo sciupato della televisione e di certi suoi programmi con maggiore introspezione), se il tutto dopo la prima mezz’ora non si fosse risolto in una sequenza più o meno boccaccesca di incontri e sotterfugi e abbandoni. Anche la simpatia dei due interpreti in fin dei conti finisce per venire meno, lasciandoci supporre che il tentativo di Tavarelli, nonostante le risate del pubblico, nel territorio della comicità stia un po’ stretto e azzardato.

Un’isola a parte, “Luci dell’Avanspettacolo” è un gustosissimo affresco dentro il quale è lo stesso direttore del TFF, Steve Della Casa, come nuovo Virgilio degli anni Duemila, ad accompagnare lo spettatore che abbia deboli ricordi circa una forma d’arte che possiamo far partire dai cafè chantant degli anni Trenta (ma dovremmo risalire alla seconda metà del Seicento, in Francia, quando una compagnia italiana ebbe l’idea di frapporre ai versi alcune brevi canzoni), che ebbe il proprio periodo più felice durante la guerra e il periodo postbellico, per spegnersi con i varietà televisivi dei Settanta. Un affresco che è dovuto ad un’idea di Antonio Ferraro e alla regia di Francesco Frangipane (gli stessi produttori di “Non riattaccare”: Carlo Macchitella scomparso di recente, Piergiorgio Bellocchio e i Manetti Bros.), 70’ di ricchezza di materiali, conosciuti e no, nel vorticoso montaggio di Annalisa Schillaci, con attori e registi di oggi – Lillo e Greg, Antonio Calenda, Massimiliano Bruno, Enrico Vanzina, Gino e Michele, David Riondino e Margherita Fumero (“rivedo ancora quando a sei anni mia mamma mi accompagnò al Maffei, a me del film non importava nulla, furono le ballerine a colpirmi… e poi la Osiris, magari dalle doti artistiche non altissime ma bella come una dea… e l’arte di Macario!”) a raccontare di Petrolini, di Totò e Fabrizi, della grandiosa Magnani, di Billi e Riva, di Franco e Ciccio, dei primi approcci di Gina e Sofia, pronte a sgambettare e a sgomitare, delle tante gag inventate e divenute un repertorio, dei gatti morti lanciati in palcoscenico, degli scambi di parole e di gesti non sempre al colmo della gentilezza con il pubblico che aveva le proprie esigenze, degli inviti e dei pranzi scroccati ad un nobilotto di paese quando le compagnie, poverissime, si avventuravano per le strade d’Italia, gli alberghi che rifiutavano le notti nella paura di non essere pagati, le soubrette che avanzavano qualche trattamento di favore e le soubrettine che avrebbe continuato a restare relegate in terza o quarta fila, per tacere di quelle che in qualche maniera s’aggiustavano. Con il gran bagaglio di costumi ridotti, di cosce bene in vista, dei mazzi di fiori degli ammiratori. Il vecchio avanspettacolo avrebbe lasciato il posto alla rivista, e alla commedia musicale in seguito. Ognuno racconta e testimonia, cattura immagini anche cinematografiche, da “Luci del varietà” (1951) con cui Fellini e Lattuada ruppero un sodalizio rivendicando una controversa paternità, a “Vita da cani” firmato da Monicelli e Steno, che approfittarono dei bisticci dei colleghi per uscire prima nelle sale, a “Ci vediamo in galleria” di Bolognini (1953), che sognava su quel luogo di riunioni, di scritture sognate, di successi e insuccessi, a “Polvere di stelle” dove Sordi e la Vitti – come si fa a dimenticare Mimmo Adami e Dea Dani? – riuscivano a resuscitare del tutto un’epoca. Ma era un’epoca che terminava, il pubblico a teatro aveva altri gusti e altri beniamini: ci avrebbe ancora provato Bramieri con il suo sonoro “Felicibumtà”. Ma eravamo arrivati alla fine degli anni Settanta.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Barbara Ronchi, interprete di “Non uccidere”, una scena di “Indagine su una storia d’amore di Gianluca Tavarelli e un momento di “Luci del varietà” per la regia di Fellini e Lattuada, tra gli interpreti Giulietta Masina e Peppino De Filippo.

Incontro sulle problematiche del carcere minorile

“Per ragionare di carcere minorile con coscienza di causa è necessario conoscerne a fondo i meccanismi e le dinamiche che lo governano. Sono convinto sia quanto mai necessario che le istituzioni e i soggetti interessati si impegnino per approfondirne la realtà e trovare le soluzioni più adatte per far sì che l’esperienza della detenzione rappresenti sempre più, per i giovani, un’opportunità di recupero e di reinserimento nel tessuto sociale”. Lo ha dichiarato il componente dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale Gianluca Gavazza in apertura dell’incontro Il carcere minorile contemporaneo. Parliamone! che si è svolto al Circolo dei lettori di Torino.

Organizzato dall’Assemblea legislativa piemontese attraverso gli uffici dei Garanti regionali dei detenuti e per l’infanzia e l’adolescenza, è il primo di una serie di incontri per riflettere sul passato e sul presente del carcere minorile e immaginarne il futuro.

“Avere a disposizione 25,3 milioni di euro del Pnrr per l’ambito penitenziario piemontese – ha sottolineato il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano – è un’occasione per ripensarne e umanizzarne gli spazi affinché da luoghi di detenzione possano davvero diventare luoghi di riabilitazione e rieducazione per dare finalmente attuazione al decreto 121 del 2018 che ha introdotto un ordinamento specifico per i minori e ha previsto attività e attenzioni concrete all’affettività e alle relazioni familiari nell’esecuzione penale minorile”.

Il sociologo Franco Prina ha sottolineato come la riforma del processo penale minorile, avvenuta trentacinque anni fa, abbia rappresentato una sorta di grande esperimento sociale per trattare i reati e gli autori di reato. “Oggi – ha aggiunto – i minori in carcere in Italia sono non più di 400, di cui solo la metà è davvero minorenne, mentre circa 21.000 sono quelli che vivono in comunità o sono presi in carico dai servizi sociali e 6.700 quelli messi alla prova. Siamo però chiamati a nuove sfide, poiché i giovani detenuti di oggi non sono più tanto i figli dell’immigrazione dal sud al nord quanto i minori stranieri, spesso non accompagnati, con forti problemi legati alla lingua, alla cultura, allo sfruttamento e alla mancanza di reali opportunità di studio, di integrazione e di lavoro”.

Sulla situazione dei minori stranieri non accompagnati si è soffermata la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Ylenia Serra, ricordando che “vengono spesso catapultati da situazioni drammatiche in un mondo che non conoscono e che si illudono possa realizzare tutti i loro sogni, cadendo vittime della frustrazione quando si rendono conto che quanto immaginato non corrisponde alla realtà”.

La garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo ha identificato tra i problemi aperti al Ferrante Aporti “la carenza di direttori stabili, la progressiva diminuzione dei servizi di neuropsichiatria infantile e il fatto che non si facciano più i test tossicologici a chi entra perché ritenuti troppo costosi”.

“A fronte della recente tendenza secondo cui dei quaranta ospiti dell’Istituto minorile Ferrante Aporti solo i due terzi sono minorenni – ha aggiunto – si registra una presenza di circa centotrenta detenuti tra i 18 e i 24 anni nel carcere per adulti”.

Don Ettore Cannavera, infine, ha raccontato la propria esperienza all’interno del carcere minorile di Quartucciu (Ca) e quella di coordinatore della “Comunità La Collina”, una sorta di carcere alternativo in cui i minori autori di reato vengono “educati al rispetto di sé e delle regole in un clima di relazione che mira a svilupparne le potenzialità umane e spirituali”.

Al termine dell’incontro – cui sono intervenuti il neodirettore del Ferrante Aporti Giuseppe Carro, l’assessore alle Politiche per la sicurezza del Comune di Torino Gianna Pentenero e l’architetto penitenziario Cesare Burdese – Mellano ha annunciato che il secondo incontro sul tema si svolgerà, sempre al Circolo dei lettori, mercoledì 13 dicembre.

La magia delle cose. Il segno magistrale dell’ incisore Guido Navaretti

 

Una punta di bulino, affilata con sapienza, incide delicatamente il plexiglass. Sottilissime linee si dipanano formando tessiture e onde, vortici e spazi, orientandosi variamente sulla superficie liscia, perfetta. Da questi emergeranno e prenderanno forma suggestioni di oggetti, animali, ricordi ed emozioni.

Guido Navaretti iniziò come incisore su lastra di zinco nel 1976, terminata l’Accademia di Belle Arti, ma gli orientamenti del mercato artistico e la difficoltà a reperire il materiale lo hanno portato a lavorare sul vetro sintetico dal 1999: il polimetilmetacrilato (plexiglass). E le dimensioni iniziali delle sue opere, piuttosto importanti, dagli anni Ottanta Novanta si sono portate a un formato più piccolo e agile.

Ma il cambio di formato, come il variare continuo in generale, non gli interessa: egli utilizza attrezzi, inchiostri e misure ben definiti, costanti nel tempo, perché il cambio delle aree di lavoro e dei mezzi deconcentra e sposta l’ attenzione verso il ridimensionamento continuo delle idee, della materia e dello spazio. L’ abitudine permette di concentrarsi sulla creazione. E, a tal proposito, dall’amato Oriente cita un altro suggerimento: il miglior modo di essere liberi è avere dei confini… Nel cambiare supporto, quindi, l’Artista ha invertito la risultante dell’ immagine: mentre sullo zinco il segno accoglierva l’inchiostro nero, lasciando bianca la superficie intonsa (calcografia: nei solchi rimane il nero), su plexiglass egli lavora in negativo, lasciando bianchi gli spazi dove il rullo di inchiostro nero non lascerà il colore (xilografia, da “scrittura su legno”: nei solchi rimane il bianco, e in questo caso possiamo parlare di metacrilatografia o plexigrafia). Il lavoro scelto da Navaretti è, quindi, in negativo, l’antitesi del pensiero precedente. E cambia un mondo, “L’altro mondo”, come dice sorridendo il Maestro. Ma questa scelta non è un problema, bensì una nuova risorsa, un universo da scoprire. Ed è molto interessante, nel leggere i suoi appunti, come Egli si collochi rispetto a un determinato utilizzo del colore nero (quindi riferito alle aree risparmiate dal segno), rifuggendo dal valore espressivo, politico, enunciativo, spigoloso, massivo, politicamente e socialmente forte che lo hanno spesso connotato, dalle opere d’arte, ai manifesti, alla fumettistica: il nero, nel suo segno, mantiene la leggerezza necessaria a dialogare con il bianco, in una danza di reciproco riconoscimento, perdendo i caratteri che nel Novecento questo non-colore o massimo-colore ha spesso assunto.

Il gesto, ben controllato nel suo lento incedere, lascia che le forme emergano. E al gesto contribuisce fisicamente tutto il corpo, facendo convergere la giusta tensione verso lo strumento, sotto occhi attenti, aiutati da una grande lente illuminante. Il segno deve essere presente, visibile, non andare oltre le possibilità visive di chi osservi. Sottile ma solido e definito, chiaro e senza fraintendimenti: gesto e artista si assomigliano? Il bulino, nell’utilizzo, tende a lidersi e a inspessire le linee, ma questo non è necessariamente un intoppo, bensì una suggestione che lo strumento stesso regala, spostando di qualche grado la traiettoria dell’ invenzione. E seguirà un’altra passata sul disco abrasivo, la carta seppia e la pietra Arkansas.

L‘incidere è scavare, nella materia e nella memoria, in uno sforzo di rappresentazione. E il nero e il bianco sono concettualmente alla base della tecnica dell’ incisione e riportano al principio di yin e yang, gli opposti che si contrastano e equilibrano, scambievoli e non assoluti, suggestione concettuale e spirituale alla quale il Nostro é sensibile, come ad altri contenuti legati alla cultura orientale. Ci torneremo.

Per Navaretti, il disegno, l’ arte, necessitano innanzitutto di essere artigianato da praticare con costanza, sempre quando possibile, senza cercare precise mete finali o medaglie, accreditamento presso questa o quella corrente, classificazione, plauso di claque: l’ arte é per lui un gesto naturale della quotidianità, come tutto ciò che riempie le giornate, e che richiede solitudine, nel senso alto di libertà da ogni influenza, senza impellenze pressorie. Ed è un gesto che della vita risente, ma sempre fluendo col resto, nella complessità, nella entropia degli eventi.

L’ Artista torinese non sa dove finirà la propria opera, quando la inizia: lascia che sia lei stessa a disvelarsi, a modellarsi sotto le mani, a suggerire; non teme l’errore, che troverà senso nel contesto; non persegue un progetto -magari nato da una bozza preparatoria- lavorando per la sua realizzazione. Improvvisamente, poi, emerge la chiave di volta e appare la soluzione di questo vagare: un buco da riempire, una sagoma portata a galla, una modifica alle onde ed ecco che prende forma precisa, puntuale, l’oggetto, animato o inanimato che sia, e il lavoro arriva a compimento. L‘incisore non cerca l’ispirazione, dunque, ma trova la risposta nel fare stesso, nel divenire dell’atto creativo: è il soggetto stesso che si disvela. E la memoria corre a Picasso e al suo “Io non cerco, trovo”.

Navaretti pare assimilare idealmente questo procedimento alle sue amate passeggiate, dove si lascia pervadere dal mondo circostante, osservando la vita scorrere in quel preciso momento, accogliendo l’ hic et nunc, e si porta a casa un ricordo, una emozione; a volte un dolore, un turbamento. Perché questo incedere è sempre un viaggio, lo stesso che percorre il suo bulino mentre nel silenzio lascia che le emozioni, le memorie inconsapevoli, tornino e prendano libera forma. Ed è un viaggio affettuoso nelle cose, che si presentano nella loro semplicità, come manifestazione di sé e testimonianze del mondo. Ed è lo stupore di esse. Talvolta i soggetti presenti nelle opere propongono domande, si trovano in situazioni ambigue, sospese come le risposte possibili, appena suggerite. E’ dunque un vagare nella vita.

Osservando le opere del Maestro l’occhio si perde in linee che formano nuvole, tessiture, che per pareidolia mostrano a ognuno forme diverse, accenni, suggestioni, e da questo sfondo emergono, con tecnica descrittiva definita e sopraffina, oggetti e animali, piante e fiori. Ma Navaretti chiede di non limitarsi a pretendere un riscontro retinico delle cose, un iperrealismo asettico, ma di accettare la rilettura che, pur puntuale, genera la mente-occhio dell’ incisore. Come nascono le immagini, da dove arrivano? L’incisore torinese si racconta e conduce verso la comprensione del proprio atto creativo, che nasce lasciando fluire la mano, il segno spesso seriale, ripetitivo, come in molte opere degli Anni Novanta e Duemila, pulviscoli e tessiture che addensano e ràrefano la luce, oppure composto da matasse di fili sottili come capelli, in genere a rappresentare dinamici e cangianti sfondi. La finezza del segno crea paesaggi preziosi: boschi, turbinii, spazi che dividono la tela (anche metaforicamente parlando) in modi diversi: nuvole dense di accenni o divisioni orizzontali, oppure diagonali, riportando volutamente ai contrasti del pensiero orientale. Si osservano spesso due piani visivi differenti, l’uno sull’altro.

 

Le opere trovano un titolo quasi sempre una volta terminate, dando compiutezza al lavoro, concludendone l’articolato percorso e aprendo la strada a una nuova esperienza: e questo l’Autore lo fa spesso con ironia, giocando con le parole, con citazioni di poesie, di motti, di testi sacri, di neologismi scherzosi. Ad esempio, “Scampo?, 2020”, “Campo?, 2021”

Viddi ‘na cozza, 2021” o “Palla al centro, 2023”.

E trova spesso ispirazione nell’ opera del poeta giapponese Matsuo Bashō (1644 – 1694) del periodo Edo, del quale ci pare importante segnalare questi versi significativi, nel chiarire il concetto taoista di “La via, la strada”: ”(…) I propositi iniziali, per non diventare fonte di frustrante impotenza, vanno posti e perseguiti con la serena consapevolezza che il Tempo e la strada da percorre sulla lastra influiranno sulla loro teoretica (N.d.r. Filosofia della realtà e della conoscenza) chiarezza. Tempo del lavoro ed il lavoro del Tempo, apriranno imprevedibili sviluppi che – del proposito iniziale – lasceranno intatto solo la spinta ideale, non i freddi e inumani condizionamenti”.

Opere riferite a Bashō: “Riemerge la rana di Bashō, 2014” e “Takotsubo o del vaso da polpi di Matsuo, 2023”

Terminato questo nostro incontro ideale con l’Artista torinese, ci troviamo a constatare che le sue opere veicolano non solo una grande competenza tecnica e contenuti artistici solidissimi, ma anche ironia e stupore, amore per l’amicizia e la convivialità, lo scambio, il sorriso; a ricerca interiore; uno sguardo aperto al divenire degli eventi, accettandone la complessità e l’appartenere a un Disegno imperscrutabile. E quindi ci piace immaginare l’incisore Guido, Torino, XXI secolo, congedatosi dal mondo esterno, chinarsi sul suo banco e, in compagnia del fedele bulino, adagiare sulla carta la magia delle cose.

Davide Ficco

 

Guido Navaretti é nato a Torino nel 1952 e, terminato il Liceo Artistico, nel 1975 si diploma in Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti ottenendo il Premio Dino Uberti come miglior licenziato del Corso e il Premio Vittorio Avondo, come miglior licenziato di tutti i Corsi. Nell’ incisione é allievo di Mario Calandri e Francesco Franco. Dal 1986 inizia il rapporto con quella che nel 1989 diverrà la “Franco Masoero Edizioni d’Arte”, eccellenza nella tecnica della stampa, con la personale alla Stamperia del Borgo Po. Nel 1999 inizia la produzione a bulino di matrici xilografiche e la pubblicazione sulla rivista Smens, edita da “Nuova Xilografia”, oltreché la partecipazione alle sue iniziative editoriali. Ha insegnato presso i Licei Artistici di Milano, Novara e Torino. Le sue incisioni sono presenti in decine di esposizioni in tutto il mondo; recentissima, la Victoria & Albert Museum di Londra.

Studenti torinesi: Primo Levi al d’Azeglio

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6 Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio

“Panem et Circenses”, con queste parole Giovenale, il grande autore satirico romano (I-II sec. d.C.), denunciava una politica manipolatrice, che utilizzava lo svago e i futili passatempi per ingannare il popolo, così che l’apparente benessere della massa corrispondesse al più concreto benessere politico.
Nella nostra epoca contemporanea la celebre locuzione potrebbe variare nei termini, ma non credo poi molto nel significato. Grazie alle numerosissime app dei nostri smartphone risolviamo comodamente da casa il problema del “panem”, giocando a farci portare a domicilio qualunque tipo di cibo ci solletichi e poco ci importa di chi deve appagare celermente il nostro stomaco, né delle difficoltà in cui potrebbe incorrere il nostro corriere nel tragitto. Più o meno secondo la stessa modalità soddisfiamo i “circenses”, le piattaforme multimediali aumentano esponenzialmente a velocità impressionante, la nostra unica difficoltà è rimanere sempre aggiornati per poter scegliere l’offerta migliore e quindi trascorrere il pomeriggio comodamente sul divano, guardando quel film di cui tutti parlano, oppure la serie Tv più in voga al momento. E se non ci sentiamo così tanto “passivi”, allora possiamo ricorrere ai giochi, alla playstation, alla wii, ai giochi on line e via discorrendo. E non sto parlando di questo drammatico periodo, in cui stare a casa ovviamente non è un obbligo, ma un dovere nei confronti degli altri e di noi stessi; mi riferisco a prima, a quando le abitudini non erano poi così diverse da ora, ma nessuno si lamentava.

Non è il caso di sentirsi “complottisti”, ma di certo dà da pensare tutta questa tecnologia “monoporzione”, che impegna e che immerge totalmente, che unisce, ma sempre attraverso uno schermo, e che ci distrae dalla vita vera, quella che scorre fuori dalla finestra, mentre noi non la guardiamo.
Che si può fare per sconfiggere questa apatia dilagante, questa superficialità di massa, questa abitudine all’approssimazione? Si può reagire. Come? Attraverso la cultura e la conoscenza, andando ad investire là dove non c’è rimasto quasi niente, andando a riporre fiducia nei professionisti dell’educazione, riconoscendo nuovamente l’importanza e l’essenzialità della scuola.
Nell’opera “Se questo è un uomo”, nel capitolo “ il canto di Ulisse”, Primo Levi ricorda di aver cercato di insegnare l’italiano al compagno di lager Jean, spiegandogli il XXVI dell’”Inferno” dantesco, la cui parte essenziale è dedicata alla “orazion picciola” dell’eroe greco che dice ai compagni: “fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”. La tragedia odissiaca mantiene una precisa funzione esemplare, vuole essere un monito per tutti gli uomini, un proposito al di sopra di ogni affetto contingente, all’infuori di ogni preoccupazione di pericolo personale. L’autore combatte così la brutalità e l’ignominia di Auschwitz, appellandosi, in questa parte del testo, alla grandezza invincibile del Sommo Poeta, padre della lingua italiana e indiscusso simbolo di cultura universale.

Non a caso ricordo Primo Levi, perché è proprio di lui che vorrei raccontare qualcosa oggi, sempre continuando nel nostro percorso sulla scuola e sugli studenti torinesi.
Egli nasce a Torino, il 31 luglio del 1919. È stato testimone diretto delle deportazioni naziste, i suoi scritti sono una testimonianza sempre attuale e passai notabile a proposito di quegli anni bui che continuano a suscitare vergogna alla coscienza degli uomini. Di salute cagionevole, Primo era un bambino sensibile e fragile, caratteristiche che lo hanno portato a trascorrere un’infanzia sostanzialmente solitaria. Nel 1921 nasce Anna Maria Levi, la sorella minore a cui lui rimane sempre affezionato.
Nel 1934 Primo viene iscritto al Ginnasio del Liceo Massimo D’Azeglio di Torino, fin da subito si palesa un eccellente studente, dimostrando bravura e preparazione sia nelle materie scientifiche che in quelle letterarie. Da non dimenticare che il primo anno avrà niente meno che Cesare Pavese come supplente di italiano, anche se solo per pochi mesi. Dopo le scuole superiori, Primo frequenta la Facoltà di Scienze, che termina con una laurea con lode nel 1941: sono anni importanti per il brillante giovane, sia per la crescita personale, sia per le amicizie che riesce a stringere tra i banchi di scuola e i laboratori, rapporti sinceri che dureranno per tutta la vita. Eppure c’è un dettaglio da sottolineare, sull’attestato di laurea vi è scritto: “di razza ebraica”. Intanto la guerra incalza, ed egli nel 1942 si trasferisce a Milano, nel 1943 si rifugia ad Aosta e si unisce ad un gruppo di partigiani. Il suo coraggio però non lo ripaga con la stessa moneta e di lì a poco Levi cade prigioniero dei nazisti; il giovane viene deportato prima al campo di Fossoli (Modena) e poi, all’inizio del ’44, nel lager di Monowitz, che faceva parte del sistema dei campi di Auschwitz. Il resto come si suol dire è storia: impossibile riprendersi da tale drammatica esperienza.

Liberato nel gennaio del ’45 dalle truppe sovietiche, per tornare in patria Levi deve attraversare la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, e infine giunge a Torino nell’ottobre del ’45. Inseritosi nella vita civile, sente comunque il bisogno di raccontare ciò che ha subito.
Scrive “Se questo è un uomo”, romanzo-testimonianza edito nel 1947 e ancora oggi letto a scuola, un libro che forse è nato “per forza”, per dovere di imprimere nella memoria collettiva la violenza e la brutalità di cui l’uomo è capace. In una scrittura lucidissima e misurata, il ricordo della vita nel lager di Monowitz si svolge come in un racconto-diario. Tutto è guidato dal desiderio di capire una realtà che appare oltre ogni razionalità. In quel mondo assurdo, il prigioniero tiene costantemente vigile una ragione impotente di fronte alla terribile epopea di una umanità irrimediabilmente offesa.

Nel 1963 Levi pubblica “La tregua”, in cui racconta il ritorno a casa dopo la liberazione, un singolare momento di “tregua” nella vita. Scrive “Vizio di Forma” (1971), “Il sistema periodico” (1975), un insieme di racconti autobiografici disposti in ventuno capitoletti, “L’osteria di Brema”, “La chiave a stella” (1978), “La ricerca delle radici” e “Se non ora quando?”(1982), nitida ricostruzione delle vicende di un gruppo di partigiani ebrei in Russia. Nel 1986 viene pubblicato un saggio, ultimo lavoro dell’autore, dal titolo emblematico, “I Sommersi e i Salvati”, che ha valore di accorato testamento, un inquieto ritorno dell’autore all’esperienza del lager, e alla necessità di interrogarsi su quell’orrore inesprimibile. Una memoria per tutti, per una società che potrebbe ricadere nel male. Primo Levi muore suicida nella casa di Torino l’11 aprile 1987.Chissà se un po’ del coraggio di questo grande uomo gli venne anche dalla formazione scolastica avuta al Liceo D’azeglio, luogo per definizione dell’”intellighenzia torinese”? La storia del Liceo inizia nei primi anni dell’Ottocento, quando viene istituito il Collegio di Porta Nuova. L’istituzione è prima trasferita nel 1852 presso la Parrocchia degli Angeli, poi, nel 1857, viene nuovamente spostata presso il Collegio Municipale Monviso. Con l’aumentare della popolazione della città subalpina, si sente il bisogno di creare un nuovo liceo classico, oltre ai già presenti licei Cavour e Gioberti, risalenti il primo al 1586 (riceverà la titolazione “Cavour” nel XIX secolo) e il secondo al 1865 (l’Alfieri verrà fondato nel 1901); così nel 1882 viene fondato il Liceo D’Azeglio, intitolato al celebre politico risorgimentale. La scuola comprendeva allora i cinque anni di corso ginnasiale e i tre del corso liceale. All’epoca, gli studenti appartenevano per lo più alla borghesia della zona Crocetta, anche se non mancavano iscritti di altre zone e classi sociali.

Molte sono le figure “dazegline” che hanno rivestito un rilevante ruolo politico e culturale nella storia, non solo di Torino, ma di tutto il Paese. Tra i vari nomi è bene ricordare Umberto Cosmo, Augusto Monti, Zino Zini, Franco Antonicelli. Tra gli studenti, Cesare Pavese (che è stato per qualche tempo anche docente), Giulio Einaudi, Leo Pestelli, Massimo Mila, Luigi Firpo, Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Giancarlo Pajetta, Renzo Giua, Emanuele Artom, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Primo Levi, Fernanda Pivano. In tempi più recenti hanno frequentato le medesime aule Mario ed Enrico Deaglio, Paolo Montalenti, Gian Savino Pene Vidari, Lucio Levi, Sergio Pistone, Roberto Alonge, Carlo Ossola. Inoltre, nel 1975, durante gli anni della partecipazione attiva al movimento studentesco, viene eletto presidente del Consiglio d’Istituto Primo Levi, il quale promosse come prima iniziativa un rinnovato impegno antifascista del Liceo.

Un importante fatto sportivo si lega poi al Liceo D’Azeglio: nel 1897, un gruppo di studenti della terza e della quarta classe del Ginnasio, che si ritrovavano assiduamente in Piazza d’Armi per giocare a calcio, fondano niente meno che la “Juventus”. Nel 1900 la squadra esibisce la camicia rosa e la cravatta nera nel primo campionato, che affronta presentandosi con il nome Sport Club Juventus. Nell’attuale sede della squadra è tuttora conservata la panchina che un tempo si trovava in C.so Re Umberto, attorno alla quale erano soliti ritrovarsi i ragazzi fondatori della squadra.
Attraverso i registri e i documenti scritti, sono molte le storie del Liceo che per fortuna possono essere ricordate. Le vicende parlano di legami forti che si crearono tra studenti e studenti, ma anche tra scolari e professori, narrano di incontri il sabato pomeriggio, in un caffè di via Rattazzi tra il “Profe” Monti e i suoi allievi ed ex allievi, o raccontano ancora di quell’episodio che vedeva come protagonista Giancarlo Pajetta, espulso per volontà del Ministero della Cultura con l’accusa di propaganda sovversiva: tale avvenimento era stato così commentato dal professor Monti: “Fu bene una fucina di antifascisti il ‘Massimo D’Azeglio’ in quegli anni, ma non per colpa o per merito di questo e quell’Insegnante, ma così, per effetto dell’aria, del suolo, dell’ ‘ambiente’ torinese e piemontese. Quel Liceo era come una di quelle case in cui ‘ci si sente’; dove i successivi inquilini sono visitati nel sonno – e anche da desti – dagli spiriti, dalle anime.”

Altro episodio testimoniato è il rinvio a settembre della prova di italiano nella sessione estiva degli esami di maturità del 1937 di Fernanda Pivano e del compagno Primo Levi, i due scrittori si erano ritrovati a dover sostenere nuovamente la prova nella sessione autunnale. Quante cose accadono a scuola, quante se ne imparano, quante ci rimangono impresse nella memoria per sempre. Non facciamoci distrarre dalle comodità dell’ultimo momento, ricordiamoci di che cosa è importante, di ciò che ci eleva, di ciò che ci fa crescere sul serio.

Alessia Cagnotto