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Antichi Stati di Savoia, a settembre il rinnovo dei voti di Superga

SABATO 9 SETTEMBRE CONVEGNO A SAN FILIPPO NERI SUL TEMA “TORINO 1706-2023: LA FESTA DEL RINNOVO DEI VOTI GIA’ FESTA NAZIONALE DEGLI STATI DI SAVOIA – ASPETTI STORICI, MILITARI E RELIGIOSI”

DOMENICA 10 SETTEMBRE TRADIZIONALE FESTA DEL RINNOVO DEI VOTI ALLA BASILICA DI SUPERGA CON LA SFILATA DEI GRUPPI STORICI, LA SANTA MESSA, L’OMAGGIO ALLE TOMBE REALI

Torna anche quest’anno a Torino l’ormai tradizionale appuntamento con la cerimonia del “Rinnovo dei voti” di Superga e “Festa nazionale degli antichi Stati di Savoia”, una duplice ricorrenza che ricorda la liberazione dell’allora capitale sabauda dall’assedio franco-spagnolo del 1706 e rinnova il voto religioso con cui il duca di Savoia (poi re) Vittorio Amedeo II si impegnò edificare una grande chiesa in onore della Madonna, la futura Basilica di Superga.

L’importante avvenimento, promosso dalla delegazione “Piemonte e Stati di Savoia” del movimento culturale “Croce Reale – Rinnovamento nella Tradizione” con il sostegno della Presidenza del Consiglio Regionale del Piemonte e la collaborazione della direzione della Basilica di Superga, affidata alla comunità religiosa del SERMIG (Servizio Missionario Giovani) di Torino, avrà inizio sabato 9 settembre, presso la sala oratoriana della chiesa di San Filippo Neri, nel cuore della Torino sabauda, con il convegno sul tema “Torino 1706-2023: la festa del Rinnovo dei voti già festa nazionale degli Stati di Savoia – aspetti storici, militari e religiosi”.

L’incontro, in programma a partire dalle ore 16.30, sarà preceduto dai saluti di Fabrizio Giampaolo Nucera, presidente del movimento culturale “Croce Reale – Rinnovamento nella Tradizione”, e dall’introduzione storica a cura di Paolo Barosso, e vedrà la partecipazione di quattro esperti relatori: Alessia Maria Giorda, Referente della Valorizzazione del Patrimonio Artistico e Storico del Museo e della Residenza Sabauda di Rivoli, che interverrà sul tema “La Fojada, vardé bin, i lass-roma pa pijé Turin. Storie torinesi durante l’Assedio di Torino del 1706”; Eugenio Garoglio, formatosi presso il dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino, cultore di storia militare e armi antiche e oplologo per il Ministero della Cultura, che parlerà di “L’eclissi del Re Sole. L’assedio di Torino del 1706”; Pier Giuseppe Menietti, studioso e ricercatore, collaboratore volontario del Museo «Pietro Micca e dell’Assedio di Torino del 1706», che illustrerà al pubblico la figura e le opere del beato Sebastiano Valfrè con una relazione dal titolo “Padre Bastiano nella città assediata”; infine padre Simon Parada, che concluderà l’incontro focalizzandosi sulle vicende storiche e religiose della “Confederazione dell’oratorio di San Filippo Neri”.

Il programma della giornata di sabato prevede anche un’iniziativa all’insegna della convivialità con la cena in bianco organizzata a Pianezza (To) dalla Pro Loco a partire dalle ore 19.30 e allietata dall’accompagnamento musicale della fisorchestra che eseguirà brani dedicati.

La manifestazione entrerà poi nel vivo domenica 10 settembre sul colle di Superga dove alle ore 9.30 avrà inizio la tradizionale Festa del Rinnovo dei Voti con la sfilata dei gruppi storici in costumi d’epoca seguita alle ore 11.30 dalla celebrazione della Santa Messaall’interno della basilica e alle ore 12.15 dall’omaggio alla Beata Vergine delle Grazie e atto del Rinnovo dei voti. La cerimonia si concluderà alle ore 13 con la discesa alle Tombe Reali e l’omaggio agli esponenti della dinastia sabauda.

Sempre nell’ambito della cerimonia del Rinnovo dei voti e della Festa nazionale degli antichi Stati di Savoia, si terrà sabato 23 settembre alle ore 11, presso la Real chiesa di San Lorenzo, nella centrale piazza Castello a Torino, la seconda edizione del tradizionale concerto “Festival sabaudo di musica sacra”.

L’evento di Superga perpetua la memoria del voto fatto dal duca Vittorio Amedeo II per la liberazione della capitale sabauda dall’assedio del 1706: salito il 2 settembre, in compagnia del cugino principe Eugenio, sulla cima del colle, punto di osservazione ideale per concertare il piano di battaglia, il duca Vittorio Amedeo II, come racconta la tradizione, si raccolse in preghiera dinnanzi all’effigie della Madonna nel piccolo oratorio di Santa Maria sub pèrgolam, implorandone l’intercessione e promettendo di far edificare sulla vetta della colle una grande chiesa dedicata alla Vergine, che avrebbe poi visto la luce a partire dal 1717 con la posa della prima pietra della grandiosa Basilica di Superga, frutto dell’ingegno dell’architetto messinese Filippo Juvarra.

Sempre nel quadro delle celebrazioni legate al Rinnovo dei voti e Festa nazionale degli antichi Stati di Savoia, è in programma nella giornata di sabato 23 settembre, con inizio alle ore 11, la seconda edizione del tradizionale concerto “Festival sabaudo di musica sacra”, che andrà in scena nella splendida cornice barocca della Real Chiesa di San Lorenzo, nella centrale piazza Castello.

L’evento del “Rinnovo dei voti” e “Festa nazionale degli antichi Stati di Savoia” si collega alla vittoria conseguita il 7 settembre 1706 dall’esercito austro-sabaudo, guidato dal duca Vittorio Amedeo II di Savoia e dal cugino, principe Eugenio di Savoia-Soissons, contro l’armata franco-ispanica, forte di 45.000 soldati, che dal mese di maggio cingeva d’assedio la città di Torino, capitale degli Stati di Savoia, nel quadro del conflitto di portata europea conosciuto come “Guerra di Successione Spagnola” (1701-1714).

Il lungo assedio, segnato da continui bombardamenti sulla città con palle di pietra e bombe incendiarie, ebbe termine con la battaglia del 7 settembre, che obbligò i franco-ispanici alla ritirata: negli anni successivi alla grande impresa si affermò, a Torino e nell’intero territorio degli Stati Sabaudi, la consuetudine di celebrare la ricorrenza della vittoria e della liberazione dall’assedio come una grande festa nazionale, e questa gloriosa tradizione, interrotta per un lungo periodo, è stata in tempi recenti riportata in auge, coinvolgendo gruppi e delegazioni provenienti da tutte le province storiche degli antichi Stati, in particolare Nizza e Savoia.

RINNOVO DEI VOTI DI SUPERGA E FESTA DEGLI STATI DI SAVOIA

Per informazioni sull’evento e prenotazioni scrivere a: superga1706@gmail.com

Go Wine, Nespolo Maestro di “Bere il territorio”

Sabato 23 settembre ore 17,30

Castello di Grinzane Cavour

Sala delle Maschere

 

UGO NESPOLO è “Il Maestro”

DELLA XXII EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO

BERE IL TERRITORIO

 

Un Premio Speciale a Alessandro Masnaghetti

per l’attività editoriale di Enogea e delle mappe per percorrere i territori del vino italiano

Si conclude con la Cerimonia finale di premiazione il percorso della XXII° edizione del Concorso Nazionale Letterario Bere il territorio, promosso da Go Wine.

In questa edizione l’evento si colloca in settembre e si inserisce in un programma di eventi legati alla Festa del Vino che l’associazione promuove ad Alba e nel territorio circostante.

 

La cerimonia di premiazione di Bere il territorio si terrà sabato 23 settembre p.v. alle ore 17 presso la prestigiosa sede del Castello di Grinzane Cavour, con la collaborazione dell’Enoteca Regionale Piemontese che nel Castello ha sede.

Un momento di incontro e di cultura del vino, alla presenza della Giuria del Concorso, dei premiati e del pubblico che da anni segue questo appuntamento.

Parteciperanno all’evento anche delegazioni di soci Go Wine, che staranno due giorni ad Alba e sul territorio condividendo nel corso della domenica il meeting nazionale dei soci e, al pomeriggio, il percorso festoso degli assaggi nel centro storico di Alba.

Ugo Nespolo, disegnatore, artista e scrittore, è “Il Maestro” del Concorso Letterario Nazionale Bere il territorio, promosso dall’associazione Go Wine e giunto nel 2023 alla ventiduesima edizione.

Il riconoscimento gli verrà assegnato durante la cerimonia presso la Sala delle Maschere del Castello di Grinzane Cavour, Sala delle Maschere.

 

Il riconoscimento al “Maestro” è stato istituito a partire dalla terza edizione e si propone di premiare importanti figure della cultura italiana, che possano essere di riferimento per i più giovani o testimoni di un particolare rapporto con l’identità dei luoghi e della civiltà materiale che li caratterizza.

 

Il riconoscimento de “Il Maestro” è stato nelle precedenti edizioni attribuito a Luigi Meneghello, Niccolò Ammaniti, Claudio Magris, Lorenzo Mondo e Gianmaria Testa, Sebastiano Vassalli, Dacia Maraini, Alberto Arbasino, Enzo Bettiza, Franco Loi, Francesco Guccini, Pupi Avati, Raffaele La Capria, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Maggiani, Luciano Canfora, Marcello Fois, Maurizio Molinari, Paolo Pejrone e Tullio Pericoli.

 

Alla presenza della Giuria del Concorso Letterario verranno premiati anche i vincitori delle varie sezioni del Concorso.

Fin da ora si annuncia che un Premio speciale verrà assegnato ad Alessandro Masnaghetti per l’attività editoriale di Enogea e, in particolare, per il prezioso lavoro svolto nella redazione delle mappe di molti territori del vino italiano.

 

La Giuria del concorso Bere il territorio si compone della cortese presenza di: Gianluigi Beccaria (Università di Torino), Valter Boggione (Università di Torino), Margherita Oggero (scrittrice), Piero Bianucci (scrittore, giornalista scientifico), Bruno Quaranta (La Repubblica) e Massimo Corrado (Associazione Go Wine).

 

Ugo Nespolo è nato a Mosso, nel Biellese, nel 1941. Artista versatile di statura internazionale, dalla pittura al cinema alla scultura. Anticipa l’Arte Povera di Germano Celant esordendo a Milano nel 1968, Galleria Schwarz, con la mostra “Macchine e oggetti condizionali” presentata da Pierre Restany. A Torino appare, sempre in quegli anni, alla galleria Il Punto, sotto l’egida di Reno Pastori. Nel 1967 è pioniere del Cinema Sperimentale Italiano, sulla sica del New American Cinema.

Risale al 1968/1969 il suo film “Buongiorno Michelangelo”, un cortometraggio di diciotto minuti, realizzato con Michelangelo Pistoletto e Alighiero Boetti, curatrice Daniela Palazzoli. 

 

Chiamato a esporre in tutto il mondo, Ugo Nespolo allestì nel 2007 ad Alba la mostra “My way”, in contemporanea alla Fiera internazionale del tartufo. Nello stesso anno – a esemplificare una sua ulteriore sensibilità – ideò e realizzò per il festival Puccini scenografie e costumi della Madame Butterfly. Nel 2006 aveva ideato immagini, video e vetrofanie per la Metropolitana di Torino e realizzato due personali in occasione dei Giochi Olimpici. 

 

Tre le opere di Ugo Nespolo, i sette metri di acciaio colorato all’inizio del lungomare di San Benedetto del Tronto “Lavorare, lavorare, lavorare, preferisco il rumore del mare”. Il trittico “Nespolo legge Dante”, commissionato dalla De Agostini. Il “Monumento alla Stufa”, opera permanente nella città di Castellamonte. La nuova insegna del “Camparino”, lo storico caffè della Galleria Vittorio Emanuele di Milano. Il calendario dei Carabinieri. I manifesti realizzati, tra le altre occasioni, per Azzurra, il Salone internazionale dell’auto di Torino, la Federazione Nazionale della Vela.

 

Diplomatosi in Pittura con Enrico Paulucci, fra i Sei di Torino, Ugo Nespolo è laureato in Lettere moderne e ha ricevuto (2019) la laurea honoris causa dall’Università di Torino in Filosofia. Tema della lectio magistralis “Et in academia ego”: “Sono certo sarebbe stato più prudente iniziare e concludere questa mia lectio prestando fede – e mettendo in pratica – quanto scrive Ludwig Wittgenstein nel 1923 in Pensieri diversi quando dice: ‘In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente’”.

Ugo Nespolo è autore di numerosi libri. Da “Maledette belle arti” (Skira) a (con Enrico Baj) “Nespolo ovvero il pretesto del funzionale” (Skira), da “Per non morire d’arte” (Einaudi) al recente “Vizi d’arte” (Skira), con la prefazione di Alberto Manguel.

Art Nouveau Week  tra Torino e Biella

Giunta alla quinta edizione e quest’anno presente a Torino con un ricco e vario programma di
appuntamenti, Art Nouveau Week 2023 si prepara ad accogliere centinaia di partecipanti iscritti alle
dieci iniziative previste nel capoluogo subalpino e ai due inconsueti itinerari guidati in programma a
Biella, che per la prima volta partecipa alla manifestazione internazionale ideata e curata dal
presidente di Italia Liberty, Andrea Speziali, e organizzata dal suo staff dall’8 al 14 luglio di ogni
anno.

L’edizione torinese si avvale del Patrocinio della Città di Torino e della collaborazione con il
Conservatorio Statale di Musica “G. Verdi”, il Centro Culturale “M. Pannunzio”, la Fondazione “T.
di Barolo” – MUSLI e Daniela Piazza Editore. Mentre quella biellese si avvale del Patrocinio della
Città di Biella e della collaborazione con l’Archivio di Stato di Biella, la Fondazione Cassa di
Risparmio di Biella e il DocBi – Centro Studi Biellesi.

Da tempo sono esauriti i posti per la conferenza-concerto inaugurale di pianoforte e arpa su note Art
Nouveau che si terrà l’8 luglio presso il Conservatorio Statale “G. Verdi” di Torino, dove gli
intervenuti avranno anche il privilegio di visitare la straordinaria Galleria degli Strumenti, prezioso
documento della vita musicale della Città e della storia del Conservatorio. La collezione conta 156
esemplari firmati da grandi nomi della liuteria piemontese e celebri costruttori di strumenti a fiato
subalpini e, tra i suoi molti gioielli, vanta lo Stradivari Mond del 1709 appartenuto alla celeberrima
violinista torinese Teresina Tua, educatasi al Conservatorio di Parigi, vincitrice a quattordici anni del
Grand Prix bandito nella capitale francese, elogiata da Verdi, Liszt e Wagner, insegnante presso
l’Accademia di Santa Cecilia di Roma, acclamata nei maggiori templi della musica europei e
newyorchesi e deceduta a novant’anni come suor Maria del Gesù.


Complice l’anima proteiforme e marcatamente interdisciplinare dell’affascinante corrente di gusto
che in Italia chiamiamo Liberty, le edizioni subalpina e biellese dell’imminente settimana dell’Art
Nouveau concentreranno infatti la loro attenzione su tutte le arti con digressioni, in gran parte inedite,
fra coinvolgenti storie di persone – committenti, progettisti, artisti, maestri artigiani o semplici fruitori
– restituite attraverso puntuali ricerche documentali, così da tracciare un connotante e parallelo fil
rouge che caratterizza tutte le iniziative.

Le storie di persone e famiglie sono tema imprescindibile quando si tratta della città silente nel
Cimitero Monumentale di Torino, divenuta nell’arco di pochi decenni vero e proprio spazio
espositivo di opere d’arte e, via via, autentico e vasto museo a cielo aperto, visitato durante le
ricorrenze autunnali come occasione per scoprire la più recente produzione scultorea. Quale stile
specifico e caratteristico della borghesia tardo-ottocentesca e veicolo figurativo privilegiato delle sue
fortune e della sua affermazione come classe dominante, il Liberty ha infatti trovato applicazione
elettiva nei luoghi e nei monumenti che appunto rappresentavano o intendevano simboleggiare ruolo
e destini di questa stessa borghesia, con un’accentuazione dei suoi tratti espressivi nei grandi cimiteri
urbani. Tale fenomeno toccò nel profondo anche Biella e soprattutto Oropa e Rosazza, questi due
ultimi suggestivi cimiteri-giardino, che saranno meta di futuri itinerari volti all’ulteriore scoperta del
Liberty nel capoluogo e nelle valli biellesi.

Circostanza non trascurabile, sia a Torino che nel biellese, protagonista delle svolte stilistico-culturali,
rispettivamente in direzione simbolista d’intonazione spiritualista e floreale in sintonia con la teoria
delle correspondances, è stato Leonardo Bistolfi, casalese di nascita, formatosi tra Brera e l’Albertina,
che esordì nella scultura cimiteriale subalpina con un intenso Angelo della morte a tutto tondo, in
primo piano, che personifica la riflessione sul mistero dell’estremo commiato dall’esistenza terrena,
e sullo sfondo una culla vuota, quasi a “stiacciato”, pressoché impercettibile incipit della dolorosa
narrazione.

Poco dopo, negli anni Novanta, Bistolfi convalidò una produzione che reca una particolare
componente pittorico-floreale destinata, con la complicità della grafica di analogo ductus, a passare
dalla scultura alla decorazione plastica, a fresco e nel parato per interni. Il già notissimo scultore e
pittore casalese era anche valente violinista e amava trascorrere lunghi periodi di vacanza a
Camburzano, nella villa del famoso soprano Cesira Ferrani, Mimì nella prima della Bohème al Regio
di Torino sotto la bacchetta di Arturo Toscanini, anch’egli assiduo frequentatore del vivace cenacolo
culturale che, allo scadere del secolo, era nato nella bella dimora camburzanese, animato da Lidia,
sorella di Cesira e apprezzata pianista, e dallo zio Luigi Ferraria, compositore e avvocato. Negli stessi
anni sono state numerose le opere plasmate dall’artista casalese per i suoi amici biellesi; non deve
perciò sorprendere la profusione fitomorfica posatasi su decine di costruzioni nel capoluogo e nelle
sue valli, giungendo a connotare soprattutto Casa Ripa a Biella, autentico catalogo di essenze
bistolfiane, distribuite con raffinata eleganza in abile coerenza con la valorizzazione funzionale e
simbolica delle diverse parti dell’edificio, commissionato nel 1906 dall’avv. Paolo Ripa, funzionario
presso la Regia Conciliatura biellese e anche scrittore satirico sul noto settimanale milanese «Il
Guerin Meschino».

È questa un’altra storia che merita di essere raccontata, come quella che, a torto, si presume ormai
scontata della Prima Esposizione internazionale di arte decorativa moderna, allestita nel 1902 a
Torino, che vide il trionfo dell’Art Nouveau. In realtà l’architettura torinese e di alcune vicine località
di villeggiatura aveva già intrapreso la via dell’Arte Nuova al di fuori di questa grande kermesse. Lo
dimostrano, tra gli altri, Riccio e Velati Bellini con Casa Florio in via Bertola, Benazzo con Casa
Tasca in via Beuamont, Dolza con la scuola oggi Istituto Avogadro in corso San Maurizio, Rigotti
con la perduta Palazzina Lavini-Toesca in via Tiepolo, Gribodo con Villa Antonietta a Cozze e lo
prova soprattutto Pietro Fenoglio che aveva espresso la sua originale e altissima interpretazione
dell’Arte Nuova sin dal 1900 nell’ormai snaturata palazzina della Società Finanziaria Industriale
Torinese di via Beaumont. Dopo aver declinato l’incarico nel comitato artistico espositivo,
accampando motivi di salute, Fenoglio giunse a una revisione strutturale dell’architettura nella
palazzina-studio per sé e i fratelli in via Principi d’Acaja, 11. Il maggior vessillifero del Liberty
torinese e i suoi familiari con molta probabilità non abitarono mai in questa casa, subito divenuta
manifesto e pubblicità implicita dell’avanzata progettualità fenogliana e già alienata nel 1904 a
Giorgio Lafleur, come avremo modo di sottolineare quando ne varcheremo la pregevole bussola
d’ingresso durante Art Nouveau Week.

A margine della strada reale di Francia Fenoglio ha così soggettivato con singolare coerenza istanze
di matrice franco-belga, mostrandosi in linea con il più profondo naturalismo Art Nouveau, di cui è
emblematica generazione il serramento ad ali di farfalla, caro ai maestri di Nancy, forse da leggersi
come risposta ai “tedeschizzanti” padiglioni espositivi che Raimondo D’Aronco stava erigendo in
quello stesso 1902 al Valentino. Tra i progettisti e gli intellettuali torinesi era infatti risaputa l’aspra
polemica generata dalla vittoria dell’architetto friulano nel concorso per la regia distributiva e
stilistica degli edifici per l’esposizione, se pure la stampa ufficiale si fosse affrettata a spiegare tale
scelta come opzione di tendenza e decisione di campo tra le due scuole ritenute più originali: «la
belga, illustrata dai nomi del defunto Hankar e del vivente Horta, e l’austriaca, che, sbocciata sotto
l’insegnamento di un illustre architetto, il quale dall’accademismo più puro passò grado grado alla
modernità più libera, fu detta Wagner Schule… A quest’ultima scuola si può riannodare il
D’Aronco», formatosi a Graz e all’Accademia di Venezia e allora impegnato presso la corte di
Costantinopoli, dove si era trasferito nel 1891 come architetto del governo ottomano e personale del
sultano Abdül Hamit II, svolgendo la parte più importante della sua attività progettuale in un paese
crocevia di molteplici esperienze. Non potendo pertanto seguire in modo continuativo i lavori
dell’esposizione torinese, gli furono affiancati il giovane arch. Annibale Rigotti, torinese e autore del
progetto secondo classificato, l’ing. Enrico Bonelli, anch’egli torinese e docente di Meccanica
Industriale al Regio Museo del capoluogo subalpino e il prof. Giovanni Vacchetta, cuneese di nascita
e Professore di Ornato Superiore al Museo Industriale di Torino, tentando in questo modo di supplire
all’assenza di D’Aronco e di contenere le critiche limitando il rischio di eccessiva “tedeschizzazione”
dei padiglioni espositivi. Di fatto, gli edifici effimeri daronchiani erano principalmente ispirati alla
Wagnerschule e all’opera di Olbrich nella colonia da lui fondata a Darmstadt, verso le quali
l’architetto friulano nutriva un’affinità mutuata dall’interesse per l’architettura bizantina e ottomana,
maturata attraverso la conoscenza diretta durante la lunga permanenza a Costantinopoli. Memorie di
Santa Sofia si coniugavano in perfetta armonia con tali istanze, soprattutto nella Rotonda d’onore e
un po’ ovunque nei numerosi padiglioni, dove la sontuosità, la luce, le bucature, le mosse decorazioni
lineari e la cura del dettaglio prezioso emergevano in variazioni raffinatissime.

Chiusa l’esposizione con un buon successo di visitatori, limitati plausi e pesanti strascichi polemici,
proseguì verso D’Aronco l’ostilità di alcune altisonanti voci torinesi, riaffiorata con veemenza quando
nel 1907, rientrato da Costantinopoli, pensò di stabilirsi con la famiglia nel capoluogo subalpino. Sin
dal 1902, egli aveva infatti avviato le trattative per l’acquisto di un terreno di fronte alla Fontana dei
Mesi, sul quale costruire la sua “casetta” che divenne presto una confortevole e funzionale abitazione
con due alloggi e piccolo fabbricato per il custode, edificati “per corrispondenza” come la città
effimera in riva al Po. Mentre proseguiva il suo momento magico di fertilità creativa, Palazzina
Javelli, dal cognome della moglie cuneese Rita, sorgeva semplice e raffinata, connotata da un partito
decorativo che si conclude in pure linee geometriche, da bucature diversificate nel taglio e nella
tipologia a seconda delle diverse destinazioni d’uso e da un linguaggio dei volumi variato in relazione
alle attività al loro interno. In questa palazzina D’Aronco ha quasi mai abitato e oggi, varcandone
l’ingresso, sorprendono l’avanzata modernità del pensiero compositivo, l’elevato pregio di materiali
e manufatti, la cura dei dettagli e l’integrità generale, nonostante la turnazione di proprietari e i
cambiamenti di destinazione d’uso. Al confronto di tanta qualità costruttiva, ancora più stupisce
leggere nelle lettere a Bonelli e a Rigotti, preposti a seguire i lavori di costruzione, la forte e assillante
preoccupazione economica di D’Aronco, che sosteneva di aver sempre fatto «il signore coi soldi
contati», quasi presagendo una morte tra ristrettezze, sofferenza e solitudine.

Ancora altre storie meriterebbero di essere raccontate, fra le quali l’amore non corrisposto di Ernest
Hemingway per Bianca Maria Bellia, incontrata durante una vacanza a Stresa. Era il settembre 1918
e lo scrittore americano giunse presto a Torino per chiedere la mano dell’avvenente diciassettenne,
ma il padre Pier Vincenzo, noto costruttore di molte case Liberty torinesi, oppose un fermo veto,
ispirando così il personaggio del conte Greffi in Addio alle armi.

Programmi: www.italialiberty.it. Iscrizioni e informazioni sul sito di Italia Liberty, allo +39 320 044
5798, o inviando una mail a torino@italialiberty.it oppure a info@italialiberty.it.

Maria Grazia Imarisio

Nelle immagini:
Particolare decorativo di Palazzina Javelli, progettata da Raimondo D’Aronco nel 1903, in via Petrarca 44 a Torino
Particolare del coronamento di Palazzo Ripa, eretto nel 1906 a Biella, in viale Matteotti 14

Il pericolo del contagio della Francia in fiamme

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Domenico Quirico ,uno dei giornalisti più faziosi della pur faziosissima “La Stampa“ ha scritto: “L’ intifada dei disperati  delle banlieues manda in cenere la Fraternite’”.
L’ex ministro Andrea Riccardi dal canto suo ha affermato, riferendosi all’ Italia: “Non bisogna avere paura dei profughi: contribuiscono a costruire il futuro” perché nell’Italia della denatalità essi sono nuova forza- lavoro. Quanto sta accadendo in Francia, al di là della uccisione da parte di un poliziotto in un ragazzo sbandato di una banlieu- episodio che va condannato con fermezza quando sarà chiaro ciò che effettivamente è accaduto -rivela un forte disagio di immigrati di terza e quarta  generazione che godono della cittadinanza francese, ma non si sono mai integrati e non si riconoscono francesi, forse in parte per il fatto di essere musulmani, sicuramente perché si considerano succubi di uno Stato che ha smarrito l’idea della fratellanza stabilita dalla Rivoluzione francese. La Francia paga il suo passato coloniale più di ogni altro paese europeo perché l’Inghilterra imperiale  ha saputo agire con maggiore capacità politica anche perché la monarchia ha esercitato un ruolo importante di equilibrio e di moderazione. Il fatto che un indiano sia arrivato ad essere sindaco di Londra non è cosa di poco conto. La situazione francese è incandescente e i bagliori della rivolta non sono nuovi perché giunsero anche al terrorismo: pensiamo alla strage di Nizza. In Francia come anche in Italia non c’è un disagio ( che porta alla violenza ) non solo di immigrati, ma di  cittadini francesi con origine francese:  i gilè’ gialli ne sono un esempio. Letto in questo contesto il discorso di Riccardi appare un sogno utopistico  e neppure tanto cristiano visto che parla dei profughi come forza- lavoro. L’esperienza delle rivolte in Francia che si sono estese anche in parte in Belgio e in Svizzera , devono farci riflettere sull’accoglienza indiscriminata e anche sull’uso di una manovalanza straniera a basso costo, visto che noi italiani non siamo più disposti a fare certi lavori. L’assistenzialismo becero e antieducativo del reddito di cittadinanza  ha  consentito e favorito il lavoro in nero o l’assistenzialismo parassitario. Non troviamo neppure più camerieri per bar e ristoranti: una vera follia.
Nessuno in Italia ha cercato di integrare gli immigrati clandestini in arrivo da anni in modo incontrollato. Forse solo una parte della Chiesa cattolica lo ha fatto.
Ma l’esperienza francese – dove gli arrivi  di nuovi immigrati sono respinti – deve farci meditare. Anche noi potremmo dormire sopra un vulcano attivo che potrebbe eruttare violenze analoghe a quelle francesi. In certe barriere delle nostre città la vita per gli italiani è già oggi molto difficile perchè certe mafie straniere controllano già parte del territorio. Il governo nel prossimo futuro deve vigilare , prevenire e reprimere con tutta la durezza necessaria  . In certi casi non c’ è altra via per tutelare la democrazia contro la violenza dei rivoltosi. E purtroppo anche sui tempi lunghi è difficile pensare ad una integrazione ,come dimostra la Francia in fiamme. A dar ragione a Quirico e a Riccardi c’è il rischio di trovarsi anche noi come la Francia. Il razzismo qui non c’entra nulla, mentre c’entra il realismo della convivenza civile, della difesa della legalità e dell’etica della responsabilità.

Quale futuro per la Cavallerizza?

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La Cavallerizza e’ uno dei simboli di Torino, ma  era da anni  anche uno dei simboli più vistosi  del degrado di ogni genere, di illegalità, di occupazione degli spazi come abitazioni abusive, di commercio non autorizzato, di  allacci luce e gas con il fai da te  più sfacciato, di consumo e  di spaccio  di droghe di ogni tipo. Dopo le proteste di molti cittadini illustri o semplicemente  amanti di una Torino bella, curata ed ordinata, dopo che la giunta Appendino  ne  aveva fatto uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del 2015, con assemblee permanenti di giovani “alternativi”, gli stessi che la occupavano, scese  per  un po’ il silenzio. La Appendino anche qui falli’ clamorosamente. Pochi mesi  fa, viceversa, tramite Urban file, un Ente del Comune, è stato presentato il progetto a firma di un architetto milanese. Non discuto  ne’ il nome, né  le molteplici destinazioni d’uso, ma quello che sorprende me, non addetto ai lavori ma amante del bello, della Torino che fu  e di un certo orgoglio “sabaudo” , è – almeno così mi sembra  – lo stravolgimento totale  della bella architettura barocca del Sei /Settecento insito nel progetto. La Cavallerizza si trova tra l’altro quasi frontale alla sede storica dell’Università,  a pochi passi dalla Prefettura, Palazzo  Reale, Cappella della Sindone, Chiesa di San Lorenzo e Palazzo Madama, tutti simbolo di una dinastia  che aveva creato una bella, austera, elegante, uniforme architettura che tanto piaceva ai viaggiatori dei Grand Tour. Dovrebbero spiegare ai torinesi che vorrebbero la loro città riappropriarsi delle sue caratteristiche di soffusa eleganza come mai si è scelta nel progetto  una mutazione che appare  così violenta rispetto a quello che avrebbe dovuto essere un restauro ed una esaltazione dell’architettura storica della città. Spero di sbagliarmi, ma anche se  autorevoli esperti da me consultati la pensano come me che vedo le cose  prevalentemente da storico.

A Torino le riprese del film di Gasparro “La Chiocciola” sul tema degli hikikomori

Al via il 25 giugno a Torino le riprese del film ‘La Chiocciola‘, lungometraggio scritto e diretto da Roberto Gasparro, primo film ad affrontare il tema degli hikikomori.

Nel cast Enzo Decaro, Vittoria Chiolero, Max Cavallari, Tony Sperandeo e Massimiliano Rossi. Prodotto dalla 35MM Produzioni srl, sarà distribuito dalla Mediterranea Productions.


Il set si sposterà a luglio nel comune di Cuccaro Vetere (SA).

Al via il prossimo 25 giugno a Torino le riprese del film ‘La Chiocciola‘, scritto e diretto da Roberto Gasparro. Le riprese si terranno presso l’azienda di moda torinese MFGA – Make Fashion Great Again – main sponsor del film, mentre dal 1 al 31 luglio il set si sposterà nel comune di Cuccaro Vetere (SA). Il film, prodotto dalla 35MM Produzioni srl, si avvale dei patrocini di Legambiente Campania, Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburnie del Comune di Cuccaro Vetere, con il sostegno di Film Commission Torino Piemontee Accademia delle Belle Arti di Torino e della Città di Bolzano e con il supporto dell’Associazione Nazionale genitori Hikikomori e dell’Associazione La strada e dell’Associazione Hikikomori Italia Genitori Onlus.

La Chiocciola‘ sarà interpretato da Enzo Decaro, Vittoria Chiolero, Daniela Freguglia, Max Cavallari, Tony Sperandeo, Massimiliano Rossi, Ilaria Antonello e Mauro Tarantini. Le musiche sono del Maestro Carmine Padula. L’uscita in sala è prevista per il 2024, distribuito da Mediterranea Productions, società indipendente di produzione e distribuzione cinematografica e televisiva. ‘La Chiocciola‘ è il primo film ad affrontare il tema degli hikikomori, termine giapponese che indica le persone che hanno deciso di “stare in disparte”, di isolarsi dalla società. Oltre un milione di ragazzi in Giappone vive isolato nella propria stanza senza mai uscire di casa. In Italia se ne stimano centomila, negli USA oltre 500mila.

Sinossi: Vittoria è una ragazza hikikomori di quindici anni. Passa il tempo nella propria camera a fotografare le persone dalla finestra, a giocare ai videogame, a leggere fumetti e a guardare video, spaventata dalla società esterna, dai suoi ritmi indiavolati e vorticosi, senza amicizie vere, profonde. I rapporti inesistenti con i genitori separati, la madre imprenditrice di successo nel campo della moda e il padre, trasferitosi a New York, portano la ragazza a fidarsi solo del nonno, botanico e ricercatore che vive isolato da tempo in un paesino del Cilento, Cuccaro Vetere, completamente immerso nella natura. Francesco ha trascorso molto tempo insieme alle tribù dei Nativi Americani apprendendo da loro le tecniche della permacultura e della conservazione dei semi. Qui si rifugerà Vittoria, tra i ritmi lenti della campagna, l’amore e la saggezza del nonno, per ritrovare equilibrio e riprendere il senso della sua vita.


Leggendo di recente alcuni articoli – sottolinea il regista Roberto Gasparro – mi ha incuriosito la definizione della nostra società come ‘liquida’, in cui, secondo il sociologo Bauman, “i legami sociali tra gli individui sembrano divenire sempre più inconsistenti e fragili, facendoli vivere in una dimensione di continua incertezza, dal punto di vista affettivo e lavorativo. La paura della società, sempre più narcisista, basata sull’ideale della vergogna, dove l’esposizione del corpo è richiesta, dove occorre saperci fare, sapersi presentare, dove è fondamentale non vergognarsi. Una società, quella attuale, liquida, che non tollera la goffaggine o una certa sensazione di bruttezza, che va sempre più veloce e che non aspetta nessuno.” E’ in questa società che vivono i nostri ragazzi. Gli hikikomori sono i nostri figli che non hanno retto alle pressioni della società. A loro dedico il mio film”.

IL REGISTA

Roberto Gasparro nasce a Moncalieri, provincia di Torino, il 7 febbraio 1975.

Dall’età di 15 anni scrive canzoni, testi per sit-com e per molti comici della TV. Studia sceneggiatura sulle dispense di colui che definisce il suo faro, Claudio Dedola, che lo indirizza definitivamente a scrivere per il cinema. Dal 2015 al 2018 scrive 98 puntate di sitcom e collabora con molti comici di Zelig tra cui Franco Neri con il quale realizza il suo primo lungometraggio, “IL CIELO GUARDA SOTTO”. Nel 2019 scrive e dirige il  lungometraggio “QUI NON SI MUORE”, con protagonista il David di Donatello Tony Sperandeo, vincendo al Festival Internazionale del Cinema di Salerno il premio per la migliore sceneggiatura e miglior soggetto e ricevendo lo stesso anno l’onorificenza del Comune di Montiglio Monferrato che lo nomina CITTADINO ONORARIO. Nel 2020 scrive e dirige la sua opera terza dal titolo “LUI E’ MIO PADRE” con protagonista Gianni Parisi vincendo al Festival Internazionale del Cinema di Salerno il premio come miglior Regista e al Vesuvius International Film Fest il premio per la migliore sceneggiatura. Il lungometraggio, in concorso ai David di Donatello, ha ricevuto i patrocini della Regione Campania, della Città di Agropoli, del Parco Nazionale del Cilento, della Valle di Diano e di Alburni e premiato da LEGAMBIENTE CAMPANIA. L’8 giugno 2022 è uscito in distribuzione nazionale il film STESSI BATTITI disponibile anche su CHILI TV e AMAZON PRIME e sempre lo stesso anno vince il Premio come Miglior Film Italiano al FICS 76°. Nel 2023 uscirà il suo primo film di animazione, dal titolo “ALIEN HOLIDAYS”.

“Si stima che gli hikikomori in Italia siano 100000, ma sono verosimilmente molti di più perché gli hikikomori, a causa della loro sofferenza e della loro condizione di ritirati non sono raggiungibili e quindi non intervistabili. Nella comunità di Hikikomori Italia ci sono 4000 famiglie distribuite su tutto il territorio nazionale.”

Elena Carolei, presidente Hikikomori Italia Genitori Onlus

HIKIKOMORI
Un hikikomori (in giapponese 引き籠もり?[2] o 引きこもり?, lett. “stare in disparte” o “staccarsi) dalle parole hiku, “tirare”, e komoru, “ritirarsi” o “chiudersi” è una persona che ha scelto di scappare fisicamente dalla vita sociale, spesso ricorrendo a livelli estremi di isolamento e confinamento. Tale scelta può essere indotta da fattori personali e sociali di varia natura, tra cui la grande pressione verso auto-realizzazione e successo personale cui l’individuo è sottoposto fin dall’adolescenza nella società giapponese. Il termine hikikomori può riferirsi sia al fenomeno sociale che agli appartenenti a tale gruppo sociale (fonte Wikypedia) Si stima che in Italia ci siano attualmente (2022) oltre 100mila ragazzi hikikomori. In Giappone, dove il fenomeno è stato capito e studiato, attualmente sono oltre un milione e la tendenza è l’innalzamento dell’età: sono infatti in aumento uomini e donne over 40. Un recente studio USA indica la presenza di 541mila hikikomori ogni 127 milioni di cittadini statunitensi, ovvero una incidenza dello 0,4%. Nel mondo si stima che i ragazzi hikikomori siano diversi milioni.

Giuseppe Mazzini: troppo avanti per essere attuale

Ricordando la fastosità con cui celebrammo in tutto il Paese i 150 anni dell’Unità d’Italia, confesso che mi sarei aspettato qualche sforzo in più per commemorare lo scorso anno  – a 150 anni dalla morte- Giuseppe Mazzini: l’ideologo perennemente incompreso (ma sempre opportunisticamente sfruttato), colui che definì le basi etiche della nostra repubblica.

Dei quattro protagonisti del Risorgimento, Mazzini dovette vivere il suo sogno da esule, persino da rinnegato, o “magnifico perdente“, come recita il titolo di un bel romanzo di Sonia Morganti a lui dedicato. Non si può certo dire che gli altri procedessero in armonia verso la strada che li portò a raggiungere lo storico traguardo: Vittorio Emanuele e Cavour si detestavano, ma condividevano l’odio per Mazzini… e la tragica prematura morte del Conte ce ne risparmiò le possibili conseguenze. Garibaldi -inizialmente seguace di Mazzini – abbandonò il sogno repubblicano per unire l’Italia sotto la monarchia, ma mai perdonò a Cavour la cessione di Nizza, sua città natale. Nell’aula del Parlamento Subalpino a Palazzo Carignano ancora riecheggiano le pesanti parole rivolte a Cavour dal neo deputato Giuseppe Garibaldi, appena eletto nel collegio di Nizza, che, quand’egli giunse all’emiciclo, non era più italiana…

…Palazzo Carignano, appunto: qui -dove Vittorio Emanuele II nacque, il Conte Camillo Benso di Cavour lavorò intensamente e Garibaldi fieramente inveì- ha sede il Museo Nazionale del Risorgimento, che purtroppo a Mazzini dedica ben poco spazio e considerazione. Da questa istituzione, almeno in occasione dell’anniversario, confidavo un qualche risarcimento postumo, magari nelle sale riservate alle mostre temporanee, che invece ho trovato  occupate da un colorato collage di immagini dedicate al fenomeno di Garibaldi (nel 2022 ricorrevano i 140 anni dalla sua morte) “Icona Pop“: l’Eroe dei due Mondi rappresentato come fenomeno di marketing e brand pubblicitario, insomma.

Questa premessa rende ancor più meritevole l’iniziativa del direttore/fondatore del Centro Studi Mario Pannunzio di Torino Pier Franco Quaglieni, che ha curato la riedizione del saggio sui “I Doveri dell’Uomo“, pubblicato dalla Casa Editrice Pedrini proprio in occasione dei 150 anni dalla morte di Mazzini.

Quaglieni nel libro  ci fa subito notare come la scelta di ricordare in questo modo Giuseppe Mazzini si riveli sempre attuale: lo fu nel centenario, quando già cinquant’anni fa il Centro Pannunzio -allora presieduto da Arrigo Olivetti- decise di promuovere un convegno incentrato sul tema “Mazzini e il marxismo“, una cultura che ai tempi esercitava forte egemonia soprattutto negli ambienti universitari. Il convegno, purtroppo, saltò a causa di elezioni anticipate (allora, come oggi, guarda caso) che distrassero uno degli illustri relatori -Giovanni Spadolini- eletto senatore e “volato” ad altri lidi, quelli che poi segnarono la sua carriera politica.

Il tema scelto era accattivante: Mazzini e Marx si conobbero a Londra, dove erano vicini di casa, e inizialmente sembrava potesse nascere ta loro un’intesa, ma molto presto le posizioni si allontanarono. Ancora nel 1972, ci ricorda Quaglieni, l’ “intellighenzia” imperante filo marxista seguiva le tesi gramsciane che ritenevano Mazzini un “utopista impolitico” che “aveva totalmente svalutato i limiti del marxismo – leninismo e della sua realizzazione storica in Russia che il suo sodale Gobetti aveva definito una “rivoluzione liberale”. Gobetti giunse a teorizzare che Mazzini andasse sostituito da Marx, un’affermazione che lasciò dubbioso anche il gobettiano Norberto Bobbio che aveva rivolto la sua attenzione più a Cattaneo che a Mazzini in un raffinatissimo saggio dedicato alla cultura militante”.

Va detto che Michail Bakunin definì Mazzini “l’essere umano più nobile e più puro che io abbia incontrato in tutta la mia vita“.

Ed ora ci troviamo a dar ragione a Giuseppe Mazzini, troppo spesso inascoltato e troppo poco rivalutato.

Nel saggio pubblicato da Pedrini possiamo leggere un inedito di Renzo De Felice che rimase nell’archivio dei lavori preparatori del convegno: “Mazzini e il Socialismo“, anche queste righe si rivelano adesso premonitorie.

A 150 anni dalla morte, il pensiero di Mazzini potrebbe essere richiamato per contrastare il fenomeno del nazionalismo populista che tanta presa ha nella pubblica opinione.

Mazzini, meglio di ogni altro, seppe interpretare la differenza fra patriottismo e nazionalismo. In una lettera del 1861 ad un corrispondente tedesco scrisse: “chi fa la santa parola di Nazionalità sinonimo d’un gretto geloso ostile nazionalismo commette lo stesso errore di chi confonde religione e superstizione”.

Per “gretto nazionalismo” -scrive maurizio Viroli- “Mazzini intende la perversione del principio di nazionalità”. Il valore della nazionalità degenera in meschino nazionalismo quando si trascura il principio che «la libertà d’un popolo non può vincere e durare se non nella fede che dichiara il diritto di tutti alla libertà».

La Patria é una comunione di liberi e d’uguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. Voi dovete farla e mantenerla tale. La Patria non é un aggregato, é una associazione. Non v’é dunque veramente Patria senza un Diritto uniforme. Non v’é Patria dove l’uniformità di quel Diritto é violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze dove l’attività d’una porzione delle forze e facoltà individuale é cancellata“, leggeremo nel saggio sui Doveri.

Recensendo l’ultimo libro di Pier Franco Quaglieni, “La Passione per la Libertà“, scrissi di “un capitolo che non c’è“, ma del cui spirito tutto il libro è permeato. Il saggio è stato redatto in periodo di piena pandemia, quando le nostre libertà venivano spesso limitate dalle responsabilità che avremmo dovuto assumerci per tutelare la salute nostra e dell’intera comunità. “Libertà significa anche responsabilità”: è un concetto ben chiaro a Quaglieni nelle considerazioni che andava stilando. La pubblicazione de “I Doveri dell’Uomo” sembra essere la naturale continuazione del suo percorso di autentico e irreprensibile storico liberale.

Quando Mazzini, nel 1860, pubblicò “I Doveri dell’Uomo” si rendeva naturalmente conto che scrivere di doveri costituiva un argomento impopolare nell’epoca dei “droits“: “un mezzo aleatorio, difficile da proporre a un movimento politico -cito Sauro Mattarelli- non perché fosse superato, ma, semmai, perché si guardava troppo avanti, a una società ideale che non c’era. Erano richieste consapevolezze e responsabilità che raramente si trovano nelle persone; ma, soprattutto, questa teoria si basava (e si basa) su una prospettiva che rompeva con gli schemi concettuali a cui siamo abituati“. E anche oggi potremmo dire lo stesso.

Che Mazzini fosse un utile strumento di propaganda valido per tutte le stagioni lo dimostra l’utilizzo che della sua opera e del suo pensiero è stato fatto nei decenni seguenti la morte: “I Doveri dell’Uomo” venne adottato nella scuola di inizio ‘900 come testo obbligatorio, ma purgato di quelle parti che potevano infastidire la monarchia; il suo pensiero -radicalmente cambiato nelle premesse e profondamente falsificato – passò come base fondativa della dottrina fascista, principalmente tramite il lavoro del filosofo Giovanni Gentile e del giurista Alfredo Rocco, tanto che l’opera originale fu bandita dall’Italia fascista; Luigi Einaudi teneva in bella mostra sulla sua scrivania una lettera autografa di Giuseppe Mazzini “al quale si ispirò per il suo settennato soprattutto nella dimensione del senso educativo che l’istituzione repubblicana comportava” (parole di Carlo Azeglio Ciampi), ma forse anche per mostrare la sua fede all’istituzione repubblicana, lui che aveva votato per la monarchia; Carlo Calenda apre e chiude il suo ultimo libro “La Libertà che non Libera” con citazioni de “I Doveri dell’Uomo“, opera che dichiara essere fonte primaria di ispirazione per la sua attività politica…. Mazzini, insomma, può sempre venire in soccorso per giustificare, corroborare, legittimare e persino indirizzare l’opinione che si vuol comunicare ad interlocutori più o meno autorevoli. Troppo spesso, però, si tratta di citazioni abusive e abusate, stravolte dalla mancanza di quel senso etico che Giuseppe Mazzini seppe dimostrare con la sua esistenza esemplare.

Perché vi parlo io dei vostri doveri prima di parlarvi dei vostri diritti? Perché, in una società dove tutti, volontariamente o involontariamente, vi opprimono, dove l’esercizio di tutti i diritti che appartengono all’uomo vi è costantemente rapito, dove tutte le infelicità sono per voi e ciò che si chiama felicità è per gli uomini dell’altre classi, vi parlo io di sacrificio e non di conquista? Di virtù, di miglioramento morale, d’educazione, e non di benessere materiale? È questione che debbo mettere in chiaro, prima di andare innanzi...” Scrive Mazzini, “Libertà vera non esiste senza eguaglianza, e l’eguaglianza non può esistere fra chi non move da una base, da un principio comune, da una coscienza uniforme del Dovere“, aggiungerà.

Con questo spirito abbiamo riletto  “I Doveri dell’Uomo” consapevoli  del pensiero di un uomo che è sempre stato avanti.

Troppo avanti per essere attuale.

EDOARDO MASSIMO FIAMMOTTO
Pannunzio Magazine

La figlia del reggimento di Gaetano Donizetti al teatro Regio

Con la partecipazione straordinaria di Arturo Brachetti e sul podio Evelino Pidò

 

Per la stagione d’opera 2023 il teatro Regio di Torino propone “La figlia del reggimento”, opera comunque di Gaetano Donizetti, con la partecipazione straordinaria di Arturo Brachetti, e sul podio, per l’occasione, Evelino Pido’. La regia immaginifica è del duo Barbe &- Doucet.

Inizia la mattina 29 aprile, alle ore 11, la vendita per l’Anteprima Giovani de “La figlia del reggimento” di Gaetano Donizetti, in scena venerdì 12 maggio e riservata al pubblico under 30.

Da sabato 13 maggio al 23 maggio tornerà al Teatro Regio, dopo 29 anni di assenza, “La figlia del reggimento “, la più fortunata opera francese scritta da Gaetano Donizetti, in un nuovo allestimento coprodotto dal teatro La Fenice di Venezia.

La regia immaginifica mescola con un tono umoristico elementi reali e elementi surreali, come risulta tipico delle produzioni del duo Barbe & Doucet.

L’opera, piuttosto impegnativa, è diretta da Evelino Pidò, ambasciatore dell’opera romantica e del bel canto nel mondo, che torna al teatro Regio alla guida di un cast superbo di specialisti del repertorio, il soprano Giuliana Gianfaldoni nella parte di Marie, il grande tenore John Osborn in quella di Tonio; il mezzosoprano Manuela Custer quale interprete della marchesa di Berkenfield e il baritono Roberto De Candia, che vestirà i panni di Sulpice.

Straordinaria la partecipazione di Arturo Brachetti nel ruolo della Duchessa di Krackentorp, un personaggio che pare un cameo, capace di esaltare le doti dell’artista, icona del trasformismo internazionale.

Mercoledì 10 maggio al Piccolo Regio Puccini, con ingresso libero, si terrà la Conferenza Concerto condotta dalla giornalista Susanna Franchi , con la partecipazione di Evelino Pidò, direttore d’orchestra, del baritono Roberto De Candia e del soprano Amélie Hois, del tenore Francesco Lucii e del basso Guillaume Andrieux, che interpreteranno arie dell’opera di Donizetti, accompagnati al pianoforte da Carlo Caputo.

Il 12 maggio, a partire dalle 19, si potrà condividere un aperitivo e, nel Foyer del Toro, assistere a una breve presentazione spettacolo con la partecipazione straordinaria di Arturo Brachetti, prima dell’inizio, alle ore 20, dell’anteprima Giovani.

Al termine 300 under 30 potranno accedere al Foyer del Toro per assistere a “Contrasti”, una sezione che ospita sia Cecilia sia Corgiat. La prima è un’artista e cantautrice torinese diplomata al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino.

Corgiat, alias di Giovanni Corgiat Mecio, è produttore italiano di musica elettronica, specializzato in Composizione musicale Elettroacustica presso il Conservatorio di Torino.

Per Anteprima giovani l’ingresso è riservato a under 30 e a minori di anni 14 accompagnati da un maggiorenne under 30.

“La fille di régiment” rappresenta un’opera comique in due atti di Gaetano Donizetti, una delle tante opere composte dal maestro quando era a Parigi.

Le donne forti sono una costante nella produzione di Donizetti e Marie, la protagonista della Figlia del reggimento, risulta la più solare e insieme la meno femminile. Ha imparato dell’esercito napoleonico ad amare la patria e a imprecare come un soldato. Per la ragazza tutto cambia quando scopre di essere la figlia di una marchesa, anche se la vita aristocratica la delude un poco. Ritroverà il sorriso grazie all’aiuto dell’adorato Tonio, con l’aiuto dei papà militari.

Composta a Parigi nel 1840, si tratta della prima e fortunata opera francese di Donizetti di cui, messo da parte ogni snobismo, i transalpini si innamorarono, tanto che adottarono il “Salut a la France” come inno non ufficiale, in alternativa alla Marsigliese.

L’opera risulta una successione di marce brillanti, numeri vocali di virtuosismo sbalorditivo e episodi spiritosi. Molto nota l’aria di Tonio “Ah! mes amis” con i suoi nove do di petto. A farceli ascoltare sarà la voce di John Osborne, affiancato dalla Marie di Giuliana Gianfaldoni e da un cast di specialisti del repertorio.

La regia dell’opera è firmata dal duo Barbe & Doucet.

L’edizione è in lingua originale francese.

Ne “La figlia del reggimento”, uno dei capolavori dell’opera comique, la musica si alterna a scene recitate. Melodramma comico in due atti, musicato nell’estate e autunno del 1839, su libretto di Jules Henry Vernoy de Saint Georges e Jean Francois Bayard, reca la versione italiana di Callisto Bassi. Fu rappresentata per la prima volta a Parigi, al Thétre de l’Opera Comique l’11 febbraio 1840.

Mara Martellotta

Un percorso della scultura attraverso quarant’anni di storia

Alla GAM, sino al 10 settembre

Dove ci porta questo “viaggio al termine della statuaria” che la GAM torinese percorre nelle proprie sale sino al 10 settembre prossimo, guardando al suo patrimonio e al ruolo determinante della Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris e della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, forti degli acquisti compiuti nei decenni? Ad una mostra dedicata alla scultura italiana tra il 1940 e il 1980, cinquanta opere a rappresentare 40 artisti, un panorama che non ha le pretese di essere un plenum ma comunque ricco anche se non sempre completamente suggestivo nelle proposte offerte. Quarant’anni segnati da “formidabili cambiamenti” e da “forti scosse stilistiche”, come ricorda Riccardo Passoni, direttore della GAM e curatore della mostra, anni che, salvo poche eccezioni, con l’invenzioni di nuovi linguaggi, abbandonano la scultura legata ancora allo spirito classico, ad una formula conosciuta da sempre, ad una “dimensione di impostazione monumentale, o ornamentale, o di ritrattistica sia celebrativa sia privata”, di pari passo con più vasti passaggi all’informale. Un cammino, precedente, che pare interrompersi, quasi di colpo, con il “Ritratto di Eva” di Edoardo Rubino, uno dei grandi scultori del Regno, datata 1942, elegante e chiuso giunonicamente dentro le sue forme perfette, sbalzato dal blocco di marmo, anticipato (nel 1939) dalla “Pazza” del ventottenne Sandro Cherchi, nervosamente intesa, ormai già fuori delle regole.

Entrando negli anni Cinquanta, colpisce per ammirazione la terracotta policroma della “Rissa” di Agenore Fabbri (1951), straziato combattimento tra un uomo e un cane/mostro, immerso in un realismo rabbrividente, o il “Leone urlante” di Mirko Basaldella (1956), come Giuseppe Tarantino mostra appieno la disperazione nella “Deposizione”, bronzo e ferro, del 1953. Marino Marini è presente con “Olocausto” (1958 – 1960), di forte impianto scultoreo e Umberto Mastroianni con “La nuvola” (1957), che svetta nel proprio frastagliato dinamismo. Mentre ancora sconcertano le stilizzazioni estreme di Negri e di Consagra, abbandona Lucio Fontana con “Concetto spaziale”, otto elementi in ferro verniciato, l’aspetto verticale della scultura e riscopre uno squillante giallo, per offrire (1952) uno sguardo decisamente innovativo. Mentre Fausto Melotti s’affida ad una coppia di “Donnine”, aggraziate ceramiche policrome del 1953, sconcertanti di Leoncillo, “ancorato ai temi di una plastica di ricerca informale”, addentratosi ormai nel decennio successivo in quello che a chi scrive queste note continua ad apparire il “comodo” termine di “ricerca”, di ardua, difficile lettura ad un pubblico fievolmente preparato, sono “La donna al sole” (1965) e “Piccolo bianco” (1960). Ben più modernamente curioso, affidandosi anche lui al colore, Riccardo Cordero con il poliestere del “Giocatore di football” (1964).

Il panorama si fa più difficile, obbligandoci a parlare di ulteriori “sconfinamenti”, con le opere in mostra di Ettore Colla, di Franco Garelli, di Nino Franchina e di Eugenio Carmi, che chiudono i Cinquanta per entrare nei Sessanta e che s’affidano al recupero e alla ricomposizione “di materiali eterogenei preesistenti dalla dimensione dello scarto, anche industriale”: con l’abbandono del bronzo e con l’abbraccio pressoché totale del metallo, accompagnato dalla successiva saldatura. Semplificazione, “povertà”, astrazione ed essenzialità (Carlo Lorenzetti, “Scultura in acciaio inox e smalto bleu”, 1966), magari con un nuovo ripensamento come l’effetto sonoro che accompagna (viene qui definita “intrigante”) la “Scultura sonante” dovuta a Piero Fogliati (1967). Con l’avvicinarsi dell’arte all’industria, in una più o meno stretta contaminazione, con l’accoglimento del ferro e della plastica, c’è anche per molti versi un moto di ribellione, che tuttavia s’interrompe con la riscoperta (occasionale) della figura – serpeggiando la corrente Pop – in un alternarsi robusto ed efficace di immaginario e di mondo reale, come fa Mario Ceroli nella lignea scenografia della “Grande Cina” e con le “sculture” ideate per il gassmaniano “Riccardo III” prodotto dallo Stabile di Torino nel 1968, come fa Pietro Gallina con “Ombra specchiante di un uomo” dell’anno precedente.

Proseguendo, emblematicamente, e riconsiderando con qualche sfida i canoni di una “bellezza” che sembra giungerci lontanissima, dalla notte dei tempi, si inventano altri spazi, altre morfologie, altre forzature che in qualcuno lasciano affiorare la domanda quanto questi ultimi esempi rientrino sotto la cupola protettiva e generalizzante della “scultura”. La “riduzione” scultorea pare raggiungere l’ultimo porto con il ”Blue – Purple Rectangle – Triangle” di Gianni Piacentino, nella tela vergine e nei giochi d’equilibrio sfrontati condotti da Giovanni Anselmo (1884 – 1886: “una situazione limite tra peso e instabilità”), l’itinerario condotto tra arte e natura da Giuseppe Penone, le fredde “Armi di Achille”, lancia e scudo posti a terra da Giuseppe Spagnulo (siamo al termine della corsa, 1980), posti nelle vicinanze di Gilberto Zorio, che due anni prima gioca con”Stella di bronzo con acidi e pergamena” con altri equilibrismi inseriti in processi chimico-fisici.

In questo quarantennio di ‘osservazione’ l’atto plastico è passato attraverso il modellare, lo scolpire, l’assemblare, il forgiare, l’architettare; ha affrontato la tradizione e la cancellazione della stessa; ha reimpostato la questione del colore. La scultura si è, di fatto, posta obiettivi nuovi, etici ed estetici, e ha sperimentato forme in divenire. Si è cioè liberata dai vincoli del soggetto, da una iconografia consolidata. Si è posta di fronte a considerazioni innovative nel rapporto opera /spazio. Ha quindi prima escluso e poi riaffrontato la monumentalità (intesa in senso anti-monumentale)…”: questo ci spiega Riccardo Passoni. “Ha ritrovato nuove ragioni d’essere”: ultima, 1976, “Frammenti di riflessione” di Nanda Vigo, “in vetro ferro e neon, intesa a indagare il nuovo esito percettivo legato a una riconnotazione dello spazio dato alterato da una installazione geometrica sì, ma luminosa”.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Mario Ceroli, “La Grande Cina” (parte della scenografia del “Riccardo III” di Shakespeare, 1968, legno; Riccardo Cordero, “Giocatore di football”, 1966, poliestere e gelcoat; Giuseppe Tarantino, “Deposizione”, 1953, bronzo e ferro; Gilberto Zorio, “Stella di bronzo con acidi e pergamena”, 1978, stella di bronzo, 2 vasche di terracotta contenenti solfato di rame (a sinistra) e acido idrocloridrico (a destra), barra di ferro e frammento di pergamena.

Festa di Sant’Antonio. Benedetti gli animali e i prodotti della terra

Domenica 22 gennaio 2023, in occasione della festività di Sant’Antonio Abate si terrà la XV edizione della “Benedizione degli animali, dei prodotti della terra e dei mezzi agricoli” presso la Precettoriadi Sant’Antonio di Ranverso.

La manifestazione verrà realizzata con il concorso della Fondazione Ordine Mauriziano ed in collaborazione con i Comuni di Buttigliera Alta e di Rosta e la Coldiretti.                                                                                            Programma:

– ore 10,30, raduno presso la Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso,

– ore 11,00, Santa Messa officiata dal Parroco di Buttigliera Alta e Rosta Don Franco Gonella. Nel corso della celebrazione si procederà alla benedizione dei pani e dei prodotti agricoli, come da tradizione. (Non sarà consentito portare animali all’interno della Chiesa).

– ore 12,00 c. benedizione degli animali, dei prodotti della terra e degli attrezzi agricoli, all’esterno.