valentina parenti- Pagina 1

25 Risultati trovati.

Protagoniste di Valore: Valentina Parenti, founder di GammaDonna

Protagoniste di Valore LogoRubrica a cura di ScattoTorino

Valentina Parenti incarna alla perfezione il concetto di multitasking. Imprenditrice, gestisce con successo l’agenzia Valentina Communication con la quale ha ideato GammaDonna e il GammaForum internazionale dell’Imprenditoria Femminile e Giovanile. È co-fondatrice del tavolo interassociativo Yes4TO a cui aderiscono i Gruppi Giovani di 24 associazioni del territorio torinese, in rappresentanza di oltre 20.000 imprenditori e professionisti, e la cui finalità è formulare proposte unitarie sul futuro della Città. Fortemente impegnata in ambito associativo, è stata Consigliere e referente per l’organizzazione del Convegno annuale di Santa Margherita Ligure dei Giovani Imprenditori di Confindustria, ha ricoperto il ruolo di Consigliere Regionale FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana) per 2 mandati e nel 2017 è stata nominata componente dell’Advisory Board di Assolombarda del progetto STEAMiamoci per la riduzione del gender gap nei settori economici a più alto valore aggiunto, con particolare riferimento alle materie STEAM. What else? È laureata in tedesco e spagnolo, è iscritta all’Ordine dei Giornalisti, è moglie e mamma, e Startupitalia! Magazine l’ha inserita tra le 150 donne dell’innovazione da conoscere e seguire nel nostro paese. L’ultimo anno l’ha vista impegnarsi come attivista contro le disparità di genere, contribuendo alla nascita di Movimenti come Dateci Voce e Il Giusto Mezzo.

Da sempre vi occupate dell’integrazione di genere e dei giovani nel mondo del lavoro. Come è nata l’Associazione GammaDonna e su quali valori è cresciuta?

GammaDonna è nata nel 2004 con lo scopo di valorizzare l’iniziativa imprenditoriale di donne e giovani, la loro capacità di affrontare il cambiamento e di innovare, superando difficoltà e ostacoli.

Lavoriamo per il cambiamento culturale del Paese, attraverso lo scouting e la promozione di iniziative imprenditoriali innovative e incentivando il networking fra startup, imprenditori esperti e investitori. Promuovendo, in sostanza, una community virtuosa dell’innovazione applicata al business. Il Premio GammaDonna, è la sintesi di tutto questo: si rivolge alle imprenditrici – non solo di prima generazione – che abbiano innovato con prodotti, servizi, processi e/o modelli organizzativi nuovi. Il nostro riconoscimento rappresenta un formidabile moltiplicatore di visibilità, che spesso coincide con un’improvvisa accelerazione di business: siamo convinti che le imprenditrici abbiano bisogno anzitutto di comunicazione, ma anche di creare o fortificare la propria rete di relazioni di business, e avere l’opportunità di accedere a nuove opportunità di formazione e aggiornamento professionale.

GammaDonnaLa XII edizione del PREMIO GAMMADONNA si è tenuta in live streaming. Quali sono stati i temi?

La contingenza drammatica ci ha spinto a ripensare alla nostra attività, a rafforzare ulteriormente la nostra partnership con QVC Italia e a trasformare il Premio nel primo format televisivo italiano dedicato alle donne che fanno impresa e innovazione. Siamo doppiamente entusiasti, perché all’orgoglio per il nostro debutto televisivo si aggiunge la soddisfazione per i temi trattati e per averli portati ad un pubblico molto più ampio. Dall’industria del ferro al coding, passando per le nanotecnologie, le piattaforme per la vendita online e lo smaltimento ecologico dei rifiuti: le storie imprenditoriali delle 5 finaliste della 12a edizione del Premio smentiscono, con i fatti e con il sorriso, quegli stereotipi che vedono le donne escluse da determinati ambiti, considerati tradizionalmente di appannaggio maschile.

Ci sono azioni che occorre intraprendere per un futuro di parità e inclusione dove non si ragioni per stereotipi, ma sulla base dei talenti?

L’aspetto più critico e implacabile della disparità, che è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia, inizia dal salario: il pay gap resta del 10% in più a favore degli uomini a parità di mansione. In pratica, è come se per lo stesso lavoro una donna cominciasse a guadagnare dalla seconda metà di febbraio rispetto a un collega. Senza dimenticare la grave questione dell’occupazione femminile (il cui tasso è sceso al di sotto del 50% in Italia, ultimo in Europa) e l’accesso femminile alle posizioni apicali.

In questo scenario, la nostra Associazione fa del suo meglio per contribuire al cambiamento verso una maggiore equità sociale. Di cui, in ultima analisi, beneficerà l’intera società, non solo le donne. Il nostro impegno a raccontare e promuovere storie di innovazione al femminile vuole essere di stimolo e ispirazione per tutti: una testimonianza di come capacità, determinazione e costanza possano condurre a grandi risultati. Esiste un tessuto imprenditoriale al femminile, spesso poco noto ma diffuso in tutti gli angoli del Paese, che contribuisce ogni giorno, in maniera significativa, all’economia. La difficoltà più grande sta nel portare alla luce queste storie, nel convincere le donne a mettersi in gioco, a dimostrare il proprio valore. Perché se è vero che le donne hanno bisogno di rappresentanza nei luoghi decisionali, è altrettanto vero che c’è un grande bisogno di una rappresentazione femminile che demolisca gli stereotipi così profondamente radicati nella nostra cultura.

Qual è il valore della relazione come acceleratore di sviluppo e generatore di impatto sociale?

In un mondo caratterizzato da crescente complessità e da rapidi e continui cambiamenti, il nostro futuro come esseri umani e come imprese dipende dal numero, ma soprattutto dalla qualità, delle connessioni virtuose che saremo riusciti ad instaurare.

Mio padre definiva queste connessioni “strategiche”, per distinguerle per utilità e peso da quella moltitudine che ci travolge senza portare valore. Grazie alla preziosa eredità della mia famiglia, sono cresciuta credendo e praticando l’impegno a favore del territorio e di chi non ha avuto le mie stesse possibilità.

“Molte piccole persone che, in molti piccoli luoghi, fanno molte piccole cose possono cambiare la faccia della terra” recita una scritta sul muro di Berlino. Credo ci sia una profonda verità in questa frase e credo che l’unione di queste persone possa avere un impatto che è spesso grandemente sottovalutato. Ne sono testimonianza iniziative straordinarie, di cui sono stata tra le co-promotrici quest’anno, come #DateciVoce – per la rappresentanza femminile nei luoghi decisionali – e #GiustoMezzo – per la destinazione della metà del Recovery Fund a politiche integrate che tengano conto dell’impatto di genere.

GammaDonnaDonna per lei significa?

“Insisti e persisti, raggiungi e conquisti”, questo è il mantra che mia madre ripeteva a me, quando ero piccola e che ora ripeto a mia figlia.  E a mio figlio. Perché, in realtà, questo consiglio vale per tutti.

Non è cosa siamo, ma cosa scegliamo di diventare che conta. Lavorare sodo per migliorarsi e credere in se stessi è una sfida che appartiene a ognuno di noi. Forse per una donna il cammino è più impervio, a causa del retaggio culturale, ma ci anima una visione del mondo che è rigeneratrice: la capacità di assorbire traumi, delusioni, urti, guardando avanti senza accartocciarsi e immaginando sempre qualcosa di nuovo. Alcuni la chiamano resilienza, io preferisco definirla predisposizione ad amare la vita incondizionatamente.

IL FOCUS DI PROGESIA

I valori di GammaDonna sono:

  • Sviluppo sostenibile;
  • Valorizzazione di genere, competenze e carriere femminili.

Premio GammaDonna: innovazione e consapevolezza

Le imprenditrici che decidono di partecipare al Premio GammaDonna sono ogni anno di più e, in particolare, in questo 2020 così difficile e complesso sono state addirittura il 30% in più rispetto all’anno precedente. “Si tratta di donne che nella loro esperienza imprenditoriale fanno innovazione, ne hanno consapevolezza e credono fortemente in ciò che fanno” afferma Valentina Parenti “e questi tre step non sono assolutamente scontati”. Esiste inoltre un filo conduttore che caratterizza le vincitrici, che secondo Valentina Parenti è “l’attenzione all’impatto ambientale e sociale. Tutte desiderano rendere il mondo un posto migliore”.

Una cosa che accomuna tutte le partecipanti del Premio GammaDonna è il bisogno di ampliare e migliorare la rete di conoscenze e la comunicazione, nonché la formazione e l’aggiornamento professionale. Tali esigenze sono state rilevate dalle ricerche realizzate in collaborazione con le università (Unitelma Sapienza e Tor Vergata), nelle numerose survey online e dai feedback raccolti durante gli eventi nelle undici edizioni del Premio. La business community GammaDonna, appena lanciata su Facebook, andrà incontro a questi bisogni e permetterà alle imprenditrici di moltiplicare le occasioni di conoscenza e di confronto delle esperienze.

Valentina Communication

GammaDonna e GammaForum nascono da una realtà solida, altamente dinamica e che ha saputo innovarsi nel tempo: Valentina Communication, l’agenzia di comunicazione di cui Valentina Parenti è la Presidente.

Valentina Communication è stata fondata negli anni ‘80 dalla madre di Valentina Parenti, Giuliana Bertin, che è stata una pioniera del settore. Inizialmente l’agenzia si occupava di consulenza sulla comunicazione e PR esclusivamente per il settore dell’economia e della finanza. “Nel tempo è diventato un family business;” racconta Valentina Parenti “è entrato prima mio padre Mario, e in seguito io e mio fratello Marco. Ognuno di noi ha portato il suo personale contributo. Il mio ad esempio è legato al mio innato interesse per le tematiche sociali”. Attualmente l’Agenzia si occupa di comunicazione in modo innovativo offrendo servizi di ufficio stampa, PR, eventi e strategie di comunicazione, rivolgendosi a realtà eterogenee, dalle startup ai grandi gruppi e alle multinazionali.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto
Focus: Antonella Moira Zabarino

A Paola Bernardotto il premio GammaDonna

Alla guida di un brand di arredamento cognitivo etico, impegnato a contrastare il fast furniture, Paola Bernardotto si
aggiudica con ‘Ettomio il riconoscimento che dal 2004 premia l’imprenditoria femminile innovativa. Cinzia Tessarolo
(Family+Happy) il “Giuliana Bertin Communication Award” di Valentina Communication. Gioia Lucarini (Relief) vince il
“Women Startup Award” by Intesa Sanpaolo Innovation Center, mentre la giovane Chiara Schettino (Rosso) si aggiudica
la Menzione Speciale per l’impatto sociale di Cottino Social Impact Campus.
Torino, 5 novembre 2024 – Puntano sulle tecnologie verdi, sul biotech, sull’AI, non dimenticandosi di digitalizzare i servizi di
caregiving, le imprenditrici innovative salite oggi sul palco della Centrale nella Nuvola Lavazza di Torino per la Finale del Premio
GammaDonna che dal 2004 valorizza l’anima innovatrice dell’imprenditoria femminile.
Ed è stata Paola Bernardotto, fondatrice di ’ettomio [Vicenza], ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento per l’impegno con cui
contrasta il fast furniture – l’arredamento usa e getta – con prodotti evolutivi che seguono le diverse fasi di crescita del bambino,
creando una rete di fornitori artigiani italiani e promuovendo lo “slow design” e il Made in Italy. ‘Ettomio rivoluziona il settore
dei mobili per bambini con arredi etici, sostenibili e cognitivi per stimolare lo sviluppo di abilità e capacità nelle giovani
generazioni.
All’evento – realizzato con il contributo della Camera di commercio di Torino, sotto il patrocinio di Commissione europea,
Regione Piemonte, Città di Torino e G7-Women7 – sono state premiate anche Cinzia Tessarolo (Family+Happy) con il “Giuliana
Bertin Communication Award”, Gioia Lucarini (Relief) che ha vinto il “Women Startup Award” powered by Intesa Sanpaolo
Innovation Center, e Chiara Schettino (Dona Rosso), a cui è andata la Menzione per l’impatto sociale di Cottino Social
Impact Campus.
«Queste storie sono un esempio straordinario di come la passione imprenditoriale delle donne possa farsi motore di un
cambiamento reale e sostenibile» ha dichiarato Valentina Parenti, Presidente di GammaDonna «Crediamo fermamente che le
imprese giochino un ruolo cruciale nell’affrontare le sfide più urgenti del nostro tempo, e che siano chiamate a guidare il
cambiamento attraverso innovazione, impatto e modelli di business rigenerativi. Valori che 20 anni fa ci hanno spinto a creare
GammaDonna e che oggi, in uno scenario complesso e in continuo cambiamento, sono più attuali che mai.»
«Per la Camera di commercio di Torino è un investimento fondamentale promuovere modelli d’impresa innovativi e inclusivi,
capaci di rispondere con creatività alle sfide sociali e ambientali» ha commentato il Presidente Dario Gallina «La vincitrice e le
finaliste di questa edizione offrono un riferimento ispirante di come l’imprenditoria femminile sia un motore di crescita e
propongono anche un modello di resilienza e determinazione. Il loro operato, come la ventennale attività dell’Associazione
GammaDonna, contribuisce a superare le barriere della precarietà e del divario che ancora caratterizzano il panorama economico
femminile.»
Le imprenditrici accedono a un vero e proprio percorso di valorizzazione, accelerazione ed empowerment che si sviluppa
attraverso eventi e percorsi di formazione, occasioni di business networking, sessioni di mentoring & advisory con EY, Intesa
Sanpaolo Innovation Center, Italian Tech Alliance, 24Ore Business School, Angels4Women, Innovup, Seed Capital Pro e Cottino
Social Impact Campus. Oltre a mesi di esposizione mediatica sulle principali testate e tv nazionali.

Gender Gap, riparte il Premio GammaDonna

/

Per l’imprenditoria femminile innovativa e quest’anno torna in presenza

Tante le novità di questo contest che da 20 anni premia le menti più brillanti dell’imprenditoria femminile e che quest’anno lo farà dal palco dell’Italian Tech Week. Con un nuovo riconoscimento – l’Assist Digital Award – alle imprenditrici che utilizzano il digitale per creare impatto positivo.  Candidature entro lunedì 11 luglio.

L’Italia che fa impresa porta ancora i pantaloni e non celebra le donne che guidano aziende eccezionali, piccoli gioielli del Made in Italy. Se di recente sono stati destinati al Fondo impresa femminile 200 milioni in più per sostenere le imprenditrici, il numero delle imprese guidate da donne è ancora basso: neanche 1,4 milioni in Italia – il 22,1% del totale –, per il 96,8% micro e solo per lo 0,3% imprese medio-grandi. Secondo gli ultimi dati è però in crescita la percentuale delle donne attive in ambito tech, a conferma della validità delle politiche mirate all’aumento della partecipazione delle donne nei settori a maggior contenuto di conoscenza e tecnologia, che rappresentano il futuro del nostro Paese.

Sostenere, dare il giusto peso all’imprenditoria femminile, anche attraverso riconoscimenti pubblici, è una necessità per la nostra economia che non può permettersi di sprecare risorse preziose – spiega Valentina Parenti, Presidente GammaDonna  Che anzi deve imparare a valorizzarle, a fare in modo che diventino un esempio da emulare. Per questa ragione ormai da due decenni lavoriamo per mettere in luce la tenacia di donne che spesso, nell’ombra, fanno cose incredibili”.

Il Premio GammaDonna negli anni ha fatto scouting di storie eccezionali, scommesse vinte, sogni realizzati. E quest’anno le sei storie di innovazione finaliste avranno un nuovo prestigioso palcoscenico: quello delle OGR-Officine Grandi Riparazioni di Torino. L’appuntamento è per il 30 settembre 2022 sul main stage dell’Italian Tech Week, il più grande evento italiano sulla tecnologia.

A CHI SI RIVOLGE IL PREMIO

Il Premio è destinato a imprenditrici (founder, co-founder, oppure socie attive con ruoli manageriali) che si siano distinte per aver innovato con prodotti/servizi, processi o modelli organizzativi all’interno della propria azienda, con almeno due bilanci alle spalle.

CHE COSA SI VINCE

Le candidature che entreranno nella “short-list Fab50” – ovvero le 50 imprenditrici che supereranno la prima selezione – avranno uno spazio dedicato sulla piattaforma GammaDonna (www.gammadonna.it) e sul suo canale YouTube che, dal 2004, racconta e diffonde storie di innovazione, leadership, visione. Saranno inoltre invitate a partecipare all’esclusivo evento di business matching con i Partner del Premio che si terrà la sera della Finale.

Le 6 finaliste  selezionate da una Giuria di esperti di innovazione, esponenti del mondo imprenditoriale e investitori – saranno protagoniste il 30 settembre 2022 sul palco dell’Italian Tech Week, in presenza alle OGR Torino e trasmesso in live streaming. IN PALIO, inoltre, un mini-documentario sulla storia di innovazione imprenditoriale; interviste e uscite sui principali media nazionali; un Master della 24Ore Business School; un percorso di formazione sul mondo del Venture Capital e dell’innovazione grazie a Italian Tech Alliance “Venture Academy”; l’opportunità di essere selezionata per un training per partecipare al processo di screening del Comitato Angels4Women per accedere a un investimento tra i 100 e i 500K; l’accesso alle Business Class Finance is Cool di GammaDonna.

GLI AWARD

Tra le candidature pervenute saranno inoltre assegnati i seguenti Award:

*  Il Women Startup Award assegnerà un riconoscimento alla startupper più innovativa in ambito Smart city, Smart mobility, Life Science, Healthcare & Medical Devices, Bioeconomy, Media, Entertainment & Gamification, Fashion, Agri-food tech, Cleantech, Energy. La startup dovrà aver completato almeno un seed round. L’adozione di principi di economia circolare e/o ESG rappresenterà un plus nella valutazione finale.

*   l’Assist Digital Award, riconoscimento all’imprenditrice che ha investito nella trasformazione digitale con lo scopo di avere un impatto positivo su persone, comunità, territori, società e ambiente. In palio, l’accesso al programma di formazione internazionale di Assist Digital sulla User Experience per i prodotti e i servizi digitali, con 3 livelli di certificazione UX PM (User Experience Project Management).

* All’imprenditrice che si sia distinta nel campo della comunicazione on e offline è invece destinato il Giuliana Bertin Communication Award, riconoscimento di Valentina Communication, istituito in memoria della sua fondatrice. In premio: interviste e uscite sui principali media nazionali, un Master della 24Ore Business School, l’opportunità di essere selezionata per un training per partecipare al processo di screening del Comitato Angels4Women per accedere a un investimento tra i 100 e i 500K.

Candidature entro l’11 luglio 2022.

Info e regolamento sul sito https://www.gammadonna.it/premio

Giusto Mezzo, flashmob in tutta Italia per la #CorsaAlRecovery. A Torino in Piazza Castello

Domenica 18 aprile alle 11.00 il Giusto Mezzo  – il cui appello ha raccolto oltre 60.000 firme – “corre” l’ultimo miglio verso il Next Generation EU organizzando un flashmob in tutta ItaliaAttive le piazze di Firenze, Milano, Roma, Torino, Parma, Treviso, mentre nel resto del Paese attiviste e attivisti si riuniranno in una grande piazza virtuale.

Alla mobilitazione di Torino (Piazza Castello) aderiscono anche l’Associazione Il Cerchio degli Uomini (http://cerchiodegliuomini.org) e il Comitato Torino Città per le Donne (https://www.torinocittaperledonne.org).

Pronti, partenza, via. Domenica 18 aprile alle ore 11.00 il Giusto Mezzo “corre” l’ultimo miglio verso il Next Generation EU con flashmob in tutta Italia. A Firenze in piazza Santa Maria Novella, Milano all’Arco della Pace, Roma in piazza del Popolo, Torino in piazza Castello, Parma in piazza Garibaldi, Treviso in piazza Borsa e nel resto del Paese in una grande piazza virtuale animata da centinaia di attiviste e attivisti.

 Il 30 aprile il Presidente del Consiglio Mario Draghi consegnerà all’Europa il piano italiano per l’utilizzo dei fondi del Recovery Fund. Fino a quel giorno, il Giusto Mezzo non smetterà di reclamare a gran voce quanto già messo nero su bianco nella petizione sul proprio sito rivolta a Palazzo Chigi: asili nidi a tempo pieno, congedo di paternità di cinque mesi, allargamento dell’offerta di cura per anziani e disabili, abolizione del gender pay gap, agevolazioni all’accesso al credito. Investimenti strutturali per aumentare l’occupazione femminile e combattere la disparità di genere.

Disparità di genere che sarà fotografata dalla #CorsaAlRecovery: a Roma, Milano, Torino, Parma e Treviso, il Giusto Mezzo simulerà fisicamente l’inizio di una gara tra atleti e atlete, con l’obiettivo di evidenziare le differenze di genere in termini di vantaggio competitivo già alla partenza. Uno speaker leggerà delle frasi per determinare il posizionamento ai blocchi di partenza di tre uomini e tre donne, che si riposizioneranno, quindi, in base alle discriminazioni che vivono ogni giorno: da «se hai un posto di lavoro, fai un passo avanti», passando per «se hai dovuto lasciare il lavoro perché non puoi permetterti un posto al nido per tuo figlio, fai un passo indietro», fino a «se non ti sei mai sentito discriminato sul lavoro fai un passo avanti». Il risultato sarà un plastico disegno della situazione in Italia oggi, dove le donne iniziano ogni giorno la propria corsa qualche blocco più indietro degli uomini.

Alla mobilitazione di Torino, in Piazza Castello (dove suonerà la Bandakadabra di Gipo di Napoli) aderiscono anche l’Associazione Il Cerchio degli Uomini (http://cerchiodegliuomini.org) e il Comitato Torino Città per le Donne (https://www.torinocittaperledonne.org).

Secondo l’ultimo report del World Economic Forum i redditi femminili sono del 42,8% più bassi rispetto a quelli degli uomini, e il gap a parità di mansioni è del 46,7%; siamo al quarantunesimo posto per l’emancipazione politica femminile e le laureate in materie Stem sono solo il 15,7%. Dei 444 mila posti di lavoro andati persi nell’ultimo anno, 312 mila hanno coinvolto le donne. Una drammatica situazione acuita dal fatto che nel solo mese di dicembre si è registrata un’ulteriore flessione che ha causato la perdita di 101 mila posti di lavoro e, anche stavolta, ben 99 mila riguardavano le donne. Ci metteremo 135,6 anni ad ottenere la parità di genere. I fondi del Next Generation Eu sono una incredibile ed unica possibilità perché almeno i nipoti dei nostri nipoti possano iniziare a intravedere una società più equa e giusta, ma anche più ricca: secondo una stima della Banca d’Italia, se tutte le donne lavorassero il Pil aumenterebbe del 7%.

Le richieste del Giusto Mezzo permetterebbero a tutti di iniziare la propria corsa dallo stesso blocco di partenza: domenica 18 aprile, dalle ore undici, lo chiederemo nelle piazze, nelle strade e dalle nostre case, rivolgendoci ancora una volta a Palazzo Chigi, ma anche a tutti coloro che credono in questa battaglia e vorranno firmare la nostra petizione sul sito www.ilgiustomezzo.it.

_____________

IL MOVIMENTO “IL GIUSTO MEZZO”

Il Giusto Mezzo (www.ilgiustomezzo.it) è un movimento spontaneo della società civile per la parità tra donne e uomini in Italia. Nasce sulla scorta dell’appello europeo Half of It che chiede che metà delle risorse del Recovery Fund siano spese per superare il divario di genere in Europa. I firmatari e le firmatarie dell’appello chiedono un cambio di paradigma con una lettera inviata al Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero interventi strategici e strutturali in 3 ambiti chiave per il futuro: l’allargamento dell’offerta sulla cura della prima infanzia e sulla cura famigliare in generale, il rilancio dell’occupazione femminile e la riduzione del cosiddetto gender paygap, cioè la disparità salariale tra uomini e donne. Attraverso questo appello, che ha raggiunto oltre 60mila firme, ribadiscono che il loro interesse non è la questione femminile ma l’efficienza del sistema, degli investimenti che farà il nostro Paese, sia con le risorse straordinarie europee e del Recovery Fund, sia con quelle ordinarie, e il loro reale impatto sulle generazioni future.

Promotrici del Giusto Mezzo sono Alessia Centioni, Alexandra Geese, Chiara Gribaudo, Francesca Fiore, Costanza Hermanin, Sarah Malnerich, Valentina Parenti, Pina Picierno, Daniela Poggio, Lia Quartapelle, Azzurra Rinaldi, Mila Spicola, Cristina Tagliabue. Le prime associazioni promotrici sono DateciVoce, GammaDonna, Mammadimerda, Prime Donne, EWA e Noi Rete Donne.

Concerto per il reparto di fibrosi cistica del Regina Margherita

“IO STO CON VALE – FA BALLARE MA FA ANCHE RIFLETTERE”
Da Johnson Righeira a Davide Shorty, tanti gli artisti che hanno aderito all’invito del cantante torinese Gionathan per una serata all’insegna della musica e del divertimento a sostegno di chi ha bisogno
Musica per tutti i gusti e le età venerdì 24 gennaio, dalle ore 20,45, al teatro Don Bosco di Rivoli (via Stupinigi 1). È in programma il concerto di beneficenza “Io sto con Vale”, promosso dalla Doc Brown Agency di Torino in organizzazione partecipata con il Consiglio regionale del Piemonte e dell’Accademia ACMS, con il patrocinio della Città di Rivoli.
A lanciare l’iniziativa è il cantante torinese Gionathan, che ha invitato i colleghi con cui ha collaborato fin qui nella sua carriera a prendere parte alla serata benefica. Si esibirà in compagnia di una big band (The Vibers), oltre che insieme agli altri protagonisti dell’evento. Nel corso della serata saliranno sul palco con lui Johnson Righeira, Davide Shorty, Mastafive, il Coro Big Family, Chris J Sandra, Bo Rasco, Mazaretee, Ka Ma, Meissa, Martin Craig e Nadya.
Biglietti in prevendita a 12 euro (ridotto a 8 euro per bambini sotto i 12 anni e over 65) su https://iostoconvale.eventbrite.it/. In cassa il giorno del concerto a 15 euro (ridotto a 10); gratuito per i diversamente abili. Il teatro dispone di 400 posti a sedere e di un ampio parcheggio interno.
Il concerto sarà strutturato come un vero e proprio festival, con un susseguirsi di artisti che porteranno la loro musica: si spazierà dal pop al funky, dal rap al soul e alla disco. «Nella serata ci sarà modo di riflettere ed emozionarsi, ma anche di ballare e fare festa – presenta Gionathan – Avremo la grande voce di Davide Shorty, terzo a X Factor 2015 e secondo nelle nuove proposte a Sanremo 2021, alcuni tormentoni come “Vamos a la playa” e “L’estate sta finendo” del mitico Johnson Righeira, il rap impegnato di Mastafive… e pure un coro gospel!».
Il ricavato sarà interamente devoluto all’Associazione IostoconVale, che a sua volta lo utilizzerà per comprare un macchinario destinato al reparto di fibrosi cistica dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Nel corso della serata sarà consegnato l’assegno simbolico con il ricavato che servirà per acquistare un Oscillometro portatile, utile per la valutazione polmonare e respiratoria dei pazienti pediatrici non responsivi. L’ospedale ringrazia: «È un’iniziativa importante, per una patologia gravemente invalidante, anche se negli ultimi anni prognosi e diagnosi sono migliorate – commenta Giovanni Messori Ioli, Commissario dell’ospedale Regina Margherita – Ringrazio per aver pensato a noi e per la generosità. I pazienti e le loro famiglie saranno riconoscenti per questo gesto».
L’Associazione IostoconVale nasce nel febbraio 2018 per combattere la fibrosi cistica ed è intitolata a Valentina Calabrò, una giovane donna che ha affrontato con coraggio e senza mai arrendersi una malattia che, purtroppo, ancora oggi non lascia scampo. Nel 50% di chi ne è affetto l’aspettativa di vita non supera i 40 anni.
Presidente e fondatore è Giosy Zappia, che ha avviato l’Associazione in accordo con i genitori e i parenti di Valentina, ai quali si sono aggiunti quanti hanno conosciuto e apprezzato la ragazza.
L’impegno dell’Associazione è di stare accanto a chi riceve una diagnosi di fibrosi cistica: avvalendosi dell’aiuto di esperti, mira a limitare, quanto più possibile, le difficoltà collegate alla malattia. Attraverso la promozione di eventi benefici, IostoconVale riesce a donare a strutture sanitarie in giro per l’Italia delle attrezzature che permettono di migliorare diagnosi e cure. In passato ha potuto fornire un broncoscopio pediatrico per intubazione al Policlinico Umberto I di Roma ed un ecografo portatile al reparto di fibrosi cistica del Policlinico G. Martino di Messina. Ora sarà la volta dell’ospedale Regina Margherita di Torino.
«Ho conosciuto Giosy e sua moglie Stella due anni fa a Sanremo, durante la settimana del Festival – racconta Gionathan – Pochi mesi dopo ci siamo trovati a collaborare nell’organizzazione di un festival internazionale a Torino. Sapendo della loro Associazione, ho voluto mettere la mia musica a disposizione della loro causa, come testimonial. E ho pensato di coinvolgere gli artisti con cui ho collaborato negli ultimi anni».
La risposta dei colleghi musicisti e cantanti è stata positiva: «Tutti hanno aderito con entusiasmo e partecipazione. Solo una manciata non potrà esserci, per impegni presi precedentemente, ma proietteremo un video con i loro saluti ed il sostegno alla causa. Durante l’evento ci sarà anche una dimostrazione di com’è il respiro di una persona affetta da fibrosi cistica».
LA FIBROSI CISTICA: COS’È
La fibrosi cistica (FC) è la più comune delle malattie genetiche della popolazione caucasica. Si stima che nel mondo ne siano colpite circa 100.000 persone.
È una malattia ereditaria, causata dal difetto di una proteina chiamata CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Conductance Regulator – regolatore della conduttanza transmembrana della fibrosi cistica), e trasmessa con un meccanismo cosiddetto autosomico recessivo. Ciò significa che la malattia compare solo se il gene difettoso è presente sia sui cromosomi ereditati dalla madre, sia su quelli ereditati dal padre. Può manifestarsi sia nei maschi che nelle femmine.
In Italia, la malattia colpisce 1 neonato su 2.500-2.700 e si verificano circa 200 nuovi casi all’anno. Può, dunque, essere considerata rara, sebbene nel nostro Paese non sia inserita nell’elenco delle malattie rare esenti dal costo del ticket, bensì in quello delle malattie croniche e invalidanti. La fibrosi cistica gode, dal 1993, dei benefici di una legge speciale (548/93) mirata a garantire modalità adeguate di prevenzione, cura e ricerca per una patologia genetica diffusa e grave.
È una malattia multisistemica, cioè colpisce molti organi, e causa dei disturbi che tendono a comparire nella prima infanzia, sebbene a volte possano non essere evidenti fino all’età adulta. Includono infezioni respiratorie ricorrenti, disturbi intestinali, respiro sibilante e mancanza di fiato, tosse persistente con muco denso, diarrea, affanno e difficoltà respiratoria, sudore salato, infertilità (uomini) e diminuzione della fertilità (donne), perdita di peso o mancato aumento di peso, difficoltà di crescita.
Le persone colpite da fibrosi cistica possono sviluppare anche altre malattie e disturbi associati, quali diabete, magrezza, fragilità ossea (osteoporosi) e malattie del fegato. È importante segnalare, tuttavia, che vi sono grandi differenze da persona a persona nel livello di coinvolgimento dei vari organi e nell’evoluzione della malattia.
Oggi, la maggior parte dei casi di fibrosi cistica è diagnosticata subito dopo la nascita attraverso un esame di controllo sul sangue. Il test consiste nel prelevare una goccia di sangue dal tallone del neonato al secondo-terzo giorno di vita e nel misurare i livelli di una sostanza, la tripsina immunoreattiva. Se il risultato è positivo, vengono eseguiti ulteriori test per confermare la presenza della malattia.
Sono poche le cure efficaci per la fibrosi cistica: una di queste è la terapia con un farmaco (principio attivo ivacaftor), che è in grado di agire efficacemente sulle cause della malattia, migliorando le prestazioni della proteina difettosa in pazienti di età pari o superiore a 6 anni con specifiche mutazioni nel gene CFTR. Sono inoltre disponibili diverse terapie e metodiche per alleviare e prevenire le complicazioni conseguenti alla malattia e migliorare la qualità della vita delle persone che ne sono colpite.
La fibrosi cistica è una malattia progressiva che tende a peggiorare col tempo. Talvolta, se causa infezioni gravi o se i polmoni smettono di funzionare correttamente, può essere mortale. Tuttavia, la prognosi della fibrosi cistica è migliorata notevolmente negli ultimi anni, grazie ai progressi nella terapia che hanno permesso ad un numero sempre maggiore di persone di condurre una vita normale.

Cani e bambini: emozioni in parallelo tra mondo animale e umano

Torino tra le righe

 
 
Questa settimana vi porto alla scoperta di Cani e bambini – Storie di emozioni incomprese, un libro che unisce sensibilità e competenze di due autori torinesi: Diego Rendini, medico veterinario specializzato in comportamento animale, e Silvia Spinelli, psicologa dello sviluppo e psicoterapeuta.
Diego Rendini, dopo aver conseguito la laurea in Medicina Veterinaria, si è specializzato nella Medicina Comportamentale del Cane e del Gatto. Da anni lavora per aiutare i proprietari a comprendere meglio i loro animali, migliorando il rapporto tra esseri umani e amici a quattro zampe. Silvia Spinelli, dal canto suo, è una psicoterapeuta certificata e formatrice, esperta nel supporto ai genitori attraverso metodi innovativi come il Circle of Security Parenting® e il Metodo Feuerstein®.
In questo libro entrambi condividono una missione: costruire ponti di comprensione tra il mondo umano e quello animale.
Cani e Bambini – storie di emozioni incomprese si apre con il racconto autobiografico di Diego, che narra il suo amore per gli animali, nato nell’infanzia e trasformatosi successivamente in una carriera come veterinario comportamentalista. Seguono sei storie avvincenti che esplorano il legame tra cani e bambini, mostrando come le difficoltà emotive vissute da entrambi siano spesso simili. Silvia interviene con la sua esperienza per offrire una prospettiva psicologica, arricchendo le narrazioni con spunti utili per i genitori.
Gli autori utilizzano un linguaggio chiaro e accessibile, rivolgendosi ai bambini attraverso racconti appassionanti e agli adulti con commenti tecnici che forniscono strumenti per comprendere meglio le emozioni e i comportamenti dei propri figli e dei propri animali domestici.
Un elemento distintivo del libro sono le illustrazioni a colori di Valentina Cavallo, che trasformano la lettura in un’esperienza coinvolgente sia dal punto di vista visivo sia emotivo. Le immagini, vivaci e curate, avvicinano i piccoli lettori alla narrazione, rendendo ogni pagina un invito alla scoperta.
Cani e bambini – Storie di emozioni incomprese non è solo un manuale educativo, ma anche un’opportunità per creare momenti speciali di condivisione tra genitori e figli. Consigliato a chiunque voglia approfondire il rapporto con il proprio cane, il libro offre chiavi di lettura preziose per vivere con maggiore consapevolezza il doppio ruolo di genitore e proprietario di un animale.
Un libro da leggere, amare e tenere sempre a portata di mano.
Marzia Estini

Medea assassina ovvero una grande storia d’amore

Alle Fonderie Limone, sino al 21 aprile, per la regia di Leonardo Lidi

Superati da poco i trentacinque, Leonardo Lidi, oggi artista associato dello Stabile torinese – Teatro Nazionale, nell’attesa di concludere la prossima estate a Spoleto con “Il giardino” il proprio percorso cecoviano, comincia a guardarsi indietro, a ripensare ad una certa strada percorsa. Ha tracciato, confessa nelle sue note di regia, una mappa, “scarabocchiata, usurata, spiegazzata”, il risultato degli ultimi anni di attività, gli ultimi tre, un memento da portare sempre con sé. “Ho segnato delle tappe imprescindibili, ho annotato dei luoghi/contenuti da visitare e inserito di tanto in tanto dei punti interrogativi per domandarmi quale fosse la strada più bella – e non la più veloce – da percorrere.” In periodo postpandemico, quando gli è stato chiesto di presentare un proprio progetto, ha individuato nell’amore il punto centrale di quel futuro percorso, percorribilissimo, un saggio quanto autentico espediente per riavvicinarsi al pubblico, per “scacciare la paura delle emozioni”, per individuare le scelte dei nostri cuori. Ne sono nati “Il misantropo” e “Come nei giorni migliori”, erano gli anni 2022 e ’23, un percorso d’amore in cui mancava ancora un ultimo tratto (o forse un percorso non ancora del tutto concluso, “un archetipo che possa aiutarci a mettere un punto e virgola in questo viaggio della fantasia”), in qualche modo il più faticoso da percorrere: forse inspiegabilmente al primo sguardo, certo inaspettatamente ne è nata l’euripidea “Medea”, oggi nella traduzione di Umberto Albini sul palcoscenico spoglio delle Fonderie Limone di Moncalieri, in scena sino al 21 aprile.

Ma come, “Medea” una storia d’amore? Ma come, lei, la protagonista, la figlia del Sole, la donna che da sempre abbiamo imparato, attraverso le parole nei secoli di più autori, a maledire per aver fatto scempio dei propri figli (una tragedia che a ragione la rende maggiormente vicino a noi, solo a scorrere le pagine dei quotidiani), oggi dovremmo considerarla l’eroina di un amore sconfinato? Ecco Lidi abbandonare il mondo della magia e della violenza, l’assassina proveniente dalla barbara Colchide, lo sguardo su chi antepone l’istinto di vendetta all’amore per i piccoli, a chiedersi le radici di quella tragedia, di quell’annientamento finale, di quel padre, Giasone, immiserito e anche ridicolizzato, che s’aggira per le stanze del palazzo a ricercare i propri figli; eccolo a chiedersi quanto può essere successo prima, il prima dove tutto era iniziato con la cattura del Vello d’oro, con i dubbi se seguire uno straniero o restare nella propria terra, la scelta e l’uccisione del fratellino minore, il destino di moglie fedele e la nascita dei due figli, i miti che ci riportano altre pozioni di veleno e altri assassini. Ogni cosa prima è stata dettata dal sentimento autentico, e poi l’abbandono: due tratti, due isole, du parti che in maniera ben distinta sezionano la tragedia. E la messa in scena.

Lidi è un regista che analizza, che ricerca, che scende a fondo nelle viscere dei testi che mette in scena, svelando strati che da sempre – forse: lasciando ancora qualche spazio per le altre letture del mito – hanno sbilanciato la nostra attenzione. È un regista che, come qualsiasi altro pronto per dovere o per passione ad attraversare la scena, tira dritto per la propria strada, inesorabilmente e umanamente, anche a costo d’inciampare. Voglio dire che è un gioiello di messa in scena questa prima parte della sua “Medea”, i personaggi annientati e imprigionati in quelle due pareti trasparenti a formare una sorta d’acquario (la scena è firmata da Nicolas Bovey) dove si urla, si ricorda, si corre da una parte all’altra convulsamente, si intonano canzoni su una chitarra elettrica, si ama e si tenta per un breve attimo di ritornare all’antico amore, un lungo momento – la prima parte! – in cui motivazioni ed effetti, sentimenti positivi e violenti, personaggi, tutto trova il proprio giusto spazio. Stretta, compatta, serrata. Dove Orietta Notari – un’attrice, mi ripeterò ma lo penso da sempre, con grande affetto, che chi organizza teatro dovrebbe tenere maggiormente presente, dandole tutto lo spazio che le spetta – è una protagonista eccezionale, nel suo correre e nello stare rannicchiata a terra, nell’andare avanti e indietro come una bestia in gabbia, colpita e pronta a rimettersi in piedi, spavalda e animale ferito, innamorata e vendicatrice, l’attaccamento alla nutrice presa a testimone, veri capolavori di spaventosa isteria, sempre autentica nel raggiungere le varie pieghe del personaggio che Lidi le ha vestito addosso, nel rantolo e nell’urlo, nel pianto e nel riso, nello sberleffo e nel dolore (“Soffro, lo capite che soffro?”) e nella commiserazione verso la donna più giovane che da domani prenderà il posto suo a fianco di Giasone. Credo la vera colonna portante dello spettacolo, che su di lei in gran parte trova la sua ragion d’essere.

Poi Lidi sembra arrendersi, non ben sicuro dove andare a parare, tocca ancora un punto alto con l’uccisione dei figli, un lampo di malvagità grandiosa nella sua brevità, una calza nera sulla testa e i figli sono morti: ma poi cincischia, sbrodola, obbliga Giasone&Co a uno stonato assaggio di danza moderna, un frastuono da locale del sabato sera, sino a portare in scena Glauce, in bianco abito da sposa con strascico, microfono in mano, a intonare “Eternità” (per chi avesse ricordi sfocati, di Bigazzi e Cavallaro, Sanremo ’70 arrivando quarta, Camaleonti e Ornella Vanoni…). E anche lo sventurato Giasone di Nicola Pannelli passato dall’arroganza, dalla vigliaccheria, dalle ragioni di un fatto senza importanza a una disperazione che, seppur ottimamente resa con ricchezza di toni, pecca e scivola in quella povera mise di uomo soltanto in canottiera e slip, mi pare un tantino eccessivo, pur restando nell’ambito di una sfacciata demascolinizzazione. Altri interpreti Valentina Picello, che è una convincente nutrice, Lorenzo Bartoli, Marta Malvestiti e Alfonso De Vreese. In ultimo, non ci aspettavamo una Medea di Lidi con i costumi della Medea pasoliniana: anche perché la voce “costumi” sembra sempre più zittirsi sui nostri palcoscenici, il minimal e il quotidiano sono imperanti (questi sono di Aurora Damanti), qui siamo a livello della più spudorata trasandatezza. Applausi nella replica a cui ho assistito soprattutto agli attori, qualche dissenso sull’operato di Lidi attorno a me. Condivisibilissimo, appunto.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma

Il luogo più gozzaniano di Agliè

Una bisavola della nostra nonna materna era sorella maggiore di quello paterno di Guido Gozzano. A partire dal 1965 e poi dal 1976 e in ultimo quasi ininterrottamente dal 1986, ho approfondito la storia di quegli antenati e parenti. Nel XV Secolo, un esponente dei Gedda (gruppo famigliare scandinavo originario del Gotland),che doveva aver combattuto i Tuchini con le compagnie di ventura, cessati i conflitti, fissò la sua dimora in Val Chiusella, e,tra i suoi discendenti, noi dividiamo con i Gozzano quegli antenatiche, nel corso del XVII Secolo, si spostarono ad Agliè, fissandovila loro dimora.

Da sempre Agliè mi è famigliare, e tanti dei cambiamenti che ha subito nel corso del tempo mi sono noti e facili da rilevare perché spesso li ho documentati avvalendomi anche di scritti e immagini, inoltre, giovandomi della formazione di architetto, mi sono soffermato sui cosiddetti luoghi “gozzaniani” cosicché, mentre sto liquidando per le stampe le diverse pagine sull’argomento, passo ad anticiparvi alcune notizie inedite.

Argomento di questo scritto sarà il Chiosco del Meletto Meletto, si badi, e non Meleto, perché proprio così il toponimo era scritto nei tempi più antichi, e anche Chiosco, e non Chalet, poiché questo sostantivo definisce correttamente quella tipologia architettonica da giardino. Il Chiosco, insieme all’ambiente naturale che lo circondava (isola, laghetto, ponte e bosco di piante esotiche), fu realizzato nel 1866 dal (più volte deputato al Parlamento Subalpino) comm. Massimo Secondo Mautino.All’epoca Diodata, la sua figlia minore e futura madre di GuidoGozzano, era una bambina di 9 anni, la sorellastra di lei, Ida Galletti, era morta da due anni, e i suoi due figli: Elvira e Arturo, avevano rispettivamente 11 e 9 anni.

Definendo quello il luogo gozzaniano per antonomasia, non intendo negare l’esistenza di quegli altri che in qualche modo possano evocare la presenza di Gozzano ad Agliè, sostengo peròche questo, in assoluto, è il più emblematico, perché, voluto dal nonno materno che non solo amava la poesia (come provano le opere della sua biblioteca) ma, in gioventù, ne scrisse anche di sue e le pubblicò su certi fogli ebdomadari e, per oltre cinquant’anni, fu frequentato dalla seconda figlia – che pure scrisse poesie e che, più del figlio Guido, ritornò spesso e pure dal nipote Arturoil quale, nato pochi mesi prima di lei,proprio a quell’ambiente accennava in una composizione poetica per il matrimonio della zia con il futuro padre del Poeta. Perquesto, il Chiosco del Meletto, era davvero un luogo di forti richiami poetici. Di significativa importanza lo fu poi anche per Guido Gozzano, che vi andava volentieri (come attesta la foto in cui è ritratto in piedi con la madre, la sorella Erina, il marito di lei,avvocato Giordano, e la loro figlia ragazzina), perché, come gli altri famigliari, riceveva un benefico influsso da quell’ambiente.

Fissati i riferimenti temporali e ricordati fatti, interpreti e motivazioni, sarà facile capire come, nel corso degli anni, quello spazio abbia avuto per i ragazzi il ruolo di ambiente di sogno, e, per le ragazze, forse sia stato anche qualcosa di più della casa delle fate (o delle bambole). La costruzione – tutta in legno – era posta su un isolotto al quale si accedeva da un ponticello (sul quale è bello rivedere Guido insieme alla sua mamma, nella foto ingiallita che il tempo ci ha tramandato) o dalla barca (l’unica che stazionasse sempre là), e il luogo, già ben dotato dalla natura che lo circondava, era arricchito dalle piante che il nonno deputato aveva voluto che crescessero tutto intorno al laghetto, in un’epoca in cui il parco del Castello di Agliè contava ancora diversi giardinieri in pianta stabile. I tre ragazzi ebbero là un luogo ideale di confronto in cui potevano ritrovarsi per parlareconfidenzialmente tra loro, mentre divenivano grandi.

Ciò detto, possiamo smontare l’affermazione di due studiosi della letteratura italiana (De Rienzo – che, codicendo, finisce per meritarsi lui quel titolo di “bugiardo” che troppo facilmente ha appioppato a Guido e Sanguineti – che sembra ignorare del tuttoi legami (di sangue e di affetto) che Gozzano aveva con la Liguria infatti entrambi, muovendosi in un contesto a loro ignoto, senzaconoscere la storia (che io vi ho raccontato), accusano Guido di un lapsus perché, in un foglio indirizzato a Amalia Guglielminetti, aveva scritto: «in questo casolare campestre (la cascina del Meletto, che era dei Mautino già nel XVIII Secolo), in riva di questo laghetto boschivo che ha visto l’infanzia di mia madre». Smentita che baso esclusivamente sulla relazione peritale di un geometra, che, nel 1938, su quei luoghi ebbe a scrivere, sentitaDiodata Mautino, la vedova ultra ottuagenaria dell’ingegner Gozzano, che a viva voce gli aveva fornito le testimonianzepreziose che io utilizzo. (Ma i letterati, forse, non considerano letteratura le relazioni tecniche, e allora chissà cosa avrebbero a ridire su Franz Kafka, ché le sue pagine di perizie trovano spazio tra i suoi scritti letterari?)

Ora, ritornando al chiosco e all’incantevole ambiente cheMassimo Mautino volle dare alla figlia e ai due nipoti quasi aconfortarli perché tutti ancora giovani erano rimasti privi dellamadre, ricorderò che quella costruzione, la cui esistenza qualche fotografia in bianco e nero attesta ancora negli anni Ottanta del Novecento, non ebbe affatto una vita breve e, giacché ebbe bisogno di tempo perché, senza aver mai conosciuto una manutenzione, si sancisse la sua fine (accettandone la demolizione o constatandone il crollo). Anche le piante di quel piccolo orto botanico conobbero soltanto il taglio di chi, negli anni, se ne servìper bisogno di legna da ardere: tutto era facile, libero l’accesso,senza recinzioni né barriere, si poteva prendere, manomettere edistruggere a volontà! Oggi che da vedere non rimane altro che le verdi canne che crescono rigogliose nell’acqua e i rifiuti abbandonati sullo spiazzo, il rustico cartello di legno che abbiamo fotografato segnala il luogo (ma quale?) con le parole di Guido(ma quali?). Lassenza di quell’ambiente si fa avverte, non solocome una perdita sentimentale, ma come grave danno per la storia dell’architettura stessa. Sappiamo infatti che il commendator Mautino (il cui padre, morto prima chegli venisse al mondo, era un misuratore diplomato all’ateneo torinese dove aspirava anche il titolo di architetto) era egli stesso in buoni rapporti con diversi professionisti anche tra i coetanei del padre. Uno per tutti, Ignazio Michela, al quale in una lettera egli accennava di aver visto il Crystal Palace durante un soggiorno a Londra. E poiché le costruzioni da giardino godevano nel Regno Unito di attenzioni particolari, non è possibile che Massimo Mautino non affidasse quel progetto per il suo a un architetto importante, magari a un giovane che gli era stato segnalato. Purtroppo però, quella costruzione non c’è più: avrebbe documentato, ad Agliè,l’intervento di un progettista attivo tra noi a metà Ottocentocertamente la tipologia del chiosco in legno (ma dall’interno tappezzato in stoffa e arredato con mobili rustici progettati su misura) per i più, ad Agliè, non era che una baracca di legnoma questo non giustifica affatto, anche se le motiva, incuria e trascuratezza ai danni di una tecnologia che, in uso in tante parti del mondo, qui si lasciò sparire nel nulla, perché “era una baracca ma stava in piedi da cento e vent’anni almeno!!!

Probabilmente mi si accuserà di essere ingiusto per considerare il chiosco “più importantedegli altri luoghi, che, ad Agliè, si dicono gozzaniani, diallora che, a cent’anni dalla morte di Guido, nel 2016, la realtà fisica della maggior parte di essi era del tutto compromessa e che quelle costruzioni, stravolte e malridottecome sono, oggi rimangono solo per testimoniare i più indegni interventi edilizi che, negli ultimi cento anni, il nostro Paese (qui sta per Nazione) ha sofferto.

Chiudo questa pagina con un’immagine di serenità, una fotografia, che in amicizia (credendo negli studi che porto avanti ormai da tanti anni sui nostri antenati e parenti) mi ha passato Valentina Sapio, la discendente diretta di Erina Gozzano, la sorella di Guido. In essa Diodata e Guido sono le figure dominanti che compaiono sfocate in una dimensione quasi trascendentale.

Il contesto è indefinito e non si riesce proprio a localizzalo, ma questo permette di affermare che per ogni uomo, per un Poeta soprattutto, ogni ambiente è carico di valori, e allora, se è vero che, come si legge ad Agliè in un’iscrizione funebre di San Gaudenzio, “la sua poesia è dappertutto”, si deve fare molto ancora perché la Poesia abbia un suo ruolo nella Storia, che è poi l’intento che per tanti anni ha mosso i miei studi su Guido Gozzano e i suoi.

Carlo Alfonso Maria Burdet

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Susan Minot “La sera” -Playground- euro 18,00

E’ magnifico e a tratti struggente questo romanzo della scrittrice americana (nata a Boston nel 1956) che è stata anche la sceneggiatrice del film di Bernardo Bertolucci “Io ballo da sola”.

Nel 1998 ha scritto “La sera” in cui con una sensibilità profondissima e uno sguardo acuto narra di un’anziana signora malata terminale che fa i conti con i ricordi della sua vita. Il libro è stato adattato per il cinema nel 2007 insieme allo scrittore Michael Cunningham, ed ora finalmente è stato tradotto in italiano.

Protagonista è Ann Lord, 65enne, che circondata da infermiere, figli e parenti vari, tra i fumi dell’incoscienza da morfina e sprazzi di lucidità, controlla le fitte di dolore anche con i ricordi della sua esistenza. Che è stata decisamente intensa: ha avuto tre mariti e quattro figli, una bella dose di dolori e qualche rimpianto. La Minot è abile nell’imbastire una struttura narrativa che scorre perfettamente tra scorci del presente e del passato.

La sua mente resta ancorata soprattutto al ricordo dell’amore per il giovane medico bostoniano Harris Harden: un passione che nonostante i successivi tre matrimoni non si è mai ripetuta. Il pensiero ritorna a un preciso fine settimana in cui tutto è nato, si è compiuto e concluso. Ma non pensiate a una scontata storia di amore, qui il tema è decisamente più alto. Vola tra illusioni, sogni, il passare del tempo, illusioni, tutto giocato con un costante senso di tensione che solo alla fine vi farà scoprire quanto era accaduto in quei giorni lontani.

Un romanzo che parla di senso della vita, profondità di sentimenti, affetti e famiglia, approssimarsi della fine, senso del tutto…..

 

Paolo Giordano “Tasmania” -Einaudi- euro 19,50

In questo libro che Paolo Giordano ha scritto durante la pandemia, aleggiano più temi: l’atomica, la fine del mondo, il clima, i rapporti interpersonali, il vuoto che può spalancarsi all’interno di una coppia, il miraggio della paternità biologica che non arriva, l’amicizia, la fisica, i viaggi, il terrorismo ed altri spunti su cui meditare e interrogarsi.

Un romanzo in vetta alle classifiche che in parte richiama il suo strepitoso esordio nel 2008 con “La solitudine dei numeri primi” e proprio di solitudine continua a parlare e narrare. In queste pagine assembla crisi mondiali e private-esistenziali, sullo sfondo di un universo e di una vita in cui tutti si è fondamentalmente soli.

Voce narrante è quella di P. G., le stesse iniziali dell’autore che con il protagonista condivide anche alcuni dettagli biografici e la competenza professionale. E’ un fisico diventato romanziere di 40 anni; non più giovanissimo e pieno di sogni ancora da verificare, ma neanche tanto vecchio da aver visto più cose di quelle che avrebbe voluto.

E’ legato a Lorenza, più grande di lui e con già un figlio al seguito. Ma è in pieno disagio coniugale; di quelli in cui se ti chiedi come vi vedete insieme nel futuro, finisci per affacciarti su un dirupo il cui fondo resta imperscrutabile.

Forse le pagine che lasciano maggiormente il segno sono quelle dedicate all’Apocalisse passata e futura; ovvero la devastazione e gli effetti delle bombe sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il protagonista ne è ossessionato e mette in campo anche le sue competenze di fisico quando vola in Giappone per assistere alla cerimonia che si tiene annualmente per ricordare quei terribili momenti e farne un reportage. Impressionanti le descrizioni di cosa può fare il fungo atomico nell’immediato alla pelle e al corpo delle persone.

 

La Tasmania del titolo si colloca in un orizzonte lontano e incarna una fantasia di salvezza, l’approdo difficile in cui poter trovare scampo dai mali del mondo. Un paradisiaco sogno che sembra riservato solo a chi può permetterselo, pochi ricchi; invece la strada che l’autore indica è quella di un salvataggio collettivo, un rifugio in cui l’incolumità sia per tutti e non solo per pochi fortunati.

 

 

Joan Didion “Perché scrivo” -Il Saggiatore- euro 17,00

Va in profondità questo libro della grande scrittrice americana, autrice di una pietra miliare della letteratura mondiale “L’anno del pensiero magico”, che nel 2005 le valse il National Book Award per la saggistica.

Nata a Sacramento nel 1934, morta a New York nel 2021, è una delle maggiori scrittrici americane; direi immortale per i testi che ha regalato al mondo, intrisi della sua intelligenza, sensibilità e somma bravura nel raccontare l’impervia fatica del vivere.

Perché scrivo” è il titolo di un suo articolo che dà il nome a questa raccolta di saggi composti tra il 1968 e il 2000; 12 testi brevi ma intensissimi in cui compie uno strepitoso viaggio nel mondo dell’apprendimento e della scrittura. Lei che scriveva come respirava -ovvero senza poterne fare a meno- dal momento che vita e parole scritte erano due vasi eternamente comunicanti. Scrivere la sua vita era la forza che trovava nell’affrontarla, tra alti e bassi, gioie, e dolori indicibili.

In questi saggi c’è la sua idea di come percorrere la vita e camminare per le vie del mondo, quello esterno, gli accadimenti, l’interiorità, l’elaborazione dei lutti, la forza di sopravvivere ai peggiori maremoti che il destino possa riservarci. Non sono testi politici, almeno non dichiaratamente, anche se denunciano il suo profondo impegno in tutto quello che ha fatto e sognato, visto, documentato e interpretato.

C’è il suo modo di apprendere la scrittura e una messe di acute osservazioni al riguardo. La domanda che scorre sottopelle in tutte le pagine è: perché scrivere, per chi? Corollario imprescindibile la sua abilità nell’amministrare la punteggiatura e portare a galla un sentire interiore che lei sa trasformare in altissima letteratura.

In questi saggi scorrevoli c’è l’arte del narratore, la capacità di romanzare un fatto, un sentimento, una storia. La maestria nell’edificare una trama efficace in cui inserire e dare profondità, sostanza e spessore ai personaggi; e non ultima, la capacità di inanellare dialoghi che chiedono di farsi leggere.

 

Lily King “Cinque martedì d’inverno” -Fazi Editore- euro 18,00

E’ una raccolta di racconti, 10 per l’esattezza, che mettono a nudo gli infiniti anfratti delle relazioni umane; tra lutti, amori persi e ritrovati, legami familiari e mille altre sfaccettature della vita.

Al centro delle varie storie c’è un articolato campionario di umanità che abbraccia protagonisti molto diversi tra loro e tutti alle prese con fatti normali e straordinari.

Per darvi un assaggio: il primo racconto ruota intorno alla 14enne Carol, assunta come babysitter da una famiglia molto più ricca della sua e almeno apparentemente ben più felice. Lei nei momenti di pausa si diletta nella lettura di “Jane Eyre”, si immerge talmente tanto nel capolavoro di Charlotte Brontë da cercare di vivere in prima persona l’educazione sentimentale e l’approccio alla vita della famosa istitutrice inglese, orfana e di umili origini, che finisce per conquistare il cuore del suo padrone, Edward Rochester. Ma la vita non sempre imita l’arte.

Tra gli altri protagonisti troverete: un ragazzino che per la prima volta scopre il fremito della libertà lontano dallo sguardo dei genitori, un libraio scontroso e solitario che si apre a nuovi sentimenti, due vecchi ex compagni di stanza ai tempi del college che il coming out di uno di loro aveva irrimediabilmente diviso.

Insomma tanti scampoli di vita che la scrittrice americana mette in scena e racconta con flash memorabili di bravura.

 

 

Valentina Nasi “Torino elegante follia” -Idea Books- euro 59,00

Pare quasi superfluo dire che questo è un volume prezioso in cui vengono eccezionalmente aperte alcune case private, privatissime, difficilmente espugnabili; nell’impresa è riuscita Valentina Nasi Marini Clarelli il cui nome ha ovviamente fatto breccia.

La discendente dei Nasi, strettamente intrecciati agli Agnelli, si è avvalsa della collaborazione di Massimo Nistri per le splendide fotografie, e dell’architetto e docente al Politecnico di Milano Antonella Dedini Sportoletti Baduel per i testi. Un gran bel lavoro di squadra che racconta una Torino osservata con uno sguardo nuovo.

Hanno visto così la luce 260 pagine che ci introducono in dimore storiche di solito rigorosamente inaccessibili, grondanti lusso, storia, buon gusto. Palazzi, appartamenti di prestigio, ville e dimore del 700 in cui è passata anche la Storia e che tengono fede a Torino ex capitale prima della Savoia e poi dell’Italia. Case che sono scrigni di prezioso antiquariato, altre che raccontano la ricerca dei collezionisti d’arte. Ma ci sono anche dimore che sono fiori all’occhiello di Torino, come Palazzo Reale, Palazzo Madama e Reggia di Venaria; e caffè storici come “Mulassano” e “Baratti & Milano”

Risulta un eclettico mix di opulenza, follie e fantasia quasi insospettabili nei torinesi tendenzialmente seriosi, Barocco, raffinatezza, e spesso alchimie riuscitissime tra antico e moderno design. Di alcune vengono svelati i nomi dei padroni di casa, di altre invece nulla sapremo oltre alle immagini. Resta da gustarvi antri di bellezza e comfort di una città affascinante, in parte magica, mai banale.

Senza troppa convinzione lo “Sguardo” di Massimo Popolizio

Sino a domenica 19 febbraio al Carignano il testo di Miller

L’origine fu un fatto di cronaca che lo colpì profondamente, una vicenda familiare di torbidi affetti nata tra gli immigrati italiani di Brooklyn. Una vicenda che spinse Arthur Miller a trasportarla sul palcoscenico, “A View from the Bridge” arrivò a New York nel 1955 nella versione in un atto unico e l’anno successivo a Londra in quella in due atti, per la regia di un Peter Brook arrivato alla soglia dei quaranta.

Nel gennaio del 1958 Luchino Visconti ne fece con la coppia Stoppa/Morelli un capolavoro e nove anni dopo il mitico Raf Vallone accattivante e gioviale, che sembrava avere da sempre il personaggio di Eddie Carbone nel sangue e che in quelle stesse vesti aveva già affrontato i palcoscenici parigini (ancora Brook regista) e lo schermo (con la regia di Sidney Lumet), propose un’edizione italiana al fianco di Alida Valli. In tempi assai più prossimi a noi, lo Stabile torinese, Valerio Binasco regista e interprete, aveva messo in cantiere nel maggio 2020 una sua messinscena di “Uno sguardo dal ponte”, ma poi la pandemia azzerò tutto e lo spettacolo fu annullato e del tutto taciuto nelle successive stagioni dai responsabili. Oggi, con l’etichetta Compagnia Umberto Orini – Teatro di Roma Teatro Nazionale – Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale, Massimo Popolizio propone ancora una volta, nella doppia veste di regista e interprete, con la traduzione di Masolino d’Amico, la tragedia dell’”onesto” Eddie, del suo affetto innaturale verso la giovanissima nipote, dell’accoglienza a Marco e Rodolfo, parenti della moglie e immigrati irregolari, dell’astio e del rancore che giorno dopo giorno lo catturano, del cambiamento e del tradimento, della denuncia alle autorità, della vendetta finale immersa nel sangue.

Ad assistere allo spettacolo sul palcoscenico del Carignano (per la stagione del nostro Stabile, repliche sino al 19 febbraio), immerso nella scena poveramente stilizzata di Marco Rossi – un tavolo, qualche sedia e i semplici mobili di casa, più all’esterno reti metalliche e una gru sul fondo e un angolo per le apparizioni degli altri scaricatori di porto, tutto male utilizzato -, ti chiedi se abbia ancora senso portare allo spettatore degli anni Duemila un simile sanguinoso fatto di cronaca, se si possa ancora parlare di “grande affresco sociale”, se si voglia a ogni costo scomodare la tragedia greca: o se al contrario tutto quanto sia da ridurre ad una semplice, certo tragica, tragedia circoscritta nei contorni familiari. In scena un antieroe, ma solidissimo, continua ad apparire Eddie, innalzatosi a combattere contro la crudeltà del destino, morbosamente colpito dagli abiti e dal taglio di capelli e dal ballo di Caterina, offeso da una nuova morale che avanza, dall’amore tra due ragazzi che arriva a invadere un suo credo personale e una sua passione. Ne rimarrà schiacciato.

Popolizio guarda agli apporti del passato e altresì, in special modo con l’avanzare della tragedia, osserva con occhio cinematografico la vicenda, si rende perfettamente conto che “Uno sguardo” è già, sin dall’inizio, una sceneggiatura a pieno titolo, che ci sono scene concrete sfumate nel buio e stacchi precisi e “primi, secondi piani e campi lunghi”. Ma forse non è del tutto sufficiente il correre di un treno in quell’immagine/cinema in bianco e nero o il gran rumore dello sferragliare per vivacizzare un’azione, per renderla più vicina a noi, per portarla fuori dalle pareti di un palcoscenico: come non basta negli ultimi istanti il frammentarsi nervoso del racconto per affermare ancora una volta il precipitare cruento degli eventi e la loro tragicità. Con le canzoni ricostruisce le radici di quel gruppo di persone, con una certa buona dose di furbizia poiché parecchio si tinteggia di folclore a sottolineare un passato vissuto in terra di Sicilia. Quanto a Popolizio interprete – come regista (anche lui) “onesto” narratore, più disposto a badare alla fisicità che all’introspezione di alcuni interpreti, con qualche debolezza e linearità nell’immergersi nello sconcerto di tutti: che sono Valentina Sperlì, Michele Nani come avvocato Alfieri a commentare e a vivere l’intera storia, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli e Gaja Masciale, lei sì convincente Caterina – s’affida a certi sfilacciamenti del personaggio, a certe immagini da marionetta scomposta che dovrebbe ispirare ad una componente di debole divertimento: di rado ahimè arriva in platea il ritratto dell’artefice e della vittima unite insieme, la grandezza di un uomo e il suo completo sgretolarsi a terra. E pare che i 90’ della serata si snodino senza troppa convinzione. Anche il pubblico al termine si riduce a poche chiamate e ad applausi che per il testo di Miller e la sua storia ci saremmo aspettati ben più sonori e prolungati.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Yasuko Kageyama