A Caselle Baladin prende il volo

Lunedì 28 agosto ha aperto ufficialmente la birreria con hamburgheria nell’Area Partenze dell’Aeroporto di Torino, in uno spazio situato oltre i controlli di sicurezza. 
In una grande scatola di birra Nazionale, il simbolo della birra artigianale 100% italiana, verranno servite le birre “vive” prodotte a Piozzo e si potranno gustare hamburger e piatti di qualità che faranno di questo piccolo gioiello, un vero e proprio gastro-pub. Il banco di spillatura verrà predisposto con 4 spine che offriranno Nazionale, la prima birra artigianale 100% italiana e la linea delle birre Open: White (birra bianca di frumento), Gold (birra bionda) e Amber (birra ambrata).  Ad affiancare i prodotti alla spina, saranno disponibili tutte le birre in bottiglia e lattina dell’ampia gamma Baladin e non mancheranno i barley wine di Cantina Baladin. La cucina proporrà hamburger di qualità, prodotti con la carne La Granda (Presidio Slow Food della razza bovina Piemontese), impiegando anche materie prime locali come la robiola di Roccaverano; non mancherà una versione vegetariana e per gli affezionati, lo stinco alla birra Brune.  Alle “fatate”, ovvero le mitiche chips di patate, preparate al momento, aromatizzate con gusti originalissimi, si affiancheranno focacce e piatti freddi del giorno. I dolci… Birramisù e Birramigiù preparati con le birre Open Amber e Open White. 


La birra, naturalmente, si abbinerà perfettamente… Come anche le bibite Baladin: Cola (Presidio Slow Food), Cedrata, Ginger, Spuma Nera e Mela Zen.  Per chi volesse un caffè, il servizio di caffetteria sarà gestito in collaborazione con Caffè Vergnano. Pensando ad un passaggio di pubblico internazionale – per il design del locale – il gruppo di lavoro si è ispirato al prodotto simbolo dell’italianità birraria di Baladin, la Nazionale. Tutta la sala, dalla capienza di circa 50 posti a sedere compreso un “mini dehors”, si sviluppa attorno ad una grande scatola che riporta le grafiche e i messaggi di questo prodotto. Come si addice al luogo, ci sarà uno schermo con gli orari di partenza dei voli. Uno spazio, infine, sarà dedicato all’esposizione e alla vendita dei prodotti Baladin con l’intera gamma delle bottiglie, le profumazioni d’ambiente e le T-shirt del marchio. Teo Musso commenta così questa sua nuova avventura: “Quando mi è stato proposto lo spazio all’interno della rinnovata e bellissima area passeggeri dell’Aeroporto di Torino, ho aderito subito e con entusiasmo. Questo nuovo luogo Baladin rappresenterà per noi un’opportunità unica per poter far conosce la nostra birra artigianale, italiana, piemontese ad un pubblico proveniente da tutt’Italia e dal mondo”.


 “Siamo felici di dare il benvenuto a Baladin nel nostro Aeroporto” – afferma Roberto Barbieri, Amministratore Delegato dell’Aeroporto di Torino – “un marchio che è diventato ormai un simbolo sempre più riconosciuto dell’eccellenza brassicola e gastronomica del Piemonte e che sarà senz’altro apprezzato da tutti i nostri passeggeri.  La nuova apertura, inoltre, arricchisce e diversifica ulteriormente l’offerta commerciale del nostro scalo che ad oggi conta 34 tra negozi, punti bar e ristoro. L’offerta è cresciuta del 70% nell’arco di 3 anni, con +30% di metri quadri destinati alle attività commerciali e il completo rinnovamento della maggior parte delle aree dedicate al retail”.
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Orari di apertura: tutti i giorni dalle 10 alle 23.

“Natura in movimento” alla Venaria

La Reggia di Venaria aprirà la sua splendida cornice alla danza, in un connubio ideale di arte e natura, ospitando il 17 settembre prossimo, dalle ore 15, la sesta rassegna internazionale dal titolo “Natura in movimento”. Alle compagnie artistiche ospiti verranno richieste esibizioni specifiche, trasformate e riadattate ai bellissimi spazi che la Reggia offre e che diventano essi stessi attori e protagonisti delle creazioni, in una perfetta fusione tra la bellezza della natura e quella dell’arte. Le compagnie ospiti saranno quella francese “Leve un peu les bras”, la compagnia proveniente da Udine Arearea, protagonista delle piece Primavera e Autunno tratte dallo spettacolo delle Quattro Stagioni, il danzatore piemontese Andrea Costanzo Martini, che interverrà con il sostegno dell’ambasciata di Israele, essendo da molti anni ormai residente a Tel Aviv, e che collabora con la Batshava Dance Company della città israeliana e il Cullberg Ballet di Stoccolma. Interverranno anche la Nuova Officina della Danza di Torino con gli allievi dell’International Contemporary Dance Programme diretti da Andrea Costanzo Martini e da Elle Rothschild. Il primo e l’ultimo appuntamento della giornata saranno affidati rispettivamente alle creazioni della Primavera e dell’Autunno con la compagnia Arearea, su musiche di Vivaldi, mentre la compagnia francese “Leve un peu les bras”, alle 15.45, presenterà “With”, uno spettacolo di danza e teatro burlesque basato sui temi dell’amicizia, del cameratismo e della condivisione. Seguirà poi, sulla bellissima terrazza della Reggia, alle 16.30, l’esibizione di Andrea Costanzo Martini, dal titolo “What happened in Torino”, un lavoro concentrato sul rapporto tra il suo corpo e la sua presenza sul palco. Seguirà poi lo spettacolo dal titolo “Q2Q”, curato da Andrea Costanzo Martini e Elle Rothschild, con i danzatori della Nod International Contemporary Dance Company, una connubio tra delicatezza e forza esplosiva, fragilità e chiarezza formale. A conclusione, alle 17.30, la performance intitolata ” Autunno”, nei giardini della Reggia, dove questa stagione verrà interpretata come tempo di transizione e di passaggio tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile.

 

Mara Martellotta

(foto L. Cozac)

Marco Travaglini lascia. “Sissi” Sardone nuovo presidente de “Il Brunitoio” di Ghiffa

“L’Officina di Incisione e Stampa in Ghiffa – Il Brunitoio” ha cambiato presidente. Il giornalista e scrittore Marco Travaglini ha rassegnato le dimissioni dalla Presidenza e dal Consiglio Direttivo dell’Associazione, per motivi personali che gli “impediscono di garantire la frequenza e l’impegno che sarebbero necessari”. Al suo posto è subentrata Maria Teresa “Sissi” Sardone, una dei soci fondatori del sodalizio artistico. Costituitosi nel 2003 “Il Brunitoio” – che conta più di 150 soci – ha promosso in questi anni una molteplicità di mostre, incontri, eventi culturali, interventi didattici confermandosi come una delle più apprezzate istituzione in campo artistico della provincia del VCO e del territorio dell’Insubria. L’attività, mirata soprattutto a diffondere la conoscenza della stampa e dell’incisione nella tecnica calcografica, si è sviluppata sulla doppia direttrice della didattica e della forma espositiva, trasformando lo spazio della ex-Panizza di Ghiffa in uno dei più qualificati centri espositivi con artisti di fama nazionale e internazionale, nel campo della grafica di alto livello.

 

Il Brunitoio di Ghiffa

Quei lombardo-piemontesi del lago Maggiore…

Passeggiando sul lungolago di Baveno, sulla sponda occidentale  del Lago Maggiore, ci si specchia sul golfo Borromeo. Le isole stanno lì, in fila e in mezzo al lago, tra Pallanza e Stresa. Dal parco della Villa Fedora, appartenuta al noto compositore Umberto Giordano, fino alla sontuosa Villa Henfrey (più nota come Villa Branca) dove sono stati ospiti la Regina Vittoria d`Inghilterra e lord Byron, l’orizzonte del lago trova nell’isola Superiore ( o dei Pescatori)  e nell’isola Bella un punto fermo.

Dalle parte opposta del lago, a monte, s’incontrano le cave dove si estrae il famoso granito rosa. Pietra preziosa, il granito di Baveno, con la quale sono state realizzate la Galleria Vittorio Emanuele a Milano e il colonnato della Basilica di San Paolo a Roma. Da ragazzi, in tempi lontani, dopo aver attraversato l’abitato di Oltrefiume, si andava a pescare sulla spiaggetta davanti al Marmo Vallestrona, in direzione di Feriolo, dove facevano mostra di se due enormi, granitiche ruote da frantoio, lavorate dalla paziente opera degli scalpellini. Si pescavano le tinche a fondo, con l’esca di polenta, o – alla sera – le anguille. In quel caso, data l’oscurità, non potendo far conto sul galleggiante a vista, ci si affidava a un pezzettino di carta in bilico sulla lenza: quando il pesce abboccava, lo strappo alla lenza faceva “saltare” il foglietto e – con prontezza – si poteva allamare la preda. A volte si andava, con la canna fissa, a pescare nei pressi dell’imbarcadero o nei porticcioli. Lì l’acqua era più scura; prendeva il colore cupo delle vecchie pietre dove stavano, ormeggiate e dondolanti, le barche. Sul lago misuravamo le distanze con il “metro” dei venti, del “regime di brezza” formato dalla Tramontana che viene da nord, la notte o la mattina,  e dell’Inverna, che sale dal senso opposto da pomeriggio a sera. Il vento “narra” molte cose, come si può leggere in alcune delle pagine più felici regalateci dall’estro creativo del luinese Piero Chiara. 

Nel racconto “Ti sento, Giuditta”(che si trova nella raccolta L’uovo al cianuro e altre storie),Amedeo Brovelli, provetto pescatore e abituale frequentatore del Caffè Clerici, era solito soffermarsi a lungo sul molo dell’imbarcadero di Luino, fiutando il vento di tramontana. Stando lì, dov’erano più intense le folate d’aria, riusciva a distinguere tutti i sentori che il vento, scendendo dalla Svizzera, raccoglieva lungo le valli dell’altra sponda. ”…Socchiudeva gli occhi estasiato e mormorava: ‘le vacche, i boasc, i boasc’. Riapriva gli occhi e dopo un po’: ‘Il pane, il pane, a Cannobio! Il pane fresco, non lo senti?”. E Cannobio, come precisava Chiara, “era sull’altra sponda del lago a otto chilometri. Capii che il Brovelli sentiva l’odore del pane, nel vento (di tramontana). Del pane che usciva in quel momento da un forno a Cannobio; subito mi parve di sentire anch’io quell’odore. ‘Lo sento”, dissi ‘lo sento”.  Michette, michette di semola!” Il lago, come gli spiegava l’interlocutore fatto esperto dagli anni, “non ha odore sotto il vento e non turba quelli che gli passano sopra”. Leggendo il racconto di Chiara si comprendeva come il profumo del pane appena sfornato si confondesse con il sentore delle vacche e delle capre della Val Cannobina che, dall’opposta riva del lago, proveniva dalle stalle di Cavaglio e Spoccia. Oppure con il fragrante aroma di tabacco Virginia che fuoriusciva dalla Fabbrica Tabacchi Brissago, nell’omonima località sulla riva elvetica del lago Maggiore dove si sfornavano sigari dal 1847. Piero Chiara amava ambientare le sue storie tra le due sponde del Verbano,  quella “grassa” (piemontese)  e l’altra “magra”(lombarda).

Noi, mezzi lombardi e mezzo piemontesi lo siamo sempre stati, vivendo nel  Verbano-Cusio-Ossola, realtà geografica che può essere facilmente paragonata a un cuneo di terra conficcato a forza nella catena alpina che divide – con le Lepontine – l’Italia dalla Svizzera, il nord del Piemonte con i due cantoni elvetici del Vallese e del Ticino. Un cuneo di terra e di storie che, a est, condivide con la Lombardia il lago Maggiore. La storia del lago è stata a lungo legata, a doppio filo, con quella della Lombardia e delle sue “casate”: i Visconti, gli Sforza e i Borromeo. Quest’ultima famiglia, in particolare, dalla metà del 1400 in poi, è stata una protagonista indiscussa della vita lacustre, esercitando – tra l’altro – i diritti di pesca. Quello che in epoca romana veniva chiamato Lacus Maximus , a indicarne la grandezza rispetto ai laghi vicini, o anche Verbanus, presumibilmente associando due vocaboli celtici come ver (grande) e benn (recipiente), è lo scenario della prima storia. Ed è proprio qui, sulle onde  del lago Maggiore ( lach Magiür,  in lingua insubrica) , secondo più grande lago in Italia, che  ho sviluppato – dentro e attorno all’isola Superiore –  la trama de “La repubblica dei pescatori”. Un racconto con personaggi di fantasia che si mescolano ad altri veri in un contesto che riporta fatti storici effettivamente accaduti, con i patrioti repubblicani  in lotta per la libertà contro la monarchia sabauda, nel 1798. Un racconto già pubblicato su “Il Torinese”, che si ricollega a una storia con la “esse maiuscola”, tanto vera quanto esaltante e dolorosa. Una storia che trae origine dal Trattato di Worms. In questa città tedesca della Renania-Palatinato, il 13 settembre 1743 venne concluso un trattato che suggellava l’alleanza antifrancese dei Savoia con Maria Teresa d’Austria.

In quell’occasione la sponda occidentale del lago Maggiore e quello che oggi è più o meno il VCO passò al Piemonte. Un “passaggio” mal digerito che generò dissensi e contrarietà, sfociando in aperta contestazione. Quell’alterare la naturale inclinazione verso la Lombardia, tuttora evidente e facilmente “misurabile”, e quel divenire piemontesi “per decreto” non accrebbe la simpatia verso la casa Savoia. Il distacco delle terre del lago dal milanese influì parecchio sulla vita economica e sociale. La riorganizzazione della vita amministrativa obbligò gli abitanti a “slegarsi” da una regione con la quale – per secoli – avevano condiviso tutto: interessi reciproci,tradizioni,consuetudini. Se poi, a fine secolo, le idee giacobine trovarono terreno fertile, lasciando un segno profondo, questo non fu frutto di un caso. E quell’essere un po’ metà-metà, tra Lombardia e Piemonte, in fondo è rimasto nel comune sentire.

Marco Travaglini    

Ettore Fico, una vita per la pittura

IL MEF DI TORINO RICORDA IL GRANDE PITTORE BIELLESE A CENT’ANNI DALLA NASCITA

FINO AL 17 SETTEMBRE

Una vita intera dedicata alla pittura. Studi all’Accademia Albertina di Torino e allievo, ancora giovanissimo, di Luigi Serralunga, del quale frequentò per anni lo studio – “compagno di banco” di altri giovani dalle belle speranze e dalle indubbie doti artistiche come Filippo Sartorio, Mattia Moreni e Piero Martina – Ettore Fico non smise mai di dipingere. Dai primi Anni Trenta (non ancora ventenne) fino agli ultimi giorni di vita.

Non depose pennello e colori neppure durante la guerra, quando nel 1943 fatto prigioniero in Africa Settentrionale e portato ad Algeri, grazie alla sensibilità del suo comandante gli venne addirittura concessa una tenda-studio tutta per se’, dove nacquero numerosi ritratti di ufficiali inglesi, così come paesaggi esotici dal fascino sottile, il porto di Algeri e le sue bellissime spiagge. Luoghi e opere ben presenti, insieme ad altri che hanno segnato il suo lungo percorso artistico – esistenziale (da Torino alla Liguria, dalla Costa Azzurra alle marine di Positano fino a Castiglione Torinese, considerato il suo “buen retiro”), nell’importante e sicuramente completa retrospettiva torinese a lui dedicata nel centenario della nascita dal MEF, il Museo Ettore Fico, nato tre anni fa dalla riconversione di un ex edificio industriale per volontà della famiglia e della moglie Ines Sacco in via Cigna 114, proprio per tenere viva la memoria dell’artista, nato a Piatto Biellese nel 1917 e morto a Torino nel 2004.

Oli, tempere e acquerelli, disegni e incisioni: complessivamente sono oltre centosettanta le opere esposte in rassegna (la curatela è di Andrea Busto, direttore del Museo) che documentano più di sessant’anni dell’avventura artistica di Fico, pittore di ampio respiro internazionale, cui negli ultimi anni sono state dedicate numerose retrospettive in importanti spazi museali e, che, fin dal ’47, appare fra i protagonisti di maggior spicco nell’ambito di prestigiosi appuntamenti culturali, quali la Quadriennale di Torino e la VII Quadriennale Nazionale di Roma del 1955. Anni in cui, sia pur non dimenticati, sono comunque alle spalle gli insegnamenti del maestro Serralunga, superati da una vera e propria “rivoluzione stilistica” in cui si conferma la volontà di una ricerca espressiva del tutto personale, eclettica (anche nell’uso delle tecniche) e fortemente attratta dai linguaggi più innovativi dell’epoca. I suoi oli (paesaggi e nature morte soprattutto) diventano spazi aggrediti dal colore, acceso e vibrante, spesso dalle tonalità violente proprie dell’esperienza fauve; le pennellate si fanno ampie e sinuose e la materia gioca un ruolo fondamentale nella delineazione di soggetti pittorici, non di rado frutto di una “voluta” intrigante casualità. La stessa che gli farà guardare con molta attenzione e simpatia, alla fine degli Anni ’50 alle trasgressive esperienze dell’informale europeo e d’oltreoceano. Ne restano tracce nella bellissima “Composizione con fiori”, esposta al MEF ed eseguita a tempera, china e biro su carta nel 1966. Ma già alla fine degli Anni ’60, le campiture di colore si fanno meno “arroganti” e più distese e gli oggetti si riappropriano in certo modo delle loro forme usuali, in schemi compositivi che guardano all’astrazione, ma anche alle geometrie-cubiste di Braque e di Gris (esemplare la “Natura morta” del ’64) e ai lampi di colore di Cèzanne o di Monet e Renoir. Così come di Matisse e Bonnard. Bellissimo, in quest’ottica, il “Giardino”, pastello su carta del ’96. Un’accecante esplosione di colori. Una pittura che si reinventa di volta in volta. Tenuta a terra da un grande mestiere ma fatta veleggiare da una passione e da una genialità artistica che vivono di fantasia e stupefacente creatività. Scrive bene Andrea Busto: “La pittura è per Fico gioco e poesia, colore e luce, dimensione del vivere e fonte di giovinezza, storia in continuo divenire”.

 

Gianni Milani

“Ettore Fico. Opere dal 1935 al 2004”

MEF – Museo Ettore Fico, via Cigna 114, Torino; tel. 011/852510 – www.museofico.it

Fino al 17 settembre. Orari: da merc. a ven. 14-19; sab. e dom. 11-19

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…E AL MEF C’E’ ANCHE IL “CAPRICCIO” DI PAOLO BRAMBILLA

Sempre fino al 17 settembre, contestualmente alla retrospettiva di Ettore Fico, il MEF ospita anche la personale (la sua prima in un Museo) del giovane artista lombardo Paolo Brambilla. Nato a Lecco nel 1990, Brambilla presenta, sul tema del “Capriccio”– che dà il titolo alla mostra – un lavoro “site specific”, realizzato appositamente per gli spazi del Museo di via Cigna e che propone diversi ambienti totali in cui convivono (attraverso materiali che vanno dalle incisioni a laser alle stampe digitali su raso, alluminio e ottone) arredi modulari insieme a sculture amorfe e a impianti decorativi di singolare progettualità. Un testo critico di Niekolas Johannes Lekkerkerk accompagna la mostra.

g.m.

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Nelle immagini:

– Ettore Fico: “Composizione con fiori”, tempera, china e biro su carta, 1966
– Ettore Fico: Natura morta”, olio su compensato, 1964
– Ettore Fico: “Giardino”, pastello su carta, 1996
– Ettore Fico: “Paesaggio”, tempera su carta, 1965
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– Paolo Brambilla: “Del miracolo delle acque amare mutate in dolci”, stampa digitale su raso, alluminio, ottone, pellicola adesiva effetto legno, 2017

Elogio dell’osteria piemontese

Con il suo libro “La Piola”, da poco nelle librerie, Beppe Valperga ci accompagna alla scoperta della “piola”, la tipica osteria piemontese, che sopravvive alle mode e alle tendenze gastrosofiche. Un modello di ristorazione che continua a proporsi all’attenzione dei piemontesi, rimanendo fedele alla sua ispirazione originaria, ovvero di essere un locale popolare, della “gente del quartiere, della frazione, del paese” !

Siccome la prossima rivoluzione sarà una rivoluzione alimentare, è bene che ci predisponiamo a cambiare il mondo in punta di forchetta! Se è nostro interesse conoscere il nostro cibo quotidiano, privilegiare la sostenibilità anche delle strutture distributive, scegliere il negozio specializzato anziché l’ipermercato, altrettanto importante è privilegiare l’offerta di ristorazione legata al territorio, alle sue tradizioni e a i suoi prodotti, continuare a andare in “piola”.

Nelle premesse al libro, Beppe ci avverte che non è un libro di rimpianti, né tanto meno un invito a bere senza ritegno e sottolinea come la filosofia della piòla sopravvive a qualunque difficoltà, perché qui, in piòla, ognuno è quello che è, libero dai condizionamenti della moda del momento!

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Certo che se ritorno col pensiero alle mie frequentazioni di giovane “pioletario”, mi si apre un mondo di ricordi piacevoli e conviviali, di serate con gli amici, di canti e discussioni impegnate, di appuntamenti fissi al sabato sera, perché ci si poteva saziare, e passare la serata, con i pochi spiccioli che avevamo a disposizione. La “piola” è un locale popolare perché è accessibile a tutti, cibo buono, poco elaborato, a prezzi onesti. A conferma che la piòla debba essere un locale con prezzi popolari, Beppe ci racconta una curiosità: da cosa ha origine l’abitudine di chiedere il pagamento del coperto nel conto del ristorante? In passato era consuetudine che gli avventori delle piòle si portassero da casa il cibo da consumare e acquistassero soltanto il vino, o altre bevande. Come addirittura c’era chi non comprava neppure il vino e si portasse da casa un pintone del suo, chiedendo all’oste solo un po’ di amaro pompa, ovvero l’acqua della fontana, ovviamente gratuita. All’oste non restava altro che farsi pagare il coperto, una modica cifra per l’utilizzo dei tavoli e delle sedie: la parola coperto faceva riferimento al soffitto del locale o al pergolato, al riparo dalle intemperie nella brutta stagione, o dal sole in estate.

Nei miei ricordi ci sono “tipi di piole”, diverse per ubicazione (urbana o rurale), spazi a disposizione (al chiuso o sotto la topia), offerta di piatti (leggete il capitolo del libro dedicato a “La dieta in piòla”), così come c’erano i “tipi da piola”, che con le loro ordinarie stravaganze e soprannomi, caratterizzavano i locali per la loro presenza abitudinaria. Su era soliti coniare apposite denominazioni che contraddistinguevano i locali e li caratterizzavano. Noi giovani eravamo i client itineranti, ci piaceva girarle a seconda dei momenti e degli amici che volevamo incontrare. Vi faccio qualche esempio, senza dilungarmi troppo (forse varrebbe la pena di continuare il racconto che ha iniziato Beppe con il suo libro). In Corso Orbassano, a Torino, ad esempio, c’era ’l coridor, così chiamato per la pianta del locale, che era simile a un lungo corridoio, dove la domenica sera bevevamo vino, obbligatoriamente nero e sfuso, sorseggiandolo direttamente dalla scodella che facevamo girare! Si andava, e si va ancora, a “gli imbianchini”, vicino alla Gran Madre, perché il locale era ospitato nella storica Cooperativa Borgo Po e Decoratori. C’erano, e ci sono ancora fortunatamente, tante bocciofile, con annessi campi da gioco, cooperative operaie, di antica origine e tradizione, strutture associative, che offrivano l’occasione di un pasto a prezzi popolari.

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Vi cito qualche esempio fuori porta: in zona Cascine Vica, una bocciofila era soprannominata la “petroliera” in conseguenza del colore e della densità del vino somministrato, così come in zona Bruere c’era la “cantina dell’operaio”, che, benché in zona rurale di recente urbanizzazione, guardava con simpatia alla classe operaia che non andava in Paradiso e si attardava in piòla, magari a discutere di lotta di classe. A Bruere trovavi frequentemente il “4 stagioni”, un tipo così soprannominato perché costantemente ebbro, in tutte le stagioni dell’anno: era di credo politico liberale e, quando la discussione si accendeva con gli avventori di orientamento politico opposto, andava in trasferta a Cascine Vica, in bocciofila,, a incontrare un altro pubblico più accondiscendente, senza, però, mai alzare eccessivamente la voce! Ricordo ancora la “Bottiglieria piemontese”, a Torino in via Napione, dove c’era il mitico “Ercolino”, l’archetipo dell’oste, un omone grande e robusto, che, vedendoti giovane e di taglia ristretta, si sentiva in dovere di metterti un po’ all’ingrasso con le sue porzioni abbondanti, magari un bel piattone di gnocchi alla bava, accompagnato da un secondo con carne e verdure. Già, perché come ci ricorda Beppe, non bisogna “dimenticare che la parola òsto (che si pronuncia ostu) pure significa osteria ma, contemporaneamente, significa oste. In ogni caso il piolista serio, da secoli, va in piòla e non all’òsto, casomai dall’òsto, il padrone della piòla, l’òsto della piòla, di solito un amico”.

Scoprite nel libro di Beppe l’origine e il significato della parola piòla, cosa vuol dire andare in piòla, la filosofia della piòla, le insegne, la vita e il menu della piòla e molte altre curiosità e informazioni sulla vita in piòla.

Non c’è, dunque, nessun nuovo fantasma che si aggira per l’Europa, ma solo una felice prospettiva per trascorrere la serata con gli amici: “Co’ fuma stasseira? ‘ndoma an piòla?

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Ignazio Garau, Presidente Italiabio

ciao@italiabio.net

Numero unico 112: perché fa discutere

L’esposto presentato dai vigili del fuoco di Torino su presunte inefficienze del 112, numero unico per le emergenze, ha fatto accendere i riflettori su questo servizio di pubblica utilità. Vediamo di cosa si tratta.  Il 112  è stato istituito nel 2002 con direttiva europea come numero unico delle emergenze  in tutta Europa. Nel nostro Paese attualmente è operativo in  Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, Friuli, Provincia autonoma di Trento, Provincia di Roma, Sicilia orientale, Liguria. Compito del 112 è ricevere e smistare le telefonate  ai servizi di emergenza 118, Polizia 113, Carabinieri 112 e Vigili del fuoco 115. L’obiettivo è quello di localizzare le chiamate automaticamente  collegandosi con il ced interforze del Ministero dell’Interno, poi filtrare le telefonate e passare la richiesta al servizio appropriato a second delle esigenze. Oggi, dunque, chi telefona non compie come in passato un solo passaggio, ma prima  passa dal centralino e poi al servizio di pronto intervento mirato. Significa anche che le chiamate non strettamente d’emergenza si fermano al primo livello e non vanno a intasare inutilmente il secondo. Ci possono essere disguidi, ad esempio se il primo livello non identifica correttamente il servizio competente per il caso specifico e se restano in coda chiamate di vitale importanza. Mario Balzanelli presidente della società italiana 118  spiega a Famiglia Cristiana: «Con il 112 c’è un passaggio doppio: prima risponde l’operatore centrale, che gira  la telefonata a quello competente. C’è un aumento delle tempistiche, per questo proporrò a livello europeo un numero unico che valga solo per le emergenze sanitarie, dove la tempistica è un fattore che può salvare una vita. La legge ci impone di intervenire entro 8 minuti in area urbana e 20 in area extraurbana: il pronto intervento sanitario per le sue peculiarità è l’unico servizio che presenta questo tipo di vincoli temporali, mentre per altre forze di pronto intervento non è previsto».

Tanti torinesi tra i “Comuni fioriti”

E’ molto ampia la schiera dei comuni della Città Metropolitana di Torino che prendono parte all’edizione 2017 del concorso nazionale “I Comuni Fioriti”, organizzato da Asproflor – Associazione nazionale produttori florovivaisti. La manifestazione, ed il relativo elenco, sono stati presentati nei giorni scorsi presso la sede delle giunta regionale in piazza Castello, con l’intervento dell’assessore all’agricoltura, Giorgio Ferrero, del presidente di Asproflor, Renzo Marconi e dei sindaci di Cellarengo (Provincia di Asti) Adriana Bucco, del vice sindaco di Faedo, Viviana Brugnara (Provincia autonoma di Trento) e del primo cittadino di Pomaretto (Città Metropolitana di Torino) che sono in gara anche nell’analoga manifestazione europea, “Entente Florale”, visitata propri nei giorni scorsi insieme a Faeso dalla giuria internazionale di quest’ultimo concorso. E Pomaretto è alla testa dei centri “metropolitani” che sono Agliè, Avigliana, Cavour, Cesana Torinese, Chiusa di San Michele, Claviere, Ingria, Lauriano, Ozzegna, Pianezza, Piobesi Torinese, Pinasca, Pragelato, Prali, Robassomero, Rueglio, Sangano, Sestriere, Saprone, Tavagnasco, Usseaux, Usseglio, Villar Pellice, Vistrorio.

Massimo Iaretti

 

 

“La spesa del commissario”, un giallo tra i laghi del nord del Piemonte

L’ambiente è quello di una provincia del nord-ovest d’Italia, la più a nord del Piemonte, stretta fra laghi e montagne. E’ questo lo sfondo naturale delle cinque indagini del commissario di polizia giudiziaria Arturo Devecchi, protagonista de “La spesa del commissario” (Lampi di stampa) il giallo tendente al noir di Matteo Severgnini. Come il suo autore –  cusiano di Omegna – anche Devecchi vive sul lago d’Orta. E’ un uomo tranquillo, con dei valori saldi e dai metodi investigativi un po’ anticonvenzionali , che mal sopporta la realtà che lo circonda. Le miserie indotte dalla crisi che morde una realtà un tempo operosa – la terra delle pentole a pressione e delle caffettiere – e il grumo di rancori, violenze e anche soprusi di una politica che si fa sempre più potere e arroganza,  lo indignano terribilmente. Così, in un ambiente di una bellezza da lasciare senza fiato come quello della terra tra una sponda e l’altra dei laghi, la piemontese del Maggiore a quella dell’Orta, il commissario nato dalla penna di Severgnini opera, indagando. Se al celebre Maigret di Simenon le riflessioni venivano aiutate dai lauti pranzi, da boccali di ottima e fresca birra oltre che dall’immancabile fumo della pipa, Devecchi si concentra nei supermercati, davanti agli scaffali dei prodotti alimentari, spingendo e riempiendo il suo carrello. Ne I giorni della Merla – gli ultimi di gennaio, i più freddi dell’anno –  il ritrovamento del cadavere di una donna sul treno, apre scenari in cui la ricerca della verità non è sufficiente. Il mal di denti del procuratore è una storia che si snoda tra questioni sociali e nuove tecnologie. Ne L’incontro, la crisi economica porta un giovane disoccupato orgoglioso e disposto a tutto, anche a cacciarsi nei guai, pur di mantenere la sua famiglia. In Fiori freschi di campo avviene un crimine che possiamo definire molto umano. Un delitto senza sangue, un’indagine che procede con lievità dentro un dolore pesante. Le orecchie del cavallo, è la storia di una ricerca esasperata di ricchezza che porta a rapporti sentimentali aridi e pericolosi. In ogni caso, il profilo del commissario di Polizia giudiziaria Arturo Devecchi emerge con grande umanità e, nella sua prefazione, Carlo Lucarelli sostiene che seppure si tratti di un personaggio letterario “potremmo davvero trovarlo anche nella provincia che abitiamo, tra i banchi di un supermercato, mentre spingiamo il carrello per fare la spesa…”. Matteo Severgini, un tempo libraio, giornalista e scrittore – con i suoi racconti ha partecipato a numerose antologie – è anche autore radiofonico presso la Radio Televisione Svizzera.

Marco Travaglini

 

Una pizza che piacerà (anche) ai torinesi

“Abbiamo notato che spesso passano per la Valle visitatori stranieri, come gli inglesi, i francesi, gli svizzeri, oltre che gli italiani, molti dei quali torinesi perché qui siamo sulla strada provinciale, già statale che collega il capoluogo regionale con la valle

Promuovere la Valcerrina, terra che partendo dal Casalese si inserisce come una punta di lancia, a partire da Brozolo, Cavagnolo e Verrua Savoia, in direzione di Torino, incastrata tra tre territori patrimoni Unesco (Langhe-Roero e Monferrato, Sacro Monte di Crea e Collina Po),  attraverso una pizza, potrà sembrare un azzardo ma una sua logica l’ha. L’idea è del ristoratore Silvio Tortora, titolare del “Ci Voleva” a Cerrina Valle (comune di Cerrina) che ha messo in campo un piatto a base di speak, radicchio, scamorza, filadelfia, pomodorino, grana in scaglie, mozzarella. Spiega Tortora: “Abbiamo notato che spesso passano per la Valle visitatori stranieri, come gli inglesi, i francesi, gli svizzeri, oltre che gli italiani, molti dei quali torinesi perché qui siamo sulla strada provinciale, già statale che collega il capoluogo regionale con la valle. In questo modo si è voluto affiancare ai piatti tipici del territorio una pizza che almeno ricordi loro il nome di dove si trovano”. La creazione è stata approntata poco prima di ferragosto ed è un ulteriore modo per fare conoscere, forse in modo poco protocollare e lontano dai piatti della tradizione monferrina, anche per chi magari non volesse gustarli, un territorio che si protende come una punta di lancia dal Casalese in direzione della Città Metropolitana di Torino.

Massimo Iaretti