“Ma io non voglio andare fra i matti, — osservò Alice. — Oh non ne puoi fare a meno, — disse il Gatto — qui siamo tutti matti!”
(Dal libro “Alice nel Paese delle meraviglie”)
Pratiche ed eleganti, comode e sofisticate. Portabilissime dalla mattina alla sera, le borse di Sara Battaglino, designer di Un tè da matti, sono davvero un accessorio imprescindibile. La ricerca dei pellami, dei dettagli e dell’esclusività del prodotto hand made, rende le sue creazioni veri e propri pezzi unici. Brillante, multitasking e innovativa, Sara nasce ad Alba e si laurea in Architettura. Ma si sa, chi ha il sacro fuoco dell’arte non può lasciarlo bruciare.Dopo aver lavorato come interior designer per qualche anno, nel 2015 decide che è il momento di lasciare quel mestiere che le andava troppo stretto e, con un pizzico di follia, lanciarsi in un progetto tutto suo. Facendo tesoro dell’esperienza formativa maturata in ambito sociale, attraverso l’iniziativa di un laboratorio artigianale nel carcere Lorusso-Cutugno di Torino, intraprende l’avventura straordinaria e unica che la sta portando davvero lontano.
Perché il nome “Un tè da matti”?
“È una filosofia che riassume il mio modo di essere, vedere e pensare. In particolare mi riferisco al concetto di tempo: quello ‘del sempre passato e del sempre futuro’, lo stesso con cui il Cappellaio matto – nel settimo capitolo di ‘Alice in wonderland’ intitolato proprio ‘Un tè da matti’- dice di aver litigato. Ma anche il tempo a cui si può sfuggire eludendo scadenze, impegni e doveri”.
Qual è la caratteristica delle tue borse?
“Tutto nasce dalla volontà di dare vita a qualcosa di diverso rispetto all’attuale panorama commerciale. Non amo seguire le regole di pelletteria classica, mi piace la ricerca del particolare, giro i mercatini vintage del Piemonte per trovare piccoli ma preziosi dettagli, come le chiusure d’epoca realizzate in ottone o le stoffe e i pellami da proporre nelle mie collezioni”. La morbidezza dei pellami sfoderati che mantengono il taglio vivo, minuterie d’epoche passate e moschettoni d’altri tempi, sono il segno che ogni creazione è una vera e propria opera d’arte unica, esclusiva e mai banale. Qualcosa che profuma di passato, che riporta la donna contemporanea a quell’innocenza fiabesca di “Alice nel paese delle meraviglie”, ma che sa coniugare sapientemente il lato sportivo all’allure sexy e spregiudicata di ogni donna. Dalla Bianconiglio alla Dinah, passando per Duchessa, Ghiro e Tartaruga fino alla Regina di cuori e alla Alice, punta di diamante, sempre riproposta nelle collezioni. I nomi richiamano la fiaba, ma i personaggi sono soprattutto protagonisti, come loro, le borse di Un tè da matti, che regalano quel
tocco in più in un panorama di nicchia, ricercato, studiato e costruito davvero col cuore.
Quanto è difficile per una donna affermarsi nel mondo imprenditoriale?
“Moltissimo! Io ho avuto il sostegno di mio marito, ma la verità è che noi donne dobbiamo essere multitasking, spesso dobbiamo incastrare famiglia, figli, lavoro e fare i conti anche con le nostre aspirazioni, i nostri desideri, che ci completano e, se realizzati, ci ripagano della fatica e dei sacrifici. Bisogna sempre mettersi in gioco! Il mio sogno nel cassetto è quello di aprire uno spazio tutto mio dove lavorare e accogliere le clienti che vogliono vedere come nasce una borsa di Un tè da matti, un po’ come i vecchi negozi di sartoria dove, a differenza dei moderni laboratori industriali, il rapporto con chi produce e chi compra diventa essenziale per la resa stessa del prodotto”.
Quali saranno le tendenze della prossima primavera-estate?
“La collezione 2018 avrà come tema il circo di strada, con tutti i suoi grafismi, colori e ispirazioni, dai pois alle mille sfumature che ho ottenuto dando sfogo alla creatività. Ho dipinto a mano sui tessuti, sperimentando tecniche e tele esclusive, insolite, come quelle antiche, recuperate dai vecchi sacchi di farina, con una particolare accortezza alle minuterie che ho voluto proporre”.
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Sara Battaglino produce le sue borse interamente a mano, con una cura e una dedizione tali da farti innamorare a prima vista del prodotto, che rispecchia pienamente la sua indole grintosa, frizzante e soprattutto femminile. Da una piccola rete di distribuzione piemontese il brand ha conquistato anche il mercato italiano ed estero, fino a spingersi nelle boutique e nei concept store di Korea, Stati Uniti (New York!), Svizzera, Germania e Spagna. È presente a Torino con “Open 10125”, uno spazio in via Principe Tommaso 27, dedicato a giovani talenti innovativi come Bruno Shoemaker, Giunone Couture e Independent Label. E, se le scarpe indicano il grado di sex appeal di una donna, le borse indicano la sua condizione sociale, le sue amicizie, il suo stile di vita: a questo punto non può davvero mancare una Alice in ogni armadio che si rispetti!
Daniela Roselli
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Sabato 25 novembre, alle 17,30, la sala esposizioni “Panizza” di Ghiffa ospiterà un nuovo appuntamento letterario a cura dell’Associazione “Il Brunitoio”.
russo – il diplomatico Pierre – e madre statunitense, la pianista Ada Winans. Poliglotta, visse pienamente il periodo della Belle-èpoque, ritraendola nelle sue sculture. Troubetzkoy lavorò e risiedette in Russia (insegnò all’ Accademia Imperiale di Belle Arti di Mosca per nove anni, dal 1897 al 1906), Francia (a Parigi, dove studiò a fondo l’opera di Rodin, e dove nel 1900 vinse il Grand Prix), Inghilterra, Usa (prima a New York nel 1911 e poi, dal 1914, a Hollywood , oltre che in Italia, a Pallanza – sul lago Maggiore – dove tornò a vivere nel 1932 e morì sei anni dopo.
“Piemonte – Catalogna, Italia – Spagna: riflessioni comparative”. Questo parallelo è al centro dell’incontro che si terrà il 2 dicembre prossimo



Centrostudi’ (
“cineforum” del giovedì, con alle spalle mezzo secolo di proiezioni. L’ironia e l’arguzia caustica di Piana prendono forma e sostanza nel “secondo tempo”, come nel caso dell’incontro con Paolo che, rischiando di essere scoperto dalla fidanzata mentre assisteva ad una pellicola a “luci rosse”, impietosito il bonario Ferruccio, venne “aiutato” a svignarsela dalla porta di sicurezza che dà sul retro del cinema. Così, salvò la storia d’amore dei due e poté godere a suo modo, da frequentatore di feste e d’osterie, della riconoscenza dell’incauto giovanotto. Stupendo il racconto dell’esame a Torino
per conseguire il patentino di operatore di cabina cinematografica e delicatissimo quello dei “saggi consigli” che Ferruccio, dimostrando una sensibilità fuori dal comune, ha sempre saputo dare a chi che avesse bisogno. Arricchito dalle belle foto di Enzo Franza, il libro di Ferruccio Piana è un prezioso contributo alla storia di una vera e propria istituzione culturale non solo omegnese come è il cine-teatro Sociale, costruito nel 1902 dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso e , come già citato, ospitante uno dei Cineforum più importanti d’Italia per qualità delle pellicole proposte e per numero di soci. Non a caso parte del ricavato delle vendite del libro è stato destinato a sostegno della campagna di raccolta fondi che ha reso possibile l’installazione del nuovo sistema di proiezione digitale. Ma è la conclusione delle “confessioni” di Ferruccio ad offrire l’immagine più bella e più vera del suo essere “la maschera del cinema”. Eccone un brano: “Come vedo io i film? La prima volta seguo la trama; la seconda volta
ascolto la musica, cioè la colonna sonora…la terza volta guardo la scenografia: come è bella quella casa, come è tenuto bene quel giardino, come sono posteggiate le automobili; la quarta volta, la più bella, mi sostituisco all’attore protagonista e in questo modo ho girato tutto il mondo…e quante donne ho incontrato, le più belle dell’universo. A sognare non si fa peccato ed è tanto bello”. Come il piccolo Totò di “Nuovo Cinema Paradiso”, il capolavoro di Tornatore, Ferruccio Piana ha accompagnato quasi per mano intere generazioni davanti al grande schermo del “Sociale”. E se un giorno qualcuno pensasse ad un riconoscimento anche per loro, le “maschere”, Ferruccio avrebbe buon diritto di riceverlo.
Basilica di San Petronio dalla facciata “che sembra un campo arato”, ultima grande opera tardo-gotica d’Italia (1390) e sesta Chiesa per dimensioni più grande d’Europa. E Dalla è ancora lì. Per tutti noi. In mezzo alla piazza, cappottone e coppola d’ordinanza, occhialini al naso e in primo piano il volo frenetico e scomposto di colombi che sembrano volergli rubare la scena e che lui osserva con aria lievemente ironica e stupita. E’ il rapido flash, uno dei tanti, di una vita fermata
in corsa. Semplicemente una foto. Sicuramente fra le più suggestive di quelle realizzate fra il 1976 e il 2013, da Guido Harari – uno dei fotografi più famosi della storia della musica mondiale – portate in mostra a Torino, fino al 24 dicembre, nelle sale dello “Spazio Don Chisciotte” della Fondazione Bottari Lattes, in via della Rocca 37b. Origini egiziane (nasce al Cairo nel ’52), Harari vuole letteralmente stupire e incantare il pubblico torinese, attraverso una mostra che si prefigge d’essere, ad un tempo, “sonora” e di “grande impatto visivo”: ad accompagnare le cinquanta foto esposte è infatti una continua e suggestiva colonna sonora formata dai brani realizzati dagli artisti ritratti (autentiche leggende del rock, del jazz e del pop) colti in rapide istantanee e in espressioni “spesso inattese, su set spesso improvvisati”, immagini colte al volo, rubate in velocità o, in alcuni casi, frutto di complicità e
lunga collaborazione fra fotografo e soggetto. “Il tutto all’insegna – sottolinea lo stesso Harari – della mia inesauribile curiosità di conoscere e fissare in un’immagine la persona che si cela dietro il personaggio”. In “Wall of Sound” (titolo della rassegna che recupera lo stesso titolo della mostra en plein air organizzata a MonforteArte nel 2007 e che vuole rendere omaggio alla particolare tecnica di registrazione musicale sviluppata nei primi anni Sessanta dal produttore discografico americano Phil Spector) troviamo così un’affascinante panoramica, lunga oltre quarant’anni, di artisti che vanno –solo per citarne alcuni – da Fabrizio De André (di cui Harari è stato per anni fotografo personale ) a Lou Reed, a Giorgio Gaber, a Bob Dylan fino a Patti Smith, a David Bowie e a Bob Marley, così come a Vinicio Capossela, ai Pink Floyd e ai Queen, a Frank Zappa, a un improbabile stregonesco Paolo Conte e a un ombroso con sigaretta fra le dita Nick Cave o al Blasco – Vasco Rossi che con
ironia sbeffeggia da par suo l’obiettivo. O chi ci sta dietro. O noi. O il mondo intero. “Dietro ogni scatto – scrive delle fotografie di Harari Carlin Petrini – c’è una storia, una storia di volti che abbiamo mitizzato e che Guido ha saputo cogliere con spontaneità e leggerezza, garbo ed eleganza, tratti che rappresentano la sua cifra stilistica”. E un lungo lavoro, diventato sublime mestiere attraverso una serie di passaggi importanti (la realizzazione di copertine di dischi e reportages per artisti di fama internazionale, oltreché la pubblicazione di diversi libri e la presenza in importanti eventi espositivi a lui dedicati in Italia e all’estero), fino al suo “radicamento” nel territorio albese, dopo anni trascorsi a Milano, e
all’apertura nel 2011 proprio ad Alba della sua “Wall of Sound Gallery”, interamente dedicata alla fotografia musicale. E a chi gli chiede qual è il suo scatto del cuore, risponde serafico: “Le mie foto preferite sono quelle legate al guizzo di inaspettata intesa con il soggetto”. Quella scattata ad Ennio Morricone, ad esempio, che “insofferente alla macchina fotografica, ebbe l’idea di nascondersi dietro una porta, lasciando visibili soltanto i suoi inconfondibili occhiali come sospesi a mezz’aria” o come quella con Rita Levi Montalcini, “trasformata quasi in rockstar grazie al suo giubbottino di camoscio scuro” che la rendeva “così diversa dall’immagine composta e rigorosa che offriva sempre in pubblico”.
inferno perchè, oltre alle migliaia di tonnellate di bombe sganciate sulle truppe e sui mezzi corazzati del rais di Baghdad nel corso di 110.000 missioni, fu il deserto a bruciare per settimane con devastanti conseguenze sull’ambiente. Costretto alla fuga dal Kuwait, Saddam fece incendiare centinaia di pozzi petroliferi, 600 o forse 700, ordinando di versare il petrolio in mare. L’incendio dei pozzi nel Kuwait è stato uno degli episodi di inquinamento ambientale più grave di tutti i tempi ad opera dell’uomo, un piano di terrorismo ecologico messo in atto da un dittatore ormai sconfitto, in preda alla disperazione e timoroso di perdere il potere. Sebastiao Salgado, celebre fotografo
brasiliano, ha fermato quei terribili momenti con la sua macchina fotografica in 34 immagini in grande formato che mostrano il coraggio dei vigili del fuoco impegnati a spegnere le fiamme dei pozzi di petrolio incendiati dai soldati iracheni in ritirata dal Kuwait verso la fine della guerra del Golfo, come rappresaglia per l’avanzata della coalizione militare guidata dagli americani. I pozzi in fiamme oscurarono il cielo per settimane, il giorno era uguale alla notte, disegnando un paesaggio demoniaco che troviamo nelle fotografie di Salgado, esposte a Milano presso la galleria Forma
Meravigli fino al 28 gennaio 2018. Gli scatti in bianco e nero di Salgado esaltano l’eroismo dei pompieri e dei tecnici paracadutati nel deserto kuwaitiano con la missione, quasi impossibile, di spegnere i pozzi che continuavano a ricoprire di petrolio il terreno, gli uomini, gli animali, in uno scenario apocalittico di guerra e di morte. Le truppe di Saddam Hussein si erano già ritirate dal Kuwait ma il dittatore mesopotamico decise, in un estremo atto di vendetta per l’intervento militare deciso dalle Nazioni Unite, di provocare il più grande disastro ambientale mai visto prima. La mostra “Kuwait, un deserto in fiamme”, è allestita presso il Forma Meravigli, in via Meravigli 5 a Milano, tutti i giorni dalle 11 alle 20, giovedì dalle 12 alle 22, lunedì e martedì chiuso, ingresso 8 euro (ridotto 6 euro).
ricamo di foglie e dai piccoli rami che cercano spazio verso l’alto, le radici infossate nella terra, invisibili sotto il mare di steli che s’allontanano verso il verde lontano e gli spruzzi rossi dei papaveri che occhieggiano qua e là. C’è una sottile poesia in quel Sentiero nel canneto che corre a spartiacque, indecifrato, dove riusciamo a immaginare pietra dopo pietra e il liquido impercettibile, ai lati in pieno rispetto altre piante leggere, filiformi e importanti, che si mescolano in acqua e terra, come la ritroviamo in un “frammento” perso nel lago piccolo di Avigliana, ancora stoppie e steli e pietrisco, un gruppo di case sul fondo; c’è un angolo più lontano dove nella loro corteccia biancastra si alzano le betulle, e all’artista non interessano le cime pronte a perdersi e a confondersi l’una con l’altra, verso l’alto,
SERRALUNGA DI CREA (AL)