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Chi è Dario Casalini, AD di Maglificio Po s.r.l. – Oscalito

Rubrica a cura di ScattoTorino 

La qualità va oltre il tempo e le mode e diventa essa stessa un trend. Lo testimonia Oscalito, il marchio fondato nel 1936 da Osvaldo e Lino Casalini, specializzato nella produzione di linee di intimo e maglieria per uomo, donna e bambino. Superato il periodo bellico i due fratelli hanno incrementato la produzione dei capi in cotone e lana per lui e per lei e verso la fine degli Anni ’60 è entrato in azienda Andrea, figlio di Lino che dopo aver studiato presso il College of Textile Art and Technology di Leicester, ha iniziato a sperimentare disegni su macchine tessili wild pattern che hanno conquistano gli States. Nel tempo il brand ha raggiunto quella fama internazionale che lo caratterizza ancora oggi e che, per 8 anni consecutivi, dal 2013 ad oggi gli è valso il titolo di Best seller maglieria in Italia e in Francia nella linea intima. Oscalito produce nel rispetto dell’ambiente e delle persone, utilizza solo fibre naturali o di origine naturale, seleziona fornitori geograficamente vicini e investe importanti risorse per abbassare l’impatto ambientale delle proprie lavorazioni. Inoltre acquista direttamente il filato e lo trasforma fino ad arrivare al prodotto finito. Un prodotto totalmente Made in Italy, certificato da Italcheck e di qualità superiore che viene realizzato con lentezza per esaltare le caratteristiche del tessuto e regalargli il giusto equilibrio di morbidezza ed elasticità.

ScattoTorino ha incontrato Dario Casalini, Amministratore delegato di Maglificio Po s.r.l. – Oscalito, che ha abbandonato la cattedra di Diritto pubblico e amministrativo che aveva presso la Facoltà torinese di Economia per dirigere l’azienda di famiglia.  Una missione, ma anche una passione, che lo hanno portato ad essere Presidente del Consorzio Italian Lingerie Export, l’ente che rappresenta e promuove il settore dell’intimo italiano nel mondo.

OscalitoOscalito non è un brand. È una filosofia

“Sin dal 1936 impieghiamo solo fibre naturali, perfette per regolare la temperatura corporea e garantire uno stato di benessere in ogni stagione. Ai tempi in cui mio nonno fondò l’azienda era necessario l’uso di queste fibre perché producevamo intimo, ma anche oggi che realizziamo sottogiacca puntiamo sul confort e sulla qualità. Ad esempio, usiamo il cotone egiziano che è il 3% della produzione mondiale, la lana merinos extrafine australiana che è l’1 per mille e la seta cinese leggera che è resistente, a parità di peso, più dell’acciaio. La lavorazione si svolge a Torino per cui la filiera è molto corta e ci permette di controllare tutto: dal filo al capo finito. Abbiamo una produzione verticale di eccellenza e i filati sono italiani in quanto vogliamo premiare il territorio, impiegando il know-how locale. Inoltre ci avvaliamo della tecnologia RFID che, applicata all’etichetta, permette la tracciabilità completa di tutta la filiera per ogni singolo capo così da assicurare un controllo capillare in ogni fase e garantire spedizioni puntuali e precise”.

Che cosa ispira le vostre creazioni?

“Abbiamo due anime: Oscalito e Natyoural. La prima, essendo legata all’underwear, ha uno stile raffinato e punta sui pizzi, sui grafismi, sulle ispirazioni floreali e sugli ideogrammi. Uno stile che ha consentito ai miei genitori, già negli Anni ’90, di passare dall’intimo all’outwear. Qualche anno fa, dalla collaborazione con lo stilista Giorgio Spina è nato Natyoural, un marchio di maglieria legato ai concetti di pulizia e rigore, che ha un’identità di stile e si ispira all’arte contemporanea: usiamo pennellate di colore, intarsi e jacquard grafici. Voglio sottolineare però che entrambi i brand condividono la stessa filosofia, ovvero l’armonia con la natura”.

Sostenibilità ambientale per voi significa?

La sostenibilità è un concetto che nasce nelle tradizioni precolombiane. È un tema ancestrale che caratterizza molte culture e che a noi piace perché è in linea con la nostra filosofia. Oscalito infatti nasce con l’impegno di creare i presupposti per una crescita sostenibile rispetto all’ecosistema, una crescita integrata e rispettosa dell’ambiente sociale e territoriale. Per questo abbiamo declinato 7 punti della sostenibilità tra i quali la salubrità di ciò che si indossa, la filiera che rispetta l’ambiente e il lavoratore, la durabilità del capo. Le aziende che collaborano con noi garantiscono inoltre performances dei materiali come la facilità di riciclo o di rigenerazione e la biodegradabilità, in modo da assicurare la massima sostenibilità ambientale dei prodotti nel loro intero ciclo di vita e il minor impatto sull’ambiente. A conferma di quanto detto, durante la pandemia abbiamo prodotto mascherine di cotone e dispositivi medici certificati con un filtro removibile (www.opmask.it). Un prodotto in cotone e dunque salubre, durevole perché in tessuto, in cui si cambiano solo i filtri, che sono in poliestere e quindi riciclabili”.

La vostra è una produzione slow. Una controtendenza che premia?

“Noi abbiamo delle macchine circolari di tessitura datate in quanto, utilizzando filati fini, abbiamo bisogno che i macchinari girino con una certa lentezza in modo che non stressino o rompano la fibra. Oggi la tecnologia nel tessile punta sulla velocità, sulla quantità e su filati facili da trattare, quindi sintetici. La fibra naturale, invece, va lavorata con lentezza, rispetto e delicatezza”.

Oscalito Un altro vostro brand è Natyoural

Il marchio nasce nel 2016 come collezione di maglieria caratterizzata da una propria identità stilistica. La sua filosofia è però la stessa di Oscalito, come rivela il nome Natyoural che invita ad essere naturali e in armonia con l’ambiente che ci ospita: usiamo fibre naturali e, solo ove necessario, il sintetico riciclato o biodegradabile. Selezioniamo fornitori italiani e certifichiamo le diverse fasi produttive, con filiera verticalmente integrata dal filato al capo finito. Le macchine che usiamo sono di ultima generazione, ma rispettiamo sempre la qualità in modo da garantire un prodotto di eccellenza. A dicembre apriremo un negozio monomarca Natyoural all’interno di GREEN PEA, il nuovo progetto di Oscar Farinetti interamente dedicato a prodotti sostenibili, il cui slogan “from duty to beauty” mira proprio a rendere bello e ”di moda” il consumo che rispetta l’ambiente. Si tratta per noi di un importante riconoscimento di quella che è da sempre la nostra visione di impresa sostenibile”.

Torino per lei è?

“Mi affascina per il suo understatement. Qui abbiamo creato il cinema, l’automobile e altre grandi eccellenze eppure non ci vantiamo. Torino fa ed è, però lo comunica poco. A me piace la sua sostanza, il fatto che voglia essere scoperta più che mettersi in mostra. Non è superba, ma punta sulla concretezza”.

Un ricordo legato alla città?

“Le nonne che da piccolo mi raccontavano fatti avvenuti nei luoghi in cui eravamo. Mi affascina immaginare che i posti in cui viviamo quotidianamente siano così ricchi di storia. La dimensione temporale è sempre presente in loro”.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Kiran  Millwood  Hargrave  “Vardø  dopo la tempesta”   – Neri Pozza – euro 18,oo

L’autrice è una giovane (nata nel 1990)  poetessa, romanziera e drammaturga britannica, che ha vinto numerosi premi con i suoi libri dedicati all’infanzia, ed ora si lancia nel romanzo storico con questo testo che non è solo bello…. di più.

Ambientato nella Norvegia tra 1617 e 1620, inizia con una spaventosa tempesta nel Mare di Barents che in un battibaleno affonda le vite dei 40 pescatori di uno sperduto villaggio costiero. Le loro donne assistono impotenti alla tragedia e giorni dopo si ritrovano a recuperare i corpi straziati che il mare restituisce. Li conservano in una rimessa per barche, in attesa che la terra si sgeli per poter scavare le fosse, dare pace ai morti e riprendere a vivere dovendosela cavare da sole.

Poi la dura lotta per la sopravvivenza riparte dalla loro immensa forza d’animo. Rimettono in mare le barche, vanno a pesca, coltivano, cacciano e conciano gli animali. Sono vedove di tutte le età e sono diventate autosufficienti.

La loro vita è difficile, ma mai come dopo l’arrivo del sovrintendente Absalom Cornet e la sua giovane moglie norvegese Ursula; inesperta figlia di un armatore, fidanzata e sposata in soli 3 giorni a un uomo che non aveva mai visto prima e che cercava una consorte qualsiasi. Inutile dire che la sua esistenza è tristissima e riesce a trovare un po’ di consolazione soprattutto in una donna del villaggio che diventa aiutante, amica… Si chiama Maren, la burrasca le ha portato via il padre e il fratello, ed è un personaggio da tenere d’occhio per la sua incredibile umanità ed energia di fronte alle tragedie.

Absalom è duro, spietato, invasato con l’idea di dare la caccia alle streghe e verrà fuori che ne ha già strangolata e bruciata una. A Vardø la sua brama si scatena e con essa la caccia alle “presunte” streghe del villaggio.

Di più non vi racconto, però posso dirvi che questo romanzo, basato su una storia vera, vi condurrà nelle tenebre dell’animo umano. Tra superstizione, invidie, brama di potere, torture e roghi di innocenti, che il più delle volte sono ritenuti posseduti dal Maligno solo perché appartengono ai Sámi, (popolazione indigena nomade che ha suoi riti e credenze, pertanto visti come “diversi”).

Ma non saranno solo uomini Sami ad ardere vivi, a Vardø la caccia alle streghe vede condannate due donne innocenti…..

 

Margaret Storm Jameson  “Amore a prima vista”  -Fazi Editore-   euro   18,50

Dopo “Company Parade”, ecco il secondo capitolo della trilogia  “Lo specchio nel buio” considerata manifesto del femminismo e dell’emancipazione delle donne, scritto dalla giornalista e scrittrice inglese Margaret Storm Jameson. Nata nel 1891 e morta nel 1986 è stata la prima donna a laurearsi in inglese all’Università di Leeds, a ricevere una borsa di studio post laurea ed è diventata presidente del British Section of International Pen.

C’è molto di lei nella sua eroina Hervey Russel che, 6 anni dopo la fine della Grande Guerra, continua a lottare per ottenere successo nella società letteraria londinese, lavorando nel frattempo per la volubile Evelyn Lamb e la sua rivista, mantenendo se stessa e il figlio piccolo.

E’ ambiziosa, forte e irrequieta, ha conquistato a fatica l’indipendenza e sta per divorziare dal marito, l’inconcludente Penn.

Soprattutto sta scrivendo il primo corposo volume di una trilogia in cui racconta la vita di sua nonna, la temibile Mary, sperando di diventare l’autrice di fama che sogna di essere.

La strada verso il successo però non sarà né dritta né facile e Hervey dovrà barcamenarsi tra il difficile milieu letterario londinese dell’epoca, le incomprensioni con gli editori, l’inseguimento di successo e guadagni.

E sullo sfondo di questa seconda puntata c’è pure l’amore per il cugino Nicholas Roxby: uomo complicato e pieno di sentimenti contrastanti, tiranneggiato dalla moglie. La superficiale, capricciosa, narcisista e bellissima Penny che l’ha lasciato per un altro uomo…salvo poi pentirsene.

Non sarà facile per Hervey e Nicholas smussare gli angoli dei loro caratteri e delle storie che hanno alle spalle….l’idea è che entrambi divorzino dai coniugi fedifraghi; ma siamo nell’Inghilterra del 1924 e la strada per questo genere di decisioni è tutta in salita.

 

Mary Beth Keane  “Un amore qualunque e necessario”  -Mondadori –  euro 19,50

E’ un libro che parla di ferite profonde, fragilità, amori potenti, forza del perdono e possibile riscatto. Tutto inizia nel 1973 quando due reclute della polizia del Bronx si trovano ad abitare vicine: sono Francis Gleason e Brian Stanhope con le rispettive famiglie. Due matrimoni che saranno messi a dura prova: da un lato c’è la solitudine della moglie di Francis, Lena, e dall’altro, l’instabilità emotiva della moglie di Brian, Anne.

Tutto deflagra quando Anne, che non approva il sentimento che lega Peter (il suo unico figlio adolescente) a Kate, una delle figlie dei Gleason, in un impeto di follia compie un gesto estremo che travolgerà i loro destini.

Passano gli anni, Kate e Peter si ritrovano, anche se le loro famiglie sono ormai inconciliabili a causa di quello che ha fatto la mamma di Peter.

L’amore che lega i due giovani è un sentimento portentoso e in parte capace di suturare alcune ferite…ma non tutte.

Il romanzo racconta la loro vita insieme. Si sposano, mettono al mondo due figli e le loro esistenze scorrono tra normalità e fragilità di Peter, fino a quando il riapparire di Anne non costringerà

tutti a superare il difficile passato.

Una storia familiare che fa i conti con la tragedia e scava a fondo nell’anima dei vari personaggi.

Una prova di grande bravura di Mary Beth Keane, scrittrice americana di origini irlandesi -nel 2011 annoverata tra le 5 migliori scrittrici statunitensi under 35- che oggi vive vicino a New York con il marito e due figli.

 

Elvira Seminara  “I segreti del giovedì sera”  -Einaudi-  euro 16,50

Siamo a Catania dove un gruppo di amici prossimi ai 60 anni si ritrovano i giovedì sera per raccontarsi e misurare le loro vite.

Dialoghi serrati, riflessioni intelligenti, una spietata radiografia dei guasti –non solo fisici- che procura il tempo che passa, tutto condito da piacevoli dosi di autoironia.

Voce narrante è quella di Elvira che racconta vizi, virtù, piccole e grandi tragedie sue e dei suoi coetanei.

Un tuffo piacevole e dolce-amaro negli anni che incombono e su cosa comporti avere 60 anni oggi. Un pool di personaggi che non si arrendono e, tra segreti e nuove scoperte, fragilità e doppie vite, conseguenze fisiche e psicologiche, litigi ed incertezze annaspano, tenaci, nella vita.  Con un po’ di malinconia cercano di lasciare andare il tempo che passa, e si preparano a  una nuova stagione tutta da scoprire e vivere.

L’importanza dell’acqua

MANGIARE CHIARO  Se vi dico “bevete almeno 8-10 bicchieri d’acqua al giorno” qual è il primo pensiero che vi passa per la testa?

Probabilmente che è la solita raccomandazione, anche un po’ noiosa, o sbaglio? Noi professionisti della nutrizione vi ripetiamo sempre di bere, qualunque sia la stagione o il momento della vita. Non è che siamo ossessionati, è davvero importante. Ma prima di tutto voglio spiegarvi perché ho esordito con 8-10 bicchieri e non “almeno 2 litri”: per chi non è abituato a bere a sufficienza, l’idea di trovarsi a dover affrontare il bottiglione tutto insieme può sembrare infattibile e anche frustrante. Se invece vi dico “almeno 8 bicchieri” durante l’arco della giornata (pasti compresi) non vi sembra già più fattibile? Fatta questa premessa, ci tengo a spiegarvi perché è così importante bere (e non solo per fare tanta plin-plin).

Nel nostro organismo l’acqua è il costituente presente in maggior quantità ed è essenziale per il mantenimento della vita. È infatti indispensabile per lo svolgimento dei processi fisiologici e delle reazioni biochimiche che avvengono nel nostro corpo – agisce da solvente per la maggior parte dei nutrienti, svolgendo un ruolo essenziale nella loro digestione, assorbimento, trasporto e utilizzo.
Ha funzione di ammortizzatore nelle articolazioni e nei tessuti, mantiene elastiche e compatte la pelle e le mucose e rende il contenuto intestinale della giusta consistenza.
Ha un ruolo primario nel meccanismo della respirazione, perché rende umide le superfici respiratorie permettendo lo scambio di ossigeno e anidride carbonica.
É essenziale nel processo di termoregolazione dell’organismo e anche per il mantenimento del pH dei vari distretti corporei.

Questi quattro punti che ho toccato sono solo la punta dell’iceberg, d’altronde non è un caso se si dice che l’acqua è vita. Adesso non vi è venuta voglia di berne subito un bicchiere?

Vittoria Roscigno

***

Vittoria Roscigno, classe 1995, laureata con lode in Dietisticapresso l’Università degli studi di Torino e con il massimo dei voti nella Magistrale in Scienze dell’Alimentazione presso l’Università degli studi di Firenze. Ha conseguito i titoli di “Esperta in nutrizione sportiva” e “Nutrition expert” mediante due corsi annuali e sta attualmente frequentando un Master di II livello in Dietetica e Nutrizione Clinica presso l’Università degli studi di Pavia. Lavora in qualità di dietista presso le strutture HumanitasGradenigo e Humanitas Cellini, oltre a svolgere attività di libera professione a Torino.

-“Che la scienza e la buona forchetta siano sempre con te”.

Sito: vittoriaroscigno.it

Instagram: @dietistavittoriaroscigno

Facebook: Dott.ssa Vittoria Roscigno – Dietista

 

Protagoniste di Valore: Elena Miroglio, Presidente di Miroglio Fashion

Protagoniste di Valore LogoProtagoniste di Valore, rubrica a cura di ScattoTorino

Cuore e testa. Questa, in sintesi, Elena Miroglio, una donna eclettica che dai viaggi trae ispirazione per il proprio business e che ama le espressioni artistiche come stimolo per promuovere la creatività e favorire la crescita nell’azienda e i temi di sostenibilità e salvaguardia dell’ambiente. Dopo la laurea in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha studiato Business and Management all’Università della California di Santa Barbara ed ha iniziato la carriera nell’area prodotto e retail di un’azienda di abbigliamento di Los Angeles. Rientrata in Italia si è occupata della divisione Fashion del Gruppo Miroglio ed ha lavorato prima nell’area design e sviluppo prodotto e successivamente nel retail, nel marketing e nella comunicazione. Presidente di Miroglio Fashion, con il fratello Giuseppe – che è Vice Presidente del Gruppo – e con l’AD Alberto Racca e il Consiglio d’Amministrazione contribuisce a definire le strategie aziendali di questa realtà che è nata alla fine del 1800 come attività commerciale, che nel 1947 si è trasformata in industriale e che oggi è presente in 22 paesi con 37 società e 4 insediamenti produttivi per portare la moda made in Italy alle donne di tutto il mondo.
Cuore e testa, dicevamo. Due cardini che caratterizzano la vita personale e quella professionale di Elena Miroglio, una persona sensibile che per le sue qualità nel 2007 è stata nominata Cavaliere della Repubblica per il contributo dell’azienda all’emancipazione femminile da un modello estetico costrittivo: la sua è infatti la prima impresa italiana a dedicare particolare attenzione a tutte le donne, al di là delle forme e degli stereotipi. A conferma del suo impegno, la Presidente di Miroglio Fashion sostiene il bando lanciato della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche che ha portato all’assegnazione di sette borse di studio riservate ad infermiere che hanno conseguito la laurea magistrale con lode e che hanno scelto di iscriversi ad un master di II livello nelle aree specialistiche di maggior rilievo infermieristico.

Miroglio FashionMiroglio fashion significa?

La società opera lungo tutta la filiera della moda femminile e del retail e i suoi brand sono distribuiti tramite i nostri negozi e clienti multimarca. Curiamo il prodotto, lo stile, la catena del valore e in funzione del marchio alcune attività sono fatte in outsourcing. Abbiamo tre brand italiani di fast fashion: Motivi, Oltre e Fiorella Rubino che vengono distribuiti principalmente nei centri commerciali italiani e che si rivolgono a target con stili di vita differenti. C’è poi Elena Mirò che ha un posizionamento premium ed è distribuito in negozi diretti presenti nei centri storici delle principali città italiane, oltre che tramite negozi multimarca; è distribuita all’estero, in particolare in Spagna ed in Russia. Ci sono poi altri brand, come Caractère, rivolti principalmente al mercato italiano. Infine, da alcuni anni, abbiamo una join venture in Turchia con la Famiglia Ayaydin e firmiamo tre brand rivolti al mercato locale, all’Asia Centrale e al Medio Oriente”.

Ripercorriamo la vostra storia?

“Siamo nati come azienda tessile per poi svilupparci nel settore dell’abbigliamento con la produzione di capi rivolti ad una clientela indifferenziata. In seguito abbiamo sviluppato i marchi, grazie anche alla collaborazione con stilisti e la creazione di capsule specialistiche. Oggi abbiamo diversi team di stilisti interni, ognuno dei quali dedicato al proprio marchio. Con i cambiamenti del mercato ci muoviamo verso un modello organizzativo più evoluto che metta sempre più al centro i bisogni delle clienti. Ciò richiede anche un cambio culturale e la capacità di raccogliere, segmentare ed interpretare un gran numero di informazioni – big data – per soddisfare le esigenze della clientela e addirittura realizzare il prodotto partendo dalle richieste concrete delle consumatrici attuali e potenziali. Gli investimenti nell’e-commerce e nei progetti di Customer Relationship Management sono utili anche per questi scopi”.

Come avete reagito al Covid-19?

“La pandemia ha colpito molto il settore del fashion: pur non cambiando la nostra visione, abbiamo studiato un protocollo per la riapertura degli show room e dei negozi già prima di maggio, integrando le attività digitali con quelle della rete fisica. Abbiamo puntato sull’experience, intesa come relazione umana con la cliente, e sulla sicurezza: due bisogni importanti per ognuno di noi. Sull’online, in particolare su Elena Mirò, abbiamo sviluppato attività per mantenere un rapporto umano: ad esempio con appuntamenti per avere una consulenza immediata sull’acquisto digitale e abbiamo creato delle Smart box ovvero una selezione di abiti inviati alla consumatrice conosciuta dalla Store manager che sceglie comodamente da casa ciò che le piace e ci rinvia quello che non vuole tenere. Attualmente il traffico dei negozi è inferiore rispetto al 2019 a causa del Covid e le leve che funzionano sono le promozioni. Stiamo individuando altre iniziative per rispondere sia alle esigenze del mercato sia per far nascere nella clientela la necessità di andare in negozio”.

Elena Miroglio_2Il vostro business si svolge nel rispetto dell’ambiente. Quali processi produttivi vi caratterizzano?

“Premetto che l’abbigliamento purtroppo non è uno dei settori più sostenibili per caratteristica insita.Avere molti fornitori e una catena del valore lunga rende più complesso il controllo di ogni fase. Nella moda sono tanti i paesi coinvolti e ognuno ha regolamenti diversi. Ci sono però dei protocolli internazionali ai quali ci dobbiamo attenere. La nostra produzione è in Cina, Est Europa, Nord Africa e Turchia, tranne il 20-30% che è realizzata in Italia. Per questo facciamo firmare dei protocolli rispetto all’ambiente lavorativo, al lavoro minorile, alle sostanze tossiche ed effettuiamo dei controlli sulle materie prime, sugli stabilimenti e sui capi di abbigliamento. Abbiamo firmato il protocollo Detox di Greenpeace che punta alla riduzione di sostanze dannose per l’ambiente. I requirement richiedono un cambiamento non solo nel nostro settore, ma anche in quello chimico. Stiamo lavorando per ridurre la plastica, gli imballaggi e i rifiuti: abbiamo progetti in divenire sull’economia circolare per eliminare gli sprechi e rimettere nella catena del valore la rimanenza. Ad esempio, diamo i capi di scarto alla ong Oxfam che si occupa di prelevarli e venderli nel proprio canale di charity. Il nostro marchio Oltre a breve uscirà con una capsule di prodotti made to order, ovvero capi che vengono ristudiati dagli stilisti partendo dalle rimanenze. In questo modo tutti, anche le clienti, si sensibilizzano al tema del non spreco. Stiamo anche lavorando per la riduzione dell’emissione di CO2, con diverse iniziative, tra cui la sostituzione, nei negozi, dell’illuminazione con led a basso consumo energetico. Effettuiamo tante piccole azioni concrete che sono tangibili: un percorso che si articola in più step e in più aree: supply chain, processi produttivi, miglior benessere delle persone in azienda attraverso la flessibilità e dei programmi di formazione che puntano alla soddisfazione dei singoli dipendenti. Crediamo nei giovani e vorremmo inserirne sempre di più in organico perché sono la risorsa per traghettarci nel post Covid. Grazie al nostro AD Alberto Racca, puntiamo sui nuovi talenti e sulle risorse che, come noi, pensano che per trovare le soluzioni serva il lavoro di squadra”.

Durante l’emergenza sanitaria siete stati tra i primi a convertire parte della produzione per fornire mascherine

“All’inizio è stata una conversione in emergenza, oggi invece le produciamo presso Sublitex che è la società del gruppo leader mondiale nel settore della stampa transfer, una tecnologia water free. Oggi produciamo mascherine chirurgiche anche stampate.

In ambito filantropico, quali sono le finalità della Fondazione Elena e Gabriella Miroglio?

“La Fondazione è nata negli Anni ’50 quando ancora in Italia non esisteva il welfare aziendale. Mio nonno, che era un uomo illuminato già all’epoca, ha fondato un asilo ed ha messo a punto una serie di attività per i dipendenti. Oggi la Fondazione è radicata sul territorio e si occupa dei collaboratori e delle loro famiglie. Accanto all’asilo abbiamo sviluppato anche delle attività per i nostri senior”.

Donna per lei significa?

“Essere donna è un percorso: penso che ogni 10 anni potrei rispondere in maniera diversa. Amo viaggiare perché mi offre la possibilità di conoscere persone e imparare da culture diverse. Nei miei viaggi ho incontrato donne che mi hanno aiutata ad abbattere gli stereotipi. Adoro la diversità in quanto è una risorsa e una forma di creatività. Essere donna significa avere la libertà di essere se stesse e vivere la parte emozionale in modo più aperto perché con l’emotività si possono cogliere le sfumature e si può sviluppare quell’empatia necessaria per creare rapporti durevoli e concreti”.

IL FOCUS DI PROGESIA

Il Sistema di Valori di Miroglio Fashion comprende:

  • Sviluppo sostenibile;
  • Politiche aziendali Human Centric;
  • Valorizzazione dei dipendenti e delle dipendenti;
  • Iniziative di conciliazione famiglia e lavoro e agevolazione della gestione del tempo in azienda.

L’esperienza del cliente sempre al centro

Per Elena Miroglio il contatto umano con ogni cliente è un elemento imprescindibile negli store come nell’esperienza online. Per questo motivo l’azienda ha puntato su una strategia omnichannel, offrendo alle clienti un’esperienza d’acquisto individuale e personalizzata, indifferentemente dal canale di interazione con cui si avvicinano ai loro brand preferiti.

In Miroglio Fashion l’impatto del Covid ha per necessità dato una spinta rapida ed efficace alla sperimentazione di nuove tecnologie e nuovi processi in linea le esigenze della clientela. Tutti i progetti realizzati, tra cui la vendita in streaming, le smart box e l’assistenza alla vendita a distanza, sono stati un modo per valorizzare il rapporto “umano” con ogni singola cliente all’interno dell’ambiente virtuale.

L’accurato studio delle informazioni quantitative, i big data, integrati all’analisi dei dati comportamentali, gli small data, raccolti dalle addette alle vendite che sono sempre in prima linea, hanno permesso alla Miroglio Fashion di effettuare scelte strategiche importanti e sviluppare nuovi progetti che presto saranno sperimentati sul campo, il cui filo conduttore è la sicurezza e l’autenticità del rapporto con le clienti.

Nell’ambito delle strategie adottate per rendere unica l’esperienza delle clienti, Miroglio Fashion ha puntato sulla formazione degli store manager e delle addette vendite. Inoltre, uno strumento che si è dimostrato molto funzionale per le addette alla vendita è il WorkPlace di Facebook, una piattaforma che permette loro di accorciare le distanze (sono circa quattromila in tutta Italia) condividendo consigli, idee e soluzioni in gruppi specifici suddivisi per brand o per obiettivi. Un’opportunità per confrontarsi sulle esperienze vissute negli store e per mettere in pratica best practice per migliorare la customer experience.

L’orientamento al futuro e l’importanza delle radici

“La nostra cultura aziendale è orientata al futuro ma sempre nel rispetto delle nostre radici” afferma Elena Miroglio, raccontando come l’azienda stia puntando sull’innovazione, senza però allontanarsi dai valori che hanno guidato fino a oggi le azioni di Miroglio Fashion. In particolare, i giovani sono per Miroglio un valore aggiunto all’interno della realtà organizzativa, in quanto la loro visione sulle nuove tecnologie e la loro attitudine a essere propositivi possono supportare l’azienda ad affrontare il rapido e continuo cambiamento di questo settore.

“È importante che le persone siano felici di lavorare con noi” sostiene Elena Miroglio, e l’attenzione verso il personale è dimostrata attraverso diverse azioni positive realizzate dall’azienda per favorire la conciliazione dei tempi tra famiglia e lavoro, nonché survey periodiche finalizzate a rilevare il clima aziendale. L’attenzione ai dipendenti e alle dipendenti è storica, come dimostra l’asilo aziendale creato dal nonno di Elena Miroglio negli anni ’50 per supportare le famiglie.

L’approccio con il personale di Miroglio Fashion è basato sulla corresponsabilità tra azienda e dipendenti, in cui tutti sentono propria la realtà organizzativa, intervenendo attivamente nel trovare le soluzioni alle complessità e agendo in modo coerente alla mission aziendale per raggiungere gli obiettivi.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto
Focus: Antonella Moira Zabarino

 

I centri culturali al comma z del Governo

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Per avere un’idea di come il governo Conte si ponga di fronte ai centri culturali e alla cultura e’ sufficiente leggere il Decreto del Presidente del Consiglio del 13 ottobre.

Al paragrafo z dell’articolo 1 si legge che ”le attività dei centri di benessere, dei centri culturali, dei centri sociali ( assimilare i centri culturali con i centri di benessere appare decisamente fuorviante !) sono consentite a condizione che le Regioni abbiano preventivamente accertato la compatibilità dello svolgimento delle suddette attività alla situazione epidemiologica nei propri territori e che individuino i protocolli e le linee guida applicabili, idonei a prevenire o il ridurre il contagio. Questo comma significa aver delegato alle Regioni le attività culturali del territorio, mentre per tante altre attività il Governo ha dettato comportamenti precisi, come, ad esempio, i commensali a cena fissati in 30 partecipanti. Non si comprende perché attività che riguardano la cultura siano assimilati a realtà che nulla hanno a vedere con essa.
E cosa significa parlare di attività culturali ? Esse sono molteplici e riguardano conferenze, convegni, seminari, consultazione di biblioteche ecc. Ma i centri culturali non sono necessariamente regionali o circoscritti ad una regione. Essi a volte organizzano iniziative che vanno oltre i confini regionali, coinvolgendo persone provenienti da altre regioni, per non dire delle iniziative di carattere internazionale. Delegare alle regioni equivale a pensare alla cultura come fatto locale e non come fatto che travalica i confini, come in effetti è. Comunque il governo non si assume le sue responsabilità , ritenendo questi temi non di suo interesse. Giostrarsi tra protocolli e linee guida che dovranno essere definiti dalle Regioni significa per i centri culturali la paralisi delle attività.
C’è da augurarsi che le Regioni siano sollecite nel definire le procedure. Altrimenti la cultura chiuderà inevitabilmente i battenti con conseguenze catastrofiche sulla cultura medesima. Le attività programmate nei mesi futuri sono in bilico.
E’ evidente in questi tempi la difficoltà di fare e persino di vivere normalmente. Ne siamo ben consapevoli ma le decisioni assunte con il comma z appaiono davvero inspiegabili se non come manifestazione di un disprezzo che offende il lavoro e l’impegno di tanti studiosi e di tanti volontari che si dedicano al miglioramento della qualità della vita individuale e collettiva magari da molti anni con passione e disinteresse.

Chi è Cristina Guidetto, Pink Ambassador Torino 2020

Rubrica a cura di ScattoTorino

image9 pink ambassadorLo scorso 6 ottobre il Parco Dora di Torino è stato la cornice del passaggio del testimone della Staffetta Pink che coinvolge 14 città lungo tutta la penisola per un totale di 2.100 Km. Le Pink Ambassador di ogni area urbana corrono la staffetta per unire simbolicamente l’Italia e il 18 ottobre parteciperanno al Pittarosso Pink Parade percorrendo gli ultimi 5 Km tutte insieme. Negli anni scorsi l’evento era una mezza maratona, ma il Covid ha impedito il regolare svolgimento dei programmi ed è stata quindi organizzata una staffetta nazionale. Perché, dicono le ambasciatrici, nulla le ferma, nemmeno la pandemia!

Il progetto Pink is Good Running Team, che si svolge ad ottobre perché è il mese della prevenzione del tumore al seno, gode dell’appoggio delle istituzioni delle città coinvolte in questa importante iniziativa il cui scopo è sostenere la ricerca scientifica contro i tumori femminili. Pink is good è un progetto di Fondazione Umberto Veronesi nato nel 2013 per sostenere il lavoro dei ricercatori impegnati nella lotta alle neoplasie dell’universo femminile e per educare alla prevenzione. All’interno di Pink is good è stato creato il Pink is good running: un team di donne che hanno affrontato la malattia e che, mettendosi in gioco nella corsa, dimostrano che la vita continua. Grazie al loro entusiasmo, dall’inizio dell’anno le oltre 200 Pink Ambassador italiane hanno raccolto oltre 90 mila € tramite la pagina di Rete del dono.

Il team torinese è nato nel 2018 e da allora ha riunito sempre più donne operate di tumori femminili che hanno vinto la loro battaglia con coraggio e determinazione. Il Running Team sabaudo selezionato per il 2020 è allenato da Ana Capustin e Nicola Giannone ed è composto da Antonietta Fabrizio, Belinda Mariani, Carla Zannino, Cristina Guidetto, Fabiola Vitale, Luciana Brilli, Luisa Marsaglia: un concentrato di energia, entusiasmo e tenacia. Un esempio per tutti noi. ScattoTorino ha incontrato la runner Cristina Guidetto.

Essere Pink Ambassador significa?

“Vuol dire essere testimonial della Fondazione Umberto Veronesi che è ideatrice del progetto, ma significa anche dimostrare alle donne che stanno vivendo la malattia che si può tornare alla vita normale facendo sport. Secondo numerosi studi scientifici, infatti, fare movimento in modo costante nel tempo riduce il rischio di recidive e favorisce il recupero psicofisico dei pazienti oncologici. L’iniziativa è nata a Milano nel 2014 e attualmente comprende 12 città italiane: Milano, Torino, Genova, Verona, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, Napoli, Bari, Catania, Cagliari. Essere Pink, infine, significa condividere la propria esperienza e dimostrare l’importanza della diagnosi precoce e dei corretti stili di vita nella lotta contro i tumori”.

Che cos’è Pink is Good Running?

“È l’insieme dei gruppi di runner donne che sono stati creati nelle diverse città italiane. A Torino esiste dal 2018 e all’inizio era composto da 15-20 persone; quest’anno, anche a causa del Covid-19, abbiamo partecipato alla staffetta solo in 7. Ogni team viene seguito da medici, nutrizionisti, psicologi e allenatori che ci portano a diventare delle atlete. Si tratta di esperti che conoscono le nostre problematiche e sanno come supportarci e farci rendere al meglio durante la corsa. In particolare gli allenatori Nicola Giannone e Ana Capustin con pazienza e professionalità infinite hanno trasformato noi donne un po’ acciaccate e arrugginite in runner entusiaste. Ricordo che lo scorso anno, durante una riunione di presentazione, una Pink si è definita divanista, invece poi ha corso la mezza maratona. Lei è un esempio di come con impegno e dedizione si possono raggiungere risultati incredibili”.

Da chi si compone il team torinese?

“Siamo sette donne che si sono conosciute durante gli allenamenti e che, grazie anche allo sport, hanno saputo creare una sorellanza incredibile. Una Pink non lascia mai sola un’altra Pink: infatti durante gli allenamenti ci aspettiamo e ci supportiamo. Alla staffetta torinese, inoltre, le runner dello scorso anno sono venute a darci supporto perché una Pink rimane Pink per tutta la vita”.

Come ha partecipato la città all’iniziativa?

“La Vicepresidente del Consiglio Comunale di Torino Viviana Ferrero è venuta a presenziare alla staffetta e i Sindaci delle 14 città italiane coinvolte nell’iniziativa hanno indossato la nostra maglietta rosa. Anche alcune boutique cittadine ci stanno supportando vendendo, per tutto il mese di ottobre, delle borracce il cui ricavato viene devoluto alla Fondazione Umberto Veronesi”.

Come è possibile sostenere Pink is good?

image5 pink ambassador“Attraverso la Rete del dono: una raccolta fondi attivata da ogni Ambassador il cui link è https://www.retedeldono.it/it/progetti/fondazione-umberto-veronesi/le-pink-ambassador-running-team-2020 oppure tramite il sito della Fondazione Umberto Veronesi. Chi desidera approfondire l’argomento o effettuare delle donazioni può utilizzare il link

https://www.fondazioneveronesi.it/progetti/pink-is-good”.

Torino per lei è?

“Una città bellissima che, essendo canavesana, sto vivendo appieno solo negli ultimi anni. Torino ha molte risorse, ma forse non sempre vengono valorizzate al massimo. Grazie agli allenamenti per la Staffetta Pink ho avuto modo di conoscere Parco Dora, un luogo scenografico che per certi versi ricorda New York: quasi un’installazione a cielo aperto, affascinante nel silenzio del mattino, così come alla sera quando si trasforma un luogo che pullula di giovani e di vita notturna”.

Un ricordo legato alla città?

“Il piacere di fare shopping per le vie del centro. Mi piace guardare Torino con gli occhi di una turista e spesso mi soffermo ad ammirare i portoni, i cancelli e i cortili dei palazzi storici che hanno una bellezza austera e raffinata”.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

“È passato tanto da quando ci siamo presi del tempo“

Music tales La rubrica musicale 

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È passato tanto da quando ci siamo presi del tempo

La colpa non è di nessuno, so che il tempo vola via veloce

ma quando ti vedo tesoro

è come se entrambi ci innamorassimo di nuovo

Sarà proprio come ricominciare daccapo”

Ed eravamo ad ottobre (il 24 . . . pensa che coincidenza) dell’anno 1980, quando venne pubblicato e

raggiunse la prima posizione in classifica sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna due settimane dopo l’uccisione di John Lennon. Il singolo diventò il più rilevante successo di Lennon negli Stati Uniti,

rimanendo in prima posizione per cinque settimane di fila.

Quando Lennon fu assassinato a New York l’8 dicembre 1980, il singolo stazionava alla posizione numero 3 in classifica e la settimana seguente raggiunse la vetta. In Inghilterra era arrivato fino alla posizione numero 8 in classifica e poi era sceso velocemente di posizione in posizione fino all’omicidio di Lennon

che catapultò il singolo al primo posto in classifica, facendogli fare un balzo dalla posizione numero

21 alla prima. Che buffa la vita, fai picco di share quando sei ormai morto e nemmeno te la puoi godere…forse!

La canzone era la prima nuova uscita che Lennon pubblicava sin dal 1975, anno del suo ritiro dalle scene. Venne scelta come singolo non perché fosse il miglior brano dell’album, ma perché era la più appropriata dopo cinque anni di assenza dall’industria discografica. Il tintinnio di campanelle giapponesi presente nell’introduzione della canzone fa da contraltare al lugubre suono della campana a morto che aveva aperto Mother, il primo brano del primo album da solista di Lennon dopo lo scioglimento dei Beatles nel 1970. Lennon percepiva il brano come una sorta di chiusura del cerchio. La canzone contiene una citazione evidente del tema melodico del brano Don’t Worry Baby dei Beach Boys, scritto da Brian Wilson nel 1964. Queste sono le notizie dal web di questo brano che, personalmente, amo alla follia.

Lennon rievocava attraverso questa ballata un amore perduto, con la speranza, di chi è capace di

ricominciare infinite volte senza paura di sbagliare, di ritrovarlo e poter ricominciare daccapo.

Ha dato attraverso questo brano il messaggio che, a volte, (A VOLTE NON SEMPRE) bisogni ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Come a voler ricominciare il viaggio.

La grande colpa dell’uomo non sono le sue cadute. La grande colpa dell’uomo è che può ricominciare in ogni momento e non lo fa.

(Martin Buber)

Vi lancio la versione originale ma vi chiedo di dedicare qualche minuto alla cover segnalata sotto il link di Lennon . . . a me è piaciuta tanto.

Chiara De Carlo


https://www.youtube.com/watch?v=GGl8tHar-Ko&ab_channel=RomarioBrasil
https://www.youtube.com/watch?v=VPIqGQTh7Kc&ab_channel=MatiasFumagalli

Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!

Con l’aiuto di Freud, tutta la Tunisia si confessa sul lettino della psicoterapeuta

“Un divano a Tunisi” della regista Manele Labidi / Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione

Ha trovato parecchia fatica la trentacinquenne Selma ad esercitare a Parigi la sua professione di psicoterapeuta, troppa concorrenza, meglio prendere la decisione di tornare in Tunisia, sua terra d’origine, e lì far attecchire un mondo nuovo con cui nessuno ha mai avuto a che fare. Le ottime intenzioni ci sono, tutto sta nello scommettere nei risultati che ne arriveranno. La psicoanalisi a Tunisi e l’uso del lettino come il ritratto del buon vecchio Freud, con sigaro e fez rosso, nel ritratto che ha appeso nello studio ricavato su un terrazzo, proprio sopra l’appartamento degli zii (che tentano immediatamente di dissuaderla): tutto quanto sulle prime è impensabile. Poi, con una accorta distribuzione di biglietti e del passaparola, quei primi risultati si toccano con mano. S’inizia con la bionda parrucchiera, vamp del quartiere – e con un buon gruppo di madame che potrebbero fare al caso (“con me diventerai milionaria”) -, che mentre ostenta sicura una attività che rende parecchio bene ed una invidiabile indipendenza mette in campo una gran voglia di parlare e mostrare i problemi di nevrosi che pure si porta addosso; e poi chi cerca di combattere le proprie paranoie (“siamo intercettati”) e il fornaio che nasconde il desiderio di abiti e abitudini decisamente femminili o la madre che deve vedersela con un figlio voglioso di assistere alle sue confessioni e tutti gli altri esempi del vasto campionario che si mette in coda su per la scala che porta al sancta sanctorum e che riempie le indaffarate giornate di Selma.

Campionario che serve alla giovane regista tunisina Manele Labidi a raccontarci del proprio paese (è come mettere sul lettino l’intera Tunisia), a mostrarci i risultati (pochi e ancora lontani) della Primavera Araba, all’indomani di un regime chiuso e oppressivo, le continue ribellioni dei giovani (la cugina di Selma inizia con una strana quanto attualissima tinta di capelli per arrivare ad un matrimonio con un ragazzo gay pur di poter scegliere di andare a vivere all’estero) e le tante incertezze che ancora affliggono gli adulti; come le incursioni improvvise di un poliziotto molto charmant ma incollato al far rispettare le leggi, i pastrocchi burocratici o le raccomandazioni che continuano ad esistere o il deserto impiegatizio che popola certi uffici nell’orario di lavoro, con quell’unica impiegata che se ne scappa veloce pur di non farsi intrappolare dentro qualche richiesta di informazioni.

In questa contemporaneità usata con troppa fretta, in un tale panorama di quadretti spezzettati – l’incapacità di discorsi più robusti e il vuoto a volte di piccole quanto immature scenette mordi e fuggi -, nelle caricature appiccicate ai clienti di Selma, la regista mostra il lato simpatico ma debole di Un divano a Tunisi. La voglia di libertà di Selma, il suo starsene lontano da matrimonio e figli (ma quel finale romantico, sognato, dovrebbe un domani farci cambiare idea?) andavano trattati con altro polso. Per fortuna ha dalla sua Goldshifteh Farahani (origini iraniane), che costruisce un bel ritratto di donna moderna. Labidi ha pure detto di essersi ispirata alla nostra mai troppo lodata commedia all’italiana: mai niente di più lontano. Sarà che di questi tempi ogni velo di divertimento ci è sufficiente e ci ricordiamo con un po’ di presunzione del tempo che è stato.